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Full text of "Viticoltura teorico-pratica"

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VITICOLTURA  TEORICO-PRATICA. 


Prof.  OTTAVIO  OTTAVI 


VITICOLTURA 


TEORICO-PRATICA 


CASALE 

TIPOGRAFIA    DI    CARLO    CASSONE 

1885 


Proprietà  letteraria. 


A 

GIUSEPPE    ANTONIO    OTTAVI 

MIO  PADRE 

MIO    MAESTRO 

CON  AFFETTO  E  RICONOSCENZA. 


PREFAZIONE 


Columella1  nel  primo  secolo  dell'era  volgare  scriveva:  «  Credi,  o 
Sii  vino,  a  me  che  n'ho  fatto  prova:  non  fu  mai  vigna  ben  piantata, 
di  buona  razza,  sotto  buon  coltivatore,  la  quale  non  abbia  dato  il 
contraccambio  con  grande  usura  ». 

Ma  oggidì  le  vigne  ben  coltivate  da  intelligente  viticultore,  ricom- 
pensano esse  ad  usura  chi  vi  confida  i  proprii  capitali? 

Non  sono  pochi  coloro  che  si  muovono  una  consimile  domanda, 
dopoché  la  preziosa  Ampelidea  venne  colpita  dai  tanti  e  gravi  ma- 
lori, i  quali  da  varii  anni  la  travagliano,  o  devastandone  i  frutti 
o  minandone  a  dirittura  la  esistenza. 

Eppure  noi  pensiamo  che  le  parole  di  Columella  nulla  abbiano  per- 
duto del  loro  valore,  benché  da  esse  ci  separino  le  centinaia  d'anni. 
Allora  come  oggi  niuna  pianta  vi  ha  che  ricompensi  così  largamente 
il  coltivatore  delle  sue  fatiche  e  de'  suoi  sagrificii;  niuna  pianta  poi 
può  alimentare  tante  industrie  quante  la  Vite  ne  alimenta,  né  altra 
si  conosce  più  rusticana,  più  arrendevole,  più  benefica!  Per  tutti  i 
paesi  dell'  Europa  Meridionale  la  Vite  è  la  fonte  precipua  della  ric- 
chezza creata  dalla  terra  che  si  coltiva:  il  Gelso,  l'Olivo,  l'Arancio 
le  fanno  corona;  essa  però  vi  predomina  di  gran  lunga,  e  la  sua 
benefica  influenza  si  riflette  sulla  società  civile,  addensando  la  po- 
polazione, suddividendo  la  ricchezza  e  provocando  il  benessere  morale 
e  materiale  delle  popolazioni  rurali.  È  tale  la  potenza  colonizzatrice 
della  Vite,  che  ha  potuto  trasformare  umili  villaggi  in  popolose  città; 
la  rinomata  Bordeaux  ce  ne  porge  un  esempio  luminoso. 


1  Libro  IV,  capo  3°. 


Ma  la  Vite  è  oggi  messa  a  dura  prova;  il  rostro  di  vorace  in- 
setto ne  tortura  il  sistema  radicale,  mentre  altri  nemici  non  meno 
funesti  ne  estenuano  il  sistema  aereo,  vegetando  a  spese  delle  parti 
verdi  e  dei  frutti.  L'America  ci  ha  fatto  un  ben  triste  regalo,  colla 
fillossera  e  la  peronospora! 

Non  per  questo  il  viticultore  deve  scoraggiarsi,  ma  armato  di 
buoni  studii  e  di  molta  tenacità  di  propositi  conviene  che  lotti  contro 
questi  fieri  nemici.  Oggidì  il  viticultore  prettamente  empirico  non 
può  più  essere;  le  nuove  condizioni  della  Viticoltura  lo  esigono  istrutto 
e  consapevole  del  perchè  di  quanto  egli  fa  o  dovrebbe  fare:  solo  a 
questi  patti  potrà  lottare  con  successo. 

Scopo  di  questo  libro  quello  è  appunto  di  coadiuvare  il  viticultore,  il 
quale  ami  esercitare  V  arte  sua  meno  empiricamente  che  pel  passato 
ed  agguerrirsi  per  far  argine  ai  nemici  del  prezioso  arbusto:  e  perchè 
il  libro  è  diretto  ai  viticoltori,  esso  è  scritto  nel  modo  il  più  piano 
possibile,  onde  è  forse  accessibile  a  tutte  le  intelligenze.  In  esso 
sono  riassunti  molti  studii  dei  viticoltori  d'ogni  paese;  gli  antichi 
scrittori  di  georgica  hanno  essi  pure  recato  il  loro  contributo  di 
osservazioni;  ma  perchè  la  scienza  era  allora  solo  ai  suoi  inizii, 
nulla  di  utile  avremmo  potuto  dire  senza  il  contributo  degli  studiosi 
dell'  oggi.  La  Viticoltura  ha  d'  uopo  di  molte  cognizioni  ausiliarie,  e 
però  al  rispetto  per  gli  antichi,  va  unito  lo  studio  dei  moderni. 

Saremo  ben  avventurati  se,  con  questo  libro,  avremo  potuto  re- 
care qualche  giovamento  in  modo  speciale  alla  Viticoltura  italiana, 
che  è  tanta  parte  dell'Agricoltura  patria  e  della  nostra  floridezza 
economica:  noi  lo  confidiamo,  come  confidiamo  nella  energia  e  nella 
costanza  dei  nostri  concittadini,  acciò  non  si  dica  che  «  è  colpa 
nostra  non  naturai  cosa  »  la  decadenza  della  Viticultura  nel  bel 
paese,  che  oltre  a  svariate  formazioni  geologiche,  ha  il  privilegio  della 
postura,  del  clima,  del  vitigno,  pure  svariatissimi,  ond'  è  atto  ad 
ogni  maniera  di  produzioni. 

Pel  bene  di  tutti  facciamo  voti  acciò  fiorisca  sempre  più  la  Viti- 
coltura italiana:  per  noi  la  Vite  è  la-  vita. 

Casale  nel  Monferrato   1   Giugno  del  1885. 

Ottavio  Ottavi. 


INTRODUZIONE 


Importanza  della  Viticoltura 
nella  economia  civile. 


I.  La  vite.  —  II.  Il  reddito  brutto  della  viticoltura  italiana.  —  III.  La  viticoltura  ita- 
liana e  la  popolazione  rurale.  —  IV.  La  viticoltura  italiana,  la  popolazione  e 
Temigrazione.  —  V.  La  viticoltura,  la  mercede  degli  operai  e  la  divisione  della 
proprietà.  —  VI.  La  mezzadria  e  la  viticoltura.  —  VII.  La  viticoltura  italiana 
ed  i  tributi  —  Vili.  La  vite  e  le  altre  piante  coltivate.  —  IX.  Altri  prodotti  delle 
viti.  —  X.  La  vite  e  la  salute  pubblica.  —  XI.  La  viticoltura  e  la  produzione 
del  suolo.  —  Conclusione. 

I.  La  vite  può  giustamente  considerarsi  come  uno  fra  i  princi- 
pali fattori  del  benessere  pubblico,  inquantochè  la  sua  coltivazione 
prima,  e  poscia  le  molteplici  ed  importanti  industrie  a  cui  danno 
luogo  i  suoi  prodotti,  sono  fonte  di  guadagno  per  grande  numero 
di  operai  dei  campi  e  delle  città,  per  la  proprietà  rurale,  per  gli 
industriali  ed  infine  per  lo  Stato,  che  alla  vite  chiede  numerosi 
e  gravi  tributi  direttamente  ed  indirettamente.  Il  principale  prodotto 
della  vite,  che  è  il  vino,  arreca  dal  canto  suo  grandi  vantaggi 
all'  uomo,  essendo  la  più  igienica  fra  le  bevande  alcooliche,  ed  alla 
società  civile,  sostituendosi  ai  liquori  e  frenando  l'alcoolismo,  che  è 
causa  di  tante  infermità  e  di  tanti  delitti. 

La   coltura  della  vite   esercita   eziandio  una  potente   e  benefica 
azione  colonizzatrice  ;  per  essa  la  popolazione  aumenta,  l'emigrazione 
0.  Ottavi,  lattato  di  Viticoltura.  2 


INTRODUZIONE 


diminuisce,  e  ben  a  ragione  scrisse  Montesquieu  (1)  che  «  les  pays 
«  de  pàturages  sont  peu  peuplós,  parce  que  peu  de  gens  y  trouvent 
«  de  l'occupation;  les  terre  à  blé  occupent  plus  d'hommes,  et  les  vi- 
«  gnobles  infiniment  davantage  ».  Infine  la  viticoltura  permette  la 
divisione  della  proprietà,  e  la  proprietà  è  uno  fra  i  principali  ele- 
menti d'ordine,  di  rispetto  alle  leggi  e  di  operosità. 

Fortunati  adunque  quei  paesi  ove  può  coltivarsi  la  vite,  e  fortu- 
nata sovratutto  V  Italia,  che  è  la  terra  vitifera  per  eccellenza  ! 

Ma  studiamo  con  maggiori  dettagli  la  viticoltura  ne*  suoi  rapporti 
colla  economia  pubblica;  ne  trarremo  conseguenze  importanti  non 
solo  per  chi  si  dedica  alla  coltivazione  della  vite,  ma  eziandio  per 
legislatori  e  per  tutti  coloro  che  si  occupano  di  scienze  sociali. 

II.  Il  reddito  brutto  della  viticoltura  italiana.  —  Secondo 
i  dati  che  raccogliamo  dalle  statistiche  governative  il  reddito  lordo 
della  nostra  agricoltura  si  può  così  valutare: 


Prati  e  pascoli 
Terre  arabili 
Viti     .     .     . 
Olivi   .      .  . 
Orti  e  frutteti 


L.  700.000.000 

»  2.500.000.000 

»  800.000.000 

»  400.000.000 

»  400.000.000 

Totale  L.  4.800.000.000 


Non  si  erra  adunque  computando  a  4  miliardi  e  mezzo  il  nostro 
reddito  lordo  agricolo  (2)  ;  or  bene,  la  viticoltura  contribuendovi  per 
800  milioni  (3)  dà  al  paese  circa  un  quinto  di  questo  suo  reddito  agri- 
colo mentre,  d'altra  parte,  non  occupa  neppure  la  dodicesima  parte 
della  superficie  coltivabile  dell'Italia.  Infatti  ponendo  25.000.000  di 
ettari  coltivabili  (quelli  coltivati  sommano  ora  a  19.000.000)  e  la 
vite  occupandone  soli  1.870.109  ve  ne  sarebbe  solo  Vis  piantato  a  viti. 


(1)  Esprit  des  lois,  tom.  XXIII,  eh.  XIV. 

(2)  Altri  crede  che  il  nostro  reddito  rurale  lordo  ascenda  soltanto  a  3  miliardi 
annui;  ma  in  quei  calcoli  notansi  varie  ommissioni  (latticinii,  lana,  carne,  or- 
taggi ed  altri  prodotti  minori  come  ricino,  robbia;  ecc.). 

(3)  Calcoliamo  27  milioni  di  ettolitri  di  vino  annui,  a  lire  30  caduno.  Abbiamo 
desunto  questi  dati  facendo  una  media  dei  prodotti  e  dei  prezzi  del  vino  dal  1875 
al  1883. 


VITICOLTURA 


In  Francia  vedesi  in  modo  anche  più  manifesto  quanta  parte  abbia  la 
viticultura  nel  reddito  fondiario:  questo  raggiunge  in  totale  la  media 
annua  di  6.780.000.000  all' incirca;  ma  la  sola  viticoltura  ne  dà 
1.200.000.000,  anzi,  secondo  Guyot,  1.628.000.000,  cioè  circa  V5  del 
suddetto  reddito  agricolo,  mentre  poi  la  vite  non  occupa  che  la  22  ma 
parte  del  territorio  francese. 

Proteggere  la  viticoltura,  vuol  dire  adunque  proteggere  uno  fra 
primi  cespiti  della  pubblica  ricchezza. 

III.  La  viticoltura  italiana  e  la  popolazione  rurale.  — 

Prendiamo  a  considerare  la  popolazione  rurale,  perchè  è  il  braccio 
forte  d'Italia,  quella  cioè  che  lavora  il  suolo,  procacciandoci  i  generi 
alimentari  di  prima  necessità,  e  popola  i  campi  di  battaglia,  difen- 
dendoci dai  nostri  nemici;  a  quest'ultimo  proposito  diremo  che  da 
varii  rapporti  del  tenente  generale  Torre  al  Ministro  della  guerra, 
abbiamo  potuto  desumere  come  tra  proprietarii  agricoltori,  agricoltori 
propriamente  detti,  bovari,  pastori,  ecc.,  si  ha  circa  il  65  %  delle 
reclute  d'ogni  leva.  Le  popolazioni  rurali,  compresi  i  proprietarii  del 
suolo,  danno  adunque  all'esercito  abbondantemente  la  metà  de'  suoi 
uomini.  Secondo  il  censimento  del  1871  (v.  voi.  III)  questa  popo- 
lazione rurale  (possidenti  non  coltivatori,  e  lavoratori  rurali  d'  ogni 
specie,  esclusi  i  vecchi,  i  bambini  e  gli  impotenti,  ecc.)  è  forte  di 
8,500,000  teste.  Ma  i  contadini  costituiscono  per  la  maggior  parte 
questo  numero;  ora  un  contadino  in  Italia,  da  quanto  possiamo  de- 
sumere dalle  statistiche  governative,  spende  ogni  anno  circa  365 
lire,  tra  vitto,  alloggio,  vestiario  ed  altre  minute  spese:  la  viticol- 
tura italiana  dando  un  reddito  brutto  annuo  di  800.000.000  di  lire, 
vuol  dire  che  provvede  di  che  vivere  a  quasi  2.200.000  contadini. 
Possiamo  perciò  ritenere  dietro  questi  calcoli,  i  quali  sono  realmente 
spassionati,  che  circa  l/4  della  popolazione  rurale  italiana  (compresi 
i  proprietarii)  trova  di  che  vivere  col  solo  reddito  della  viticoltura 
paesana. 

Se  facciamo  poi  il  calcolo  computando  i  28,459,451  (1)  abitanti  del 
Regno,  troviamo  che  la  viticoltura  da  sola  può  sostentarne  circa  yi5. 
In  Francia  la  vite  alimenta  quasi  1/G  della  popolazione  totale.  Nessuna 
altra  pianta  coltivata  può  vantare   altrettanti  beneficii   all'umanità! 


(1)  Movimento  dello  Stato  Civile  nel  1881 


INTRODUZIONE 


IV.  La  viticoltura  italiana,  la  popolazione  e  l'emigrazione. 

—  Abbiamo  già  chiamato  la  vite  una  potenza  eminentemente  colo- 
nizzatrice; infatti  le  statistiche  ci  dicono  che  colà  dove  aumenta  ra- 
pidamente la  produzione  del  vino,  aumenta  pure  rapidamente  la  po- 
polazione; ed  oggi  poi  le  tristi  condizioni  della  Francia  fìllosserata 
ci  forniscono  una  eloquente  prova  inversa,  vale  a  dire  ci  provano 
che  nei  paesi  viticoli  quando  la  viticoltura  decade,  scema  anche  la 
popolazione. 

In  Italia,  facendo  un  parallelo  fra  il  censimento  del  1878  e  quello 
del  1881,  e  tenendo  calcolo  dell'  aumento  della  superficie  vitata,  si 
trova  che  la  popolazione  è  cresciuta  in  proporzione  sensibilmente 
maggiore  nelle  provincie  ove  si  è  maggiormente  estesa  la  coltura 
della  vite.  Ma  le  statistiche  francesi  sono  le  più  convincenti:  eccole  (1) 


Diminuzione  della  popolazione  nei  principali  Dipartimenti  fillosserati 


DI     FRANCIA. 


Dipartimento 

N         GO 

t  | 

,2     oo 

o      a 
CU 

1 

N 

a 
e 

Osservazioni 

Dróme    .     .     . 

321,756 

313,753 

7,993 

Ha  perduto  oltre  a   30,000  ett.  di  viti 

Gard  .... 

423,804 

415,629 

8,175 

»            »      120,000        » 

Hérault  .     .     . 

445,053 

441,527 

3,527 

»            »      110,000        » 

Varo  .... 

295,763 

288,577 

7,186 

»            »       60,000        » 

Valchiusa    .     . 

255,703 

244,149 

11,554 

»            »       50,000        » 

La  regione  meridionale  mediterranea 
di  Francia,  compresa  la  vallata  del 
Rodano,  ha  già  perduto  oltre  500 
mila  ettari  di  vigna. 

Sono  dunque  38.400  abitanti  di  meno  in  soli  cinque  dipartimenti, 
i  quali  hanno  perduto  370  mila  ettari  vitati,  e  ciò  nel  breve  tratto 


(1)  V.  Le  viti  americane  e  la  fillossera  (Dr,  D.  Gavazza)  gennaio  1883. 


VITICOLTURA 


di  cinque  anni.  È  una  statistica  sconfortante,  ma  che  conferma  pie- 
namente la  nostra  tesi. 

Riguardo  alla  emigrazione  nei  suoi  rapporti  colla  viticoltura,  pre- 
metteremo che  (1)  in  media  gli  agricoltori  rappresentano  il  59  per 
cento  della  emigrazione  propria  (o  a  tempo  indefinito)  ed  il  38  per 
cento  della  emigrazione  temporanea;  avuto  però  riguardo  alle  professioni 
degli  emigranti  italiani,  i  contadini  rappresentano  il  per-cento  mag- 
giore anche  nella  temporanea.  Li  spinge  ad  abbandonare  la  patria 
quasi  sempre  la  squallida  miseria  in  cui  vivono,  benché  qualche  volta 
siano  mossi  dal  desiderio  di  arricchire  in  breve  tempo:  in  quest'ul- 
timo caso  non  è  a  lamentarsi  la  emigrazione  e  solo  è  indispensabile 
che  il  Governo  la  diriga  e  la  guidi  verso  quei  paesi  ove  l'emigrante 
può  utilmente  lavorare;  ma  nel  primo  caso  non  si  può  che  deplo- 
rare altamente  che  vi  siano  in  Italia  provincie  in  cui  il  contadino  si 
trova  in  condizioni  tanto  compassionevoli  da  lasciare  la  patria  dietro 
il  semplice  invito  di  agenti  interessati,  che  ne  fanno  una  indegna 
tratta. 

Or  bene,  la  emigrazione  in  genere  è  assai  minore  nelle  provincie 
vitifere;  si  può  desumerlo  dal  seguente  specchio  comparativo  (v.  pag.  6) 
da  noi  compilato  sulle  pubblicazioni  del  Ministero  d'Agricoltura,  Indu- 
stria e  Commercio  (2);  in  esso  abbiamo  segnato  anche  il  prodotto  medio 
per  ettare  dei  vigneti,  per  dare  un'idea  della  importanza  della  viti- 
coltura nelle  provinole  indicate  nel  qua  Irò  stesso. 

Lo  contraddizioni  che  taluno  potrebbe  rilevare  in  questo  specchio 
non  sono  che  apparenti:  per  esempio  la  provincia  di  Lucca,  quan- 
tunque abbia  il  12  °/0  di  terreni  vitati,  conta  2102  emigranti  ogni 
100  mila  abitanti;  ma  conviene  far  notare  che  tale  emigrazione  è 
per  oltre  i  2/3  temporanea,  in  Corsica,  a  Marsiglia,  in  Algeria  ecc. 
ove  molti  contadini  si  recano  in  inverno  a  far  lavori  preparatorii  del 
terreno  per  rimpatriare  a  primavera;  e  cosi  nel  1881  di  6061  emi- 
granti, ne  ritornarono  4306.  —  Udine  poi,  mentre  ha  sei  volte  più  di 
viti  di  Belluno,  conta  un  numero  quasi  uguale  di  emigranti;  questi 
però  non  abbandonano  realmente  la  patria,  ma  partono  in  primavera 
e  ritornano  in  autunno;  per  esempio  nel  1881   su  19951   emigranti, 


(1)  Statistica  della  Emigrazione  Italiana  nel  1881  ed  anni  'precedenti.  (Mini- 
stero d'Agricoltura  -  Direzione  della  Statistica  Generale)  —  Roma,  1882  —  È 
questo  un  volume  ricco  di  notizie  dettagliate  ed  importanti. 

(2)  V.  Statistica  citata;  e  Condizioni  dell'Agricoltura  in  Italia,  voi.  I. 


6 


INTRODUZIONE 


soli  468  abbandonarono  il  paese,  mentre   circa    19483    ritornarono. 
Di    ciò    convien   tenere    calcolo    nell'  esaminare  il  seguente  quadro  : 


PROVINCIE 


Belluno  . 
Udine  .  . 
Cuneo .  . 
Lucca .  . 
Massa .  . 
Como  .  . 
Torino  . 
Salerno  . 
Bergamo  . 
Potenza  . 
Cosenza  . 
Parma 
Genova  . 
Campobasso 
Alessandria 
Novara  . 
Brescia  . 
Verona  . 
Vicenza  . 
Treviso  . 
Bologna  . 
Forlì  .  . 
Macerata  . 
Siena  .  . 
Firenze  . 
Roma  .  . 
Teramo  . 
Bari  .  . 
Aquila 
Lecce  .  . 
Avellino  . 
Napoli 
Caserta  . 
Reggio 
Palermo 
Trapani 
Catania 
Siracusa 
Messina 
Caltanissetta 
Girgenti  . 
Cagliari  . 
Sassari 


Calabi 


Ettari 

Prodotto 

vitati 

medio 

per  ogni  100 

p.  ettare 

di  superficie 

Vino 

ettolitri 

1,19 

13 

6,42 

11 

3,15 

22 

12,13 

14 

4,11 

18 

3,48 

13 

3,05 

24 

3,87 

18 

4,63 

17 

4,36 

13 

5,16 

14 

9,15 

12 

7.57 

13 

5,52 

12 

7,39 

25 

3,88 

20 

6,21 

15 

11,42 

15 

20.09 

10 

20.41 

8 

5,50 

11 

8,14 

13 

10,03 

14 

10,20 

13 

13,16 

12 

3,69 

19 

21,43 

11 

9,06 

14 

6,05 

14 

2,53 

14 

5.40 

17 

16,31 

19 

4,91 

13  1T2 

6,27 

17 

10,61 

19 

12,21 

21 

7,28 

19  1T2 

7,50 

20 

3,45 

20 

7,04 

201t3 

3,08 

21 

0,91 

181x3 

1,10 

19 

Emigrazione  propria  e  temporanea 

per  ogni  100,000  abitanti  0) 

nel  1881 


4258 

3987 

2265 

2102 

1507 

1456 

1316 

1081 

1058 

941 

882 

874 

663 

618 

256 

712 

383 

124 

774 

291 

3 

12 

62 


1 

2 
57 
52 

154 

256 

165 

11 

75 

85 


(quasi  tutti  temporaneamente) 
(2[3  temporaneamente) 


(4{5  temporaneamente) 
(Em.  quasi  nulla  nei  Circond.  vitif.) 

(2[3  temporaneamente) 


(1)  Questi  numeri  rappresentano  la  somma  dei  dati  della  emigrazione  per  gli   Stati   Europei   con 
quelli  che  si  riferiscono  alla  emigrazione  fuori  d'Europa. 


VITICOLTURA 


La  provincia  di  Lecce,  benché  non  conti  che  ettari  2,50  °/0  a  viti, 
pure  non  ha  che  una  decina  di  emigranti  all'  anno  :  ma  bisogna  ri- 
flettere che  è  questa  una  fra  le  più  vaste  provincie  d' Italia  (1)  con 
una  popolazione  relativamente  piccola;  cioè  493  mila  abitanti  su 
8500  chilometri  quadrati  di  superficie,  mentre  per  esempio  Torino  ne 
conta  quasi  1  milione  su  10,500  chilometri  quadrati,  ed  Alessandria 
(provincia  molto  viticola)  700  mila  abitanti  circa,  su  soli  5  mila  chilo- 
metri quadrati.  Questo  si  applica  anche  meglio  alla  provincia  di  Ca- 
gliari che  è  la  più  vasta  d'Italia  (13,600  chilometri  quadrati)  ed  ha 
soli  393  mila  abitanti,  come  pure  a  Sassari  e  ad  altre  provincie  in- 
dicate nello  specchio. 

La  viticoltura  adunque  è  un  freno  alla  emigrazione  propria;  ciò 
appare  anche  più  evidente  facendo  un  parallelo  non  già  per  provincie 
ma  per  circondarii:  ci  limiteremo  ad  un  solo  esempio  per  amor  di 
brevità. 

La  provincia  di  Alessandria  è  composta  di  circondari  più  o  meno 
viticoli;  in  alcuni  anzi,  come  Casalmonferrato,  la  viticoltura  vi  è  assai 
intensa:  or  bene  la  emigrazione  è  in  ragione  inversa  della  intensità 
con  cui  si  coltiva  la  vite;  per  esempio  nel  1881  si  ebbero  i  seguenti 
dati: 


Circondarli 

Emigrazione 

propria 

Emigrazione  tempor. 

Casalmonferrato 

25 

— 

Asti 

40 

300 

Acqui 

44 

209 

Alessandria 

128 

134 

Novi  Ligure 

279 

88 

Tortona 

529 

55 

Il  circondario  di  Tortona,  che  è  il  meno  viticolo,  è  anche   quello 
che  dà  il  maggior  contingente  alla  emigrazione  propria. 

V.  La  viticoltura,  la  mercede  degli  operai  e  la  divisione 
della  proprietà.  —  Dove  si  coltiva  la  vite  intensamente,  gli  operai 
sono  bene  pagati.  Per  esempio  in  Monferrato  non  è  raro  che  la  mercede 


(1)  Dopo  Cagliari,  Sassari,  Potenza  e  Torino  viene  Lecce. 


INTRODUZIONE 


giornaliera  d'un  oprante,  anche  se  mediocre  potatore  e  viticoltore,  tocchi 
le  L.  3,50  al  giorno,  e  pur  durante  un  tempo  non  breve:  —  dai  dati 
che  desumiamo  dalla  nostra  Contabilità  rurale  d'un  podere  viticolo 
risulterebbe  che  un  bravo  lavoratore  può  guadagnare  400  lire  al- 
l'anno con  una  spesa,  pure  annua,  di  L.  350.  Noi  non  diciamo  che 
questo  guadagno  degli  operai  dei  campi  (sian  fìssi  o  cosidetti  gior- 
nalieri) sia  una  grande  cosa,  massimamente  poi  se  si  tratta  di  con- 
tadini ammogliati,  le  cui  mogli  non  guadagnano  più  di  100  lire  al- 
l'anno se  hanno  figli,  e  200  in  caso  diverso;  anzi  facciamo  voti  per- 
chè crescendo  la  produzione  per  ogni  ettare  e  crescendo  la  ricerca 
del  vino,  anche  i  contadini  possano  vivere  meno  a  disagio.  Ma  di- 
ciamo che,  dove  non  v'ha  la  vite,  le  condizioni  loro  sono  assai  peg- 
giori; ne  segue  quindi  la  emigrazione  suddetta,  che  è  una  delle  pia- 
ghe della  nostra  agricoltura.  Infatti  nel  milanese,  secondo  le  suddette 
statistiche  governative,  i  braccianti  o  giornalieri  hanno  un  salario 
annuo  di  appena  300  lire;  non  è  pure  di  molto  maggiore  in 
altre  zone  ove  non  havvi  la  vite  e  predomina  la  grande  col- 
tura. 

La  vite  richiede  molti,  diligenti  e  continui  lavori,  quindi  è  impos- 
sibile che  in  una  regione  viticola  manchi  il  lavoro  agli  operai  delle  cam- 
pagne. Ma  non  è  tutto  qui.  Dove  v'ha  la  vite,  la  proprietà  può  suddi- 
vidersi; e  per  verità  i  latifondi,  nei  paesi  vitiferi,  scompajono  grado 
grado  e  la  proprietà  rurale  si  fraziona.  Or  è  bello  il  vedere  l'umile 
contadino  (ed  in  Monferrato  ve  ne  sono  parecchi  esempi)  comperare 
il  suo  mezzo  ettare  o  il  suo  ettare  di  terreno  vitato  e  coltivarlo  da 
sé  stesso,  quasi  diremmo  nelle  ore  d'ozio,  cioè  non  trascurando  di 
collocarsi  a  giornata  nei  poderi  maggiori.  Alcuni  di  questi  modestis- 
simi poderetti  sono  coltivati  in  modo  esemplare,  e  producono  sicura- 
mente da  60  a  80  (talvolta  anche  più  di  100)  ettolitri  di  vino  ad 
ettare,  che  corrispondono  ad  un  cospicuo  reddito  netto  annuo.  Da 
varii  anni  noi  acquistiamo  le  uve  di  alcuni  di  questi  contadini,  e  con- 
statiamo quante  cure  essi  prodighino  al  loro  vigneto  e  quanto  be- 
neficio ne  ritraggano.  Quale  altra  coltura  potrebbe  permettere  altret- 
tanto? La  vigna  è  quindi  realmente  una  pianta  colonizzatrice;  e  per 
essa  la  gravissima  questione  sociale  si  avvicina  ad  una  reale  solu- 
zione pratica. 

VI.  La  mezzadria  e  la  viticoltura.  —  Die  Socìalfrage  ìst 
eine  Magenfrage,  ha  detto  un  socialista  tedesco  e  cioè:  «  La  qui- 


VITICOLTURA  9 


stione  sociale  è  una  quistione  di  stomaco.  »  In  gran  parte  ciò  è 
vero:  ma  la  viticoltura  attutisce  questa  quistione  di  stomaco, 
perchè  dà  al  lavoratore  tanto  quanto  gli  occorre  per  vivere  e  per 
vestirsi,  nonché  per  fare  qualche  piccolo  risparmio  annuo.  La  questione 
poi  sarebbe  ancor  meglio  risolta  quando  si  associasse  la  mano  d'opera 
alla  proprietà,  perchè  così  non  si  direbbe  più  che  quest'ultima  è  un 
furto  ! 

La  terra  vitata  non  rende  quasi  nulla  se  le  manca  una  intelligente 
mano  d'opera;  questa  vale  quella.  Ma  generalmente  in  Italia  il  pro- 
prietario viticoltore  vive  lontano  dal  suo  vigneto,  e  si  affida  piena- 
mente al  contadino;  questi,  essendo  pagato  con  salario  fisso,  non  si 
cura  molto  del  vigneto  stesso,  e  si  accontenta  del  suo  meschino  stato, 
mentre  al  proprietario  toccano  esigui  frutti.  Invece  con  una  ben  or- 
dinata mezzadria,  la  vigna  darebbe  certamente  maggiori  benefizii  netti 
ed  al  proprietario  ed  al  contadino;  quest'ultimo,  sapendo  che  la  sua 
parte  può  anche  raddoppiarsi  se  lavora  bene  il  vigneto,  vi  si  appli- 
cherebbe con  ogni  cura  e  certamente  vi  riescirebbe.  Esempii  di  que- 
sta mezzadria,  a  metà  prodotto,  e  per  non  più  di  due  o  tre  ettari 
vitati,  ve  n'hanno  nella  Svizzera  (nel  cantone  di  Vaud)  ed  in  Francia 
(Rhóne,  Màconnais,  Allier  e  Jura)  ed  anche  in  Italia.  Ma  il  mezza  dro 
può  essere  un  pessimo  viticultore,  ed  allora  è  indispensabile  che  il 
proprietario  adoperi  con  fermezza  e  ordini  diversamente  la  sua  a- 
zienda.  Noi  non  vogliamo  qui  entrare  nei  dettagli,  perchè  dedi- 
cheremo a  questo  importante  soggetto  un  apposito  capitolo:  per- 
ciò ci  limitiamo  a  raccomandare  la  mezzadria  dove  la  vite  è  ben 
coltivata  (o  dove  si  può  farla  coltivar  bene  da  un  intelligente  mez- 
zadro), nonché  nei  paesi  dove  le  condizioni  climatologiche  non  abbiano 
di  tanto  in  tanto  a  distruggere  quasi  del  tutto  il  prodotto  delle  viti, 
che  allora  quel  sistema  di  cultura  sarebbe  impossibile. 

La  vite  adunque  permette,  meglio  d'ogni  altra  coltivazione,  che  il 
capitale  s'associi  alla  mano  d'opera,  con  reciproco  vantaggio  e  con 
vantaggio  altresì  della  società  civile. 

VII.  La  viticoltura  italiana  ed  i  tributi.  —  Se  ci  poniamo 
ad  esaminare  i  tributi  annui  che  l'agricoltura  paga  allo  Stato,  alle  Pro- 
vincie ed  ai  Comuni  ci  persuadiamo  facilmente  che  essi  raggiungono 
ad  un  dipresso  il  miliardo.  Limitandoci  ai  soli  tributi  generali,  esclu- 
dendo cioè  quelli  locali,  noi  sappiamo  che  in  totale  essi  sommano  a 
lire  1,500,000,000  comprendendovi  tutti  quanti  i  titoli  d'entrata  del 


10  INTRODUZIONE 


nostro  bilancio  annuale;  or  bene  di  questa  enorme  somma  una  metà 
(vale  a  dire  700,000,000  circa)  è  pagata  dall'agricoltura  (1).  E  la 
viticoltura,  che  pure  non  occupa  nemmeno  la  12ma  parte  delle  no- 
stre terre  coltivabili,  col  suo  prodotto  lordo  di  800,000,000  annui, 
contribuisce  in  grande  parte  a  pagare  quell'enorme  tributo;  col  suo 
reddito  lordo  poi  lo  pagherebbe  comodamente,  mentre  lo  paghereb- 
bero meno  facilmente,  per  esempio,  i  prati  ed  i  pascoli,  che  pur  oc- 
cupano una  maggior  superficie  di  territorio,  e  non  lo  pagherebbe  poi 
nessun'altra  cultura  a  parità  di  superficie. 

Se  esaminiamo  i  quadri  delle  imposte  e  delle  sovrimposte  nelle  do- 
dici circoscrizioni  in  cui  è  divisa  l'Italia,  troviamo  che  le  provincie 
vitifere  sono  le  più  gravate.  La  più  colpita  ad  esempio  è  la  pro- 
vincia di  Napoli,  la  quale  tra  imposte  erariali  provinciali  e  comu- 
nali, paga  L.  47,28  ad  ettare:  nel  Circondario  di  Casalmonferrato  si 
pagano  non  di  rado  L.  42  all'ettare  (2)  benché,  per  difetto  di  pere- 
quazione, vi  siano  terre  vitate,  già  boschi  o  campi,  che  pagano  assai 
meno.  Ne  qui  sta  il  tutto:  oltre  a  questi  tributi  la  viticultura  deve 
spesso  sopportare  gravi  dazii  comunali;  nel  1882  il  Comune  di  Ca- 
salmonferrato votava  un  dazio  consumo  sull'uva  corrispondente  per 
parecchi,  che  non  possedevano  cantine  fuori  della  cinta  daziaria,  ad 
una  imposta  di  L.  50  per  ettare. 

Volendo  enumerare  le  tasse  che  colpiscono  la  viticultura  ed  i  suoi 
prodotti,  diremo  che,  oltre  la  fondiaria,  vi  ha  la  ricchezza  mobile, 
se  la  vite  è  affittata  a  danaro,  vi  ha  la  tassa  sulle  industrie  dell'al- 
cool e  dell'aceto,  vi  sono  i  dazii  di  consumo,  e  vi  sono  le  sovrim- 
poste; la  vite  è  quindi  realmente  quella  fra  le  piante  coltivate  che 
offre  direttamente  ed  indirettamente  maggiori  cespiti  d'  entrata  allo 
Stato,  alle  Provincie  e  ai  Comuni. 

Vili.  La  vite  e  le  altre  piante  coltivate.  —  Se  paragoniamo  il 
reddito  netto  della  vite  a  quello  delle  altre  piante  coltivate  dell'agricol- 
tura italiana,  ci  persuadiamo  di  leggieri  che  nessuna  fra  queste  può  ugua- 


(1)  La  possessione  rurale  in  Italia  paga  all'erario  il  30  0\q  del  suo  reddito  netto 
(effettivo  e  non  censuario),  mentre  chi  paga  la  sola  ricchezza  mobile,  dà  all'erario 
soltanto  il  13,20  0\q  del  suo  reddito:  è  questa  una  grave  ingiustizia.  In  Francia  la 
proprietà  rurale  paga  solo  il  9  0\q,  in  Germania  il  10  Oft)  ed  in  Inghilterra  solo 
il  2  1T2  OR). 

(2)  Chi  scrive  si  trova  appunto  in  questo  caso. 


VITICOLTURA  1 1 


gliarlo.  Infatti  supponendo  un  mediocre  prodotto  di  40  ettolitri  di 
vino  ad  ettare  vitato,  venduti  al  prezzo  medio  italiano  di  L.  30,  si 
avrebbe  un  beneficio  lordo  di  L.  1200:  in  generale  poi,  da  quanto 
abbiamo  potuto  dedurre  da  molti  dati  presi  nelle  principali  regioni 
vitifere  del  Regno,  la  spesa  di  produzione  d'  un  ettolitro  di  vino  è 
di  L.  15  tutto  compreso;  l'utile  netto  sarebbe  dunque  di  L.  600  per 
ettare  vitato  e  per  anno,  cioè  l'interesse  del  5  0/q  d'un  capitale  di 
12,000  lire.  Nel  Monferrato  non  sono  rare  infatti  le  vendite  di  ter- 
reni vitati  a  12,000  e  15,000  lire  Tettare.  Ma  noi  abbiamo  supposto 
un  prodotto  brutto  di  soli  40  ettolitri  ad  ettare:  invece  abbiamo  varii 
esempii,  dappertutto  in  Italia,  di  produzioni  che  hanno  toccato  i  100 
ettolitri  (e  possiamo  attestare  che  questo  elevato  prodotto  non  va 
per  nulla  a  scapito  della  qualità  del  vino);  or  bene  in  tal  caso,  anche 
vendendo  l'ettolitro  di  vino  a  sole  25  lire,  il  prodotto  brutto  sa- 
rebbe di  L.  2500,  ed  il  netto  di  L.  1000  almeno  ad  ettare,  pur  sup- 
ponendo un  aumento  nelle  spese  di  concimazione  e  di  coltura.  La  vite 
adunque,  fra  le  nostre  piante  coltivate,  è  quella  che  dà  il  maggior 
reddito  netto  a  parità  di  superficie  :  è  perciò  quella  che  fa  più  presto 
agiato  il  coltivatore,  come  dice  benissimo  il  vecchio  adagio,  cioè: 
«  chi  vuol  arricchire  deve  avvitire.  » 

IX.  Altri  prodotti  delle  viti.  —  Ma  che  dire  poi  se  si  consi- 
derano gli  altri  prodotti  delle  viti  ?  Calcoliamoli  brevemente  sulla  base 
ad  esempio  di  25,000,000  d'ettolitri  di  vino  sano,  le  cui  vinaccie  siano 
pure  sane,  unitamente  ai  fondi  o  feccie:  abbiamo  allora,  per  l'intero 
paese,  approssimativamente  quanto  segue: 

Acquavite  a  50°  Gay-Lussac    . 

Cremortartaro  raffinato  bianco 

Acido  tartarico  (residuo  raffineria  cremore) 

Residuo  di  graspi  e  buccie  (concime  o  foraggio)  (1) 

Vinacciuoli  secchi  (col  15  per  Ojo  d'olio) 

Olio,  ottimo  pei  saponi    .... 


Acquavite  a  50°  Gay-Lussac     . 
Cremortartaro  puro  .... 

Materie  vegetali  azotate,  secche 

(Il  restante  è  costituito  da  acqua). 


Ettol. 

500,000 

Chilog. 

7,500,000 

» 

350,000 

Quintali 

1,250,000 

» 

800,000 

» 

120,000 

Ettol. 

100,000 

Quintali 

100,000 

» 

120,000 

(1)  Questo  residuo  contiene  il  2  per  Oxo  d'azoto,  il  0,5  per  Oxo  di  potassa  ed 
il  0,5  per  Oyo  di  acido  fosforico,  secondo  le  ricerche  del  compianto  mio  collega 
D.  Macagno.  Io  lo  provai  come  foraggio  sulle  bovine  e  n'ebbi  buoni  risultati;  come 
concime  poi  è  ottimo  nei  terricciati  appunto  per  le  vigne. 


12  INTRODUZIONE 


Or  se  si  bada  che  l'acquavite  vale  circa  50  lire  l'ettolitro,  e  che 
il  cremortartaro  puro  e  l'acido  tartarico  hanno  prezzi  molto  elevati, 
è  facile  persuadersi  che  questi  residui  della  vinificazione  hanno  un 
grande  valore. 

Ma  per  fare  un  calcolo  esatto  bisognerebbe  aggiungere  poi  il  va- 
lore: 1°  del  foraggio  verde  che  la  vite  ci  dà;  2°  della  legna  (sar- 
menti, ecc.);  3°  dei  prodotli  secondarli  cui  può  dar  luogo  per 
esempio  la   fabbricazione  dell'aceto  (il  verderame  ecc.). 

La  vite  adunque,  oltre  a  produrre  un  rilevante  benefìcio  netto  al 
suo  coltivatore,  gli  dà  foraggio  e  concime,  e  poscia  alimenta  alcune 
industrie  di  grandissima  importanza,  le  quali  possono  fruttare  egregie 
somme  allo  Stato.  (Ogni  anno  il  Tesoro  in  Francia  ha  una  entrata 
media  di  L.  250,000,000  per  le  sole  tasse  ed  i  diritti  sugli  alcool!) 

X.  La  vite  e  la  salute  pubblica.  —  A  tutti  i  vantaggi  che 
sono  la  conseguenza  della  viticultura,  deve  aggiungersi  quello  della 
salutare  influenza  del  vino  sull'uomo,  vantaggio  che  forse  avremmo 
dovuto  collocare  pel  primo.  Non  ci  soffermeremo  molto  su  questo 
punto,  perchè  usciremmo  dai  limiti  del  nostro  tema:  diremo  solo 
poche  cose,  avuto  riguardo  specialmente  alla  pellagra  ed  aìYalcoo- 
lismo. 

Colà  dove  i  contadini  possono  far  uso  del  vino,  la  pellagra  è  sco- 
nosciuta o  quasi.  Questo  si  osserva  ad  esempio  nell'Astigiano  e  nel 
Monferrato,  benché  i  contadini  non  vi  bevano  molto  vino:  nell'Astigiano 
una  famiglia  composta  di  6  adulti  e  2  bimbi  consuma  all'anno  circa 
600  litri  di  vino,  vale  a  dire  75  litri  per  capo:  nel  Basso  Monfer- 
rato accade  lo  stesso,  su  per  giù.  Ma  queste  sono  le  regioni  d'Italia 
ove  i  contadini  vivono  alla  meno  peggio:  che  dire  di  quelle  altre 
ove  è  scarsissima  la  produzione  del  vino?  Ivi,  come  in  certi  Co- 
muni del  Modenese,  del  Novarese,  del  Pavese,  ecc.  appunto  perchè 
il  contadino  quasi  non  beve  vino,  è  assalito  dalla  pellagra  e  con- 
duce una  vita  assai  misera.  Se  tutti  i  nostri  contadini  potessero  di- 
sporre annualmente  anche  di  soli  80  litri  di  vino  discreto  a  testa, 
quella  grave  malattia  scomparirebbe,  come  è  scomparsa  da  tutte  le 
terre  ove  è  coltivata  la  preziosa  ampelidea;  e  ciò  perchè  il  vino  è 
un  alimento,  come  hanno  dimostrato  Munk,  Mosso  e  Ranke,  mentre 
col  suo  alcool  costituisce  una  cassa  di  risparmio  per  1'  organismo, 
secondo  la  felice  espressione  di  Moleschott. 

Anche  1'  alcoolismo  è  quasi  nullo  nei  paesi  vitiferi,  e   basterebbe 


VITICOLTURA  13 


questo  fatto  perchè  la  preziosa  pianta  fosse  venerata  da  tutti  gli 
umanitarii.  Al  Congresso  fìllosserico  di  Losanna  (1877)  si  parlò  di 
codesto,  in  vista  della  sempre  crescente  invasione  della  fillossera,  e 
si  concluse  che  dove  la  vite  scompare,  le  succede  la  miseria,  ed  in 
certi  paesi  «  V ' abrittissement  par  les  alcools.  »  Il  vino  non  abrutì 
mai  nessuno,  anche  se  bevuto  oltre  misura  ;  esso  invece  dà  nerbo 
ai  giovani,  salute  ai  malesci,  costanza  al  lavoro  a  tutti,  ed  è  poi  il 
latte  dei  vecchi,  come  disse  Liebig.  La  viticoltura  adunque  non  deve 
scomparire,  e  diciamo  così  ora  che  tanto  si  teme  per  la  fillossera: 
ma  questo  inesorabile  pidocchio  confidiamo  sarà  vinto;  ce  lo  fa  spe- 
rare quanto  ci  apprende  la  Francia  co'  suoi  ultimi  tentativi  di  re- 
sistenza e  di  distruzione  ad  un  tempo,  tentativi  che  ora  accennano 
a  riescir  bene. 

XI.  La  viticoltura  e  la  produzione  del  suolo.  Conclusione. 

—  È  stato  detto  poeticamente  che  «  Y  agricoltura  è  la  nutrice  dei 
popoli  »,  ed  è  questa  una  verità  incontestabile,  come  è  pure  vero 
che  essa  alimenta  varie  fra  le  principali  industrie.  Ben  a  ragione 
Leonce  de  Lavergne  scrisse  che  l'agricoltura  dà  ad  un  tempo  ric- 
chezza, costumi  e  salute,  e  pensatamente  Gabriele  Rosa  la  chiamò 
la  prima  ed  unica  fonte  del  pane  quotidiano. 

È  dunque  necessario,  anzi  è  indispensabile,  che  la  terra  ci  dia  i 
suoi  frutti,  senza  di  che  la  vita  umana  non  sarebbe  possibile.  Orbene, 
la  vite  permette  all'uomo  di  trarre  partito  di  molte  terre  che  altri- 
menti o  dovrebbero  rimanere  quasi  incolte,  o  darebbero  un  me- 
schinissimo  reddito  e  potrebbero  alimentare  solo  una  assai  scarsa 
popolazione;  ciò  ha  una  importanza  capitale.  Permette  pure  la  vite 
di  far  fruttare  il  suolo  quando  l'aridità  del  clima  vi  si  oppone,  e  sa- 
rebbero indispensabili  canali  irrigatorii.  Di  ciò  ci  porge  oggi  un  e- 
sempio  efficace  il  Mezzogiorno  della  Francia,  che  ha  visto  scompa- 
rire per  causa  della  fillossera  quasi  tutte  le  sue  viti,  e  che,  in  quelle 
regioni  bruciate  dal  sole,  non  può  sostituirvi  altre  culture  per  di- 
fetto d'acqua  d'irrigazione.  Oggidì  le  terre  invase  non  danno  quasi 
nessun  reddito,  perchè  i  cereali  ed  i  foraggi,  sotto  quell'arido  clima, 
costano  più  di  quanto  rendono:  i  poveri  proprietarii  sono  insomma 
ridotti  al  punto  di  non  potere  ricavare  tanto  che  basti  a  pagare  la 
imposta  fondiaria. 

La  vite  è  adunque  una  pianta  provvidenziale  per  certe  regioni, 
le  quali  senza  di  essa  si  vedrebbero  ridotte  alla  miseria. 


14  INTRODUZIONE 


Conchiudendo,  l'importanza  della  viticoltura  nella  economia  pubblica 
è  grandissima;  che  ognuno  cooperi  quindi  a  difenderla  dal  flagello 
che'Je  sovrasta,  poiché  se  la  fìllosseronosi  avesse  ad  estendersi  in 
Italia,  come  in  certe  plaghe  viticole  francesi,  le  conseguenze  per  il 
nostro  paese  sarebbero  tristissime! 


CAPITOLO  I 


Origine  e  storia  della  Vite. 


§  1.  Patria  della  vite  asiatica  o  europea.  —  §  2.  Disseminazione  della  vite.  — 
§  3.  Patria  della  vite  americana,  —  §  4.  Antichità  della  vite.  —  §  5.  Storia 
della  viticoltura, 


§  1.  Patria  della  vite  asiatica  o  europea.  Si  ammette  ge- 
neralmente che  la  vite,  che  si  coltiva  in  Europa,  sia  originaria  del- 
l'Asia Minore;  ma  la  esistenza  delle  viti  selvatiche  nell'Algeria,  nel 
Marocco,  in  Italia,  in  Francia  e  sul  Reno  induce  a  credere  che  la 
vite  sia  indigena  eziandio  in  questi  paesi,  benché,  secondo  Y  avviso 
di  distinti  botanici,  quelle  viti  siano  piuttosto  subspontanee  che  spon- 
tanee, vale  a  dire  viti  inselvatichite  fverwilderte  Weinstócke,  come 
dicono  le  flore  tedesche). 

Ad  ogni  modo  gli  è  sovratutto  nell'Asia  Minore,  e  massime  nel- 
l'Armenia intorno  al  monte  Ararat,  che  la  vite  cresce  spontanea- 
mente ed  assomiglia  ad  una  liana  selvatica  i  cui  rami  rampicanti 
si  dirigono  su  grandi  faggi,  che  noi  nel  linguaggio  viticolo  chia- 
meremmo i  tutori,  e  quivi  benché  non  potati  mai  e  tuttoché  il  ter- 
reno non  venga  coltivato  in  verun  modo ,  danno  grappoli  in  copia 
e  di  grande  peso  (1)  senza  traccia  di  oidio:  ciò  osservasi  special- 
mente nei  faggeti  della  Mingrelia,  l'antica  Colchide. 


(1)  Bodenstàdt  trovò  a  Tiflis,  nel    1843,   un  grappolo   del  peso  di  cinque  chi- 
logrammi. 


16  CAPITOLO  I 


I  Greci  assegnavano  per  patria  alla  vite  il  monte  indiano  Nysa, 
neir  Hindukush  o  Caucaso  indiano;  e  secondo  le  ricerche  moderne  fatte 
dal  botanico  Kolenati,  a  cui  si  debbono  accurati  studii  sulle  viti  sel- 
siatiche  che  abbondano  fra  il  mar  Nero  ed  il  mare  Caspio  (1)  la 
vite  sarebbe  realmente  originaria  del  Mezzodì  del  Caucaso. 

In  Italia  la  vite  cresceva  selvatica  sin  dai  tempi  d'Omero;  noi  ab- 
biamo trovato  la  vite  selvatica  in  Toscana,  ove  è  detta  Abrostine 
o  Lambrusca,  come  già  la  chiamava  Virgilio  (Labrusca);  queste 
Lambrusche  selvatiche  producono  la  così  detta  uva  zampina,  a  pic- 
coli acini  non  del  tutto  spregevoli,  locchè  ci  fa  credere  che  si  tratti 
piuttosto  di  viti  inselvatichite  che  non  di  viti  selvatiche  quali  riscon- 
transi  nell'Asia  Minore,  dappoiché  le  nostre  viti  coltivate,  se  vengono 
abbandonate  a  sé  stesse,  finiscono  per  produrre  piccoli  grappoli  con 
piccoli  acini  appunto  come  le  lambrusche  selvatiche:  ciò  a  nostro 
avviso  è  specialmente  da  attribuirsi  al  difetto  della  potatura. 

In  Francia  trovasi  la  vite  selvatica  specialmente  nella  parte  me- 
ridionale ove  è  pure  chiamata  lambrusque;  nel  delta  detto  la  Ca- 
margue,  nelle  valli  del  Grande  Rodano  e  del  Piccolo  Rodano 
nonché  nella  Costa  d'Oro  (2)  questa  vite  assume  grandi  proporzioni, 
arrampicandosi  sugli  alberi  più  alti  e  mostrando  una  vegetazione 
lussureggiante  anche  nei  suoli  aridi  e  pietrosi;  però  i  grappoli  sono 
piccoli  e  con  acini  pure  piccoli.  Nella  Camargue  dalle  uve  della 
Lambrusca  si  ottiene  un  vino  colorato  ma  aspro,  povero  d'alcool, 
senza  fragranza  e  poco  gradito;  si  fecero  perciò  parecchi  tentativi 
onde  ingentilire  queste  viti,  piantandone  le  talee,  innestandole  e 
potandole  a  tralcio  corto;  ma  non  vi  si  riuscì,  inquantochè  tutti  i 
fiori  abortivano  per  eccesso  di  succhi:  infatti  per  ottenere  uva 
dalle  Lambrusques  conviene  lasciar  lcro  quasi  intatti  i  tralci, 
cioè  potarli  leggermente  o  meglio  non  potarli  affatto;  ma  allora  si 
verifica  un  altro  inconveniente,  che  è  quello  della  piccolezza  delle 
pigne;  noi  crediamo  tuttavia  che  il  problema  potrebbe  risolversi  colla 
potatura  a  più  tralci  lunghi. 

Secondo  il  Dott.  Baumes  di  Nìmes,  il  sig.  H.  Marès  di  Montpellier 
ed  altri  studiosi  della  viticultura  francese,  la   vite  sarebbe  indigena 


(1)  Y.  Bullelin  de  la  Società  imperiale  des  naturalistes  de  Moscou,  1846,  pa- 
gina 279. 

(2)  Lorey  et  Durct:  Flore  de  la  Còte  d'Or. 


ORIGINE  E  STORIA  DELLA  VITE  17 

nella  Francia  meridionale,  e  quindi  sarebbero  indigeni  eziandio  alcuni 
suoi  rinomati  vitigni,  benché  sia  fuor  di  dubbio  che  i  Romani  ve  ne 
introdussero  parecchi,  descritti  da  Catone,  Varrone  e  Columella,  e  che 
ne  vennero  pure  introdotti  dalla  Spagna. 

Anche  nella  Valle  del  Reno  si  trovano  viti  selvatiche,  che  furono 
accuratamente  studiate  da  Bronner,  von  Wiesloch  e  Gmelin;  queste 
viti  furono  chiamate  con  diversi  nomi,  quali  vitis  teutonica,  vitis 
traumi,  vitis  sylvestris,  e  si  ritiene  generalmente  che  il  rinomato 
vitigno  renano  Riesling  sia  una  vite  selvatica  ingentilita  (1).  Quelle 
viti  selvatiche  non  possono  menomamente  considerarsi  —  secondo 
Gmelin  —  come  viti  introdotte  nel  Rheingau  dai  Romani  e  poscia 
inselvatichite,  perchè  sono  nettamente  distinte  dalla  vitis  vinifera; 
esse  perciò  si  debbono  ritenere  come  indigene  della  Valle  del  Reno. 

Anche  nel  Nord  della  China  si  incontrano  viti  spontanee  le  quali 
furono  studiate  da  Regel  (2);  ma  De  Candolle  non  ammette  con  Regel 
che  la  più  analoga  alla  nostra  vite,  la  Vitis  Amurensis  di  Ruprecht, 
appartenga  alla  nostra  specie.  «  I  semi  disegnati  nel  Gartenftora, 
1861,  tav.  33,  ne  sono  troppo  differenti;  se  il  frutto  di  queste  viti 
dell'Asia  orientale  avesse  qualche  valore,  i  Chinesi  avrebbero  avuto 
T  idea  di  trarne  partito  »  (3).  Al  capitolo  IV  diremo  qualche  cosa 
sulle  viti  selvatiche  della  China  e  del  Giappone. 

La  vite  europea,  od  asiatica,  sarebbe  adunque  indigena  dell'Asia 
minore,  quivi  solo  essendo  essa  realmente  spontanea,  mentre  nell'Eu- 
ropa meridionale  si  troverebbero  viti  inselvatichite,  piuttostochè  sel- 
vatiche nello  stretto  senso  della  parola. 

§  2.  Disseminazione  della  vite.  —  Si  ammette  generalmente 
che  la  disseminazione  della  vite  dal  suo  paese  di  origine,  sia  stata 
anzitutto  opera  degli  uccelli;  questa  disseminazione,  dice  A.  De  Can- 
dolle, «  dovette  cominciare  per  tempissimo,  dal  momento  che  le  bac- 
che hanno  esistito  innanzi  la  coltivazione,   prima   della   emigrazione 


(1)  H.  W.   Dahlen   dice   (die    Weinbereitung ,  s.  3)  che  il   Riesling  «  wird  als 
ein  veredelter  Wildling  des  Rheingaues  und  seiner  Nebenthàler  angesehen  ». 

(2)  Acta  horti  imp.  petrop.  1873.  Regel  è  il  Direttore  del  giardino  botanico  di 
S.  Pietroburgo. 

(3)  Origine  delle  piante  coltiviate.  (Biblioteca  Scientif.  Inter.  —  Dumolard,  Mi- 
lano), pag.  256. 

0.  Ottavi, ^Trattato  di  Viticoltura.  3 


18  CAPITOLO  I 


dei  più  antichi  popoli  asiatici,  forse  prima  che  esistessero  uomini  in 
Europa  ed  anche  in  Asia.  Tuttavia  la  frequenza  delle  coltivazioni  e 
la  moltitudine  delle  forme  di  uve  coltivate,  hanno  potuto  estendere  la 
naturalizzazione,  ed  introdurre  nelle  viti  selvatiche  delle  differenze 
traenti  la  loro  origine  dalla  coltura.  Per  dire  il  vero,  gli  agenti  na- 
turali, come  gli  uccelli,  il  vento,  le  correnti,  hanno  esteso  sempre  più  le 
abitazioni  delle  specie,  indipendentemente  dall'uomo,  fino  ai  limiti  che 
risultano,  in  ogni  secolo,  dalle  condizioni  geografiche  e  fisiche  e  dal- 
l'azione nociva  di  altri  vegetali  e  di  animali.  Una  abitazione  assolu- 
tamente primitiva  è  più  o  meno  un  mito;  ma  abitazioni  successiva- 
mente estese  o  ristrette  sono  nella  forza  delle  cose.  Esse  costituiscono 
patrie  più  o  meno  antiche  e  reali,  a  condizione  che  la  specie  vi  sia  con- 
servata selvatica,  senza  il  trasporto  incessante  di  nuovi  semi  »  (1). 
Così  il  De  Candolle,  e  tutto  porta  ad  ammettere  che  consimile  disse- 
minazione, prima  per  opera  degli  uccelli  e  poi  per  mezzo  dell'uomo,  abbia 
appunto  avuto  luogo  dal  mezzodì  del  Caucaso  verso  l'India,  l'Arabia, 
l'Africa  settentrionale  e  l'Europa  meridionale  (Grecia,  Italia,  Gallia  ecc.) 

§.  3.  Patria  della  vite  americana.  —  Mentre  le  viti  euro- 
pee ed  asiatiche  appartengono  forse  tutte  quante  alla  specie  botanica 
Vitis  vinifera  di  Linneo  (2),  le  viti  americane  si  raggruppano  invece 
in  diverse  specie,  delle  quali  ci  occuperemo  parlando  della  fillosseronosi. 
Queste  specie  hanno  differenti  patrie;  e  così  nella  valle  del  Missouri 
crescono  spontanee,  secondo  Swallow  e  Engelmann,  la  Vitis  cestivalis 
e  la  Vitis  cordifolia  con  altre  specie  di  minor  importanza;  la  Vitis 
labrusca  si  trova  invece  lungo  le  coste  dell'Atlantico  e  nei  monti 
Alleghanv;  nell'Arkansas  cresce  la  Vitis  vulpina  e  nell'Ovest  del 
Texas  la  Vitis  rupestris.  Come  si  vede  queste  notizie  si  riferiscono 
esclusivamente  all'America  settentrionale,  e  precisamente  alla  zona 
che  partendo  dal  golfo  del  Messico  va  sino  ai  Laghi,  zona  che  costi- 
tuisce la  regione  della  vite  nel  Nuovo  Mondo.  Nell'America  Meri- 
dionale la  vite  che  vi  si  coltiva  fu  importata  dall'Europa.  (V.  Sta- 
tistica della  vite,  cap.  III). 


(1)  Opera  citata,  253. 

(2)  È  bene  notare,  come  già  dicevamo,  che  secondo  Gmelin  certe  viti  selvatiche 
europee  (Valle  del  Reno,  ecc.)  costituirebbero  una  specie  distinta  dalla  Vitis  vini- 
fera Lin.,  che  egli  chiamò   Vitis  sylvestrìs  nella  sua  Flora  badese. 


ORIGINE  E  STORIA  DELLA  VITE  19 

§  4.  Antichità  della  vite.  —  Tanto  in  Europa  come  in  Asia 
si  hanno  prove  di  una  grandissima  antichità  della  vite,  la  cui  storia 
risalirebbe  al  di  là  dei  più  antichi  documenti  scritti.  Nei  sepolcri 
delle  mummie  dell'antico  Egitto  si  trovarono  vinacciuoli  e  granelli  di 
dimensioni  discrete;  ed  il  De  Candolle  riferisce  (1)  che  furono  tro- 
vati semi  di  vite  sotto  le  abitazioni  lacustri  di  Castione,  presso  Parma, 
i  quali  datano  dall'età  del  bronzo  (2),  in  una  stazione  preistorica  del  lago 
di  Varese  (3)  e  nella  stazione  di  Wangen  nella  Svizzera,  ma  in  que- 
st'ultimo caso  ad  una  profondità  incerta.  V'ha  di  più:  furono  trovate 
foglie  di  vite  nei  tufi  dei  contorni  di  Mompellieri,  dove  esse  si  sono 
deposte  probabilmente  avanti  l'epoca  storica  (4),  ed  in  quelli  di  Mey- 
rargue,  nella  Provenza,  certamente  preistorici,  sebbene  posteriori  al- 
l'epoca terziaria  dei  geologi  (5). 

La  vite  adunque,  come  il  frumento,  sarebbe  una  fra  le  più  antiche 
piante  coltivate. 

§  5.  Storia  della  Viticultura.  —  Quaranta  secoli  avanti  Cristo, 
Noè,  scampato  dal  diluvio,  come  fu  il  secondo  progenitore  del  ge- 
nere umano,  fu  pure  il  padre  della  viticultura.  Prima  del  grande  pa- 
triarca nessuno  aveva  pensato,  secondo  il  Pentateuco,  a  coltivare  la 
vigna  ed  a  preparare  il  vino  coi  suoi  frutti;  si  raccoglieva  l'uva  delle 
viti  selvatiche  e  così  si  mangiava.  Ma  nel  libro  della  Genesi  al 
Cap.  IX,  vers.  20  e  21  è  detto: 

Coepitque  Noe  in  agricola  exercere  terram,  et  plantavit  vineam; 

Bibensque  vinum  inebriatus  est,  et  nudatus  in  tabernaculo  suo. 

Cioè:  «  E  Noè,  che  era  agricoltore,  principiò  a  lavorare  la  terra 
ed  spiantare  una  vigna,  ed  avendo  bevuto  il  vino,  si  inebriò  ecc.  » 

Noè  piantò  la  prima  vigna  nell'Armenia,  che  si  può  quindi  ritenere 
come  la  culla  così  della  Vite  come  della  Viticultura. 

Dal  Levitico  (6)  e  dal  Deuteronomio  (7)  apprendiamo  qualche  pre- 


(1)  Opera  citata  pag.  253. 

(2)  Essi  sono  raffigurati  in  Heer,  Die  Pflanzen  der  Pfahlbauten,  pag .  24,  f.  11. 

(3)  Ragazzoni,  Rivista  Arch.  della  provincia  di  Como,    1880,  fase.    17,  pag.  30 
e  seguenti. 

(4)  Planehon:  Etude  sur  les  tufs  de  Montpellier,  1864,  pag.  63. 

(5)  De  Saporta:  Flore  des  tufs  quaternaires  de  Provence,  1867,  p.   15  e  27. 

(6)  Cap.  XIX,  vers.  23,  24  e  25. 

(7)  Cap.  XX,  vers.  6. 


20  CAPITOLO  I 


cetto  viticolo  che  Mosè  dava  al  popolo  ebreo,  e  fra  gli  altri  quello 
di  non  raccogliere  i  frutti  della  vite  nei  primi  tre  anni;  sapiente  pre- 
cetto, pel  quale  Mosè  non  vuole  che  si  estenui  la  vite  da  principio, 
quando  la  pianta  deve  formarsi  robusta  e  feconda.  Ed  è  pure  ottimo 
precetto  questo  che  leggesi  nel  Deuteronomio  (1): 

Non  seres  vineam  iuam  altero  semine,  ne  et  sementis,  quam 
sevisti  et  quae  nascuntur  ex  oinea,  pariter  sanctificentur;  cioè 
che  conviene  accontentarsi  del  frutto  delle  vigne,  e  non  cercare  di 
aver  dal  vigneto  due  prodotti,  perchè  in  questo  caso,  come  osserva 
Sant'Agostino,  e  la  sementa  e  le  uve  vengono  a  patirne  egualmente, 
e  la  vigna  non  rende  né  in  vino  né  in   granelle. 

I  discendenti  di  Sem,  che  popolarono  l'Asia,  introdussero  la  viti- 
coltura in  Europa;  essi  chiamavano  karm  la  vigna  e  da  ciò  venne 
il  nome  di  Carmelo  al  monte  omonimo  del  profeta  Elia  in  Palestina, 
nonché  il  nome  dell'ordine  dei  Carmelitani  fondato  nel  dodicesimo  se- 
colo. I  Caldei,  popolo  appunto  di  razza  semitica,  erano  stimati  dili- 
genti viticultori;  essi  chiamavano  l'uva  anavim. 

In  Italia  la  coltura  della  vite  venne  introdotta  dai  Pelasgi  (1600 
anni  avanti  Cristo)  e  dagli  Etruschi  (specialmente  nella  parte  cen- 
trale) popoli  questi  venuti  dall'  Asia  minore,  che  senza  dubbio  come 
dicemmo  fu  la  patria  della  viticultura;  il  mezzodì  d'Italia  era  tanto 
propizio  alla  vite,  che  i  Greci  gli  imposero  il  nome  di  Enotria,  ed 
il  nome  di  Sabini,  degli  antichi  abitanti  dell'Italia  centrale  o  Sabina, 
pare  che  significasse  appunto  viticultori. 

Anche  i  Greci,  da  cui  ci  vennero  molti  precetti  e  vocaboli  di  vi- 
ticoltura, ebbero  a  maestri  i  Semiti;  questi  noverarono  valenti  scrit- 
tori d'agraria,  fra  cui  l'armeno  Iambusckad  ed  il  cananeo  Thamitri,  ri- 
cordati dall'arabo  Ibn-Kaldun,  i  quali  avevano  insegnato  a  fecondare  la 
vite  scalzandola  e  fertilizzando  il  terreno  con  concime  polverulento 
complesso  in  cui  fossero  state  scomposte  anche  le  foglie  delle  viti,  e  ad 
eccitare  le  viti  sterili  con  ceneri,  aceto  ed  urina  umana;  gli  stessi  scrit- 
tori insegnavano  che  se  la  vite  imbianca  e  poi  si  fa  croja  (2)  si  deve 
usare  uno  sciroppo  di  aceto  fortissimo  e  di  cenere,  fregandosene  la 
corteccia  e  versandolo  sulle  radici  allungato  con  acqua.  Questi  ed  altri 
precetti  dimostrano  quanto  i  Semiti  fossero  diligenti  viticultori. 


(1)  Cap.  XXII.  vers.  9. 

(2)  Così    Gabriele    Rosa    (Enciclopedia  Agr.   voi.  Ili   pag.  5.)   Il  Rosa  adopera 
que  ta  voce  antiquata  por  significare  una  vite  che  si  fa  rozza,  sterile. 


ORIGINE  E  STORIA  DELLA  VITE  21 

Presso  i  Greci  ed  i  Romani  continuò  a  fiorire  la  coltura  della  vite, 
come  ci  dicono  i  precetti,  molti  dei  quali  ottimi,  di  Esiodo,  di  Socrate, 
di  Senofonte  nell'Economico  e  sovratutto  di  Teofrasto  (371  -f-  286 
anni  av.  C.)  che  fu  uu  acuto  osservatore  dei  fenomeni  naturali;  per 
esempio  egli  osservò  che  seminando  le  viti  non  si  riproduce  la  pianta 
da  cui  venne  il  seme,  ma  si  ha  un  vizzato  diverso;  che  le  viti  can- 
giando terreno  e  clima  danno  prodotti  ben  differenti,  e  che  conviene 
rinnovare  la  terra  che  sta  al  piede  delle  viti  ogni  dieci  anni,  come 
si  pratica  tuttodì  da  qualche  valente  viticultore  in  Piemonte  e  in 
Lombardia  (Bergamo),  del  che  ci  intratterremo  a  lungo  più  innanzi. 
Teofrasto  consigliava  anche,  molto  opportunamente  di  potare  tardi  le 
viti  quando  il  suolo  è  umido  e  freddo,  onde  esse  lacrimando  avessero 
a  perdere  l'umore  soverchio  che  fa  abortire  i  fiori,  locchè  noi  chia- 
miamo ora  il  salasso  delle  viti. 

Fra  i  romani  Catone  (232  -[-147  av.  C.)  dettò  buoni  precetti; 
nella  economia  agraria,  egli  assegnava  al  vigneto  il  primo  posto,  ma 
lo  voleva  coltivato  con  ogni  cura,  piantandolo  in  terreno  smosso 
profondamente,  fecondandolo  con  sarmenti  di  vite  tagliuzzati,  aran- 
dolo, vangandolo  ecc. 

Il  dottissimo  Terenzio  Varrone  (114  -f-  27  av.  C.)  nei  suoi  tre 
libri  di  Cose  rustiche  scritti  mentre  già  era  ottuagenario,  lasciò  pure 
molti  precetti,  fra  i  quali  quelli  di  scacchiare  le  viti  alla  fine  di  Maggio, 
e  l'altro  di  lavorare  il  terreno  in  estate,  d'onde  forse  il  proverbio 
«  chi  zappa  la  vigna  in  agosto,  la  cantina  riempie  di  mosto.  »  Ed  anche 
il  principe  dei  poeti  latini  P.  M.  Virgilio  (70  -f-  19  av.  C.)  nelle  sue 
Georgiche  ci  lasciò  notizie  sulle  viti  dei  suoi  tempi,  già  tanto  nume- 
rose che  egli  stimava  altrettanto  diffìcile  contare  i  grani  di  sabbia  del 
deserto  della  Libia  sollevati  dal  vento,  quanto  le  varietà  delle  viti 
stesse  (1). 

Georgofìlo  stimato  quanto  Varrone  fu  Lucio  Giunio  Moderato  Co- 
minella, coetaneo  di  Seneca  (2  av.  C.  -f-  65  d.  C),  spagnuolo  per 
nascita  (Cadice?)  ma  educato  alla  romana;  egli  era  nipote  del  dotto 
agronomo  latino  Marco  Columella.  Non  si  erra  asserendo  che  il  mi- 
glior trattato  sulla  agricoltura,  e  specialmente  sulla  viticoltura,  di 
quei  tempi,  si  deve  a  Columella,  studiosissimo  degli  autori  cartagi- 
nesi, greci  e  romani  che  lo   precedettero,    ed  attento  visitatore   dei 


(1)  Quem  qui  scire  velit,  libyci  velit  aequoris  idem 

Discere  quam  multae  Zephyro  turbentur  arenae.  {Georgica,  Libro  II). 


22  CAPITOLO  I 


principali  luoghi  del  grande  impero  romano  ove  fioriva  la  coltura  della 
vite.  Dei  suoi  precetti  ci  occuperemo  più  innanzi  in  apposito  capitolo, 
onde  studiare  nei  suoi  dettagli  la  viticoltura  latina  qual'era  nel  secolo  I. 

Accanto  a  Columella  conviene  collocare  Plinio  il  vecchio  (23  -\-  79) 
l'enciclopedico  naturalista  vittima  della  nota  spaventevole  eruzione 
del  Vesuvio;  egli  nacque  a  Como,  e  fu  alquanto  geloso  di  Columella 
a  cui  mosse  appunti  quasi  sempre  male  fondati;  nondimeno  lasciò 
molti  utili  precetti  sulla  coltura  della  vite,  descrisse  il  sistema  di  la- 
sciare uno  sperone  (detto  allora  custode)  per  averne  un  tralcio  a 
frutto  per  l'anno  successivo,  studiò  pure  le  viti  senza  sostegno  (sine 
pedamento)  della  Provenza  e  dell'Africa,  e  ne  sconsigliò  la  coltiva- 
zione perchè,  come  disse  anche  Columella,  se  ne  aveva  vino  abbon- 
dante ma  cattivo,  su  di  che  noi  facciamo  ora  ampie  riserve,  la  cosa 
essendo  ben  diversa  (1);  infine  Plinio  descrisse  varie  malattie  della 
vite,  fra  cui  una  che  pare  si  approssimi  all'oidio. 

Da  Plinio  bisogna  venire  sino  al  dotto  greco  Ateneo  (che  visse 
nel  III  secolo)  autore  del  Convito  dei  Savi;  Ateneo  nacque  in  Egitto 
e  visse  prima  in  Alessandria  poi  in  Roma,  onde  ebbe  campo  a  stu- 
diare le  viti  ed  i  vini  romani;  le  notizie  che  egli  ci  tramandò,  si  ri- 
feriscono però  specialmente  ai  vini. 

Nel  IV  secolo  abbiamo  Palladio  (Rutilio  Paolo  Emiliano)  che  ci 
dà  notizie  sulla  viticoltura  romana  ed  ottimi  precetti,  fra  cui  quello 
dello  scortecciamento  delle  viti  annose  di  cui  si  è  tanto  parlato,  quasi 
fosse  cosa  nuova,  in  questi  ultimi  anni;  consigliò  pure  il  soverscio 
dei  lupini  nei  vigneti  in  agosto,  la  spampinatura  e  via  dicendo;  egli 
fu  l'ultimo  scrittore  classico  latino  di  cose  agrarie. 

Dall'anno  400  all'  800  la  viticoltura,  come  l'agricoltura,  è  in  piena 
decadenza  ed  in  molti  luoghi  si  abbandona  affatto  la  coltivazione  del 
prezioso  arbusto,  a  cagione  delle  schiaccianti  imposte  erariali,  del  di- 
spotismo militare  e  sovratutto  delle  invasioni  barbariche;  la  coltura 
del  suolo  è  allora  lasciata  in  mano  agli  schiavi,  mentre  l'agricoltura 
è  essenzialmente  arte  di  uomini  liberi  e  civili!  In  questo  sconfortante 
periodo  di  decadenza,  pochi  scrittori  si  occupano  di  viticoltura;  e  dal 
bordolese  Ausonio  (Decimo  Magno)  morto  nell'anno  394  bisogna 
venire  sino  al  calabrese  Cassiodoro  (460  -f-  562)  da  Squillace,  se- 
gretario e  ministro  del  re  goto  Teodorico,  scrittore  della  Cronaca 
ove  gli  studiosi  attingono  tante  notizie  su  quei  tempi.  Ma,  per  quanto 


(1)  V.  il  capitolo  delle    Viti  ad   alberello. 


ORIGINE  E  STORIA  DELLA  VITE  23 

concerne  la  viticoltura,  egli  poco  ci  dice,  e  solo  si  occupa  di  raffron- 
tare fra  loro  varii  vini  di  quei  tempi,  massime  del  veronese. 

Durante  il  regno  dei  Longobardi  (568-771)  continuò  il  quasi  com- 
pleto abbandono  della  viticoltura,  la  quale  si  restrinse  ai  suburbii  ed 
alle  vicinanze  dei  grossi  centri  popolati;  tuttavia  nel  secolo  VI  i 
Benedettini,  quasi  inosservati,  incominciarono  a  ben  coltivare  qua  e 
là  qualche  vigna.  La  viticoltura  ebbe  poi  sempre  caldi  protettori  nei 
religiosi  d'ogni  ordine,  e  sovratutto,  oltre  ai  Benedettini,  negli  Ago- 
stiniani, nei  Basiliani,  Domenicani,  Francescani,  Cistercensi  e  via  di- 
cendo. 

Distrutto  il  regno  dei  Longobardi  in  Italia,  il  grande  imperatore 
Carlo  Magno  si  diede  a  proteggere  anche  V  agricoltura,  massime 
dall'anno  800  all'  814,  ed  emanò  speciali  regolamenti  ne'  quali  è 
fatta  larga  parte  a  quanto  riguarda  il  vino.  Costantino  VII  Porfì- 
rogenito  (911-959)  che  tanto  si  occupò  di  studii,  vedendo  che  nel- 
l'Oriente greco  la  viticoltura  e  l'enologia  erano  tuttavia  fiorenti,  ne 
fece  raccogliere  i  precetti  nel  famoso  Geoponico.  Il  libro  terzo  delle 
Geoponiche  contiene  insegnamenti  veramente  preziosi  sulla  viticol- 
tura, massime  riguardo  alla  potatura  a  seconda  dell'età  delle  viti  e 
dell'esposizione,  alla  lavorazione  del  terreno,  che  doveva  essere  pro- 
fonda onde  le  viti  non  soffrissero  la  siccità  e  non  invecchiassero  troppo 
presto,  alle  rimondature  estive,  alla  concimazione  con  cenere  e  feccie 
di  vino  per  le  viti  adulte,  serbando  il  letame  soltanto  alle  viti  gio- 
vani, e  via  dicendo.  Vi  si  trovano  anche  curiose  osservazioni,  fra 
cui  questa,  che  immettendo  triaca  nel  midollo  della  talea  si  ottiene 
uva  dotata  di  proprietà  medicinali,  di  che  ci  occuperemo  a  suo  luogo, 
accennando  agli  studii  moderni  sulla  sava  della  vite. 

Nel  XII  secolo  abbiamo  un  valente  scrittore  arabo  Ibn-al-Awam, 
che  dà  buoni  precetti  di  viticoltura,  scrivendo  da  Siviglia,  fra  cui 
quello  che  non  conviene  seminare  cavoli,  rape,  ecc.  fra  le  viti. 

Frattanto  i  religiosi  continuarono  a  coltivare  con  amore  la  pre- 
ziosa pianta,  estendendola  alle  regioni  ove  recavansi  ed  incoraggian- 
done la  coltura,  come  fece  ad  esempio  nel  secolo  XI  Sigfried  arci- 
vescovo di  Magonza,  che  diffuse  il  Riesling  a  Rùdesheim,  da  tanto 
tempo  famosa  pel  suo  vino  omonimo.  Anche  i  regnanti  presero 
poco  poco  a  proteggere  la  viticoltura,  e  si  sa  che  il  re  ungherese 
Bela  IV  degli  Arpad,  vedendo  quasi  priva  di  vigneti  l'Ungheria,  vi 
introdusse  magliuoli  presi  in  Italia. 

Dopo  la  pace  di  Costanza  (1183)  si  incominciò  a  notare  in  Italia 


24  CAPITOLO  I 


un  leggero  risveglio  nell'agricoltura  e  quindi  anche  nella  viticoltura; 
ma  i  progresbi,  che  si  andavano  facendo,  erano  lentissimi  e  si  deve 
a  Pier  de'  Crescenzi,  nato  a  Bologna  nel  1233,  se  la  nostra  economia 
rurale  potè  più  tardi  progredire  maggiormente.  Il  venerato  autore 
del  Liber  ruralium  commodorum  ci  descrive  la  viticoltura  italiana 
del  1300,  mostrandosi  intelligente  nella  coltura  del  prezioso  arbusto: 
da  lui  sappiamo  che  allora  si  incominciavano  a  produrre  in  Italia 
buoni  vini,  i  quali  vendevansi  persino  in  Germania  ed  in  Polonia. 

Dopo  il  Crescenzi  non  si  può  dire  che  abbiano  abbondato  gli  scrit- 
tori di  viticoltura,  la  quale  vi  andava  facendo  lenti  progressi,  così 
in  Italia  come  in  Spagna,  ma  non  però  in  Francia:  si  possono  solo 
citare  Agostino  Gallo,  nato  a  Brescia  nel  1499,  che  descrisse  le  viti 
lombarde  —  G.  A.  Herrera  (1513),  che  studiò  la  viticoltura  spa- 
gnuola  e  Giovanni  Tatti  da  Lucca  (1560).  Pero  in  Toscana  la  col- 
tura della  vite  progredì  più  che  altrove,  come  ce  lo  provano  i  due 
scrittori  specialisti  Giovanni  Vittore  Soderini  (1526)  e  Bernardo  Da- 
vanzati  (1529):  il  primo  scrisse  un  Trattato  della  coltivazione  delle 
viti  e  del  frutto  che  se  ne  può  cavare,  il  secondo  dettò  l'opuscolo 
Della  coltivazione  toscana  delle  viti. 

Frattanto  eccoci  al  1600,  anno  in  cui  il  patriarca  dell'agricoltura 
francese  Olivier  de  Serres  (nato  il  1539)  pubblica  il  suo  famoso 
Teatro  dell' 'agricoltura  dedicato  al  re  Enrico  IV,  che  tanto  amava 
l'arte  dei  campi  :  in  questo  libro  troviamo  molte  notizie  sulla  viticol- 
tura di  quei  tempi,  nonché  preziosi  precetti,  che  furono  posti  in  pratica 
dai  viticultori  francesi,  cosicché  la  viticoltura  a  poco  a  poco  vi  prese 
un  grandissimo  sviluppo,  al  punto  che  verso  il  1730  si  limitava  per 
legge  l'estensione  dei  vigneti. 

La  viticoltura  nel  frattempo  si  estese  anche  in  lontani  paesi  per 
opera  degli  europei  che  si  recavano  a  colonizzare  l'America,  la  Nuova 
Olanda,  l'Oceania  e  l'Africa  meridionale;  già  nel  1602  i  Gesuiti  pian- 
tarono vigneti  nel  Paraguay,  neh'  Uruguay  e  nella  Bolivia,  e  negli 
Elementi  d' agricoltura  (1)  comparsi  a  Milano  nel  1784  si  legge 
che  in  California  già  allora  si  producevano  ottimi  vini;  dal  1800  in 
poi  si  estese  pure  la  viticoltura  nel  Perù,  nel  Chili,  nella  Repub- 
blica Argentina  e  nel  Messico.  Nel  1851  alcuni  Svizzeri  introdussero 


(1)  Mitterpacher  li  pubblicò  a  Vienna  nel  1783  e  '^furono  tradotti  in   italiano. 
(G.  Rosa,  op.  cit.  349). 


ORIGINE  E  STORIA  DELLA  VITE  25 

le  viti  in  Australia,  a  Vittoria,  ed  ora  la  viticoltura  progredisce  colà 
rapidamente. 

In  Francia  la  viticoltura  continuò  a  progredire,  e  sul  principio  del 
1800  il  Bordeaux,  il  Borgogna,  lo  Champagne,  l'Hermitage,  il  Fron- 
tignan,  ecc.  ecc.  erano  già  celebrati. 

Anche  in  Italia  la  viticoltura  ebbe  una  forte  spinta,  specie  dopo 
la  unificazione  del  Regno  e  le  libertà  politiche,  ed  ora  in  molte  Pro- 
vincie paesane  la  viticoltura  è  portata  ad  un  notevole  grado  di  per- 
fezione; a  codesto  contribuirono  parecchi  scrittori  a  partire  da  Carlo 
Verri  (1803,  Saggio  teorico-pratico  sulla  viticoltura)  sino  a  De- 
Blasiis  (1864,  Istruzioni  sul  modo  di  fare  il  vino  e  coltivazione 
degli  ulivi  e  della  vigna  bassa)  ed  a  Giuseppe  Antonio  Ottavi 
(1855-1884,  Il  Coltivatore,  in  cui  è  descritta  la  viticoltura  d'  ogni 
parte  d' Italia,  e  Nuovo  metodo  per  far  fruttificare  abbondante- 
mente le  viti). 

In  Francia  la  viticoltura  ebbe  grande  impulso  dal  Conte  Odart 
e  sovratutto  da  Giulio  Guyot  (nato  a  Gyé-sur-Seine  (Aube)  nel 
1807,  morto  il  31  marzo  1872  a  Savigny);  a  lui  si  devono  due  o- 
pere  magistrali,  Culture  de  la  vigne  et  vinification,  e  Études  sur 
les  vignobles  de  France:  del  suo  sistema  di  viticoltura  ci  occupe- 
remo in  apposito  capitolo,  per  studiare  sino  a  qual  punto  possa  con- 
venirne la  applicazione  ai  vigneti  italiani. 

In  Germania  ed  in  Austria- Ungheria  la  viticoltura  e  1!  enologia 
progrediscono  pure  rapidamente,  per  opera  specialmente  di  Metzger 
(1827,  Ber  Rheinische  Weinbau,  la  Viticoltura  Renana)  e  dei  con- 
temporanei Barone  di  Babo  (Direttore  dell'Istituto  Enologico  di  Klo- 
sterneuburg  presso  Vienna),  A.  Blankenhorn  a  Carlsruhe  ed  altri. 
E  progredisce  pure  in  Ispagna  ed  in  Portogallo  ove  si  pubblicano 
buoni  giornali  viticoli  ed  ottimi  trattati:  (Los  vinos  e  Cultivo  de  la 
vid,  Madrid,  D.  José  de  Hidalgo  Tablada  —  Gazeta  dos  Lavra- 
dores,  Lisboa,  A.  Batalha  Reis). 

Così  può  brevemente  riassumersi  la  storia  della  Vite  e  della  Viti- 
coltura, la  quale  ci  insegna  che  la  preziosa  ampelidea  fu  sempre  te- 
nuta in  gran  conto,  siccome  produttrice  della  migliore  fra  tutte  le 
bevande  alcooliche.  Senonchè  al  vino  fa  ora  concorrenza  la  birra, 
e  mentre  in  Europa  si  producono  annualmente  oggidì  circa  140  mi- 
lioni di  ettolitri  di  vino,  già  si  fabbricano  102  milioni  di  ettolitri  di 
birra;  questo  devesi  attribuire  in  parte  ai  malanni  che  colpirono  e 
colpiscono  la  viticoltura,  massime  all'oidio,  che  anni  addietro  aveva 


26  CAPITOLO  I 


fatto  salire  di  troppo  il  prezzo  del  vino,  cosicché  si  diffuse  l'uso  della 
birra  anche  negli  stessi  paesi  viniferi.  Giova  tuttavia  sperare  che, 
mercè  i  progressi  attuali  della  viticoltura  e  della  enologia,  potendosi 
offrire  buon  vino  a  prezzi  discreti,  si  diffonda  sempre  più  V  uso  di 
questa  salutare  bevanda^  onde  Bacco  abbia  sempre  a  prevalere  su 
Gambrino  ! 


CAPITOLO  II 


Geografìa  della  vite, 


§  2.  Limiti  della  coltura  della  vite  —  §  3.  Coltura 
della  vite  oltre  i  limiti  meteorologici  —  §  4.  La  regione  della  vite  e  le  iso- 
termiche —  §  5.  L'altitudine  e  la  viticoltura  —  §  6.  L'esposizione,  la  vicinanza 
delle  acque,  le  pioggie  ed  altre  cause  che  influiscono  sulla  stazione  della  vite. 


§.  1.  La  regione  della  vite.  —  Le  differenti  piante  coltivate 
occupano  sulla  superfìcie  del  globo  regioni  diverse,  delimitate  spe- 
cialmente dalie  condizioni  meteorologiche  alle  quali  si  trovano  sog- 
gette le  regioni  stesse.  I  così  detti  limiti  economici ,  statistici  ed 
agricoli  delle  culture  hanno  certamente  una  speciale  influenza  sulle 
leggi  che  regolano  la  geografia  agricola;  e  così,  il  prezzo  di  vendita 
del  vino,  le  spese  di  cultura  della  vite  di  fronte  alla  maggiore  o 
minor  deficienza  di  operai  rurali,  la  viabilità,  la  concorrenza  di  zone 
vitifere  meglio  favorite  dalla  natura,  la  densità  della  popolazione,  i 
sistemi  di  conduzione  dei  fondi  e  via  dicendo,  possono  modificare  al- 
quanto i  limiti  delle  regioni  agricole;  ma  è  evidente  che  la  loro  in- 
fluenza è  passeggera,  laddove  quella  delle  condizioni  meteorologiche 
è  costante,  cosicché  si  può  affermare  essere  oggidì  la  regione  della 
vite  quella  stessa  dei  tempi  antichi,  vale  a  dire  che  il  clima  per- 
mette attualmente  la  cultura  della  vite  ovunque  la  permetteva  quando 
fu  coltivata  per  la  prima  volta  in  Europa.   (V.  §  6). 

Gli  agronomi  quindi,  nel  descrivere  le  regioni  culturali,  si  sogliono 
basare  essenzialmente  sui  limiti  meteorologici;  essi,  facendo  astrazione 
dai  luoghi  elevati  e  da  quelli  il  cui  clima  è  modificato  dalla   irriga- 


28  CAPITOLO  II 


zione,  dividono  l'Europa  in  tre  parti:  —  al  sud-est  ed  al  sud  (Italia, 
Francia  Meridionale  e  Spagna)  predominano  gli  alberi  e  gli  arbusti; 
al  nord-est  ed  al  nord  (Europa  centrale)  si  trovano  di  preferenza  le 
culture  erbacee;  e  più  al  nord  ancora  (Europa  settentrionale)  pre- 
dominano le  foresti  o  i  vegetali  legnosi. 

Si  è  nella  prima  di  queste  tre  grandi  divisioni  che  noi  troviamo 
la  regione  della  vite,  con  quella  dell'olivo;  quest'ultima  però  ha  li- 
miti più  ristretti,  mentre  la  prima  occupa  in  Europa  una  immensa 
zona  compresa  a  poco  presso  fra  il  30°  ed  il  50°  grado  di  latitudine 
settentrionale,  ove  il  clima  è  temperato  e  perciò  favorevole  alla  pro- 
duzione di  uva  avente  le  qualità  richieste  per  gli  usi  enologici  ed 
alimentari. 

§  2.  Limiti  della  coltura  della  vite.  —  Non  bisogna  però 
credere  che  la  regione  della  vite  in  Europa  sia  esattamente  delimi- 
tata dai  due  paralleli  boreali  (vale  a  dire  dell'  emisfero  nord)  che 
passano  rispettivamente  pei  gradi  30°  e  50°  di  latitudine;  questo  ac- 
cadrebbe qualora  non  esistessero  cause  capaci  di  modificare  il  clima, 
fra  cui  prima  l'altitudine,  ossia  l'altezza  sul  livello  del  mare:  invece 
tanto  la  linea  che  segna  il  limite  polare  quanto  quella  che  segna  il 
limite  equatoriale,  sono  assai  irregolari  e  coincidono  solo  per  brevi 
tratti  coi  suddetti  paralleli. 

Ma  noi  non  vogliamo  delimitare  soltanto  la  regione  della  vite  in 
Europa;  vogliamo  invece  considerare  la  regione  stessa  nella  sua  po- 
situra sull'intera  superficie  della  terra:  in  allora  ognuno  vede  che 
questa  immensa  regione  viene  ad  essere  attraversata  dalla  linea  equa- 
toriale. Ciò  essendo,  si  presenta  la  quistione  se  anche  sotto  l'equatore 
la  vite  possa  prosperare  e  se,  in  caso  negativo,  la  regione  mondiale 
della  vite  non  consti  di  due  grandi  distretti,  quasi  diremmo  due  cinture , 
l'una  neh'  emisfero  nord,  sopra  la  zona  torrida,  l'altra  nell'emisfero 
sud,  al  mezzodì  della  stessa  zona,  lasciando  sotto  la  linea  equatoriale 
un  distretto  intermediario  ove  la  vite  non  può  prosperare. 

Abbiamo  esaminato  accuratamente  la  delicata  quistione  (1)  e  siamo 
giunti  alla  conclusione  che,  secondo  tutte  le  probabilità,    la    regione 


(1)  Ci  rivolgemmo  eziandio  per  aiuto  e  consiglio  all'illustre  e  dotto  geografo 
Dr.  Luigi  Hugues,  già  nostro  amato  maestro,  il  quale  ci  fu  largo  di  suggeri- 
menti, mettendo  a  nostra  disposizione  la  sua  importante  biblioteca.  Gli  rendiamo 
qui  pubbliche  azioni  di  grazie. 


GEOGRAFIA  DELLA  VITE  29 

della  vite  non  può  essere  costituita  da  un  solo  immenso  distretto  com- 
preso fra  i  due  limiti  polari  dell'  emisfero  nord  e  dell'  emisfero  sud, 
tuttoché  alcuni  distinti  geografi  siano  di  contrario  avviso.  Meyen,  ad 
esempio,  sta  fra  costoro;  egli  dice  che  per  quanto  si  riferisce  al  mas- 
simo calore  sotto  la  di  cui  influenza  l'uva  può  maturare,  crede  di  poter 
affermare  che  ciò  può  avvenire  sotto  qualunque  calore  tropicale, 
purché  esso  non  vada  disgiunto  da  un  certo  grado  di  umidità.  Ma 
Berghaus  (1)  a  proposito  della  umidità  e  della  sua  influenza  sul- 
l'uva, giustamente  obbietta  essere  noto,  fatta  astrazione  da  che  la 
vite  ama  luoghi  asciutti,  come  già  nei  nostri  climi  le  piogge  persi- 
stenti nuociono  ai  grappoli;  or  quanto  più  nocevoli  non  dovranno 
adunque  essere  le  torrenziali  piogge  dei  paesi  tropicali?  Si  è  intro- 
dotta la  vite  nella  Guiana,  ma  il  tentativo  non  ebbe  alcun  risultato, 
inquantochè  nella  stagione  piovosa  i  grappoli  marcirono,  ed  in  quella 
asciutta  furono  distrutti  dagli  insetti. 

Humboldt,  Buch  e  Schow  non  sono  dell'avviso  di  Meyen,  e  cre- 
dono con  Berghaus  che  il  distretto  di  diffusione  della  vite  formi, 
come  dicevamo  poc'anzi,  due  cinture  sopra  ambo  i  lati  della  zona 
torrida.  H.  Wagner  (2)  è  pure  di  questo  avviso:  «  in  generale, 
dice  egli,  la  viticoltura,  che  predilige  un  clima  continentale  con  ca- 
lori estivi  intensi,  quantunque  anche  solo  di  breve  durata  (3),  oltre- 
passa appena  il  51°  parallelo  nord,  ed  anzi  nella  Russia  Meridionale 
il  limite  polare  si  abbassa  sino  al  parallelo  48°:  intimamente  colle- 
gata colla  zona  torrida,  questa  coltivazione  giunge  al  suo  punto  più 
meridionale  nelle  Canarie  (28°  N.)  facendo  però  astrazione  di  certi 
distretti  tropicali  isolati,  nei  quali  la  vite  può  ancora  prosperare  so- 
lamente a  considerevole  altezza  sui  fianchi  di  sollevamenti  monta- 
gnosi »;  e  questa  è  un'altra  prova  della  grande  influenza  che  eser- 
cita l'altitudine  sul  clima  d'una  data  località. 

Sin  qui  abbiamo  accennato  alle  opinioni  dei  geografi;  aggiungeremo 
ora  dal  canto  nostro,  siccome  viticultori,   che  nel   distretto   che  di- 


(1)  Allgemeine  Lànder  und  Vólcherkunde,  voi.  Ili,  pag.  229  e  256. 

(2)  Gute's  Lehrbuch  der  Geographie  neu  bearbeitet  von  H.  Wagner.  —  Fùnfte 
Aufgabe  (voi.  I,  pag.  121). 

(3)  Noteremo  però,  a  proposito  di  quanto  qui  dice  Wagner,  che  in  questo  caso 
l'uva  non  riesce  di  qualità  pregiata  come  quando  la  somma  dei  gradi  di  calore 
che  le  occorre,  le  viene  somministrata  durante  un  periodo  di  tempo  più  lungo, 
però  entro  certi  limiti  (v.  Meteorologia  applicata  alla  vite). 


30  CAPITOLO  II 


remo  equatoriale,  e  propriamente  nella  zona  torrida  dove  si  verifi- 
cano le  calme  equatoriali  e  tropicali  con  piogge  quasi  continue,  la  vite 
non  è  possibile  possa  fornirsi  di  gemme  fiorifere,  né  quindi  fruttificare, 
sempre  fatta  eccezione  di  speciali  condizioni  di  altitudine,  come  or'ora 
notammo  con  Wagner.  Infatti,  dietro  le  numerose  osservazioni  fatte 
in  Francia  da  Gasparin,  colle  quali  concordano  quelle  decennali  da 
noi  fatte  in  Italia  (1),  crediamo  di  poter  stabilire  che  la  vite  richiede 
un  calore  crescente  per  gradi  a  partire  dal  momento  della  germo- 
gliazione  e  venendo  a  quello  della  maturazione  dell'  uva;  un  calore 
soverchio  e  quasi  diremmo  subitaneo  non  è  punto  confacente  alla 
fruttificazione  della  vite,  ma  solo  alla  produzione  della  parte  erbacea, 
nella  stessa  guisa  che  l'umidità  soverchia  fa  abortire  i  grappolini  na- 
scenti, mutandoli  in  cirri:  le  vicende  di  temperatura  aventi  per  li- 
miti minimi  9°  o  10°  C.  al  momento  della  germogliazione  e  17°  a  20°  al 
momento  della  fioritura  (a  seconda  della  maggiore  o  minore  preco- 
cità delle  specie)  sono  indispensabili  alla  vite,  ed  è  appunto  perchè 
la  zona  temperata  (35°-47°  lat.  n.)  offre  queste  condizioni  di  tem- 
peratura che  la  vite  trova  in  essa  la  sua  principale  e  più  conve- 
niente stazione.  Ora,  ognuno  intende  facilmente  come  il  clima  tropi- 
cale, colle  sue  pioggie  non  interrotte  per  parecchi  mesi  e  col  suo 
straordinario  calore,  pure  continuato  per  lunghi  mesi,  senza  vicende, 
quasi  diremmo  senza  gradazioni,  debba  contrariare  seriamente  la 
vite,  favorendo  se  si  vuole  un  grande  sfarzo  di  vegetazione  erbacea, 
ma  inceppando  necessariamente  la  fruttificazione.  Noi  pensiamo  quindi 
che  la  zona  torrida  costituisca  un  distretto  ove  assolutamente  la  vite 
non  può  fruttificare,  perocché  nelle  regioni  equatoriali  le  stagioni 
quasi  non  presentano  differenze  riguardo  alla  temperatura,  che  d'al- 
tronde vi  è  altissima  (in  media  28°  C.  per  i  punti  dell'equatore),  e 
d'altra  parte  le  pioggie  cadono  quasi  senza  interruzione  per  sei  mesi, 
dall'aprile  all'ottobre,  come  accade  in  Africa  nelle  regioni  fra  l'equa- 
tore ed  il  tropico  del  Cancro,  e  nell'America  equatoriale  al  nord  della 
linea,  ove,  a  detta  di  Humboldt,  il  cielo  è  sereno  soltanto  da  dicembre 
a  febbraio,  mentre  dal  marzo,  e  meglio  dall'  aprile  al  novembre,  le 
pioggie  sono  quasi  continue  e  torrenziali,  di  giorno  almeno,  mentre 
di  notte  il  cielo  si  fa  generalmente  sereno. 

Vediamo  ora  di  segnare  i  due  limiti  polari  del  distretto  di  dif- 


(1)  V.  Meteorologia  applicata  alla  vite. 


GEOGRAFIA  DELLA  VITE  31 

fusione  della  vite  (V.  la  Carta  (1)  in  fine  del  presente  volume);  rima- 
nendo stabilito  che  man  mano  ci  avviciniamo  all'equatore,  il  quale  come 
è  noto  attraversa  per  mezzo  la  zona  torrida,  la  vite  verosimilmente 
tende  sempre  più  ad  una  vegetazione  puramente  erbacea,  senza  produ- 
zione fruttifera:  questo  distretto  tropicale  della  vite  non  ci  è  stato 
possibile  di  delimitarlo  esattamente,  ed  abbiamo  perciò  preferito  di 
nulla  segnare  sulla  Carta  anziché  condurre  linee  arbitrarie. 

a)  Limite  polare  nord.  La  immensa  zona  della  vite  è  limitata 
verso  il  polo  artico,  o  boreale,  da  una  linea  la  quale  partendo  dalla 
costa  dell'Atlantico  presso  la  città  di  Vannes  (lat.  47°  40')  si  svi- 
luppa nella  direzione  di  sud-est,  segue  la  riva  sinistra  della  Loire 
inferiore  da  Nantes  ad  Angers,  donde  procede  a  nord-est  sino  a 
Beauvais  nel  dipartimento  della  Oise  (lat.  49°  30')  e  quindi  a  est- 
nord-est  sino  a  Laon  nel  dipartimento  dell' Aisne  (lat.  49°  33'). 

Da  questo  luogo  il  limite  polare  nord  mantiene,  sino  a  Thionville 
sulla  Mosella,  una  direzione  che  poco  si  allontana  da  quella  dei  pa- 
ralleli; discende  la  valle  della  Mosella  sino  alla  sua  imboccatura  nel 
Reno  a  Coblenza  e  poi  la  valle  del  Reno  sino  al  disotto  della  città 
di  Bonn  (50°  46').  Lungo  la  destra  del  Reno,  risalendo  il  fiume,  il 
limite  giunge  alla  confluenza  del  Meno  (quivi  nel  Rheingau,  si  hanno 
i  migliori  vini  tedeschi);  esso  fiancheggia  poi  la  riva  nord  (destra) 
del  Meno  passando  per  Asciaffenburgo  e  Wùrzburgo.  Al  di  là  della 
Selva  Turingia,  e  nelle  regioni  centrali  della  Germania,  la  coltura 
della  vite,  come  industria  agricola,  si  presenta  solo  in  alcuni  luoghi 
isolati;  ciò  ad  esempio  nella  valle  della  Werra  (ramo  superiore  del 
Weser)  alla  latitudine  di  51°  20'.  Il  limite  polare  nord  tocca  poi 
l'Elba  presso  la  città  sassone  di  Meissen  (lat.  51°  10'),  discende  il 
corso  del  medesimo  fiume,  giunge  all'Havel  (affluente  dell'Elba)  presso 
Potsdam  e  giunge  alla  sua  massima  latitudine  presso  Berlino  (52°  30'). 

Da  questo  punto  si  volge  a  sud-est  verso  F  Oder;  ma  più  lungi, 
verso  oriente,  si  avvicina  nuovamente  alla  linea  equinoziale,  di  guisa 
che  nell'Ungheria  viene  ad  oscillare,  come  nella  Francia  Occidentale» 
tra  il  48°  ed  il  49°  lat.  nord;  nella  Bucosina,  ad  oriente  dei  Car- 
pazi, il  limite  è  compreso  tra  le  latitudini  di  47°  e  48°,  e  si  è  nella 
Moldavia,  presso  la  piccola  città  di  Cotnar  (lat.  47°  Ij2)  che  si  rac- 


(1)  Ringraziamo  qui  nuovamente  il  prefato  Dott.  L.  Hugues,  che  ci  porse 
grande  aiuto  nelle  ricerche  fatte  per  stabilire  questi  limiti,  nonché  il  suo  distinto 
allievo,  che  disegnò  la  Carta  coi  limiti  polari  e  le  isoterme, 


32  CAPITOLO  II 


coglie  uno  fra  i  migliori  vini  ungheresi,  tale  da  essere  preferito  al 
famoso  Tokay.  Tutta  la  parte  meridionale  della  Russia  è  compresa 
nella  zona  della  vite;  così  la  Bessarabia,  i  governi  di  Kherson  e  di 
Iekaterinoslaw,  la  Tauride,  il  paese  dei  Cosacchi  del  Don,  una  parte 
del  governo  di  Saratow  sul  Volga  ed  il  governo  di  Astracan.  In 
queste  ultime  parti  della  Russia  pare  che  il  limite  nord  della  vite 
si  avanzi  nuovamente  verso  settentrione  sino  alla  latitudine  appros- 
simativa di  50°. 

Non  possiamo  fissare  con  sicurezza  il  limite  polare  nord  della  vite 
attraverso  il  continente  asiatico:  secondo  la  carta  13a  del  nuovo  a- 
tlante  geografico  dei  signori  Diercke  e  Gaebler,  esso  attraversa  la 
parte  nord-est  del  lago  di  Arai,  giunge  al  bacino  sorgentifero  del 
Syr-Darja,  percorre  V  Asia  centrale  poco  al  nord  del  parallelo  40°, 
quindi  le  provincie  della  Cina  al  nord  del  Fiume  Giallo,  la  parte  sud 
della  Corea  e  dell'isola  Nippon  (Giappone).  Al  di  là  dell'Oceano  Pa- 
cifico entra  nell'  America  settentrionale  lasciando  a  Mezzogiorno  la 
terza  parte  circa  della  California,  d'onde  si  avanza  alcun  poco  al 
nord,  lambisce  le  rive  meridionali  dei  laghi  Michigan  ed  Erie  ed  ab- 
bandona l'America  settentrionale  verso  la  latitudine  di  41°.  Cosi,  nella 
parte  nord  dell'America  settentrionale  il  limite  boreale  della  vite  o- 
scilla  tra  le  latitudini  di  38°  e  41°.  Infine  nell'Oceano  atlantico  il  li- 
mite popolare  nord  lascia  a  mezzodì  l'arcipelago  delle  Azorre,  che 
è  un  importante  centro  vinicolo. 

b)  Limite  polare  sud.  La  linea  che  segna  il  limite  meridio- 
nale o  australe  parte  dal  Capo  di  Buona  Speranza  e  si  volge  ad 
est-sud-est,  lascia  al  nord  la  Tasmania,  1'  Australia  e  la  Nuova  Ze- 
landa, attraversa  il  Pacifico  deviando  verso  nord-est,  entra  nell'A- 
merica meridionale  poco  al  nord  del  40°  parallelo,  e  percorre  questa 
parte  del  mondo  da  occidente  ad  oriente,  abbandonandola,  sotto  la 
medesima  latitudine,  alquanto  a  mezzogiorno  del  Rio  de  la  Piata. 

e)  Limite  meridionale  deU emisfero  nord.  Per  chi  desiderasse 
conoscere  almeno  approssimativamente  il  limite  sud  della  regione 
della  vite  nell'emisfero  artico  o  boreale,  vale  a  dire  al  nord  dell'e- 
quatore, diremo  brevemente  che  esso  potrebbe  rappresentarsi  mediante 
una  linea  che  comprendesse  la  costa  settentrionale  dell'Africa,  coinci- 
dendo per  un  certo  tratto  col  30°  di  latitudine  settentrionale;  essa 
attraverserebbe  poscia  l'Arabia  da  nord  a  sud  e  verrebbe  a  coinci- 
dere, con  una  certa  regolarità,  col  tropico  del  Cancro,  il  quale,  come 
è  noto,  segna  il  limite  settentrionale  della  zona  Torrida;  e  proseguendo 


GEOGRAFIA  DELLA  VITE  33 


così  sino  all'Indostan;  quindi  si  abbasserebbe  circa  al  20°,  per  poi  risa- 
lire sopra  Calcutta  e  tenere  di  nuovo  la  linea  del  tropico  del  Cancro 
a  traverso  la  Cina  meridionale. 

§.3.  Coltura  della  vite  oltre  i  limiti  meteorologici.  — 

Lo  avere  segnato,  nel  precedente  paragrafo,  i  limiti  della  viticultura, 
non  vuol  già  significare  che  oltre  quelle  linee  sia  assolutamente  im- 
possibile coltivare  la  vite.  Nei  paesi,  ad  esempio,  situati  oltre  il  limite 
settentrionale  ciò  è  possibile  in  alcune  felici  esposizioni  a  mezzogiorno, 
su  colline  più  o  meno  ripide,  ove  1'  esposizione  rende  il  clima  del 
luogo  più  meridionale;  gli  è  ciò  che  si  fa  ad  esempio  su  certi 
versanti  meridionali  delle  colline,  che  si  trovano  lungo  il  corso 
capriccioso  della  Mosa,  ove  si  contano  189  ettari  vitati,  tutti  nella 
provincia  di  Liegi.  Diremo  tuttavia  che  colà  la  maturazione  delle  uve 
vi  è  incerta  e  riesce  ad  un  certo  grado  di  perfezione  soltanto  nelle 
annate  molto  favorevoli;  la  vendemmia  vi  si  fa  generalmente  nella 
seconda  quindicina  dell'ottobre,  quando  però  il  freddo  invernale  non 
abbia  distrutto  totalmente  od  in  grande  parte  il  raccolto,  assiderando 
le  gemme  ascellari.  Questi  vigneti  scomparirebbero  di  certo  se  fosse 
resa  agevole  la  importazione  del  vino  nel  Belgio,  laddove  ora  è  colpita 
col  grave  diritto  di  accisa  di  L.  23  all'  ettolitro  :  diremo  anzi  che 
se  si  è  tentata  e  si  tenta  tuttodì  la  coltivazione  della  vite  in  paesi 
situati  oltre  i  limiti  della  zona  or  ora  studiata,  si  è  principalmente 
perchè  una  improvvida  ed  ostruttiva  legislazione  doganale  vi  inceppa 
e  spesso  vi  impedisce  affatto  l'importazione  del  vino  con  dazii  che 
oscillano  dalle  30  lire  (Inghilterra  e  Germania)  alle  58  (Russia  e 
Stati  Uniti  d' America)  per  ogni  100  chilogr.  di  vino  usuale  da 
pasto  (1).  Così  si  protegge  la  produzione  della  birra,  ed  indirettamente 
si  favorisce  l'alcoolismo  con  grave  detrimento  della  salute  pubblica  ! 
Anche  in  Inghilterra  (a  parte  la  coltura  nelle  serre  o  graperies) 
si  tentò  la  cultura  della  vite  in  pien  campo,  nella  grande  vallata  di 
Glocester;  ma  vi  si  dovette  rinunciare  da  moltissimo  tempo,  special- 
mente per  la  incertezza  e  la  cattiva  qualità  del  prodotto,  dovute 
alla  deficienza  di  calore. 


(1)  Più  esattamente  L.  27,50  (Inghilterra)  L.  30  (Germania)  L.  42  (Olanda)  L  62 
(Russia)  L.  58  (Stati  Uniti)  pei  vini  di  botte.  I  vini  in  bottiglie  sono  colpiti 
anche  più  duramente!  (V.  la  nostra  opera  Enologia  teorico-pratica,  Statistica  del 
Comm.  internazionale  pag.  677). 

O.  Ottavi,   Trattato  dì.    Viticoltura.  4 


34  CAPITOLO  II 


Ma  non  sono  unicamente  le  condizioni  climatiche  che  influiscono 
sulla  maggiore  o  minore  diffusione  della  viticultura;  è  innegabile  che 
il  modificarsi  e  perfezionarsi  dei  gusti  ha  reso  affatto  deprezzati  certi 
vini  che  un  tempo  si  ritenevano  bevibili;  ond'è  che  dai  paesi  che  li 
producevano  oggi  è  affatto  scomparsa  la  coltura  della  vite.  Peschel 
(Physische  Erdkunde,  II  pag.  190  e  seg.)  accenna  a  questo  fatto 
considerando  specialmente  la  viticultura  nel  Medio  Evo.  «  A  provare, 
dice  egli,  una  diminuzione  della  temperatura,  si  adduce  il  fatto  che 
nel  Medio  Evo  la  coltura  della  vite  era  molto  più  estesa  verso  il 
nord  di  quanto  lo  sia  oggidì:  ma  non  si  debbe  precipitare  nelle  con- 
clusioni, giacche  la  riuscita  della  vite  dipende  da  molti  fattori,  anche 
non  climatici.  La  viticoltura  potè  estendersi  in  un  vasto  distretto  della 
Germania  settentrionale,  sino  a  tanto  che  si  poneva  maggior  atten- 
zione alla  fragranza  {bouquet)  dei  vini  che  non  alla  dolcezza  loro. 
Relazioni  di  antichi  cronacisti  dicono  espressamente  che  in  certi  anni 
particolarmente  caldi  il  prodotto  della  vite  Della  provincia  di  Prussia 
(Kònigsberg,  Danzica)  aveva  alcun  poco  perduto  della  sua  abituale 
asprezza.  Evidentemente  questa  notizia  nulla  dice  relativamente  al 
clima  ma  solamente  allude  ai  palati  poco  delicati  dei  tedéschi.  Col 
progressivo  raffinamento  del  palato  la  viticoltura  si  limitò  a  quei 
distretti  che  davano  un  frutto  saporito.  Il  nessun  valore  dei  vini 
aspri  fu  così  l'unica  cagione  per  cui  la  viticoltura  decadde  più  tardi 
in  molti  luoghi.  Anche  la  Picardia,  la  Bretagna,  la  Normandia  e 
l'Inghilterra  avevano  nel  Medio  Evo  grandi  piantagioni  di  viti;  ma 
quelle  uve  non  erano  sicuramente  migliori  delle  prussiane.  Con  ra- 
gione osserva  il  Martins:  se  nel  secolo  XIII  si  tenevano  per  cose 
delicate  le  cornacchie,  le  cicogne,  ecc.  perchè  mai  non  si  dovevano 
bere  con  soddisfazione  anche  i  vini  aspri?  » 

§  4.  La  regione  della  vite  e  le  isotermiche.  —  È  noto  che 
chiamansi  isoterme  o  isotermiche  (1-)  certe  linee  le  quali,  sulle  carte 
geografiche,  si  conducono  per  i  punti  della  terra  che  hanno  la  me- 
desima temperatura  media  annuale:  chiamansi  poi  isotere  o  isote- 
ì-iehe  quelle  che  vengono  tracciate  per  le  località  aventi  la  mede- 
sima temperatura  media  estiva;  isochimene  o  isochimeniche  quelle 


(1)  Humboldt  fu  quegli  che  pel  primo  imaginava  di  condurre  le  linee  isoter- 
miche pei  differenti  punti  del  globo  aventi  la  stessa  temperatura  media,  consi- 
derata però  al  livello  del  mare. 


GEOGRAFIA  DELLA  VITE  35 

le  quali  passano  pei  paesi  aventi  una  uguale  temperatura  media  in- 
vernale; ed  infine  è  detto  equatore  termico  o  di  calore  la  linea 
condotta  per  i  punti  che  hanno  la  massima  temperatura  media  an- 
nuale (1). 

Tutte  queste  linee,  come  si  può  vedere  nella  Carta  unita  a  questo 
libro,  sono  molto  irregolari;  e,  massime  nell'  emisfero  boreale,  non 
coincidono  menomamente  coi  paralleli,  in  altri  termini  non  sono  pa- 
rallele alla  linea  equatoriale.  Anche  le  linee,  che  abbiamo  tracciate 
per  segnare  i  limiti  polari  della  coltura  della  vite,  sono  a  loro  volta 
assai  irregolari;  ora,  tutto  ciò  vuol  dire  che  esistono  gravi  cause  le 
quali  modificano  il  clima  in  guisa  tale,  che  l'avere  due  o  più  loca- 
lità la  stessa  latitudine,  non  vuol  dire  che  abbiano  la  stessa  tempe- 
ratura media.  Pure  ammettendo  infatti  la  grande  influenza  della  la- 
titudine, conviene  anche  tener  calcolo  dell'altitudine,  di  cui  ci  occu- 
peremo or'ora  in  modo  speciale,  della  esposizione,  della  inclinazione, 
dei  venti  dominanti,  delle  correnti  marine,  ora  fredde  ora  calde,  delle 
pioggie  più  o  meno  frequenti  ed  abbondanti,  della  vicinanze  del  mare, 
il  quale  agisce  come  moderatore  dei  climi  ardenti,  della  natura  del 
suolo,  e  via  dicendo. 

Se  ora  ci  facciamo  ad  esaminare  ed  a  raffrontare  fra  di  loro  quelle 
fra  le  linee  isotermiche,  isotere  ed  isochimeniche,  le  quali  passano  pei 
paesi  ove  prospera  e  fruttifica  la  vite,  ci  sarà  agevole  dedurre  quali 
siano  le  temperature  medie  annuali,  invernali  ed  estive  che  sono  in- 
dispensabili alla  medesima.  Ecco  riassunti  nel  seguente  quadro  al- 
cuni dati  a  questo  proposito  (2): 


Temp.  annuale 

Mese  più 

freddo 

Mese  più  caldo 

(media) 

(temp.  media) 

(temp.  media) 

Nantes 

12°,6  C. 

20°,3  C. 

Parigi 

10°,8 

1°,9 

c. 

18°,7 

Colonia 

10°,1 

1°,6 

18°,5 

Coblenza 

10°,5 

2°,5 

18°,4 

Dresda 

9°,2 

—  0°,3 

18°,5 

Cracovia 

8°,4 

—  4°,5 

* 

19°,4 

(1)  Dicesi  zona  isotermica  lo  spazio  compreso  tra  due  curve  isoterme:  i  meteo- 
rologisti ne  distinguono  sette. 

(2)  Questi  dati  termometrici  sono  tratti  dall'opera  Allgemeine  Erdkunde  di  Hann. 
Hochstetter  e  Pokorny  (3a  ediz,  pag.  77  e  78). 


36 

CAPITOLO  II 

Odessa 

9°,5 

—  2°,2 

21°,3 

Sarepta 

7°,5 

— 10°,6 

23°,9 

Pechino 

11°,8 

—  4°,6 

26°,  1 

Boston 

8U,6 

—  3°,9 

21°,8 

Città  del 

Capo 

19°,1 

14°,3 

24°,4 

Valparaiso 

14°, 5 

12°,2 

17°,2 

Buenos 

Aires 

17%2 

10°,4 

24°,3 

Tutte  queste  stazioni  non  si  trovano  precisamente  lungo  la  linea 
limite  della  coltura  della  vite,  ma  se  ne  allontanano  di  poco,  alcune 
verso  il  nord,  altre  verso  il  sud;  per  esempio  Valparaiso  e  Buenos 
Àyres  trovansi  un  po'  al  nord  del  limite  polare  dell'emisfero  sud. 
Intanto  l'esame  di  questo  quadro  ci  permette  di  conchiudere,  che  alla 
fruttificazione  della  vite  sono  necessarie  una  temperatura  media  an- 
nuale non  inferiore  a  7°  C,  ed  una  temperatura  massima  (cioè  la 
media  temperatura  nel  mese  più  caldo)  di  almeno  17°  a  18°  C.  In 
quanto  alla  temperatura  media  del  mese  più  freddo,  si  vede  che  la 
vite  resiste  anche  ad  alcuni  gradi  sotto  lo  zero,  senza  che  i  suoi 
tessuti  subiscano  una  disorganizzazione  e  che  ne  periscano  assiderate 
le  gemme  fruttifere,  provvidenzialmente  protette  da  squame  più  o 
meno  cotonose;  ma  non  bisogna  scordare  che  soltanto  alcuni  vitigni 
vi  resistono,  e  che  d'altra  parte  in  alcuni  luoghi,  ove  la  media  tem- 
peratura invernale  si  abbassa  di  molto,  si  è  costretti  a  ricoprire  le 
viti  con  terra;  la  qual  cosa  accade  specialmente  ove  al  freddo  si  ac- 
coppia un  certo  grado  di  umidità,  per  cui  i  tessuti  delle  viti  sono 
relativamente  ricchi  di  succhi  e  quindi  più  soggetti  ai  danni  del  gelo 
e  del  disgelo.  È  un  fatto  però,  che  la  vite  resiste  al  gelo  meglio  di 
molti  altri  vegetali,  e  che  quando  il  terreno  è  coperto  di  neve,  può 
sopportare  anche  10°  o  12°  sotto  lo  zero. 

La  temperatura  media  estiva  bisogna  raggiunga  almeno  i  17°  C. 
senza  di  ciò,  quand'anche  il  clima  locale  fosse  temperato,  la  vite  non 
potrebbe  condurre  a  maturità  i  suoi  frutti:  gli  è  quanto  accade  ad 
esempio  in  Irlanda  e  sulle  coste  meridionali  dell'Inghilterra,  ove  do- 
mina bensì  un  clima  temperato,  il  quale  permette  la  coltivazione  in 
piena  terra  della  camelia,  del  mirto  e  della  fucsia,  ma  non  quella 
della  vite,  del  ciliegio  e  di  altre  piante  da  frutto.  Il  Devonshire,  ad 
esempio,  ed  il  Rheingau  hanno  ad  un  dipresso  la  medesima  tempera- 
tura media  annuale  (11°  C.)  ma  non  sono  tagliati  dalle  stesse  linee 
isoteriche  ed  isochimeniche:  il  mite  inverno  del  Devonshire  (6°,2  C.) 


GEOGRAFIA  DELLA  VITE  37 

permette,  come  dicevamo,  i  mirti  all'aperto,  laddove  nel  Rheingau 
sarebbero  soggetti  a  gelo;  per  contro  la  calda  estate  del  Rheingau 
conduce  a  maturazione  i  frutti  della  vite,  pianta  che  nel  Devonshire 
per  la  mancanza  di  calore  (media  temp.  estiva  =  15°  C.)  non  giunge 
a  maturazione.  Anche  nella  Normandia  e  nella  Bretagna  succede 
lo  stesso  (1). 

Per  stabilire  pertanto  in  quali  paesi  possa  convenevolmente  vege- 
tare e  fruttificare  la  vite,  è  necessario  sovratutto  di  esaminare  le  linee 
isoteriche,  che  ci  danno  la  media  del  calore  estivo;  e  ciò  è  tanto 
vero  che  l'isoterica  passante  pei  punti  i  quali  hanno  la  temperatura 
media  estiva  di  17°,  coincide  fino  ad  un  certo  punto  col  limite  po- 
lare nord  della  vite. 

Invece  l'esame  delle  linee  isochimeniche  ci  apprende  che  il  consi- 
derare esclusivamente  la  media  temperatura  invernale  non  costituisce 
un  giusto  ed  attendibile  criterio  per  delimitare  la  regione  della  vite:  la 
isochimenica,  ad  esempio,  la  quale  passa  pei  punti  della  terra  segnanti 
la  media  temperatura  di  0°,  temperatura  che  la  vite  può  sempre 
sopportare,  presenta  curve  assai  pronunciate,  che  uniscono  paesi, 
in  cui  la  vite  non  potrebbe  neppure  vegetare,  con  altri  ove  essa  può 
condurre  a  perfetta  maturazione  i  suoi  frutti.  Accade  lo  stesso  della 
isochimenica  di  4°  C.  che  taglia  l'Irlanda,  ove  non  sonovi  viti,  e  poi, 
abbassandosi  rapidamente  verso  sud,  taglia  la  Francia  e  l'Italia  set- 
tentrionale, ove  produconsi  ottimi  vini. 

Infine  riguardo  alle  linee  isotermiche,  le  quali  ci  guidano  per  le 
località  terrestri  che  hanno  la  stessa  temperatura  media  annuale, 
esse  pure  non  possono  fornirci  che  un  criterio  di  mediocre  impor- 
tanza per  quanto  concerne  la  stazione  della  vite;  infatti,  vi  sono 
paesi  che  si  assomigliano  riguardo  alla  temperatura  annuale,  mentre 
poi  differiscono  sensibilmente  rispetto  all'estate  ed  all'inverno,  d'onde 
vegetazioni  assai  differenti.  Gli  è  così  che  vediamo,  ad  esempio, 
prosperare  le  cereali  in  paesi  aventi  una  temperatura  media  annuale 
sufficiente  anche  alla  vite,  mentre  questa  non  vi  prospera,  per  la  ra- 
gione che  gli  inverni  vi  sono  troppo  rigidi;  ma  le  cereali  resistono 
assai  meglio  alle  basse  temperature,  purché  in  primavera  non  manchi 
un  certo  grado  di  caldo;  ed  è  perciò  che  la  zona  dei  cereali  è  limi- 
tata al  settentrione  da  una  linea  quasi  parallela  alle  isotere. 

Riassumendo  diremo,  che  gli  è  solo  dall'esame  simultaneo  delle  iso- 


(1)  Peschel.  Physische  Erdkunde  II  pag.  190. 


38  CAPITOLO  II 


tere  e  delle  isochimene  che  possono  trarsi  conclusioni  attendibili  sul- 
l'attitudine dei  varii  punti  della  superfìcie  terrestre  per  la  viticul- 
tura: si  trova  allora  anzitutto,  che  i  paesi  tagliati  dalle  isotere  di  17° 
o  18°  e  da  isochimene  non  troppo  discoste  da  0°,  producono  vini  in 
cui  abbondano  gli  acidi  vegetali  e  scarseggia  l'alcool,  eccezion  fatta 
per  speciali  esposizioni  a  solatìo;  e  che  le  regioni  più  rinomate  per 
la  produzione  del  vino  sono  tagliate  da  isochimene  di  circa  4°  a  8° 
e  da  isotere  di  20°  a  25°:  questa  grande  differenza  fra  le  tempera- 
ture medie  invernali  ed  estive  giova  molto  alla  vite,  la  quale,  durante 
l'accrescimento  progressivo  della  temperatura  dai  9°  o  10°  ai  17°  o 
18°,  sviluppa  moderatamente  la  sua  parte  erbacea  e  può  poscia  frut- 
tificare, laddove  se  avesse  a  vegetare  soltanto  sotto  l'influenza  di  un 
elevato  calore,  si  coprirebbe  unicamente  di  rami  fronzuti  a  scapito 
dei  frutti,  oppure  presenterebbe  senza  interruzione  fiori  e  frutti  a  dif- 
ferenti stadii  di  maturità,  come  accade  in  alcuni  paesi  tropicali  là 
dove  la  temperatura  oscilla  intorno  ai  30°;  quivi,  persino  sullo  stesso 
grappolo  vedonsi  talvolta  acini  in  fiore,  acini  acerbi  ed  acini  maturi, 
perlocchè  è  impossibile  la  vinificazione. 

Infine  è  evidente  che  l'esame  delle  isotere  e  delle  isochimene  ci 
permette  di  stabilire,  con  molta  approssimazione,  confronti  interessanti 
fra  paesi  anche  lontanissimi  per  quanto  riguarda  non  solo  la  pos- 
sibilità di  coltivarvi  la  vite  e  ricavarne  il  frutto,  ma  altresì  la 
qualità  del  vino  che  vi  si  potrebbe  ottenere,  essendo  facile  con- 
frontarli coi  paesi  vinicoli  più  rinomati:  e  per  citare  un  esempio, 
paragonando  l'Europa  coli' Australia,  dall'  esame  delle  linee  suddette 
si  conclude  che  la  colonia  di  Victoria  è  tanto  adatta  alla  produzione 
del  vino  quanto  Bordeaux,  Bologna  e  Verona;  e  per  verità  già  si 
ottengono,  da  quei  vigneti  impiantativi  da  Europei,  buoni  vini  che 
vanno  sempre  più  perfezionandosi  (1). 

I  lettori,  esaminando  la  carta  annessa  al  presente  volume,  potranno 


(1)  Se  noi  ci  limitassimo  a  considerare  le  sole  isoterme,  come  fece  Enrico  Greff- 
rath,  uno  fra  i  migliori  conoscitori  dell'Australia,  vedremmo  la  colonia  di  Victoria 
posta  al  medesimo  livello  di  Marsiglia,  Bordeaux,  Bologna,  Nizza.,  Verona  e  Madrid, 
paesi  i  quali  differiscono  grandemente  per  le  qualità  dei  vini  che  vi  si  producono, 
siccome  differiscono  i  vini  del  Mezzodì  della  Francia  e  della  Spagna  da  quelli 
del  bordolese  (Médoc)  dell'Italia  Centrale  e  del  Veronese.  Ciò  dimostra  ancora  una 
volta  che  il  solo  esame  delle  temperature  medie  annuali  giova  a  poco,  sotto 
questo  riguardo:  l'alcoolicità,  per  esempio,  dipende  quasi  esclusivamente  dalla 
temperatura  media  estiva. 


GEOGRAFIA  DELLA  VITE 


39 


trarne  parecchie    altre    conseguenze   di  questo    genere,  e  fors'anche 
modificare  la  produzione,  quasi  diremmo  1'  essenza,  dei  loro  vigneti. 

§  5.  L'altitudine  e  la  viticoltura.  —  Abbiamo  già  accennato 
alla  influenza  esercitata  dall'altitudine,  o  altezza  sovra  il  livello  del 
mare,  sul  clima  d'una  determinata  località;  vogliamo  ora  entrare  in 
maggiori  dettagli,  considerando  1'  elevazione  ne'  suoi  rapporti  colla 
stazione  della  vite,  poiché  è  certo  che  la  latitudine  non  basta  per 
determinare  questa  stazione  stessa. 

Si  può  ritenere  che  per  ogni  365  metri  di  salita  sul  livello  del 
mare,  il  termometro  discende  approssimativamente  di  un  grado, 
più  o  meno  a  seconda  di  differenti  circostanze  ;  ond'  è  che  può 
benissimo  accadere  di  trovare  su  alte  montagne  un  clima  polare 
laddove  a'  loro  piedi  havvi  un  clima  tropicale:  Humboldt  al  livello 
del  mare  sotto  la  zona  torrida  trovò  -\~  27°,5  ed  a  5000  metri  di 
elevazione  soli  -f~  1°>5;  in  altre  esplorazioni  trovò  alle  falde  del- 
l'Oceano Pacifico  -\~  25°,3  e  sulla  vetta  del  Chimborazo  (metri  6421) 
—  1°,6.  La  ragione  di  questa  differenza  sta,  come  è  noto,  in  ciò, 
che  l'aria  mano  mano  che  ci  innalziamo  va  facendosi  sempre  meno 
densa,  onde  viene  sempre  meno  riscaldata  dai  raggi  solari  e  solo 
riceve  una  certa  quantità  di  calore  riverberato  dalla  terra;  il  calore 
del  sole  si  rende  allora  in  gran  parte  latente,  e  da  ciò  proviene  la 
diminuzione  della  temperatura. 

Ma  non  è  possibile,  considerando  unicamente  l'altitudine,  stabilire 
a  quanti  metri  sul  livello  del  mare  possa  utilmente  coltivarsi  la  vite; 
è  evidente  che  conviene  anche  tenere  calcolo  della  latitudine:  si  trova 
allora  che  quanto  più  cresce  la  latitudine,  tanto  più  diminuisce  l'al- 
titudine conveniente  alla  vite.  Ad  esempio,  confrontando  fra  di  loro 
varii  paesi  d'Europa,  si  ha: 


Nord  della  Svizzera    .     . 

altitudine  metri     55 

Ungheria 

» 

»       300 

Alpi  (versante  sud) 

» 

»       650 

Apennini  (versante  sud) 

» 

»       960 

Limite   della  coltura   utile 

Sicilia 

» 

»     1000 

i       della  vite  nei  luoghi  me- 

Pirenei meridionali 

» 

»     1000  ) 

glio  favoriti. 

Sierra  Nevada  (Spagna) 

» 

»     1000 

Himalaia  (India  sett.) 

» 

»     2500 

Ande  dell'America  merid 

» 

»     3500 

40  CAPITOLO  II 


Come  vedesi,  nelle  Ande,  che  si  trovano  nella  zona  torrida,  la  mas- 
sima altitudine  della  coltura  della  vite  è  segnata  da  una  orizzontale 
di  oltre  a  3000  metri  sul  livello  del  mare,  mentre  in  Isvizzera  si  toc- 
cano appena  i  55  metri,  locchè  si  spiega  soltanto  colla  grande  dif- 
ferenza delle  latitudini. 

La  vite  è  una  fra  le  piante  il  cui  limite  d'altitudine  è  più  basso, 
data  la  stessa  latitudine:  supponendo  infatti  la  latitudine  di  45°,  ab- 
biamo la  seguente  scala  decrescente: 

Coltura    del    mugo      circa    metri    2500    (limite    estremo) 


» 

» 

larice 

» 

» 

2200 

» 

» 

» 

» 

abete 

» 

» 

2000 

» 

» 

» 

» 

frassino 

» 

» 

1800 

» 

» 

» 

» 

faggio 

» 

» 

1200 

» 

» 

» 

» 

quercia 

» 

» 

900 

» 

» 

» 

» 

castagno, 

segala 

ed  orzo 

» 

» 

800 

» 

» 

» 

» 

frumento 

e  gelse 

»  » 

700 

» 

» 

» 

» 

vite 

» 

» 

500 

» 

» 

ive 

perpe 

itua 

» 

» 

2700) 

Il  limite  delle  nevi  perpetue,  il  quale  si  avvicina  al  livello  del  mare 
man  mano  che  ci  allontaniamo  dall'equatore,  influisce  pertanto  sul 
limite  della  stazione  della  vite,  poiché  quanto  più  quello  si  abbassa, 
tanto  più  quest'ultimo  diminuisce;  sappiamo  infatti  che  il  limite  delle 
nevi  trovasi 

presso  1'  equatore  ad  una  altezza  di  metri  4818  (Quito) 


a  30°  di  latitudine 

Nord 

id. 

4500  (Himalaia) 

a  45°-47° 

» 

» 

id. 

2700  (Alpi) 

a  67° 

» 

» 

id. 

1266  (Norvegia) 

a  71° 

» 

» 

id. 

720          (id.) 

a  16° 

» 

Sud 

id. 

4850  (Ande  America  Sud) 

Raffrontando  questo  specchio  con  quello  ove  abbiamo  segnato  l'al- 
titudine massima  della  coltura  della  vite,  si  vede  che  quando  il  li- 
mite delle  nevi  perpetue  è  molto  elevato  (per  esempio  4850  metri 
nelle  Ande  della  Bolivia)  la  viticoltura  può  spingersi  sino  a  grandi 
altitudini  (3500  metri  pure  per  le  Ande),  mentre  se  quello  si  abbassa 


GEOGRAFIA  DELLA  VITE  41 

(es.  2700  m.  nelle  Alpi)  si  abbassa  pure  quello  della  vite  (650  m. 
nel  versante  Sud  delle  stesse  Alpi).  E  ciò  perchè  il  limite  delle  nevi 
eterne  è  tanto  più  alto  quanto  più  caldo  è  il  paese  sottostante. 

Termineremo  questo  paragrafo  con  alcuni  dati,  i  quali  si  riferiscono 
più  particolarmente  all'Italia;  la  massima  altitudine  della  coltura 
della  vite  è  segnata  dalla  orizzontale  di: 

900  metri  nella  Valtellina 
730       »     nel  Tirolo 


380 

» 

nella  Valle  di  Chiavenna 

600 

» 

nella  Valle  del  Gottardo 

1000 

» 

(maximum)  sul  fianco  orientale  del   Rosa 

1200 

» 

(id.)         nella  Valle  d'Aosta 

800  a  900 

» 

nelle  Alpi  centrali 

950 

» 

sull'Etna. 

Parlando,  nel  paragrafo  seguente,  della  esposizione,  diremo  della  sua 
influenza  sull'altitudine  della  coltura  della  vite;  nel  capitolo  V  (Me- 
teorologia) ci  occuperemo  poi  dei  punti  climenologici. 

§  6.  L'esposizione,  la  vicinanza  delle  acque,  le  pioggie  ed 
altre  cause  che  influiscono  sulla  stazione  della  vite.  —  La  e 

sposizione,  ossia  la  posizione  d'un  luogo  più  o  meno  elevato  rispetto 
ai  quattro  punti  cardinali  Nord,  Sud,  Est  ed  Ovest  (1),  ha  una 
notevole  influenza  sul  limite  della  stazione  della  vite  a  parità  di  al- 
titudine; invero,  dalle  osservazioni  fatte  nei  monti  dell'Italia  centrale 
risulta  che  nei  terreni  esposti  a  mezzogiorno  la  viticoltura  può 
spingersi  sino  agli  800  metri  ed  anche  oltre,  laddove  se  i  terreni 
sono  volti  a  levante  non  si  possono  oltrepassare  di  molto  i  500  m. 
sul  livello  del  mare;  avvicinandosi  alle  Alpi  queste  altezze  decrescono, 
ma  serbano  sempre  fra  loro  una  differenza  proporzionale.  È  ovvia  la 
spiegazione  di  questo  fatto,  poiché  tutti  sanno  che  la  esposizione  Sud  è 
colpita  dai  raggi  solari  diretti  durante  un  tempo  più  lungo,  oltre  di 
che  questi  raggi  cadono  meno  obliqui  che  non  alle  altre  esposizioni; 
all'Est  invece  abbiamo  i  raggi  solari  per  minor  tempo  ed  una  lunga 
irradiazione  notturna;  al  Nord  il  riscaldamento  dura  ancor  meno,  ed 


(1)  Corrispondenti' rispettivamente  a  settentrione  o  borea,  mezzogiorno  o  austro, 
levante  od  oriente,  ponente  od   occidente. 


42  CAPITOLO  II 


è  infatti  a  questa  esposizione  che  l'aria  ed  il. terreno  sono  più  freddi; 
infine  la  esposizione  d'Ovest  riscaldasi  lentamente  al  mattino,  ma 
verso  sera  riceve  i  raggi  solari  direttamente  e  perciò  si  conserva 
più  calda  dell'Est,  e  dello  stesso  Sud,  durante  la  notte.  Inoltre,  all'e- 
sposizione di  Est  si  forma  una  maggior  quantità  di  brina  che  non 
all'Ovest,  e  si  hanno  anche  brusche  alternative  di  temperatura,  ond'è 
che  sotto  questo  aspetto  quest'ultima  è  da  preferirsi  per  ia  vite.  Le 
esposizioni  si  potrebbero  quindi  così  disporre,  in  ordine  alle  loro  con- 
venienza per  la  vite:  1°  Sud,  2°  Ovest,  3°  Est,  4°  Nord. 

Ma  1'  esame  della  esposizione  si  collega  con  quello  della  inclina- 
zione del  terreno;  sul  pendìo  dei  monti  e  dei  colli  la  vite  produce 
uva  più  ricca  di  glucosio,  la  qual  cosa  significa  che  riceve  una  mag- 
gior quantità  di  calore;  ond'è  che  la  inclinazione  si  può  dire  favorisca 
una  maggior  estensione  della  stazione  o  distretto  della  vite,  a  parità 
di  latitudine  e  di  altitudine.  Infatti,  i  raggi  solari  quanto  più  cadono 
verticalmente  sul  terreno,  tanto  più  sono  numerosi  e  tanto  più  lo 
riscaldano,  ed  è  ciò  che  accade  nei  luoghi  inclinati;  invece  sovra 
un  terreno  orizzontale,  vale  a  dire  piano,  i  raggi  del  sole  battono 
obliquamente,  si  spandono  quindi  sovra  una  superficie  maggiore  e 
perciò  lo  riscaldano  meno.  Si  aggiunga  a  ciò  che  nei  terreni  incli- 
nati l'acqua  piovana  penetra  a  poca  profondità  e  li  raffredda  meno. 

Anche  la  vicinanza  delle  acque,  modificando  il  clima,  influisce  sui 
limiti  della  regione  della  vite:  è  noto,  ad  esempio,  che  nei  paesi  più 
vicini  al  nord,  le  regioni  costiere  e  le  isole  sono  sensibilmente  meno 
fredde  che  non  l'interno  dei  continenti.  Invece  nella  zona  tropicale 
le  contrade  interne  sono  assai  più  calde  di  quelle  marittime;  gli  è 
che  una  superficie  d'acqua  è  sensibilmente  meno  riscaldata  che  non 
una  superficie  terrestre,  massime  se  questa  è  spoglia  di  vegetazione; 
in  tal  caso  anzi,  la  differenza  di  temperatura  è  rilevante.  Il  calore  solare 
vien  impiegato  in  parte  nella  evaporazione  dell'acqua;  inoltre  durante 
la  notte  la  terra  irradia  calore,  mentre  ciò  non  accade  dalle  acque; 
quindi  la  minor  temperatura  dei  climi  marittimi  o  litorali  a  petto  di 
quelli  continentali. 

Alcune  regioni  costiere  di  paesi  freddi,  mercè  la  vicinanza  dei  mari 
godono  bensì  di  una  temperatura  annuale  più  elevata,  ma  quella  estiva 
non  è  sufficiente  a  certe  coltivazioni,  laddove  nei  continenti  posti  ad 
uguali  o  minori  latitudini  ciò  è  possibile,  benché  abbiano  una  media  tem- 
peratura annuale  assai  meno  elevata;  per  esempio  in  Islanda  il  frumento 
e  la  segala  non  giungono  a  maturazione,  mentre  vi  giungono  a  Jakutzk 


GEOGRAFIA  DELLA  VITE 


43 


in  Siberia,  benché  il  freddo  scenda  a  38°  C.  sotto  lo  zero  e  la  an- 
nuale temperatura  media  sia  di  circa  —  9°;  ma  durante  il  breve  e  caldo 
estate  si  ha  una  temperatura  media  di  17°  sopra  lo  zero,  onde  ve- 
getano e  fruttificano  le  due  cereali  suddette. 

Sotto  le  alte  latitudini  sono  quindi  preferibili,  per  certe  coltivazioni, 
fra  cui  va  annoverata  la  vite,  le  contrade  interne  (quando  bene  inteso 
non  siano  soggette,  come  la  Siberia,  ad  eccessivi  freddi  j emali);  in 
Irlanda  e  sulle  coste  meridionali  dell'Inghilterra,  come  già  dicemmo,  la 
vite  non  può  prosperare  appunto  perchè  si  tratta  di  climi  marittimi,  i 
quali  hanno  alquanto  temperato  il  calore  estivo  e  però  non  sufficiente 
al  nostro  arbusto. 

Anche  le  pioggie  modificano  il  clima  ed  agiscono  analogamente 
alle  masse  d'acqua,  cioè  lo  temperano.  Si  sa  che  la  quantità  d'acqua  di 
pioggia  cresce  andando  dal  polo  verso  l'equatore,  perchè  sotto  la 
zona  tropicale  è  maggiore  la  evaporazione  essendo  maggiore  la  tempe- 
ratura ,  e  perciò  si  hanno  più  abbondanti  precipitazioni  ;  infatti 
supponiamo  d' avere  una  temperatura  di  25°,  e  che  succeda  un 
abbassamento  di  10°;  in  allora  un  metro  cubo  d'aria  satura  di  umidità 
darà  grammi  10,44  di  vesichette  o  goccioline  di  vapore  acqueo:  in- 
vece mettiamo  di  avere  una  temperatura  di  10°  e  quindi  una  dimi- 
nuzione a  0°;  allora  lo  stesso  volume  d'aria  satura  abbandonerà  soli 
grammi  4,91  di  vapore  acqueo.  Dalle  osservazioni  fatte  sui  rapporti 
che  passano  fra  la  quantità  d'acqua  piovana  e  le  latitudini  è  risul- 
tato approssimativamente  quanto  segue: 


Millimetri 
di  pioggia  annuale 

Millimetri 
di  pioggia  annuale 

All'equatore     ....     3000 

Al  grado    10   lat.   Nord     2850 

»         20          »            2410 

»         30          »            1320 

»         40          »              900 

Al  grado 
» 
» 
» 
» 

50  lat.  Nord  710 
60  »  540 
70  »  410 
80  »  320 
90          »              250 

Ma  ciò  che  più  influisce  sulla  coltura  utile  della  vite,  non  è  già 
la  quantità  della  pioggia,  bensì  il  numero  di  giorni  piovosi  che  si 
hanno  dal  momento  della  fioritura  sino  a  quello  della  vendemmia;  se 
questo  numero  eccede  un  certo  limite,  che  studieremo  meglio  al  capitolo 
Meteorologia  applicata  alla  viticoltura,  citando  numerose  osservazioni 
da  noi  fatte,  i  frutti  della  vite  vanno  totalmente  perduti;  ed  un  paese 
che  si  trovasse  in  simili  condizioni  rimarrebbe  escluso  dalla  zona 
della  vite:  su  di  che  ci  siamo  già  intrattenuti  a  lungo  discorrendo 
(pag.  30)  della  viticoltura  nella  zona  delle  pioggie. 


44  CAPITOLO  II 


Sotto  questo  riguardo  l'Italia  si  trova  in  ottime  condizioni,  perchè 
quantunque  vi  cada  molta  pioggia,  più  di  quanta  ne  cada  nel 
nord  d' Europa,  tuttavia  essa  conta  in  primavera  ed  in  estate 
assai  meno  giorni  piovosi,  il  che  è  molto  favorevole  alla  buona  e  co- 
piosa fruttificazione  delle  viti;  ecco  al  proposito  alcuni  dati: 


Giorni  di  pioggia 

Pioggia  in  millimetri 

dall'aprile  al  settembre 

dall'  aprile  al  settembre 

Pietroburgo 

78 

294 

Londra 

84 

276 

Bruxelles 

79 

324 

Lilla 

80 

438 

Parigi 

75 

335 

Praga 

79 

258 

Milano 

41 

372 

Roma 

32 

247 

Palermo 

30 

113 

A  Parigi  quindi,  nei  mesi  di  aprile,  maggio,  giugno,  luglio,  agosto 
e  settembre,  cadrebbe  quasi  tant'  acqua  che  a  Milano;  solo  che 
mentre  questa  è  distribuita  in  soli  41  giorni,  quella  è  distribuita  in 
75,  e  cadendo  con  minor  impeto  può  essere  assorbita  dal  terreno, 
laddove  a  Milano  in  grande  parte  scorre  alla  superfìcie  battuta  ed  indu- 
rita dalla  pioggia  stessa.  Le  condizioni  di  Milano  sono  perciò  assai 
più  favorevoli  alla  vite  che  non  quelle  di  Parigi,  sotto  questo  riguardo. 

Anche  la  varietà  dei  vitigni  può  influire  sulla  stazione  della 
vite;  è  noto  che  certi  vizzati  resistono  meglio  di  altri  al  freddo  inver- 
nale e  primaverile,  onde  con  essi  il  limite  polare  della  viticoltura  può 
spingersi  a  più  alte  latitudini,  massimamente  se  vengono  coltivati 
bassi,  perchè  allora  usufruttano  anche  il  calore  riverberato  dalla 
terra. 

Influiscono  pure  sui  limiti  del  distretto  della  vite  i  venti  domi- 
nanti,  che  abbassano  od  innalzano  la  temperatura  secondochè  pro- 
vengono da  luoghi  freddi  o  caldi:  ad  esempio  le  coste  occidentali  dei 
continenti,  particolarmente  nelle  zone  temperate,  sono  generalmente 
più  calde  delle  orientali.  Così,  per  il  continente  americano,  la  tem- 
peratura media  annuale  di  0°  corrisponde,  sulle  coste  occcidentali, 
alla  latitudine  di  60°,  sulle  coste  orientali  a  quella  di  50°:  per  l'an- 
tico continente  la  stessa  temperatura  di  0°  corrisponde,  sulle  coste 
occidentali,  alla  latitudine  di  71°  (capo  nord  della  penisola  Scandinava), 


GEOGRAFIA  DELLA  VITE  45 

e  sulle  coste  orientali  (Asia)  alla  latitudine  di  47°.  Questa  differenza 
tanto  sensibile  proviene  da  che,  mentre  i  venti  polari  e  le  correnti 
fredde  del  nord  predominano  in  America  lungo  le  coste  del  Labrador, 
del  Canada,  e  nel  mondo  antico  lungo  le  coste  della  Siberia,  le  rive 
opposte  sono  esposte  liberamente  alla  azione  dei  venti  caldi  di  sud- 
ovest,  ed  a  quella  delle  calde  correnti  dell'Atlantico  e  del  Pacifico  (1). 
In  quanto  alle  correnti  marine,  è  noto  che  quella  così  detta  del 
golfo  (gulfstream)  innalza  la  temperatura  della  costa  nord-ovest 
dell'  Europa.  È  facile  intendere  quindi  come  i  venti  dominanti  e  le 
correnti  marine  possano  influire  sul  limite  del  distretto  della  vite. 
Infine,  vi  possono  altresì  influire  la  natura  fisico-chimica  del 
suolo,  la  maggiore  o  minore  frequenza  delle  brine  e  delle  grandini, 
nonché  la  ricchezza  della  vegetazione  dominante,  e  specialmente 
le  folte  piantagioni,  le  quali  mitigano  il  clima,  come  è  noto  a  tutti. 


(1)  L.  Hugues  Geografia  generale,  pag.  44. 


CAPITOLO  III 


Statistica  della  vite. 


§  1.  La  viticoltura  in  Italia  —  §  2.  La  viticoltura  in  Francia  —  §  3.  La  viti- 
coltura in  Ispagna  ed  in  Portogallo  —  §  4.  La  viticoltura  nell' Austria-Ungheria 
—  §  5.  La  viticoltura  in  Germania  —  §  6.  La  viticoltura  in  Isvizzera  —  §  7. 
La  viticoltura  in  Grecia,  in  Russia  ed  in  Oriente  —  §  8.  La  viticoltura  nel- 
l'America del  Nord  —  §  9.  La  viticoltura  nell'America  del  Sud  —  §  10.  La 
viticoltura  in  Africa  —  §  11.  La  viticoltura  in  Australia  —  §  12.  La  viticol- 
tura in  Asia  —  Riassunto  e  conclusione. 


§  1.  La  viticoltura  in  Italia.  —  La  vite  occupa  in  Italia  una 
superfìcie  di  circa  ettari  1,870,109  dai  quali  ottengonsi  da  27  a  30 
milioni  di  ettolitri  di  vino,  corrispondenti  ad  una  media  di  14,50  a 
15  ettolitri  di  vino  all'  ettare  (V.  §  II,'  pag.  2).  Supponendola  di- 
visa in  dodici  regioni,  la  nostra  produzione  vinicola  sarebbe  così 
distribuita: 


REGIONI 

Superfìcie 
coltivata  a  viti 
(sola  od  associata 
ad  altre  culture) 

Ettari 

Produzione 
totale 
Ettolitri 

la  Piemonte 

2a  Lombardia 

3a  Veneto 

4a  Liguria 

5a  Emilia 

6a  Marche  ed  Umbria .     .     . 

7a  Toscana 

8a  Lazio 

9a  Meridionale  Adriatica  .  . 
10a  Meridionale  Mediterranea 

lla  Sicilia 

12''  Sardegna 

Totale     .     . 

117,302 
140,786 
242,987 

44,326 
168,462 
145,368 
219.432 

43,996 
267,355 
244,455 
211,454 

24,186 

1,870,109 

2,706,196 
1,895,302 
2,604,949 

598,340 
1,990,161 
1,917,346 
2,688,346 

835,924 
3,534,476 
3,668,304 
4,246,363 

450,827 

27,136,534 

STATISTICA  DELLA  VITE 


47 


Le  provincie  che  più  danno  vino  sono  le  seguenti: 

Palermo      .                                   .     Ettolitri  1,025.050 

Alessandria 

»           933,750 

Firenze 

»           927,336 

Trapani 

»           837,490 

Teramo 

»           783,750 

Torino 

»           770,760 

Bari    . 

»           752,822 

Catania 

»           723,801 

Perugia 

»           606,408 

Potenza 

»           604,240 

Siracusa 

»           554,800 

Aquila 

»           550,200 

Caltanissettc 

i 

»           539,212 

Chieti 

»           534,000 

Cosenza 

»           531,101 

Vicenza 

»           528,830 

Novara 

»          507,280 

Siena  . 

»           495,360 

Cuneo 

»           494,406 

Catanzaro 

»           487,290 

Verona 

»           470,730 

Le  altre  provincie  scendono  da  450  mila  ettolitri  circa  sino  a 
50  mila,  che  è  il  minimo  (Belluno). 

La  produzione  massima  per  ettare  si  ottiene  nelle  seguenti  pro- 
vincie : 


Alessandria 

.     Ettolitri 

25,00  in 

media 

Torino 

» 

24,00 

» 

Cuneo       .         .         , 

» 

22,00 

» 

Girgenti   . 

» 

21,00 

» 

Trapani    . 

» 

20,80 

» 

Novara     . 

» 

20,00 

» 

Messina    . 

» 

20,00 

» 

Siracusa  . 

» 

20,00 

» 

Caltanissetta     .  ■ 

» 

20,00 

» 

Catania    . 

» 

19,50 

» 

Palermo  . 

» 

19,00 

» 

48 

CAPITOLO  III 

Napoli 

» 

19,00 

» 

Sassari     . 

» 

19,00 

» 

Cagliari    . 

» 

18,30 

» 

Sondrio     . 

» 

18,00 

» 

Porto  Maurizio 

» 

18,00 

» 

Salerno     . 

» 

18,00 

» 

Le  altre  provincie  hanno  una  produzione  che  scende  da  1  7  etto- 
tolitri  a  10  ettolitri.  Questi  dati  però  non  hanno  un  valore  asso- 
luto, inquantochè  il  prodotto  dei  vigneti  italiani  è  stato  qui  calcolato 
sulla  base  dei  terreni  vitati  in  genere,  senza  fare  distinzione  fra  vi- 
gneti specializzati,  o  veri  vigneti,  e  terreni  a  coltura  promiscua  della 
vite  con  altre  piante;  nel  qual  caso,  come  è  evidente,  il  prodotto  per 
ettare  diminuisce  in  ragione  inversa  della  grandezza  degli  spazii  che 
intercedono  fra  le  viti.  Infatti,  nella  provincia  di  Alessandria,  ove  pres- 
soché tutti  i  vigneti  sono  specializzati  o  quasi,  la  media  del  prodotto 
è  la  più  elevata  fra  tutte;  lo  stesso  deve  dirsi  del  Piemonte  in  ge- 
nere e  della  Sicilia. 

Facendo  le  medie  dei  prodotti  per  regioni,  abbiamo  desunto  i  se- 
guenti dati  dalle  pubblicazioni  del  Ministero  d'Agricoltura: 


pei 

■  ettare 

Piemonte 

media 

più  alta 

(1) 

Ett.ri 

23 

Sicilia 

id. 

» 

20 

Lazio 

id. 

» 

19 

Sardegna 

id, 

» 

18 

Regione  Mer. 

medit. 

id. 

» 

15 

» 

Adriatica 

id. 

» 

13 

Marche  ed  Umbria 

id. 

» 

13 

Lombardia 

id. 

» 

13 

Liguria 

id. 

» 

13 

Toscana 

id. 

» 

12 

Emilia 

id. 

» 

11 

Veneto 

id. 

» 

10,70 

Ma  noi  temiamo  che  in  questi  dati  vi  siano  talune  inesattezze,  e 
lo  deduciamo  dalla  loro  discordanza  da  quelli  che  ebbimo  da  viti- 
cultori  di  varie  fra  le   suddette  regioni:  d'altra    parte   certe   medie 


(1)  S'infondo  fra  le  vario  Provincie  (lolla  ro<>ione  aooennata. 


STATISTICA  DELLA  VITE  49 


molto  basse  non  si  possono  applicare  a  tutti  i  comuni  di  una  data 
regione:  per  esempio  in  Toscana,  in  Lombardia,  nel  Veneto  e  Sovra- 
tutto  nei  due  versanti  dell'Italia  meridionale,  vi  sono  locali  ove  il 
prodotto  medio  delle  viti  è  certamente  superiore  ai  15  ettolitri  ad 
ettare:  dappertutto  poi  in  Italia  vi  sono  esempii  di  produzioni  che 
oltrepassano  i  50  ettolitri  per  avvicinarsi  al  centinaio,  ed  è  grande 
ventura  che  vi  siano  questi  brillanti  esempli  pratici  a  persuadere  i 
miscredenti. 

In  Italia  produconsi  vini  d'ogni  specie;  dagli  alcoolici  e  liquorosi 
del  mezzodì,  a  quelli  da  pasto  scelti  del  centro  e  del  settentrione  ; 
però  anche  la  regione  meridionale,  in  speciali  condizioni,  può  produrre 
ottimi  vini  da  pasto,  ed  è  noto  d'  altra  parte  il  grande  commercio 
che  essa  fa  di  vini  da  taglio  o  concia.  La  viticoltura  italiana  novera 
numerosissime  e  svariatissime  varietà  di  vitigni,  atti  a  produrre  ogni 
sorta  di  vino;  quello  da  pasto  scelto,  quello  da  pasto  usuale,  da  con- 
cia, da  esportarsi,  il  vino  profumato,  il  vino  bianco  asciutto,  quello 
dolce,  quello  sciropposo,  quello  alcoolico,  infine  il  vino  spumante; 
locchè  è  anche  la  conseguenza  della  estensione  del  nostro  territorio, 
che  va  dal  37°  al  46°  di  latitudine  e  che  presenta  quindi  grandi  va- 
rietà di  clima,  di  suolo  e  di  esposizioni.  Nessun  paese  del  mondo  è 
tanto  favorito  dalla  natura  quanto  l'Italia,  ed  è  perciò  a  sperarsi  che, 
proseguendosi  negli  studi  viticoli  ed  enologici  coll'ardore  che  si  di- 
spiega oggigiorno,  essa  verrà  ad  occupare  il  primo  posto  fra  i  paesi 
vitiferi  del  mondo,  quale  spetta  all'Avita  Enotria. 

§  2.  La  viticoltura  in  Francia  (1).  —  Nel  1869  la  Francia 
contava  2,441,246  ettari  a  vigna;  alla  fine  del  decorso  1883  ne  con- 
tava soli  2,095,927,  perchè  la  fillossera  aveva  distrutti  nel  frat- 
tempo ettari  345,319,  locchè  è  enorme,  se  si  pensa  che  una  simile 
diminuzione  avvenne  in  soli  4  anni.  La  produzione  del  vino  ha  se- 
guito dal  1875  al  1883  le  seguenti  oscillazioni,  dovute  in  gran  parte 
ai  danni  della  fillossera,  ma  altresì  alle  avverse  stagioni,  specie  negli 
ultimi  quattro  anni: 

1875  ettolitri    83,632,000  (massima  produzione  del  secolo) 

1876  »         41,848,000 

1877  »         56,405,000 


(1)  Si  vegga  anche  il  §  II,  pag.  3. 
O.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura. 


50  CAPITOLO  III 


1878 

» 

1879 

» 

1880 

» 

1881 

» 

1882 

» 

1883 

» 

48,720,363 

25,700,000  (condizioni  climatol.  pessime) 

29,677,472  id.  mediocri) 

34,138,715  id.  » 

30,886,352  id.  » 

36,029,182  id.  » 

Dai  dati  che  abbiamo  sott' occhio  (1869-1873)  deduciamo  le  se- 
guenti tre  medie:  dal  1869  al  1873  ett.  53,659,112  —  dal  1874  al 
1878  ettol.  58,750,236  —  e  dal  1879  al  1883  ettolitri  31,300,254. 
Questa  forte  diminuzione  nel  prodotto  annuo,  dà  la  misura  della  gra- 
vità dell'invasione  fillosserica. 

Ma,  nonostante  la  fillosseronosi,  la  Francia  ha  però  saputo  mantenere 
allo  stesso  livello  di  prima  la  sua  esportazione  vinicola;  anzi  1'  ha 
accresciuta:  ecco  i  dati  che  desumiamo  dalle  pubblicazioni  ufficiali 
del  Governo  della  Repubblica: 

nel  1876  esportazione  di  vini  per  L.  216,200,000 


» 

1877 

id. 

id. 

»  225,500,000 

» 

1878 

id. 

id. 

»  207,100,000 

» 

1879 

id. 

id. 

»  264,900,000 

» 

1880 

id. 

id. 

»  254,600,000 

» 

1881 

id. 

id. 

»  264,200,000 

In  un  sesennio  l'esportazione  si  sarebbe  adunque  accresciuta  al- 
l' incirca  di  un  quarto. 

Anche  la  Francia,  come  l'Italia,  produce  nei  suoi  44  dipartimenti 
vitiferi  svariate  qualità  di  vino,  dai  finissimi  Sauternes  bianchi,  ai 
Bordeaux,  ai  Borgogna  ed  ai  Champagne.  È  pregio  dell'opera  dare 
qualche  maggior  notizia  sui  Bordeaux,  del  dipartimento  della  Gir  onda. 

In  questo  dipartimento  vi  sono  meglio  di  150  mila  ettari  di  vi- 
gneto sopra  975  mila  di  superficie  totale:  eppure  non  si  producono, 
computando  una  raccolta  mediana,  che  all'incirca  3,300,000  ettolitri 
di  vino,  tra  rosso  e  bianco.  Questo  prodotto  corrisponde  ad  una 
media  di  22  ettolitri  ad  ettare,  locchè  non  è  molto.  Ma  con  tutto 
questo  il  detto  dipartimento  ritrae  dalle  sue  viti  e  da'  suoi  vini 
tanto  lucro  da  poter  disporre  per  ogni  abitante  —  e  gli  abitanti  sono 
colà  589  mila  —  di  circa  cinquecento  lire  all'anno,  mentre  i  vigneti 
non  occupano  che  un  sesto  della  superfìcie  totale  del  dipartimento 
stesso. 


STATISTICA  DELLA  VITE  51 

Fra  le  cinque  plaghe  in  cui  può  dividersi  la  Gironda,  una  ve  n'ha 
—  il  Médoc  —  che  produce  vini  rossi  di  qualità  superiore,  i  quali  sono 
pagati  ad  assai  cari  prezzi  dai  buongustai  di  Francia  e  di  fuoravia: 
in  questa  plaga  vi  sono  su  per  giù  20  mila  ettari  vignati,  ed  anche 
qui  non  si  ricavano  che  ad  un  dipresso  364,800  ettolitri  di  vino,  vale 
a  dire  poco  più  di  18  ettolitri  ad  ettare.  Questo  prodotto  non  è  una 
grande  cosa;  eppure  frutta,  secondo  i  nostri  calcoli,  oltre  i  sessanta 
milioni  di  lire  ogni  anno. 

Il  Médoc,  dei  364,800  ettolitri  di  vino  che  produce,  ne  conta  41 
mila  che  sono  vini  superiori,  e  che  si  vendono,  secondo  la  media  che 
abbiamo  potuto  fare  dei  prezzi  di  varii  anni,  a  circa  400  lire  l'etto- 
litro. In  media  quindi  fruttano  più  di  16  milioni  di  lire,  le  quali  in 
grande  parte  vengono  dall'estero.  Ma  nel  Médoc  sonovi  ancora  altri 
40  mila  ettolitri  di  vini  fini,  se  non  superiori,  che  rendono  circa  un  12 
milioni  di  lire,  ben  inteso  reddito  brutto.  E  poi  rimangono  i  vini  ordi- 
nami, che  rappresentano  un  provento  brutto  di  circa  36  milioni  di  lire, 
e  ciò  senza  contare  les  petits  paysans  del  Basso  Médoc  e  via  dicendo. 
Il  Médoc  è  una  terra  fortunata,  e  lo  è  grazie  alla  vigna,  ma  più  ancora 
grazie  alla  perizia  di  quelli  fra  i  suoi  abitatori,  che  fabbricano  il  vino. 

Lo  stesso  devesi  dire  di  tutta  la  Gironda,  dove  dalla  piccola  su- 
perficie a  vigne  si  ricavano  brutti  225  milioni  di  lire,  netti  150  mi- 
lioni; dove  una  sesta  parte  del  dipartimento  produce  tanto  da  ali- 
mentare una  popolazione  doppia  di  quella  che  esiste  nell'intero  di- 
partimento stesso;  dove  infine  la  vigna  rende  tre  volte  di  più  del 
prato,  del  bosco  e  del  campo. 

Il  reddito  in  vino  per  ogni  ettare  di  vigneto  varia  assai  in  Francia  : 
ove  produconsi  vini  usuali,  quasi  diremmo  da  distillare  (il  che  face- 
vasi  su  vasta  scala  nel  Mezzogiorno  prima  della  invasione  fillosserica) 
il  prodotto  per  ettare  tocca  anche  i  300  ettol.  di  vini  a  basso  titolo  al- 
coolico.  Però,  per  la  produzione  dei  buoni  vini  da  pasto  di  grande 
consumazione  non  si  spinge  la  vite  a  dare  più  di  40  a  50  ettolitri 
ad  ettare,  i  quali  riduconsi  poi  a  20  o  25  se  si  tratta  di  vini  rossi 
fini:  anzi  per  certi  vini  bianchi  di  qualità  ricercatissima,  come  il  Sau- 
terne  (1)  non  si  va  oltre  i  10  ettolitri;  ma,  nonostante  si  vendano 
a  caro  prezzo,  si  calcola  che  i  capitali  investiti  in  quei  famosi  predii 
non  frutti ao  più  del  5  per  cento  (2). 

(1)  Comune  del  bordolese,  che  diede  il  nome  a  tutti  i  famosi  vini  della  località. 

(2)  Molti  altri  dettagli  potranno  trovarsi  nella  nostra  Monografia  sui  vini  di 
lusso  (2a  edizione  pag\  197). 


52  CAPITOLO  III 


§   3.   La   viticoltura   in   Ispagna   ed  in   Portogallo.   — 

a)  Spagna.  È  questo  un  paese  importante  per  la  produzione  vini- 
cola, la  quale  mentre  da  alcuni  si  fissa  in  25  milioni  di  ettolitri,  da 
altri  invece  si  porta  ai  30  milioni;  noi  pensiamo  però,  in  base  ai 
dati  che  raccogliamo  dal  1875  a  questa  parte  sui  giornali  vinicoli 
spagnuoli  (specialmente  sull'ottimo  giornale  Los  vinos  y  los  aceiles) 
che  la  produzione  non  oltrepassi  di  molto  i  25  milioni  anche  in  an- 
nate buone,  tantoché  la  media  delle  annate  normali  darebbe  solo 
da  20  a  22  milioni  di  ettolitri.  La  Spagna  conta  1,400,000  ettari  di 
vigne,  sovra  una  superficie  territoriale  complessiva  di  507,036  chi- 
lometri quadrati;  la  vigna  occupa  adunque  Y36  della  superficie,  e  pur 
tuttavia  vi  rende  annualmente  quasi  750  milioni  di  lire,  vale  a  dire 
circa  quanto  rende  la  viticoltura  italiana;  bene  inteso  qui  parliamo  sem- 
dre  di  reddito  brutto.  Ma  convien  notare  che  mentre  la  Spagna  ottiene 
questo  reddito  lordo  soltanto  sulla  36ma  parte  del  suo  territorio,  l'I- 
talia vi  impiega  Y13  del  proprio,  locchè  assai  verosimilmente  dipende 
dalla  minore  estensione  dei  veri  vigneti  specializzati,  che,  a  parità 
di   superficie,   sono  i  più  redditivi. 

La  Spagna,  oltre  ai  vini,  esporta  anche  grandi  quantità  di  uve  sec- 
che; in  media  sono  37  milioni  di  chilogrammi  all'  anno  del  valore  di 
circa  25  milioni  di  lire.  I  prodotti  delle  sue  vigne  si  possono  pertanto 
così  classificare:  1°  Vini  comuni  da  pasto;  2°  Jeres  e  vini  simili; 
3°  Vini  generosi;  4°  Uve  secche. 

La  fillosseronosi  si  è  dichiarata  anche  ìd  Spagna  fin  dal  1878  in 
una  proprietà  chiamata  l' Indiana ,  a  18  chil.  da  Madrid;  Malaga, 
l'Ampurdan  e  Salamanca  sono  invase  dal  terribile  afide,  e  la  malattia 
vi  si  estende  gradatamente;  su  di  che  entreremo  in  maggior  dettagli 
studiando  la  fillosseronosi. 

b)  Portogallo.  Anche  riguardo  alla  produzione  vinifera  del  Por- 
togallo sono  discordi  i  dati  che  abbiamo  potuto  raccogliere;  chi  la 
fa  ascendere  a  9,000,000  di  ettolitri,  e  chi  la  riduce  a  soli  4,000,000: 
quest'ultimo  dato  però,  secondo  noi,  è  erroneo;  perchè  non  tiene  cal- 
colo dei  molti  nuovi  vigneti  che  da  10  a  15  anni  a  questa  parte  si 
sono  impiantati  colà.  La  vite  occupa  quasi  250  mila  ettari,  cioè 
circa  la  40raa  parte  del  territorio.  Il  vino  più  famoso  del  Portogallo 
è  il  Porlo  che  si  produce  nel  Douro  ;  la  sua  produzione  annua 
ascende  a  400  mila  ettolitri  (cioè  80  mila  pipe  da  500  litri);  però  il 
Porto  di  prima  qualità  si  ottiene  solo  neìYAlto-Doiiro  (100,000  et- 


STATISTICA  DELLA  VITE  53 


tolitri)  e  vale,  quando  è  nuovo,  275  lire  la  pipa  (1);  la  seconda  qua- 
lità (150,000  ettol.)  si  produce  nel  Douro  inferior  e  si  vende,  nuovo, 
a  194  lire  la  pipa;  la  terza  qualità  L.  111.  In  totale  la  valle  del 
Douro  ha,  dal  vino  di  Porto,  un  reddito  lordo  di  oltre  a  14  milioni 
e  mezzo  di  lire.  Ma  oggi  questo  paese  è  fillosserato,  sin  dal  1864,  e 
perciò  il  suo  reddito  è  in  continua  diminuzione. 

§  4.  La  viticoltura  nell'Austria-Ungheria.  —  a)  Austria.  La 
vite  occupa  in  Austria  una  superficie  di  ettari  210,513,  per  una  superficie 
territoriale  di  300,190  chilom.  quadrati;  ciò  che  corrisponde  alla  142ma 
parte  del  territorio:  il  reddito  lordo  di  queste  vigne  si  calcola  ascen- 
dere, secondo  il  consigliere  aulico  H.  De  Hamm,  a  58  milioni  di  lire, 
cioè  L.  16  ad  ettolitro,  calcolando  una  produzione  annuale  media  di 
ettolitri  3,692,500;  però  non  tutti  i  vini  austriaci  valgono  così  poco, 
e  si  sa  che  alcune  qualità  ottengono  le  30  e  le  40  lire  l'ettolitro  (Bassa 
Austria).  Ecco  alcuni  dettagli  che  si  riferiscono  alla  produzione  vini- 
cola dell'Austria  (2)  :  nella  Bassa  Austria  ogni  etraro  produce  circa 
20  ettolitri  di  vino;  nella  Stiria  e  nella  Carinzia  eira  8;  nella  Car- 
neola  18;  in  Boemia  9;  nel  Tirolo  settentrionale  23;  nel  Tirolo  me- 
ridionale (Bolzano,  Trento  e  Rovereto)  circa  40;  nel  Vorarlberg  31; 
nella  Moravia  15;  nella  Bukovina  6;  in  Gorizia  10  a  12  secondo  il 
genere  di  cultura;  a  Trieste  da  20  a  38  parimente  secondo  la  coltura  : 
nell'Istria  da  5  a  9,  e  nella  Dalmazia  da  6  a  10  (3). 

b)  Ungheria.  L'Ungheria,  con  una  superficie  di  323,853  chilometri 
quadrati,  novera  425,314  ettari  a  vigna  (lr76  della  superficie),  i 
quali  producono  in  media  8,506,280  ettolitri  di  vino;  il  reddito  lordo 
vien  calcolato  in  255  milioni  di  lire,  cioè  L.  30  per  ettolitro;  questo 
elevato  prezzo  è  dovuto  ai  rinomati  vini  fini  dell'Ungheria, 

La  produzione  totale  dell' Austria-Ungheria  ascenderebbe  quindi  a 
12,198,780  ettolitri,  dai  quali  essa  avrebbe  un  reddito  brutto  di  313 
milioni  di  lire  ad  un  dipresso.  Anche  1'  Austria  e  l'Ungheria  sono 
fillosserate:  ne  riparleremo  più  oltre. 

§  5.  La  viticoltura  in  Germania.  —  Questo  impero  conta 
circa  150  mila  ettari  vitati,  nella  sua  parte  meridionale,  laddove  la 


(1)  Breve  noticia  da   Viticultura  Portugueza.  —  Lisboa  1874  (Pubblicaz.  uff.). 

(2)  Kohenbruck  (von)  Arthur.  Die  Weinproduction  in  Oesterreich  ecc.  1873. 

(3)  Statistiche  del  Ministero  d'Agricoltura.  Vienna  1875. 


54  CAPITOLO  III 


sua  superficie  territoriale  è  di  chilometri  quadrati  542,834;  la  vite 
occupa  dunque  appena  la  362ma  parte  del  territorio  germanico  e  vi 
produce  annualmente  circa  2,600,000  ettolitri  di  vino,  cioè  17  a  18 
ettolitri  per  ettare;  il  reddito  lordo  ammonta  approssimativamente  a 
130  milioni  di  lire  annue,  cioè  in  media  L.  50  all'ettolitro;  ciò  è  dovuto 
all'elevato  prezzo  di  parecchi  fra  i  suoi  vini,  fra  cui  eccellono  quelli 
notissimi  del  Reno.  In  questo  distretto  (Rheingau)  la  vigna  produce 
talvolta  anche  soli  15  ettolitri  di  vino  all'ettare,  ma  si  tratta  allora 
di  vini  sopraffini  e  ricercatissimi  i  quali  vendonsi  anche  oltre  le  2000 
lire  per  ettolitro:  i  più  rinomati  sono  il  Johannisberg  (20  ettari)  ed 
il  Liebfrauenmilch  (latte  della  Madonna)  che  si  produce  a  Worms; 
in  secondo  ordine  vengono  i  vini  del  Palatinato.  Si  noti  però,  che  in 
questo  distretto  del  Reno  il  raccolto  dell'  uva  spesso  fallisce,  per  le 
poco  favorevoli  condizioni  climatologiche;  basti  il  dire  che  in  un  se- 
colo (1770-1869)  si  ebbero  58  anni  di  raccolto  perduto,  30  di  me- 
diocre e  soli  11  di  raccolto  completo,  ossia  ein  Hauptweinjahr 'e  come 
si  dice  colà. 

Anche  in  Baviera  la  vite  è  coltivata  con  molta  intelligenza;  contasi 
quivi  24  mila  ettari  vitati,  i  quali  producono  in  media  circa  25  ettolitri 
di  vino  caduno,  vale  a  dire  una  media  superiore  a  quella  dell'intera 
Germania  (1).  La  Prussia  renana  conta  essa  pure  20,000  ettari  vitati, 
il  Wurtemberg  19,000,  il  Baden  18,000,  e  l'Assia  8000. 

§  6.  La  viticoltura  in  Isvizzera.  —  Questo  paese  conta 
34,600  ettari  a  vigna,  secondo  le  accurate  indagini  del  D.r  V.  Fatio 
da  Ginevra;  i  quali,  calcolando  che  producano  al  massimo  35  etto- 
litri di  vino  ad  ettare  del  valore  commerciale  di  27  lire  V  ettolitro, 
darebbero  un  prodotto  annuo  di  ettolitri  1,211,000  ed  un  reddito 
lordo  di  32,697,000  lire.  La  vigna  occuperebbe  in  Isvizzera  la  120mft 
parte  del  territorio. 

I  cantoni  vitiferi  sono  quelli  di  Sciaffusa,  Ticino,  Ginevra,  Vaudo, 
Neuchàtel  e  Basilea  Campagna. 

§  7.  La   viticoltura  in   Grecia  e    Cipro,  in   Russia  ed  in 


(1)  Queste  notizie  sulla  Germania  furono  comunicate  dal  consigliere  intimo 
Weimann,  dal  prof.  Noerdlinger  e.  dal  D.r  Buhl  al  D.r  Fatio  in  occasione  del 
Congresso  fillosserico  di  Losanna  (1877)  —  Vedi  Etat  de  la  question  phylloxé- 
rique  pag.   \H  e  seg. 


STATISTICA  DELLA  VITE  55 

Oriente.  —  a)  La  Grecia  conta  soli  40,000  ettari  di  vigne,  benché 
il  suolo  ed  il  clima  siano  quanto  mai  appropriati  alla  viticoltura:  le 
vigne  trovansi  specialmente  nell'Eliade,  nelle  isole  dell'  Arcipelago  e 
sovratutto  nella  Morea.  Fra  i  vini  sono  rinomati  quelli  delli  Cicladi,  spe- 
cialmente i  prodotti  di  Santorino  e  di  Tynos.  Si  calcola  che  la  Grecia  e  le 
sue  isole  producano  circa  4  milioni  di  ettolitri  di  vino  (H.  Hamm);  ma 
questo  dato  ci  pare  erroneo,  se  badiamo  alla  piccola  estensione  dei  vi- 
gneti in  quel  regno.  Infatti  il  Moniteur  Vinicole  (gennaio  1884)  as- 
segna alla  Grecia,  più  l'isola  di  Cipro,  la  sola  produzione  complessiva  di 
1,600,000  ettolitri.  Dai  nostri  calcoli  risulterebbe  che  la  Grecia  colle 
sue  isole  produce  in  media  soltanto  1  milione  di  ettolitri  di  vino. 

Per  dare  un'idea  dell'importanza  del  commercio  delle  uve  secche 
di  Grecia  (golfi  di  Corinto  e  di  Patrasso)  indicheremo  qui  le  quan- 
tità di  uve  di  Corinto  (passolina)  esportate  dal  porto  di  Patrasso 
nell'anno  1878: 

Uva  proveniente  da  Patrasso  libbre  venete  (1)  23,673,456 


» 

Egina 

» 

19,225,834 

» 

Zante 

» 

14,002,853 

» 

Cefalonia 

» 

24,527,908 

» 

Catacolone 

» 

23,096,201 

» 

Corinto 

» 

10,745,651 

» 

Nupactia 

» 

98,305 

» 
» 

Missolungi  i 
Etslicone    j 

» 

1,214,875 

» 

Elide 

» 

9,174,434 

» 

Trifilla 

» 

17,035,058 

» 

Leucade 

(S.  Maura) 

» 

10,370 

» 

Messenia 

» 

8,858,430 

Totale     151,663,379 

Se  vi  aggiungiamo  l'uva  uscita  dagli  altri  porti  del  Reame  di  Grecia, 
raggiungiamo  il  totale  di  170  milioni  di  libbre  venete.  La  Francia  da 
sola  nel  1878  ne  comperava  per  30  milioni  di  libbre  al  prezzo  di  lire 
270  ogni  1000  libbre,  cioè  L.  50  al  quintale;  però  nel  1882  e  1884 
corrente  il  loro  prezzo  scese  in  Francia  a  L.  35  a  37   al   quintale. 


(I)  Circa  \\2  chilogramma. 


56  CAPITOLO  III 


Il  rimanente  è  spedito  sovratutto  in  Inghilterra,  a  Trieste,  in   Ger- 
mania e  negli  Stati  Uniti  d'America. 

b)  L'isola  di  Cipro  conta  8000  ettari  a  viti,  i  quali  producono 
150  mila  ettolitri  di  vino;  si  calcola  che  ogni  ettare  produca  20  et- 
tolitri di  vino  rosso,  e  soli  8  a  9  ett.  del  vino  rinomato  della  Com- 
manderia.  La  coltura  delle  viti  a  uve  nere  si  incontra  specialmente 
intorno  ai  monti  Olimpici  e  presso  Idalia.  Neil'  isola  si  producono 
moscato  soprafìno  e  vini  rossi  o  neri,  che  si  smerciano  in  Siria,  in 
Egitto  ed  a  Trieste. 

cj  La  Russia  Europea  ha  una  assai  meschina  importanza  come 
produttrice  di  vino:  infatti  H.  Hamm  (1)  calcola  ne  produca  appena 
650  mila  ettolitri,  naturalmente  nella  sua  parte  meridionale,  la  sola 
che  sia  compresa  nella  zona  della  vite;  altri  invece  ne  porta  il  pro- 
dotto ad  oltre  il  milione  e  mezzo  di  ettolitri.  Gli  è  specialmente  nella 
Bessarabia,  nei  dintorni  di  Odessa,  nella  Caucasia,  nel  Regno  di  A- 
stracan  ed  in  Crimea  che  si  coltivano  viti;  il  suolo  ed  il  clima  della 
Crimea  vi  sono  assai  adattati,  come  lo  sono  eziandio  ad  Astracan  e 
nel  Caucaso;  ma  tuttavia  la  viticoltura  vi  è  ancora  relativamente 
poco  estesa,  nonostante  gli  sforzi  del  Governo  russo  intenti  a  diffon- 
dere questa  coltura  nella  parte  meridionale  dell'impero  (2).  Disgrazia- 
tamente nel  1880  venne  segnalata  la  fillossera  a  Magaradska,  appunto 
in  Crimea  nonché  nel  Caucaso.  —  Ad  Astracan  le  uve  sono  squisite: 
Humboldt,  nel  suo  Cosmos  (3),  dice:  «  io  non  vidi  mai  in  alcuna  parte 
del  mondo,  neppure  nelle  isole  Canarie,  né  in  Ispagna,  nò  nella  Francia 
Meridionale,  frutta  squisite  e  specialmente  uve  più  belle  che  ad  Astracan 
presso  le  spiagge  del  mar  Caspio,  dove  con  una  media  temperatura 
annua  di  circa  9°,  la  temperatura  media  nell'estate  sale  a  21°,2  C.  » 

La  produzione  vinicola  della  Russia  si   suddivide   approssimativa- 
mente come  segue: 


Bessarabia        .     . 

Crimea 

Governo  di  Cherson 
Caucasia  (Nord)  .  . 
Caucasia  (Sud)     .     . 


Ettolitri      369,000 

»     148,000 

19,000 

»     406,000 

»    1,000,000 


(1)  Loc.  cit. 

(2)  Nel  1884  il  Governo  Russo  deliberava  di  aprire  una  Scuola  di   Viticultura 
nel  Caucaso. 

(3)  Kosmos,  tomo  I,  pag.  347. 


STATISTICA  DELLA  VITE  57 

dj  Turchia  Europea.  La  Rumanìa.  Si  calcola  che  questo 
principato  (Valachia  e  Moldavia)  produca  annualmente  600  mila 
ettolitri  di  vino  sovra  90  mila  ettari  vitati:  però,  secondo  la  rela- 
zione ufficiale  della  vendemmia  del  1872,  la  Rumanìa  avrebbe  pro- 
dotto 1,037,436  ettolitri  di  vino,  mentre  la  superfìcie  dei  vigneti  sarebbe 
ora  di  102,000  ettari,  il  che  indicherebbe  un  progresso  nella  viticol- 
tura. Gli  è  specialmente  nei  paesi  collinosi  dell'altopiano  della  Tran- 
silvania  (Carpazii  del  sud-est)  che  si  coltiva  la  vite. 

e)  La  Serbia.  Anche  in  questo  principato  si  coltiva  con  cura 
la  vite;  non  possiamo  però  precisare  su  quanta  superficie,  né  quanto 
vino  si  raccolga  annualmente.  I  vini  di  Serbia  erano  fino  a  questi 
ultimi  tempi  poco  o  punto  conosciuti;  si  credevano  mal  preparati, 
di  cattiva  qualità,  malsani  ecc.  Ora  però  la  Francia,  che  cerca  o- 
vunque  vini,  ha  rivolto  l'occhio  anche  sulla  Serbia  e,  come  rimarca 
il  Barone  Babo  nel  giornale  Die  Weinlaube,  quei  vini  sono  di 
esimia  bontà,  sempre  sani,  genuini  e  possono  venire  esportati  diret- 
tamente dal  paese.  Sono  vini  per  la  maggior  parte  d'intenso  colore 
rosso;  mescolandone  un  ettolitro  con  ugual  quantità  di  vino  bianco, 
questo  si  colora  come  il  più  rosso  vino  di  Vòslau  (località  presso 
Vienna  dove  produconsi  vini  di  eccellente  qualità).  Quel  che  più  au- 
menta il  pregio  dei  vini  della  Serbia  è  questo;  nel  mentre  essi  con- 
tengono gran  quantità  di  tannino,  sono  assai  poveri  di  acidi,  pro- 
prietà codesta  che  manca  ai  vini  della  Dalmazia,  del  Tirolo  meridio- 
nale, dell'alta  Italia,  dell'Istria.  E  ciò  non  dipende  dal  clima,  non 
dal  suolo,  ma  dalle  diverse  varietà  di  uve  che  si  coltivano  in  Serbia, 
fra  cui  anche  la  Catawba  (1).  L'intensità  del  color  rosso  si  credeva 
a  principio  artefatta  usando  la  fuscina,  ma  Babo  trovò  i  vini  della 
Serbia  sempre  genuini,  sani  e  di  gratissimo  sapore.  Ora  essi  vanno 
in  Francia  e  nella  Svizzera. 

f)  La  Bosnia,  la  Erzegovina  e  la  Bulgaria  producono  a  lor 
volta  buoni  vini,  e  costituiscono  anzi  i  paesi  esportatori  di  simile  prodotto 
della  Turchia  Europea;  ci  mancano  però  i  dati  precisi  sulla  estensione 
e  sui  prodotti  di  quei  vigneti.  Solo  sappiamo  che  nel  1884  il  Governo 
di  Bulgaria  deliberava  di  aprire  alcune  Scuole  Viticole  ed  Enologiche, 
in  vista  dell'importanza  che  va  acquistando  colà  l'industria  del  vino  (2). 

(1)  Uva  americana   originaria  della   Carolina  del   Nord,  nera  o  bianca;  di  essa 
parleremo  al  capitolo   Viti  americane  :  per  intanto  veggasi  anche  il  §  8  che  segue. 

(2)  I  concorrenti  al  posto  di  Direttore  possono  rivolgersi  al  Ministro  dei  lavori 
pubblici  e  di  agricoltura  a  Sofia. 


58  CAPITOLO  III 


§  8.  La  viticultura  nell'  America  del  Nord.  —  È  pregio 
dell'opera  esaminare  con  qualche  dettaglio  lo  stato  della  viticultura 
nell'America  Settentrionale,  inquantochè  trattasi  di  un  vastissimo  di- 
stretto, nel  quale  vegeta  la  vite,  e  che  potrebbe  produrre  grandi 
quantità  di  vino,  qualora  la  viticultura  continuasse  ad  estendersi  con 
quella  rapidità  che  si  è  notata  in  quest'ultimo  decennio,  e  quando 
venissero  a  coltivarsi  di  preferenza  certe  specie  o  varietà  che  danno 
vini  potabili  e  non  sgradevoli,  come  sono  molti  fra  quelli  delle  viti 
del  Nord-America.  Premetteremo  che,  a  cagione  della  fillossera,  che 
vi  è  colà  indigena,  almeno  nei  paesi  dell'est  delle  Montagne  Rocciose, 
la  vite  europea  introdottavi  replicatamente  non  vi  potè  mai  attecchire. 
Dopo  la  scoperta  d' America  si  tentò  di  portare  colà  parecchie  va- 
rietà della  nostra  vite  onde  essere  in  grado  di  fabbricare  buon  vino. 
Nel  1630  una  Compagnia  di  Londra  inviò  alcuni  viticultori  francesi  nella 
Virginia  coll'incarico  di  piantarvi  delle  varietà  europee,  che  quei  viticul- 
tori stessi  avevano  portato  seco  loro;  ma  i  tentativi  fallirono.  Nel  1633 
William  Penn  volle  tentare  la  stessa  cosa  nella  Pensilvania;  senonchè  egli 
pure  fallì  ed  in  breve  tempo  le  giovani  piante  morirono.  Nel  1690  il  ten- 
tativo fu  rifatto  da  alcuni  viticultori  dei  dintorni  del  lago  di  Ginevra; 
essi  si  recarono  negli  Stati  del  Sud  (Kentucky)  ma  vi  rimisero  ben 
50,000  lire;  allora  si  diedero  a  coltivare  una  vite  del  luogo,  cioè  una 
vite  americana,  e  questa  fu  la  varietà  detta  Alexander  o  Cape,  che  fu 
la  prima  vite  d'America  coltivata  nel  Nuovo  Mondo;  ed  ecco  che  dopo 
questo  cangiamento  di  ceppo,  quegli  industriosi  Svizzeri  riuscirono 
ad  impedire  la  morte  delle  viti. 

Se  noi  dovessimo  enumerare  qui  tutti  gli  insuccessi  toccati  ai  vi- 
ticultori francesi,  spagnuoli,  inglesi,  svizzeri  e  d'altri  paesi,  che  voi- 
lero  coltivare  in  America  la  vite  europea,  non  la  finiremmo  tanto 
presto.  Ci  limiteremo  perciò  a  citare  alcune  parole  stampate  nel  gen- 
naio del  1851  nell1 'Horticulturist  di  Downing:  «  L'introduzione  delle 
»  viti  straniere  nel  nostro  paese  per  la  coltura  in  grande  è  impos- 
»  sibile.  Migliaia  di  persone  l'ha  tentata,  ma  il  risultato  fu  sempre 
»  lo  stesso;  'una  stagione  o  due  di  promesse  e  poi  scacco  completo.  » 

Riassumendo  dunque,  si  ritiene  impossibile  la  cultura  della  vite 
europea  nell'America  del  Nord  (1). 


(1)  Per  essere  esatti  conviene  fare  una  eccezione  per  la  California,  uno  degli 
Stati  del  Pacifico:  ivi,  benché  la  fillossera  abbia  fatta  la  sua  comparsa,  pure  le 
viti  europee  (Malvasia,  Zeinfeindel)  resistono  abbastanza  bene.  Non  resistono  però 
le  viti  della  Missione  importate  da  Madera. 


STATISTICA  DELLA  VITE  59 

Negli  Stati  Uniti  dell'America  del  Nord  si  coltivano  adunque,  fatta 
eccezione  per  la  California,  esclusivamente  le  viti  indigene,  delle 
quali  abbiamo  detto  qualche  cosa  a  pag.  18  §  3  e  di  cui  ci  occu- 
peremo a  lungo  e  spesse  volte  in  questo  volume  (1)  per  la  grande 
importanza  che  talune  fra  di  esse  hanno  assunto  di  fronte  alla  grande 
quistione  della  fillosseronosi.  La  superficie  coltivata  a  vite,  che  nel 
1850  era  solo  di  qualche  migliaia  di  ettari,  nel  1880  raggiungeva  già 
i  43,000  ettari,  di  cui  14,000  nella  California. 

La  produzione  del  vino  nel  1850  era  soltanto  di  10  mila  ettolitri; 
nel  1860  saliva  ad  80  mila  circa,  ed  oggi  si  può  ritenere  prossima 
ad  1  milione  di  ettolitri;  come   vedesi   1'  aumento  è  notevolissimo. 

I  43,000  ettari  coltivati  a  vigna  negli  Stati  Uniti  rappresentano  un 
valore  di  67  milioni  di  lire,  cioè  in  media  L.  1500  all'ettare;  il  che 
dimostra  che  i  terreni  vitati  hanno  colà  un  non  piccolo  valore,  per 
quanto  esso  sia  assai  inferiore  a  quello  di  molti  vigneti  italiani  e 
francesi. 

La  California  è,  fra  gli  Stati  dell'America  del  Nord,  quello  che  pro- 
duce più  vino:  nel  1880  il  raccolto  totale  fu  di  480  mila  ettolitri 
di  cui  380  mila  in  vini  ed  il  resto  in  acquavite  e  liquori;  nel  1881 
la  produzione  si  elevò  oltre  i  480  mila  ettolitri  circa.  Ora,  non  ostante 
una  produzione  così  meschina  di  fronte  ai  bisogni  degli  Stati  Uniti 
(dove  il  vino  è  assai  caro,  epperò  pochissimo  diffuso)  la  California 
trovò  modo  di  aumentare  la  sua  esportazione  vinicola,  la  quale 

nel  1877  fu  di  58,511  ettolitri 
»     1878      »      67,037        » 
»    1880      »      98,250        » 

E  nel  frattempo  si  emancipò  dai  vini  francesi;  poiché  mentre  la 
Francia  nel  1872  aveva  inviato  in  California  ben  280  mila  ettolitri 
di  vino,  nel  1880  non  riuscì  ad  inviarne  che  20  mila. 

Senonchè  i  vigneti  di  California  sono  da  qualche  anno  fillosserati, 
massimamente  nei  distretti  di  Sonoma  e  Sacramento:  intanto,  siccome 
gli  Americani  non  sogliono  perder  tempo,  stabiliscono  già  fabbriche 
di  solfuro  di  carbonio  e  fanno  le  sommersioni  mercè  i  numerosi  corsi 
d'acqua  che  discendono  dalla  Sierra  Nevada. 


(1)  Ai  capitoli   Viti  Americane  e  Fillossera  devastatrice, 


60  CAPITOLO  III 


Oltre  la  California  sono  vitiferi  gli  Stati  della  Georgia  e  dell'Ohio, 
ove  si  producono  i  migliori  vini  americani;  quello  della  Virginia,  che 
fa  grande  commercio  di  uve  fresche  e  da  vino,  quelli  della  Florida, 
del  Massasuchets,  della  Pensilvania,  della  Carolina  e  del  Missouri. 

Ecco  ora  alcune  notizie  sui  vini  americani  secondo  i  sigg.  Prof. 
Saint-Pierre  e  Foéx,  che  analizzarono  i  campioni  presentati  al  Con- 
gresso viticolo  di  Montpellier  del  1874;  i  risultati  delle  loro  analisi 
sono  utili  a  conoscersi,  onde  farsi  un  concetto  sui  prodotti  vinicoli  del- 
l' America  Settentrionale: 


STATISTICA  DELLA  VITE 


61 


V» 


Quadro   A,   —   VINI   ROSSI. 


NOME 
del    vitigno 


Tipo  Labrusca. 


Concord 
Concord 


Concord 
Ives  seedling 
Ives  seedling 
Ives  seedling 
North  Carol. 

Tipo  Aestìvalis 

Cvnthiana  .     .     .     . 


Cynthiana  .... 
Norton's  Virginia  . 
Riesen  Blatt  .     .     . 

Tipo  Cordifolia 

Clinton 

Tipo  Rotundifolia 

Scnppernong  .     .     . 

Ibridi  di  Roger 

Wilder 


Alcool 
per  cento 

in 
volumi 


12,40 
16,90 

11,60 
10,70 
13,30 
11,30 
13,50 


14,90 

16,20 
12,00 
14,50 


15,00 


17,50 


13,40 


Acidità 
per  litro 


4,37 

4,87 

5,66 
5,36 

5,86 
5,66 

4,87 


4,77 

6,26 
5,66 
4,57 

5,76 


Residuo 
secco 
a  100° 

per   litro 


4,87 


20,48 

27,74 


21.29 
24  2 

19,68 

25,32 

25,48 
27,42 
25,49 

22,25 

120,80 

16,93 


Osservazioni 


Colore  tendente  al  giallo 
Buon   gusto,   poco   pro- 
fumo. 
Gusto  particolare 
Gusto  disaggradevole 
Profumo  troppo  forte 
Bellissimo  colore 
Sapore  disaggradevole 


Ottimo  gusto  e  bel   co- 
lore. 
Colore  ranciato 
Molto  zuccherino 
Ottimo  in  tutto 


Bel  col.,  sapore  marcato 


Eccess.  zuccherino 


Gusto  disaggradevole 


62 


CAPITOLO  III 


Quadro  33 


VINI  BIANCHI. 


NOME 
del   vitigno 

Alcool 
per  cento 

in 
volumi 

Acidità 
per  litro 

Residno 

secco 

a  100° 

per  litro 

Osservazioni 

Tipo  Labrusca 

Concord      

10,50 

5,36 

20.60 

Concord      .     .     .     ,     . 

12,50 

4,77 

— 

Gusto  disaggradevole 

Catawba     .     ,     .     .     . 

13,50 

4,27 

— 

Poco  profumato 

Catawba 

12,50 

5,66 

17,00 

Molto  profumato 

Delaware 

13,00 

5,66 

— 

— 

Delaware 

11,90 

4,67 

19,20 

Molto  zucchero 

Martha 

14,00 

4,27 

20,80 

Color  roseo 

Tipo  Aestivalis 

Herbemont      . 

14,00 

— 

19,20 

Herbemont     .... 

10,80 

5,46 

16,77 

Cunnigham     .... 

15,00 

5,17 

20,15 

Rulander 

15,00 

4:97 

— 

Tipo  Cordi fo Ha 

Taylor 

15,40 

5,17 

20,15 

Profumo  poco  aggradev. 

Taylor 

13,00 

5,66 

— 

Gusto  dolce  di  cassia 

Tipo  Rotundifolia 

Scuppernong  .... 

15,20 

— 

— 

Sapore  assai   disaggrad. 

Scuppernong  .... 

16,10 

3,77 

23,20 

Sapore  farmaceutico . 

Scuppernong  .... 

12,4 

6,66 

— 

Scuppernong  .... 

— 

— 

57,25 

Eccessivamente  zuccher. 

Ibridi  di  Roger 

Goethe 

13,20 

5,17 

20,00 

Color  roseo 

STATISTICA  DELLA  VITE 


63 


Quadro  C  —  VINI  DI  CALIFORNIA. 


NOME 
del   vitigno 

Alcool 

per  cento 

in 

volumi 

Acidità 
per  litro 

Residuo 

secco 

a  100° 

per  litro 

Osservazioni 

Vitigni  indigeni  colti- 

rati  dalla    Viticoltu- 

ral  Society  .... 

15,00 

3,77 

35,70 

Il  residuo  secco  è  violaceo 

Id. 

14,80 

4,17 

51.60 

Molto  zucchero 

Id. 

15,00 

3,80 

38,00 

Id. 

Vitigni  stranieri  colti- 

vati dalla   Viticoltu- 

ral  Society  .... 

14,30 

3,18 

35,40 

Il  residuo  secco  è  violaceo 

Id. 

15,65 

3,38 

27,50 

Molto  dolce 

La  forte  dose  di  alcool  che  si  osserva  nei  detti  vini  dimostra  che 
gli  Americani,  amando  i  vini  alcoolici,  aggiungono  quasi  sempre  zuc- 
chero o  spirito  all'atto  della  vinificazione. 

Il  Prof.  W.  Mallet,  dell'Università  di  Virginia,  ci  porge  i  seguenti 
altri  dati  analitici  sui  vini  dello  Stato  di  Virginia:  ecco  i  campioni 
da  lui  analizzati: 

1.  Virginia  Claret.  —  Vino  rosso  fatto  coll'uva  «  Alvey  »  senza 
aggiunta  alcuna  di  alcool  o  di  zucchero.  Prodotto  dalla  Società  Vi- 
nicola Monticello  di  Charlottesville;  Ad.  Russow  direttore. 

2.  Virginia  Rock.  —  Vino  bianco  fatto  col  mosto  di  prima  pres- 
sione dell'uva  «  Concord  »  senza  alcuna  edizione  di  zucchero;  ven- 
demmia del  1873.  Prodotto  dalla  Società  Vinicola  Monticello. 

3.  Bacchantees.  —  Vino  rosso  brillante  fatto  con  pura  uva  «  Con- 
cord »  vendemmia  1871.  Prodotto  nella  vigna  Laurei  Hill  a  Norfolk; 
proprietario  Lemosy. 

4.  Concord,  detto  anche  Claret.  —  Vino  rosso,  tinta  di  mediocre 
intensità  fatto  coll'uva  «  Concord.  »  Prodotto  nella  vigna  Belmont 
a  Front  Royal;  proprietario  Buck. 


64  CAPITOLO  III 


5.  Concord  dolce.  —  Vino  rosso  scuro,  fatto  con  uva  «  Concord  » 
con  aggiunta  di  alquanto  zucchero  di  canna  raffinato;  vendemmia  del 
1871.  Prodotto  nella  vigna  Laurei  Hill  già  citata. 

6.  Ives.  —  Vino  di  un  bel  color  rosso  chiaro,  fatto  coli' uva  «  Ives.  » 
Dalla  vigna  Belmont. 

7.  Delaware  —  Vino  bianco  pallido  e  brillante,  fatto  col  mosto 
dell'uva  «  Delaware  »  con  aggiunta  di  Ij4  di  libbra  (113  grammi) 
di  zucchero  per  ogni  gallone  (litri  4,500)  del  mosto  stesso;  vendemmia 
del  1873.  Società  Vinicola  Monticello. 

8.  Sveet  Delaioare.  —  Vino  bianco  dolce,  fatto  con  uva  «  De- 
laware »  con  aggiunta  di  sciroppo  di  zucchero  di  canna  raffinato- 
Vendemmia  del  1881.  Ottenuto  nella  vigna  Laurei  Hill. 

9.  Rock.  —  Brillantissimo  vino  bianco  fatto  col  puro  mosto  del- 
l'uva Delaioare.  Dalla  vigna  Belmonte. 

10.  Catawba.  —  Vino  bianco  fatto  con  puro  mosto  di  uva  «  Ca- 
tawba  »  prodotto  nella  vigna  Belmont. 

1 1 .  Norton.  —  Vino  rosso  porpora  molto  scuro  fatto  coli'  uva 
detta  Norton  's  Virginia  senza  nessuna  aggiunta  di  zuccaro  0  di 
spirito.  Vendemmia  del  1873.  Società  Vinicola  Monticello. 

12.  Dry  Norton.  —  Viao  rosso  carico,  asciutto,  secco,  fatto  come 
il  precedente  con  Norton  's  Virginia  senza  alcuna  aggiunta.  Pro- 
dotto nella  vigna  di  Laurei  Hill. 

Ecco  i  risultati  ottenuti  dalle  analisi  del  Prof.  Mallet: 


STATISTICA  DELLA  VITE 


65 


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0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura 


66 


CAPITOLO  III 


La  ricchezza  alcoolica  di  questi  vini  venne  indicata  in  peso;  sic- 
come fra  noi  si  usa  rappresentarla  in  volume,  daremo  qui  i  corri- 
spondenti valori. 


1.  Virginia- e alcool 

2.  Virginia-h. 

3.  Bacchantees 

4.  Concord  . 

5.  Concord . 

6.  Ives 

7.  Delaware 

8.  Sweet  Delaware 

9.  Delaware 

10.  Catawba 

11.  Norton    . 
12  Dry  Norton     . 


Dall'esame  di  questa  tabella  si  deduce  che  i  vini  della  Stato  di 
Virginia  presentano  riguardo  alla  alcoolicità,  un  percento  relativa- 
mente elevato,  dovuto  specialmente  allo  zuccheraggio  dei  mosti.  Ciò 
può  fornirci  un  criterio  abbastanza  importante  per  studiare  il  gusto 
dei  consumatori  americani  relativamente  ai  vini. 


in  volume 

12,0 

» 

10,8 

» 

12,3 

» 

12,3 

» 

14,2 

» 

13,9 

» 

11,8 

» 

13,0 

» 

15,3 

» 

12,3 

» 

13,0 

» 

14,2 

§  9.  La  viticoltura  nell'America  del  Sud.  —  Anche  nell'Ame- 
rica meridionale  la  viticoltura,  benché  lentamente,  accenna  a  progre- 
dire. Quantunque  taluni  accennino  a  viti  indigene  colà  esistenti,  si  ritiene 
generalmente  che  la  viticoltura  abbia  incominciato  nel  1602,  quando 
i  Gesuiti  introdussero  taluni  vitigni  europei  nel  Paraguay,  nell'Uru- 
guay e  nella  Bolivia.  Oggi  si  coltivano  viti  europee  nella  Repubblica 
Argentina  (viti  di  Spagna)  ed  in  Bolivia,  ove  sonovi  vigneti  molto 
rinomati  nella  vallata  di  Cinti  (1)  ad  un'altezza  di  circa  1500  metri 
sul  livello  del  mare;  quivi  la  viticoltura  spingesi  fin  sotto  al  20°  di 
latitudine  sud,  ed  è  1'  altitudine  che  la  favorisce;  senza  di  ciò  essa 
vi  sarebbe  limitatissima,  come  la  è  nel  Chili,  e  più  al  nord,  cioè  verso 
la  linea  equatoriale,  nel  Perù  e  nell'impero  del  Brasile. 


(1)  Cinti,  altra  volta  Camargo,  sul  fianco  orientale  delle  Ande  della  Bolivia,  sul 
fiume  omonimo  affluente  del  Rio  Pilcomayo:  secondo  Weddel  vi  si  produce  un 
vino  eccellente,  forse  il  migliore  fra  tutti  i  vini  d'America. 


STATISTICA  DELLA  VITE  67 

Ci  mancano  notizie  approssimative  sulla  estensione  della  viticol- 
tura nell'America  del  Sud:  solo  sappiamo  che  nella  Repubblica  Ar- 
gentina si  fabbrica  assai  male  il  vino,  il  quale  sopporta  difficilmente 
i  viaggi;  all'interno,  e  così  a  Mendozza,  a  Catamarca,  a  Rioja,  a  San 
Juan,  non  si  beve  che  vino  indigeno.  Intanto  sin  dal  1875  il  Congresso 
nazionale  della  Repubblica  Argentina  ha  decretato  l'apertura  di  scuole 
vinicole  pratiche  e  dirette  da  enologi  esperimentati  venuti  dall'estero. 
La  viticoltura,  quando  fosse  meglio  studiata,  potrebbe  dare  i  più  bril- 
lanti risultati  in  tutta  la  detta  repubblica:  i  sigg.  Claras  e  Heusser  già 
posseggono  vigneti  fiorenti  in  una  zona  al  sud  della  provincia 
di  Buenos- Ayres.  La  provincia  d'Entre  Rios  ed  una  parte  di  quella 
di  Corrientes  sono  singolarmente  adattate  alla  coltura  della  vigna: 
lo  stesso  deve  dirsi  delle  montagne  di  Cordoba.  La  Sierra  di  Cor- 
doba diventerà  senza  dubbio,  in  un  tempo  non  lontano,  una  vera  re- 
gione vinicola. 

Nel  Chili  vi  sono  eccellenti  specie  di  vitigni:  eppure  vi  si  fabbrica 
un  vino  torbido  ed  aspro,  il  quale  però  non  manca  riè  dfcolore  né 
di  forza. 

L'America  meridionale  compera  in  Europa  una  quantità  sempre 
crescente  di  vino,  perchè  —  massime  nelle  grandi  città  —  i  vini 
europei  sono  di  gran  lunga  preferiti  a  quelli  indigeni.  Ecco  alcune 
notizie  in  proposito:  la  Spagna  vende  annualmente  nella  Repubblica 
Argentina  tanto  vino  per  circa  13  milioni  di  lire;  la  Francia  per  12 
milioni  e  Y  Italia  per  1  milione  e  Ij2  a  2.  Vi  sono  però  colà  430 
mila  italiani,  80  mila  spagnuoli  e  50  mila  francesi,  ond'è  a  sperare 
che  il  vino  italiano  abbia  in  breve  ad  occupare  il  primo  posto. 

§.  10.  La  viticoltura  in  Africa.  —  La  viticoltura  in  Africa 
è  limitatissima,  e  questo  perchè  i  4/5  della  sua  superfìcie  si  trovano 
nella  zona  torrida  ove  la  temperatura  media  (nell'Africa  equa- 
toriale) è  circa  di  29°  C;  superiore  cioè  di  1°  a  quella  dell'Asia  e 
di  2°  a  quella  dell'America  equinoziali;  e  dove  può  raggiungere 
gradi  elevatissimi,  come  ad  esempio  56°  nel  Fezzan  e  70°  nell'A- 
frica australe!  (V.  pag.  30).  Però  nell'Algeria,  nell'Egitto  e  nelle 
isole  poste  al  nord-ovest  dell'Africa  nell'Atlantico  (Canarie,  Azorre, 
Madera),  vale  a  dire  nella  parte  settentrionale  del  continente  africano, 
circa  fra  il  27°  ed  il  36°  di  latitudine  nord,  come  pure  nell'Africa 
meridionale  (Colonia  del  Capo)  circa  fra  il  30°  ed  il  35°  di  latitu- 
dine sud,  la  vite  vi  prospera  e  vi  dà  ottimi  prodotti. 


68  CAPITOLO  III 


a)  Algeria.  In  Algeria  la  viticoltura  ha  preso  da  varii  anni  un  no- 
tevole incremento  per  opera  dei  Francesi,  i  quali  se  ne  occupano  con 
amore  e  sperano  di  giungere  a  produrvi  vini  rinomati,  specie  sul  tipo 
del  famoso  vino  spagnuolo  di  Jerez  de  la  Frontera  o  Xeres;  si 
basano,  a  questo  riguardo,  sulla  identità  della  composizione  chimica  del 
terreno  dei  dintorni  di  Xeres  e  di  quello  della  provincia  di  Oran  e  di 
altre  località  algerine.  In  complesso  questa  colonia,  sia  pel  clima 
come  pel  terreno,  è  adattata  essenzialmente  alla  produzione  dei  vini 
liquorosi  ed  alcoolici  sul  genere  del  Porto,  del  Malaga,  del  Madera 
e  del  Marsala;  i  vini  da  pasto  pare  non  possano  reggere  ai  viaggi, 
e  conviene  perciò  consumarli  in  paese:  tuttavia  diremo  che  nel  1883 
alcuni  negozianti  francesi  ne  fecero  in  Algeria  discrete  provviste  per 
uso  della  Francia. 

Ecco  alcuni  dati  sulla  estensione  della  vite  e  sulla  produzione  vini- 
cola dell'Algeria.  Nel  1876  non  si  contavano  che  16,700  ettari  a 
vigna,  i  quali  diedero  221,000  ettolitri  di  vino:  nel  1882  il  numero 
degli  ettari  oltrepassò  i  37,000  e  la  produzione  raggiunse  i  947,153 
ettolitri.  Come  vedesi  si  tratta  d'un  importante  distretto  vitifero,  al 
quale  la  Francia  prodiga  molte  cure,  massime  dopo  V  invasione  fil- 
losserica  nella  Francia  meridionale. 

b)  Egitto.  La  coltura  della  vite  è  antichissima  in  Egitto;  dap- 
prima florida,  decadde  e  quasi  scomparì  a  cagione  dei  precetti  del 
Corano.  Maometto  infatti  chiamava  il  vino  «  una  abominazione  in- 
ventata da  Satana  »  (1)  e  prometteva  la  felicità  a  chi  se  ne  fosse 
astenuto:  ma  il  curioso  si  è  che  questa  felicità  nella  vita  futura  sa- 
rebbe stata,  secondo  lo  stesso  Maometto  (2),  il  trovarsi  fra  ruscelli 
di  latte  e  «  ruscelli  di  vino,  delizia  di  quelli  che  ne  beveranno.  »  Il 
grande  legislatore  apprezzava  adunque  il  vino,  ma  ne  sconsigliava 
l'uso  su  questa  terra  a'  suoi  fedeli;  fatto  è  che,  per  la  esaltazione  re- 
ligiosa di  quei  tempi,  che  certo  non  ha  più  riscontro  nella  fiacca  fede 
d'oggidì,  la  viticoltura  decadde  del  tutto.  Lungo  la  valle  del  Nilo 
ed  in  tutto  quel  grande  triangolo  che  si  estende  tra  il  Cairo  a  mez- 
zodì, Alessandria  ad  occidente  e  Porto-Said  a  levante,  è  un  succe- 
dersi continuo  di  campi  coltivati  a  cotone,  i  più  belli  forse  che  pos- 
sano vedersi,  di  grano,  di  fave,  di  zucchero,  di  trifoglio,  con  boschi 


(1)  Corano,  Cap.  V,  versetto  92. 

(2)  Id.,  Cap.  XLVII,  vers.  16. 


STATISTICA  DELLA  VITE 


di  palme  di  tratto  in  tratto,  paludi,  risaie,  ma  vigneti  punto  (1). 
Infiacchitosi  lo  spirito  religioso,  la  viticoltura  accenna  ora  ad  un  ri- 
sveglio, massimamente  dopo  che  Mohamed  Ali  vi  fece  piantare  due 
milioni  di  viti  di  varie  qualità,  fra  cui  le  mangerecce  (zibibbo)  (2). 
Il  terreno  egiziano  è  molto  adattato  alle  viti,  escluso  però  il  Delta, 
ossia  l'alluvione  del  Nilo,  ove  la  vegetazione,  secondo  il  Dr.  Couvidon, 
è  così  rigogliosa  che  la  potatura  non  basta  a  moderarla,  e  l'uva  vi 
matura  così  irregolarmente,  che  sullo  stesso  ceppo  si  trova  il  fiore, 
l'agresto  ed  il  grappolo  maturo,  appunto  come  accade  sotto  l'equa- 
tore (pag.  38);  a  ciò  contribuiscono  la  fertilità  del  suolo,  il  calore  e 
l'umidità. 

Oggi  in  Egitto  si  trovano  qua  e  là  vigneti  floridi;  uno  fra  i  più  rino- 
mati è  quello  impiantato  a  Raz-el-Ouadi  (provincia  di  Zagarig)  dal  si- 
gnor Nourisson-bey,  cittadino  svizzero:  questo  vigneto,  tenuto  a  cor- 
doni orizzontali  su  fili  di  ferro,  produsse  già  al  quarto  anno  molta 
e  bellissima  uva.  Anche  l'italiano  Carlo  Mazzetti,  Regio  Agente  Con- 
solare d'Italia  a  Zagarig,  ha  ottenuto  ottimi  risultati  con  talee  e  bar- 
batelle di  varietà  italiane.  Infine  è  indubitato  che  l'Egitto  potrebbe 
diventare  un  importante  paese  vitifero;  ma  noi  non  crediamo  che 
ciò  accadrà  tanto  presto,  anzitutto  perchè  oggi  V  Egitto  si  è  dato 
con  molto  ardore  alla  coltura  del  cotone ,  che  esporta  in  grandi 
quantità;  e  poi  perchè  gli  Egiziani,  a  cagione  del  caldo  clima  locale, 
non  sentono  il  bisogno  del  vino;  prova  ne  sia  che  quasi  tutto  quello  colà 
importato  è  bevuto  dai  90,000  stranieri  (per  la  massima  parte  Europei) 
che  dimorano  in  Egitto  e  dalle  navi  che  si  provvedono  di  viveri,  sovra- 
tutto  se  dirette  alle  Indie  (3).  L'Egitto  compra  specialmente  il  vino 
francese  fino  e  da  pasto,  il  vino  greco  ordinario  ed  in  ultimo  il  vino 
italiano. 

Attualmente  le  poche  viti  coltivate  in  Egitto,  massime  nel  Fayum, 
regione  a  mezzodì  del  Cairo,  lo  sono  per  l'uva,  che  vi  matura  assai 
bene  e  forma  grappoli  meravigliosi,  secondo  l'espressione  dei  visita- 
tori di  quel  paese. 

e)  Le  Canarie,  le  Azorre  e  Madera.  Passando  sopra,  per  as- 


(1)  Così  l'avv.  G.  Pio  di  Savoia,  R.  Vice  Console  in  Algeri,  in  una  sua  bella 
«  Memoria  sulla  Viticoltura  in  Egitto  ».  (Bollettino  Consolare:  fase.  II,  feb- 
braio 1883). 

(2)  G.  Rosa:  Storia  dell'Agricoltura  nella  civiltà  (pag.  357). 

(3)  Pio  di  Savoia:  loc.  cit.,  pag.  158. 


70  CAPITOLO  III 


soluta  deficienza  di  dati,  ai  vigneti  esistenti  nei  dintorni  di  Tangeri 
(Marocco)  sulla  costa  dello  stretto  di  Gibilterra,  diremo  che  le  isole 
Canarie  producono  buoni  vini,  non  però  uguali  a  quelli  di  Madera, 
benché  dello  stesso  tipo.  Le  Azorre  sono  pure  molto  vitifere,  anzi 
il  vino  è  uno  fra  i  loro  più  importanti  prodotti:  i  vini  d'esportazione 
si  producono  specialmente  a  Pico,  una  delle  nove  isolette  del  gruppo, 
ma  poi  si  trasportano  a  Fayal,  eh'  è  il  centro  del  commercio.  Il 
gruppo  di  Madera  (Madera  e  Porto  Santo)  dal  lato  viticolo  è  il 
più  importante  fra  le  isole  africane  dell'Atlantico;  una  volta  vi  si 
producevano  150  mila  ettolitri  vino  di  due  qualità,  cioè  quello  che 
in  commercio  chiamasi  London  Particular  o  Madera  ordinario,  ed 
il  Malvasia  o  Malmsey  che  vale  il  doppio  (1).  Però  la  produzione  è 
oggi  diminuita,  sia  perchè  in  molte  località  la  vite  fu  sostituita  dalla 
canna  da  zucchero,  sia  perchè  la  fillossera  si  mostrò  colà  sin  dal 
1879,  specialmente  a  Camara  de  Lobas. 

Nel  1852  il  raccolto  fu  nullo  nell'isola  di  Madera,  perchè  i  vigneti 
furono  devastati  daWoidium,  e  per  nove  anni  si  può  dire  che  Madera 
non  produsse  vino;  ma  dal  1861,  anno  in  cui  si  raccolsero  1600  etto- 
litri, il  raccolto  di  vino  andò  sempre  aumentando,  e  dal  1870  ad 
oggi  il  raccolto  annuo  fu  di  oltre  40,000  ettolitri  in  media.  La  più 
antica  Casa  vinicola  di  Madera  fu  fondata  nel  1745. 

La  vite  a  Madera  e  Porto  Santo  è  coltivata  in  luoghi  molto  ripidi, 
e  quindi  su  banchine  o  terrazze,  che  si  elevano  talvolta  sino  a  2000 
piedi  sul  livello  del  mare;  il  terreno  spesso  è  costituito  da  semplici 
ceneri  vulcaniche  nere  o  grigie,  e  si  suole  qualche  volta  bagnarlo 
mediante  condotte  d'acqua  stabilite  sul  fianco  delle  montagne.  Il  mosto- 
vino  si  trasporta  generalmente  a  Funchal  (porto  dell'isola  Madera), 
ove  si  colloca  nelle  estufas  onde  subisca  l'influenza  dell'alta  tempe- 
ratura durante  parecchi  mesi;  dopo  si  mette  in  botti  e  si  commercia 
passati  due  anni  almeno.  Un  armazen  o  magazzino  di  Funchal  contiene 
una  serie  di  fabbricati,  che  sono  la  fabbrica  di  tini  e  botti,  le  cantine, 
\  estufa  ed  il  pateo  o  deposito.  I  fusti  nei  quali  si  mette  il  vino  di 
Madera  si  chiamano  pipe  ed  ogni  pipa  ne  contiene  418  litri. 


(1)  Oltre  alla  Malvasia,  che  è  dolce  e  delicata,  si  producono  anche  il  Bual  ed  il 
Verdelho,  vini  bianchi  secchi  aromatici,  il  Tinta,  vino  rosso  astringente  sul  genere 
del  Porto,  ed  il  famoso  Sorciaie,  che  è  uno  squisito  vino  secco,  il  quale  si  fa  per- 
fetto dopo  dieci  o  quindici  anni.  Nella  nostra  Monografia  sui  vini  di  lusso,  sonovi 
molti  dettagli  su  questo  vino:  pag.  154  (2a  ediz.  1884). 


STATISTICA  DELLA  VITE  71 

d)  Colonia  del  Capo  di  Buona  Speranza.  Questa  penisola,  la 
quale  gode  di  un  clima  dolce  e  temperato,  è  assai  propizia  alla  col- 
tura della  vite,  fatta  forse  eccezione  delle  terre  alluvionali  presso  il 
Capo,  ove  la  vite  dà  prodotti  di  qualità  inferiore.  I  vigneti  del  borgo 
di  Costantia  producono  vini  rinomatissimi,  liquorosi,  fragranti,  sul  ge- 
nere del  Tokay;  però  si  tratta  d'una  produzione  assai  limitata  e  che 
quasi  non  dà  luogo  ad  esportazione.  Si  esportano  invece,  sotto  il 
falso  nome  di  vini  di  Costantia,  i  moscati  che  si  raccolgono  nei  vi- 
gneti posti  fra  la  Falsa  baia  e  quella  della  Tavola.  Ci  mancano  i 
dati  sull'estensione  dei  vigneti  e  sui  loro  prodotti  nella  colonia  sud- 
detta. 

§  11.  La  viticoltura  in  Australia.  —  Questo  continente  va 
assumendo  grado  grado  una  sempre  crescente  importanza  come  pro- 
duttore di  vino.  Abbiamo  già  detto  a  pag.  25  che  alcuni  Svizzeri 
sin  dal  1851  introdussero  viti  europee  nella  colonia  di  Victoria:  se- 
condo Carlo  Jung  (1)  la  viticoltura  avrebbe  invece  incominciato  sin 
dal  1837  nella  Nuova  Galles  meridionale,  ove  una  famiglia  tedesca 
di  Hattenheim  (Rheingau)  introdusse  in  queir  anno  vitigni  europei: 
ciò  è  molto  attendibile,  perchè  oggi  ancora  il  miglior  vino  di  quella 
colonia  è  il  Riesling. 

Ecco  la  superficie  occupata  dalle  viti  nelle  varie  colonie; 

Superficie  totale 
Nuova  Galles  del  Sud  acri  4200  (2)        799,138  chil.  quad. 
Victoria  »     4500  229,000        » 

Australia  Meridionale    »     4200  2,342,000        » 

Queensland  »       700  1,737,000        » 

Australia  Occidentale    »       700  2,527,000        » 

Enrico  Greffrath,  uno  fra  i  migliori  conoscitori  dell'Australia,  par- 
lando delle  condizioni  climatiche  della  colonia  di  Victoria,  dice  che  le 
isotermiche  la  pongono  al  medesimo  livello  di  Marsiglia,  Bordeaux, 
Bologna,  Nizza,  Verona  e  Madrid;  la  media  temperatura  annuale  è  di 


(1)  Australien   und   Neuseeland;    Historische,   geographische  und  statistische 
Skizze  —  Leipzig  1879,  pag.  52. 

(2)  Un  acre  corrisponde  a  circa  40  are  e  mezza;  l'acre  si  divide  in  4  roods\  il 
rood  si  divide  in  1210  yards:  il  yard  è  uguale  a  metri  quadrati  0,914. 


CAPITOLO  III 


12°,30' 

27°,9 

31°,8 

24°,7 

7°,1 

27°,30' 

20° 

25°,  1 

13°,7 

11°,4 

34° 

16°,9 

21°,7 

11°,7 

10°,6 

38° 

14°,4 

19°,9 

8°,7 

11°,2 

35° 

17°,3 

23°,2 

10°,8 

12°,4 

32° 

18°,8 

25°,4 

febb. 

13°,1 

12°,3 

14°   C.   per   Melbourne    (città   capoluogo).  Egli  ci  porge  pure  i  se- 
gnenti  altri  importanti  dati  sull'Australia  in  genere: 

Latit.  Sud    Temp.  med.    Gennaio  Luglio     Differenze 

(  massimo  )         (minimo) 

Porto  Darwin 

(Aust.  sett.) 

Brisbane 

(Queens.) 

Sydney 

"(N.  Galles) 

Melbourne 

(Vict.) 

Adelaide 

(Aust.  merid.) 

Perth 

(Aust.  occid.) 

Quella  parte  dell'Australia,  la  quale  trovasi  al  Nord  del  tropico  del 
Capricorno,  vale  a  dire  più  vicina  all'equatore,  ha  un  clima  tropi- 
cale, la  cui  temperatura  media  è  di  27°  C.  e  nei  mesi  più  freddi 
non  meno  di  20°  C;  invece  nelle  regioni  meridionali,  come  si  vede 
nel  quadro  che  precede,  il  clima  si  avvicina  a  quello  dei  paesi  del 
Mediterraneo,  ed  è  perciò  favorevolissimo  alla  coltura  della  vite. 
Infatti  la  viticoltura  vi  si  estende  sempre  più  (1)  non  solo  per  la 
produzione  dei  vini,  ma  eziandio  per  quella  delle  uve  mangereccie; 
(la  sola  Galles  ne  produce  non  meno  di  9  a  10  mila  quintali  al- 
l'anno). Tuttavia  il  vino  prodotto  in  paese  non  basta  ai  bisogni  della 
consumazione,  ed  ogni  anno  perciò  si  importano  per  500  mila  lire 
sterline  di  vini  europei;  cioè  per  12,500,000  lire  italiane. 

I  vitigni  che  meglio  riescono  in  Australia  sono  il  Riesling  sovra 
citato,  il  Verdelho  Madera,  l'Aucarot,  il  Pedro  Ximenes,  il  Chasselas 
ed  il  Moscato  nero;  fra  tutti  però  eccelle  il  Riesling,  col  quale  si  fab- 
bricano eziandio  buoni  vini  spumanti.  Si  coltivano  però  con  successo 
eziandio  il  Cabernet,  il  Syrrah,  il  Malbec  ed  il  Roussillon,  tutti  vi- 
tigni francesi.  Le  uve  vi  maturano  benissimo,  talché,  secondo  il 
Wine  and  Fruii  Reporter  di  New  York,  dal  quale  togliamo  queste 


(1)  Il  principale  viticoltore  australiano    è  il  Sig.  J.  T.  Fallon  di  Murray,   che 
produce  12  mila  ettolitri  di  vino   all'anno. 


STATISTICA  DELLA  VITE  73 


notizie,  il  vino  australiano  ha  in  media  il  18  °/0  di  alcool  senza  ve- 
runa aggiunta,  cioè  fatto  con  pura  uva.  Questa  vale  in  media, 
quando  è  di  buona  qualità  e  ben  matura,  L.  12  a  12,50  al  quintale, 
mentre  in  Inghilterra  si  potrebbe  rivendere  a  L.  150  per  la  stessa 
misura;  perciò  si  fanno  sforzi  colà  per  esportare  uve  in  Inghilterra 
in  un  coi  vini  alcoolici  (1).  Alla  esposizione  universale  di  Parigi  del 
1878  figuravano  i  nomi  di  140  coltivatori  di  vigneti  australiani  pro- 
duttori di  Riesling,  di  Borgogna,  di  Tokay,  di  Sherry  o  Xeres  e  di 
Hermitage:  però  si  trovò  che  questi  vini  erano  lungi  dal  rassomigliare 
ai  loro  omonimi;  invero  i  tentativi  fatti  per  esportare  i  vini  d'Au- 
stralia in  Europa  non  furono  insino  ad  oggi  coronati  da  successo 
molto  felice;  pur  tuttavia  a  Parigi  si  ebbero  premii  di  incoraggiamento. 
Ma  alla  susseguente  esposizione  di  Sydney,  l'Australia  si  fece  molto 
onore,  e  gli  Europei  recatisi  colà  dovettero  constatare  reali  e  no- 
tevoli progressi. 

Senonchè  sin  dal  1878  si  scopriva  la  fillossera  a  Geelong  (città 
marittima  nella  colonia  di  Victoria)  sopra  una  estensione  di  8  ettari; 
essa  vi  fu  importata,  ed  era  da  prevedersi,  coi  vitigni  francesi,  e  nel 
1883  già  aveva  invaso,  a  quanto  pare,  una  superfìcie  del  raggio  di 
30  miglia  circa. 

§  12.  La  viticoltura  in  Asia.  —  Riassunto  e  conclusione. 

—  Sono  assai  deficienti  le  notizie  che  abbiamo  potuto  raccogliere 
sulla  viticoltura  in  Asia,  ove  d'altronde  il  vino  ha  un  ostinato  nemico 
nel  maomettanismo,  e  perciò  dovremo  limitarci  a  pochi  cenni.  La  parte 
centrale  e  quella  occidentale  producono  certamente  vini  ed  ottime  uve 
mangereccie,  fra  cui  sono  celebrate  quelle  di  Smirne  (Corinto),  e  già 
dicemmo  che  l'Asia  Minore  fu  la  patria  della  vite  e  della  viticoltura 
(pag.  15);  si  sa  pure  che  nel  Kaschemir  si  producono  vini  alcoolici 
sul  tipo  del  Madera,  e  che  nella  Persia  le  viti,  da  tempi  remotissimi, 
sono  coltivate  dai  Guebri,  i  seguaci  di  Zoroastro;  che  si  coltivano 
pure  viti  nel  Turkestan,  ad  Ispahan,  ove  si  fa  un  buon  moscato  e 
si  producono  uve  mangereccie;  che  infine  nel  Canato  di  Bokhara, 
nell'Asia  Centro-occidentale,  vi  sono  molte  varietà  di  uva,  e  che  le 


(1)  Chi  si  occupa  specialmente  di  ciò,  è  il  valente  viticoltore  Dottor  Bleasdale 
di  Melbourne.  V.  Giornale  Vinicolo  Italiano,  da  me  diretto,  volume  IV,  pa- 
gina 315. 


74 


CAPITOLO  III 


uve  secche   di  quella   provenienza   sono  le  più   grosse  e  le  più  fine 
che  si  possano  mangiare. 

In  quanto  alla  Cina  ed  al  Giappone  non  risulta  che  vi  si  coltivino 
seriamente  viti  (1),  né  che  vi  siano  viti  europee  o  asiatiche  allo  stato 
selvatico,  perchè  quelle  colà  trovate  dai  signori  Degron  e  Caillaud 
anziché  viti  vinifere  sono  verosimilmente  cissi  (2);  del  resto  al  Giap- 
pone, per  causa  della  umidità,  le  uve  danno  vini  deboli  ed  acquosi,  e 
pare  che  le  viti  si  coltivino  solo  nei  giardini.  Le  viti  della  Cina  si 
dicono  migliori,  ma  sono  scarse  perchè  i  Chinesi  bevono  assai  poco 
vino;  però  ora  s'incominciano  ad  introdurre  al  Giappone  viti  europee 
e  nel  1883  dall'Ungheria  partirono  per  quel  lontano  impero  oltre  a 
100  mila  piantine  (barbatelle)  allo  scopo  di  tentarne  la  coltura  ed 
acclimatarle,  cosa  che  secondo  ogni  probabilità  riescirà  bene. 

Riassumendo,  la  viticoltura  e  la  produzione  vinifera  nel  mondo 
sarebbero  rappresentate,  molto  approssimativamente,  secondo  i  dati 
più  recenti  e  più  attendibili,  dai  seguenti  numeri: 

Superficie  vitata    Prod.  media  annua 
ettari  ettolitri 


Francia  . 

2,095,927 

31,300,254  (3) 

Italia 

1,870,109 

30,000,000 

Spagna    . 

1,400,000 

22,000,000 

Portogallo 

250,000 

9,000,000 

Austria    . 

210,513 

3,692,500 

Ungheria 

425,314 

8,506,280 

Svizzera 

34,600 

1,211,000 

Germania 

150,000 

2,600,000 

Grecia     . 

40,000 

1,000,000 

Cipro 

8,000 

150,000 

Russia  europea 

? 

1,942,000 

Rumanìa 

102,000 

1,037,436 

Serbia     . 

? 

? 

Bosnia,  Erzegovina,  Bulg 

aria           ? 

2 

(1)  Gabriele  Rosa  nella  sua  Storia  dell'agricoltura,  pag.    346,  dice   invece  che 
nel  Giappone  e  nella  Cina  meridionale  si  coltivano  viti,  ma  non  dice  di  più. 

(2)  V.  Botanica  della  vite  (Cap.  IV). 

(3)  Media  esatta  dal  1879  al  1883  (V.  pag.  50).    . 


STATISTICA  DELLA  VITE 


75 


America  del 

Nord  colla 

Ca- 

lifornia 
America  del  Sud     . 

43,000 

? 

1,000,000 

2 

Algeria   . 
Egitto     . 
Canarie  . 

. 

37,000 

? 

2 

947,153 

2 
2 

Azorre    . 

. 

2 

2 

Madera  . 

Capo  di  Buona  Speranza 

Australia 

Asia        . 

2 

2 

5,700 

2 

40,000 

2 

150,000 

2 

L'  Europa,  come  risulta  da  questo  specchio,  è  di  gran  lunga  più 
innanzi  nella  viticoltura  d'ogni  altro  paese,  quantunque  sianvi  nel 
mondo  varie  altre  zone  ove  la  vite  potrebbe  prosperare  e  dare  ottimi 
frutti:  che  se  la  viticoltura  del  vecchio  continente  riescirà  a  circoscri- 
vere l'invasione  fìllosserica  ed  a  lottare  vittoriosamente  contro  di  essa, 
non  vi  ha  dubbio  che  assai  difficilmente  si  riescirà  a  muoverle  una 
concorrenza  di  qualche  importanza;  ond'  è  che  ci  paiono  infondati  i 
timori  manifestati  da  taluno  a  questo  riguardo. 

Frattanto  il  continuo  incremento  della  viticoltura  e  della  enologia 
in  ogni  parte  del  mondo,  dimostra  che  ognuno  riconosce  nella  Vite 
una  pianta  eminentemente  benefica  alla  umanità,  e  nel  vino  la  prima 
fra  tutte  le  bevande  alcooliche. 


CAPITOLO  IV 


Botanica  della  Vite. 

§  1 .  Classificazione  :  vite  d'  Europa  e  viti  Americane  —  §  2.  Cissus  d'Africa  e 
d'Asia  (Sudan,  Arabia,  Cocincina,  Cina  e  Giappone)  —  §  3.  Descrizione  della 
vite  o  organografia  —  §  4.   Anatomia  della  vite   —   §  5  Fisiologia  della  vite. 

§  1.  Classificazione:  viti  d'Europa  e  viti  Americane.  —  La 
Vitis  vinifera  appartiene  alla  divisione  delle  Fanerogame  (1),  alla 
sotto  divisione  delle  Dicotiledoni  (2)  all'ordine  o  famiglia  delle  Ampe- 
lidee  (3)  ed  al  genere  Vite.  La  piccola  famiglia  delle  Ampelidee, 
che  in  tutto  novera  circa  250  specie,  comprende  altri  due  generi, 
Cissus  ed  Ampelopsis,  le  così  dette  viti  selvatiche,  ed  è  nettamente 
caratterizzata  dalle  sue  foglie  provviste  di  stipole,  dai  viticci  opposti 
alle  foglie,  dai  suoi  stami  opposti  ai  petali,  e  dalla  struttura  del 
frutto  e  del  seme;  però  il  solo  genere  Vitis  dà  frutti  eduli  ed  atti 
alla  buona  vinificazione,  mentre  i  frutti  di  certi  Cissus,  se  sono  com- 
mestibili e  se  servono  a  far  vino  presso  certe  tribù  negre  della  Nigrizia, 


(1)  Cioè  piante  a  fiori  manifesti,  per  distinguerle  dalle  crittogame,  che  sono  le 
numerosissime  piante  a  organi  sessuali  nascosti  o  invisibili,  così  chiamate  da  Lin- 
neo. (Crediamo  utile  di  dare  queste  spiegazioni  elementari,  nonché  altre  molte 
che  le  seguiranno  nel  corso  dell'  opera,  per  quei  lettori  viticultori  che  avessero 
scordato  i  principii  della  botanica). 

(2)  Cioè  con  embrione  a  due  cotiledoni,  mentre  le  piante  monocotiledoni  ne 
hanno  uno  solo:  seminando  la  vite,  come  il  fagiuolo  ecc.,  si  hanno  due  foglie  se- 
minali appunto  perchè  la  pianta  è  dicotiledone  (V.  più  innanzi  Seminagione). 

(3)  Parola  derivata  dal  greco:  Omero  chiamò  ampelos  la  vite. 


BOTANICA  DELLA  VITE  77 


(v.  pag.  79)  non  servirebbero  se  non  molto  difficilmente  alla  fabbri- 
cazione del  vino,  quale  noi  l'intendiamo. 

Il  Cissus  è  un  arboscello  sarmentoso  a  ricco  fogliame  come  la  vite, 
adatto  a  formare  pergolati  e  capanne;  cresce  spontaneamente  in  Asia, 
nell'America  del  Nord  e  nell'Africa  ed  oggi  è  acclimatato  anche  in 
Europa:  sotto  il  nome  di  Ampelopsis  si  designano  generalmente  le 
viti  vergini,  ed  è  notissima  la  specie  Ampelopsis  hederacea. 

Il  genere  Vite  comprende  una  sola  specie  europea  od  asiatica  (la 
vera  Vitis  vinifera  di  Linneo)  e  parecchie  specie  americane.  Riley 
riduce  queste  ultime  a  nove,  cioè  : 

1.  Vitis  Labrusca  6.  Vitis  Californica 

2.  Vitis  Aestivalis  7.  Vitis  Arizonica 

3.  Vitis  Riparia  8.  Vitis  Candicans 

4.  Vitis  Vulpina  9.  Vitis  Rupestris 

5.  Vitis  Cordifolia 

Soltanto  le  prime  4  specie  sono  coltivate  in  America  per  ottenerne 
direttamente  uva  da  vino.  —  Alcuni  altri  autori  portarono  le  specie 
americane  a  ben  quarantadue,  ma  Elia  Durand  le  ridusse  notevol- 
mente, classificandole  come  segue  : 

SEGTIO  I.  —  Vites  verse  (polygamce  aut  dioicce). 

*   RAMI   PR^ELONGI   ET    SCANDENTES. 

§  Folia  subtus  tomentosa  seu  araneosa. 

1.  —  Vitis  labrusca,  Linn.,   V.  taurina,  Walt.  (Fox-grape). 

2.  —  V.  ìestivalis,  Mich.,  V.  labrusca,  Walt.  (Summer-grape, 
Chicken-grape) . 

Var.  Sinuata  Pursh. 

3.  —  V.  cariBìEa,  DC,   V.  indica,  H.  B.  K. 

4.  —  V.  mustangensis,  Buckley  (spec.  nova  ined.),  V.  Candicans? 
Engelm.  (Mustang -g rape). 

5.  —  V.  californica,  Benth.,   V.  caribcea,  Hoock.  et  Arn. 

§§  Folia  glabra  subtusve  pubescentia. 

6.  —  V.  cordifolia,  Mich.,  V.  vulpina,  Linn.  ?  non  Torr.  et  Gray 
(Fox-grape,    Winter-grape). 


78  CAPITOLO  IV 


Var.  Riparia,  Torr.  et  Gray,  V.  riparia,  Mich.,  V.  odoratis- 
sima,  Don.,  V.  virginiana,  Hort.  Par.?  V.  palmata,  Vahl??  (Ri- 
ver-grape,  sweet-scented-grape). 

7.  —  V.  rotundifolia,  Mich.,  V.  vulpina,  Torr.  et  Gray  (Mu- 
scadine,  Bullace,  Bullet-grape,  Scuppernong). 

r  **   CAULES   ERECTI   SEU   DECUMBENTES. 

8.  —  V.  rupestris,  Scheele. 

9.  —  V.  monticola,  Buckley  (spec.  nova  ined.), 

10.  —  V.  lincecumii,  Buckley  (spec.  nova  ined.)  (Post-oak-grape, 
Pine- wood-g  rape). 

SEGUO  II.  —  Pseudo-vites. 

*   CAULES   SCANDENTES. 

11.  —  V.  indivisa,  Willd.,  Ampelopsis  cordata,  Mich.,  Cissus 
ampelopsis,  Pers. 

12.  —  V.  incisa,  Nutt. 

13.  —  V.  acida,  Linn. 

14.  —  V.  bipinnata,  Torr.  et  Gray,  V.  arborea,  Willd.,  Ampe- 
lopsis bipinnata,  Mich.,  Cissus  stans,  Pers. 

15.  —  V.  hederacea,  Willd.,  Ampelopsis  hederacea,  Michaux, 
V.  quinquefolia,  Lam.,  Cissus  hederacea,  Pursh. 

Var.  Texana,  Buckley  (var.  nova  ined.). 

In  questa  classificazione  si  vede  che  Elia  Durand  chiamò  giusta- 
mente vere  vigne  quelle  che  danno  un  frutto  edulo  e  che  può  ser- 
vire alla  vinificazione,  a  parte  la  maggiore  o  minore  bontà  del  vino. 
Chiamò  invece  false  viti  il  Cissus  e  l'Ampelopsis. 

Ma  secondo  il  già  citato  D.r  Regel,  direttore  del  Giardino  botanico  di 
S.  Pietroburgo,  anche  la  vite  europea  od  asiatica  potrebbe  trovar  po- 
sto fra  le  suddette  viti  americane  (1)  ed  il  Dott.  Engelmann  (2)  pare 
non  dissenta  totalmente  da  questa  opinione.  Regel  dice  che  la  Vitis 
Vinifera  Lin.  è  il  prodotto  ibrido  ed  alterato  della  coltura  delle  due 
specie  selvatiche   V.   Vulpina  e   V.  Labrusca,  ed  Engelmann  la  col- 


(1)  Op.  cit.  (v.  pag.   17  in  nota). 

(2)  G.  Engelmann,  Le  vigne  degli  IStati   Uniti  (nel  Catalogo  dei   signori   Bush 
e  Meissner,  pag.   15-10). 


BOTANICA  DELLA  VITE  79 

locherebbe  fra  la  V.  Riparia  e  la  V.  Aestivalis.  Il  Prof.  Braun  di 
Berlino  suppone  che  le  differenti  forme  della  nostra  vite  dipendano  da 
specie  distinte  che,  come  abbiamo  visto  nel  Capo  I,  si  trovano  ancora 
allo  stato  selvatico  in  molte  parti  del  mezzodì  d'Europa  e  dell'Asia; 
queste  specie,  secondo  Braun,  non  sarebbero  sorte  accidentalmente 
delle  piante  coltivate,  come  generalmente  si  crede,  ma  rappresente- 
rebbero i  veri  parenti  originarii:  ed  il  Dott.  Engelmann  aggiunge  che, 
come  risulterebbe  dalle  sue  ricerche,  la  vigna  la  quale  abita  le  foreste 
primitive  delle  rive  basse  del  Danubio  a  partire  da  Vienna  sino  al- 
l'Ungheria, rappresenta  in  modo  chiaro  le  viti  americane  Cor  di f olia 
e  Riparia  coi  loro  tronchi  spessi  da  3  a  6  a  9  pollici,  colle  loro 
abitudini  di  salire  sugli  alberi  i  più  alti,  colle  loro  foglie  liscie  e  lu- 
centi, appena  lobate,  e  coi  loro  piccoli  acini  neri.  D'altra  parte,  sem- 
pre secondo  Engelmann,  la  vite  selvatica  dei  terreni  accidentali  della 
Toscana  e  del  Lazio  (Roma)  colla  sua  vegetazione  più  bassa,  le  sue 
foglie  tomentose  ed  il  suo  frutto  più  grosso  ed  alquanto  gradevole, 
ricorderebbe,  malgrado  la  minor  dimensione  delle  foglie,  la  vite  ame- 
ricana Aestivalis. 

Noi  non  possiamo  qui  chiarire  sino  a  qual  punto  siano  accettabili 
queste  opinioni  dei  prefati  botanici,  che  godono  meritamente  di  molta 
fama  nel  mondo  scientifico;  solo  chiediamo  come  mai  nella  patria 
delle  suddette  specie  americane,  cioè  negli  Stati  atlantici,  non  siasi 
sin  qui  trovato  nessun  esemplare  della  Vitis  Vinifera  allo  stato  sel- 
vatico (1),  se  è  vero  che  essa  è  un  ibrido  di  talune  fra  quelle  specie? 

In  quanto  alle  varietà  delle  specie  europee  ed  americane,  esse 
sono  tanto  numerose,  a  causa  della  coltura  e  degli  incrociamenti,  che 
non  sarebbe  qui  possibile  enumerarle  tutte  (2);  al  capitolo  Ampelo- 
grafia  diremo  tuttavia  delle  principali  fra  coteste  varietà. 

§  2.  Cissus  d'Africa  e  d'Asia  (Sudan,  Arabia,  Cocincina, 

Cina  e  Giappone).  —  1°  Cissus  del  Soudan  centrale  e  della  N'i- 
grizia.  La  invasione  fìllosserica  ha  fatto  sì  che  gli  esploratori  delle 
regioni  sin  qui  poco  note,  fissassero  meglio  la  loro  attenzione  sulle 
viti  o  sulle  piante  che  loro  assomigliano  (Cissus).  Così  è  avvenuto 


(1)  È  bene  notare  che  la  Labrusca  americana  non  ha  assolutamente  nulla"; di 
comune  colla  Labrusca  selvatica  della  Toscana  e  della  Francia  meridionale.  (Il 
nome  di  Labrusca  fu  impropriamente  applicato  da  Linneo  alla  specie  americana). 

(2)  Saggio  di  una  Ampelografia  universale  del  Conte  G.  Di  Rovasenda. 


80  CAPITOLO  IV 


che  il  sig.  Lécart  portò  in  Francia  dal  Sudan  centrale  una  pianta 
che  egli  chiamò  Vite  tuberosa,  vegetante  sulle  sponde  del  Niger  o 
Kuarra  e  che,  a  suo  parere,  si  sarebbe  potuta  coltivare  come  le 
Dalie;  ma  il  dotto  ampelografo  Vittore  Pulliat  di  Chiroubles  (1)  scrive 
a  tal  proposito  quanto  segue: 

«  La  vite  del  Sudan  scoverta  dal  signor  Lécart  ha  fatto  vera- 
«  mente  gran  rumore  nei  giornali.  Io  credo  bene  che  questo  rumore 
«  sia  molto  al  disotto  dell'importanza  della  scoverta.  Un  giovine  ita- 
«  liano,  che  ultimamente  fu  presso  di  me,  sig.  Rebora  De  Nari,  a- 
«  ve  va  veduto  a  Bordeaux  il  sig.  Lécart,  appena  rientrato  in  Fran- 
«  eia;  egli  aveva  assistito  ad  una  conferenza  tenuta  da  questo  viag- 
«  giatore,  nella  quale  mostrò  al  suo  uditorio  alcune  piante  di  que- 
«  sta  vite,  disseccate  e  nell'erbario.  Queste  piante  (mi  ha  egli  detto) 
«  portavano  delle  foglie  assai  simili  a  quelle  delle  viti  ordinarie,  ma 
«  gli  acini  ne  erano  differentissimi.  Secondo  la  sua  espressione,  essi 
«  avevano  la  figura  di  una  piccola  cimice  (punaise).  Quest'ultima  in- 
«  dicazione,  darebbe  bene  a  credere  che  malgrado  la  somiglianza 
«  delle  foglie  e  la  forma  del  grappolo,  la  vite  del  Sudan  non  ap- 
«  partenga  punto  al  genere   Vitis   Vinifera.  » 

Lo  stesso  sig.  Pulliat,  unitamente  al  Prof.  Planchon,  ebbe  agio 
di  esaminare  un'  altra  vite  (?)  del  Sudan  centrale  e  propriamente 
della  Nigrizia,  coltivata  dal  bravo  viticoltore  sig.  Roche  a  Marsiglia. 
Questa  pretesa  vite  è  essa  pure  a  radici  tuberose  e  sarmenti  legnosi 
persistenti  (2).  Previo  diligente  esame  di  cotal  pianta  sul  vivo,  il 
Prof.  Planchon  non  esita  più  che  tanto  ad  inferirne  trattarsi  proprio 
davvero  di  un  Cissus,  e  forse  più  che  probabilmente  del  Cissus 
glandulosa  dello  Gmelin,  fin  dallo  scorso  secolo  descritto  dal  Forskal 
sotto  la  denominazione  di  Saelantus  glandulosus  nella  sua  Flora 
Aegypt.  arabica,  p.  34.  Ecco  qui  riassunte  brevemente  cotali  an- 
notazioni del  Roche  e  del  Planchon. 

In  una  prima  comunicazione  dal  Roche  diretta  al  Pulliat  in  data 
11  novembre  corrente  anno  troviamo  questi  primi  ragguagli  sulla 
sua   vite   di  Nigrizia:   «  Coltivo  da  sei  anni  questa   vite   del   Sudan 


(1)  Lettera  al  nostro  valente  ampelografo  Barone  A.  Mendola  (V.  Giornale  Vi- 
nicolo Italiano  di  Casalmonferrato  :  1881,  pag.  55.) 

(2)  V.  La  Vigne  Américaine,  1881  (aprile)  —  e  Giornale  Vinicolo  Italiano,  1881 
(maggio)  ove  il  distinto  sig.  Dott.  F.  Console  pubblicava  la  nota  sulle  viti  della 
Nigrizia  sovra  riportata. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


«  a  Marsiglia.  Dessa  non  è  mica  però  annua,  come  delle  sue  dice 
«  Lecart;  che  i  suoi  tralci,  che  spogliansi  di  lor  foglie  ben  tardi,  per- 
«  sistono  perfettamente,  ed  anzi  vi  han  sopportato  i  15  gradi  della 
«  invernata  1879-80  sempre  più  fortificandosene,  quando  che  altre 
«  viti  americane  circostanti  vi  soccombevano.  Piantata  per  tubercoli 
«  tal  vite  fruttifica  lo  stesso  anno,  e  al  secondo  invece  se  per  semi, 
«  che  germinano  in  proporzioni  del  90  0[q  e  senza  affatto  traccia 
«  d'ibridazione.  Sua  fruttificazione  è  estremamente  abbondante,  in 
«  gruppetti  di  15-20  bacche  nere,  piccole,  con  un  unico  vinacciuolo 
«  costantemente.  I  semi  spargonsi  in  aprile  e  levano  in  maggio,  for- 
«  mando  lor  radici  di  2-5  tubercoli,  come  a  mo'  di  patate,  lunghi, 
«  un  centim.  distanti  l'un  sull'altro  verticalmente,  quasi  fossero  sal- 
«  sicce  e  fra  loro  ligati  d'un  filetto  cilindrico  della  grossezza  d'uno 
«  spaghetto.  La  foglia  è  molto  doppia,  d'un  bel  verde-bianchiccio  sul 
«  tipo  del  Solonis  americano,  ma  senza  macchie  di  sorta,  anzi  d'una 
«  purezza  immacolata  di  tinta  fino  a  sua  caduta  (sul  finire  di  no- 
«  vembre  in  quest'anno).  Veruno  insetto  frequenta  questa  vite,  io  al- 
«  meno  non  ve  ne  ho  mai  veduto;  e  tutte  le  mie  ricerche  le  più  minute 
«  sui  semi,  trattine  due  anni  fa  per  inviarne  a  qualche  amico,  non 
«  mi  rilevarono  mai  presenza  di  fillossera  (1).  » 

E  in  altra  susseguente  comunicazione  16  stesso  Roche  aggiunge 
questi  altri  dettagli:  «  I  pochi  tubercoli,  che  primitivamente  ne  rice- 
«  vetti,  mi  venivano  ad  intermedio  d'un  mio  amico  Direttore  di  Banco 
«  a  Sierra-Leona  in  Guinea,  che  aveali  ritirati  a  mezzo  d'una  ca- 
«  rovana  di  ritorno  dall'interno  dell'Africa,  ove  li  raccolse  sugli  alti- 
«  piani  circostanti  a  una  cittaduzza  tutta  in  capanne  detta  Falabah, 
«  a  600  o  700  chilometri  interiormente.  I  componenti  la  carovana 
«  riferivano  le  tribù  negre  preparare  col  succo  di  cotal  pianta  uri 
«  eccellente  liquore,  del  pari  che  del  vino  assai  stimato  appo  loro, 
«  e  del  frutto  intiero  confetture  non  spregevoli.  Questa  mia  vite  di 
«  Nigrizia  s'attacca  con  estrema  facilità  ai  muri,  che  riveste  rapi- 
«  damente:  il  legno  ha  molto  sottile,  sul  genere  di  quel  della  vite 
«  vergine  (Ampelopsis),  e  pervenuta  che  sia  in  piena  vegetazione, 
«  produce  fiori  e  frutti  senza  interruzione  da  maggio  a  novembre, 
«  a  misura  che  se  ne  allungano  i  germogli.  La  foglia  è  di  tinta 
«  verde -biancastra,  come  nel  Solonis,  ma  più  lunga  e  meno  larga 
«  e  poi  almeno  quattro  volte  più  densa,  tanto  da  rassembrare  in  cotal 


(1)  Vedi   Vigne  Américaine,  an.  1881,  p.  103. 
O.  Ottavi,   Trattato'  di  Viticoltura. 


82  CAPITOLO  IV 


«  guisa  alla  foglia  del  tubero  americano  Boussingaultia  baselloides. 
«  La  fioritura  è  a  bouquets  in  corimbo,  come  nel  sambuco;  e  le  bac- 
«  che  costituenti  il  grappolo  son  piccole,  nerissime  e  lucenti,  e  con 
«  sugo  poco  colorato.  Non  son  riescito  mai  a  ottenerne  piante  di 
«  talee,  non  più  che  d'innesti  sopra  vitigni  nostrani  od  americani. 
«  L'osservazione  già  fatta  da  vari,  e  segnatamente  dal  Planchon, 
«  circa  la  nessuna  rassomiglianza  dei  vinacciuoli  della  vite  del  Sou- 
«  dan  con  quei  delle  vere  viti  vinifere  è  precisamente  esattissima 
«  a  capello  (1).  » 

Al  seguito  di  tali  comunicazioni  il  professore  Planchon,  avuto  agio 
come  dicemmo  di  esaminare  sul  vivo  tal  pianta  di  Nigrizia,  per  tubercoli 
e  semi  fornitigli  dallo  stesso  Roche,  uno  con  tralci  in  istato  di  vegeta- 
zione avanzata  e  coi  germogli  già  spiegati  abbastanza  da  potere  notar- 
sene nettamente  la  forma  e  consistenza  delle  foglie  e  delle  stipole,  è  tratto 
a  conchiudere  con  tutta  quasi  certezza  questa  volta,  non  potere  ornai 
non  riconoscersi  in  cotale  rimarchevole  ampelidea  se  non  se  un  tipo 
«  di  Cissus  rapportabile  d'assai  alla  vite  vergine  o  Ampelojpsis  pel 
«  modo  suo  di  crescenza  (liana  aggrappantesi  pei  cirri)  e  rassem- 
«  brante  poi  per  molti  tratti,  quanto  a  infoliazione,  alla  Boussin- 
«  gaultia  baselloide;  »  e  più  precisamente  ad  una  specie  del  gruppo 
Saelanthus  del  Forskal,  cui  lo  Gmelin  ben  a  ragione  fa  rientrare 
nel  genere  linneano  Cissus.  «  Fra  questi  Saelanthus  di  Forskal, 
«  continua  invero  il  Planchon,  avvene  uno  curiosissimo,  il  Cissus 
«  rotundi folta  di  Valh,  che  il  nostro  Delile  già  trovò  coltivato  al 
«  Cairo  ia  tempo  della  spedizione  napoleonica  in  Egitto,  e  che  ri- 
«  cevè  pure  posteriormente  d'Abissinia,  nelle  preziosissime  collezioni 
«  del  Rochet  di  Hericourt,  ove  raccoltovi  sulla  strada  da  Farrè  ad 
«  Aleyou-Amba  verso  l'altipiano  dello  Schoa.  Ora  il  vinacciuolo  u- 
«  nico  contenuto  in  ciascuna  bacca  di  questo  Cissus  richiama  per- 
«  fettamente  pei  suoi  caratteri  d'insieme  il  vinacciuolo  parimenti  so- 
«  litario  nelle  piccole  bacche  della  vite  di  Nigrizia  del  Roche.  E  nel- 
«  l'uno  e  nell'altro  il  rafe  (2)  estendesi  qual  tenue  cordicina  risaltante 
«  su  tutta  la  faccia  e  tutto  quasi  il  dosso  del  vinacciolo,  cioè  dipar- 
«  tendosi  dall'ilo,  punto  d'inserzione  del  vinacciuolo,  percorre  il  mezzo 
«  del  lato  ventrale,  contorna  lo  estremo  ottuso  e  non  lobato  di  esso 
«  seme,  e   rimonta   sul   lato  dorsale  fino  quasi  alla  punta  basilare, 


(1)  Ibid.  pag.  104-105. 

(2)  Per  intendere  questo  ed  altri  termini  botanici  si  vegga  più  innanzi  il  §  3. 


BOTANICA  DELLA  VITE  83 


«  serica  menomamente  svanire  in  depressione  calazica,  come  nel  vi- 
«  nacciuolo  della  Vitis.  Le  due  piccole  depressioni  che  nella  Vitis 
«  s'insolcano  sulla  faccia  ventrale  sono  appena  pochissimo  marcate 
«  in  questo  Cissus  del  tipo  Saelanthus.  Ma  non  è  precisamente  con 
«  questo  Cissus  rotundifolia  che  la  vite  del  Roche  presenta  più 
«  affinità,  ma  piuttosto  e  forse  più  sicuramente  col  Cissus  giandu- 
ii Iosa  Gmelin,  o  Saelanthus  glandalosas  Forskal.  Sfortunatamente 
«  non  so  di  quest'ultimo  che  per  la  sola  descrizione  del  Forskal, 
«  che  tranne  in  quanto  gli  assegna,  per  errore  evidentemente,  foglie 
«  opposte  (1),  per  tutto  il  resto  cotale  sua  descrizione  pare  s'attagli 
«  perfettamente  alla  nostra  pianta  di  Nigrizia,  meno  quando  è  detto 
«  di  sue  foglie  folta  serrato-dentata,  subspinosa,  nel  mentre  che 
«  queste  nostre  son  piuttosto  inciso-dentate  e  fortemente  intagliate 
«  a  denti  triangolari.  Forskal  dice  pure  della  sua  specie  caules  teretes, 
«  cioè  tralci  ritondati;  or  la  nostra  vite  ha  i  tralci  quasi  tondi,  benché 
«  lievemente  quadrangolari  o  compressi:  lo  stesso  assegna  bacche  rosse 
«  alla  sua  pianta,  nel  mentre  che  il  Roche  le  dice  nerissime  in  que- 
«  sta  sua  (2).  » 

Concludendo,  anche  queste  viti  di  Nigrizia  appartengono  al  genere 
Cissus  e  non  a  quello  della  vera  Vite  vinifera. 

2°  Cissus  della  Cocincina.  Nel  1882  il  sig.  Martin,  capo  giar- 
diniere della  colonia  francese  di  Laigon,  introdusse  in  Francia  le 
viti  della  Cocincina  (Annam  meridionale)  dicendole  di  prodigiosa  fer- 
tilità, cosicché  una  pianta  poteva  produrre  ben  100  chilog.  d'uva: 
ecco  come  egli  si  esprime: 

«  Io  l'ho  trovata  —  dice  —  la  prima  volta  nel  mese  di  settembre 
1872,  nelle  foreste  dei  Mois.  Vidi  questo  Cissus,  di  cui  ignorava 
l'esistenza,  coperto  da  grappoli  d'un'uva  grossissima.  Mi  venne  su- 
bito l'idea  di  farne  del  vino,  ed  il  risultato  mi  parve  favorevole.  Ne 
feci  assaggiare  a  qualcuno;  mi  dissero  che  non  era  cattivo,  ma  che 
non  si  sarebbe  conservato.  E  per  allora  non  ne  feci  più  nulla;  so- 
lamente l'anno  dopo  mi  contentai  di  farne  del  buon  aceto.  » 

Ma  qualche  anno  dopo  il  signor  Martin  tornò  a  pensarci  sopra  e 


(1)  «  In  realtà  sarebbe  di  lungi  in  lungi  che  certe  foglie  presenterebbonsi  op- 
«  poste  per  ravvicinamento  alle  biforcazioni;  infatti  Forskal  dice  dei  viticci:  Cu  - 
«  rhi  vel  oppositifolii  (dunque  foglie  alterne)  vel  laterales  interfolia  opposita  ex 
«  geniculo  exeunte.  »  Nota   del  Planchon. 

(2)  Ibid.  pag.   105-106. 


84  CAPITOLO  IV 


fece  nuovi  tentativi  onde  ottenere  del  vino.  Ora  da  10  anni  coltiva 
queste  piante,  di  cui  si  trovano  parecchie  varietà  bianche  e  rosse, 
e  pare  che  la  vite  della  Cocincina  sia  la  medesima  di  quella  del 
Soudan,  di  cui  abbiamo  parlato  or'ora. 

Si  tratta  però  sempre  d'un  vino  aspro,  che  contiene  solo  il  5  0\q 
d'alcool;  tutto  ciò,  secondo  il  sig.  Martin,  è  dovuto  alla  mancanza 
di  calcare  nei  terreni  della  Cocincina.  Egli  anzi  racconta  che  dopo 
aver  messo  una  piccola  quantità  di  calce  ad  ogni  piede  di  vite,  ot- 
teneva uva  più  dolce  e  vino  più  alcoolico. 

Pare  che  questa  pianta  sarmentosa,  o  Cissus,  o  liana  che  si 
voglia,  a  radici  tuberose  cresca  abbondantissima  in  quei  paesi.  Ogni 
anno  in  novembre  le  sue  messe  muoiono,  e  in  marzo  od  aprile  ri- 
spuntano dai  loro  tuberi  e  rapidamente  si  svolgono  sino  alla  lun- 
ghezza talvolta  di  40  o  50  metri,  mettendo  grappoli  enormi  in  nu- 
mero grandissimo.  La  coltura,  si  dice,  è  facilissima.  Nella  scelta  del 
terreno  non  vi  sarebbe  che  da  evitare  il  soverchio  umido:  le  terre 
fresche  e  leggere  del  resto  paiono  le  migliori.  La  propagazione  si 
fa  per  semente,  per  tuberi,  per  talea.  Delle  sementi  ve  n'  è  già  un 
deposito  a  Parigi  presso  la  Casa  Vilmorin,  Andrieux  e  Comp.  (1). 

Le  messe  sono  sostenute,  come  si  fa  nella  coltivazione  del  lup- 
polo, da  pertiche  tenute  ritte  da  fili  di  ferro  orizzontali,  per  cui  la 
liana  ascende  ed  arrampicandosi  si  spande. 

Il  signor  Martin  fa  osservare  che  dopo  il  piantamento  della  sua 
vigna  nel  1872,  ha  osservato  in  essa  una  continua  e  progressiva 
modificazione  dovuta  ai  lavori  di  coltura:  V  uva  diventa  più  grossa, 
più  dolce,  più  succosa.  Basta  del  resto  vedere  i  migliori  vitigni  fran- 
cesi ritornare  quasi  allo  stato  selvaggio  dopo  due  o  tre  anni  <T  ab- 
bandono, per  persuadersi  della  reciprocità  del  fenomeno  inverso. 

C  è  quindi  cagione  a  credere  che  la  coltura  migliorerà  la  qualità 
dell'  uva  e  del  vino,  il  quale  del  resto  si  potrebbe  correggere  col- 
l'aggiunta  di  zucchero,  onde  portare  il  titolo  alcoolico  almeno  a  9° 
o  10°. 

Il  sig.  Vilmorin  consiglia  di  tener  i  vinacciuoli  inzuppati  per  qual- 
che giorno  nell'acqua  piuttosto  tiepida  che  fredda,  di  frequente  rin- 
novata, e  poi  di  seminarli  in  vasi,  o  in  luoghi  chiusi,  e  di  non  con- 


(1)  Vilmorin,  Andrieux  e  C,  Quai  de  la  Mégisserie,  4,  a  Parigi.  Il  prezzo  è 
molto  elevato,  perchè  sarebbe  di  L.  2,50  ogni  vinacciuolo,  o  di  L.  22  ogni  10  vi- 
naccioli. 


BOTAiNIOA  DELLA  VITE  85 


fidare  in  piena  terra  le  giovani  pianticelle  se  non  quando  questa  si 
sarà  riscaldata  a  sufficienza,  e  non  vi  saranno  più  a  temere  i  geli 
tardivi:  consiglia  pure  d'aver  cura  di  collocarle  colla  loro  zolla  di 
terra  per  non  recar  nocumento  alle  radici  ancora  sottili. 

Riassumendo,  queste  viti  della  Cocincina  apparterrebbero  esse  pure 
al  genere  Cissus  sopra  ricordato,  e  certo  se  la  coltura  non  riescirà 
a  migliorare  i  frutti,  difficilmente  se  ne  potrà  trarne  partito. 

3°  Viti  (?)  della  China  e  del  Giappone.  Non  è  molto  che  il  si- 
gnor Degron  portava  in  Francia  dal  Giappone  magliuoli  di  quelle 
viti  selvatiche,  il  cui  studio  venne  affidato  alla  Scuola  Viticola  di 
Mompellieri,  onde  vedere  se  resistano  o  non  alla  fillossera.  Queste 
viti  vennero  scoperte  nel  Ken  d'Ischikari;  i  loro  frutti  sono  piccoli, 
neri  e  commestibili.  Il  sig.  Caillaud  trovò  pure  viti  selvatiche  nella  Cina 
e  le  descrisse  dando  loro  varii  nomi;  per  esempio  la  Vitis  Rotar  di, 
originaria  di  Cong-King,  la  quale  produce  uva  due  volte  all'  anno; 
la  Vitis  Pagnucci  originaria  di  Cheri-Si,  nelle  montagne  di  Ho- 
Chen-Miao,  e  la  Vitis  Romane  ti,  altra  vite  selvatica  che  pare  abbia 
il  pregio  di  una  stragrande  fertilità;  essa  prospera  ad  un'altezza  di 
1300  a  1600  metri  e  ad  una  latitudine  di  32°  nord. 

4°  Viti  arabe.  Il  signor  Chabas,  colono  francese  a  Ronached 
presso  Milata  in  Algeria,  pubblicava  nei  1883  (1)  una  nota  sulle  viti 
arabe  (a  quanto  pare  vere   Viti  vinifere)  che  qui  trascriviamo: 

«  La  vite  araba  è  d'un  vigore  incomparabile;  essa  vive  qui  ge- 
neralmente allo  stato  selvaggio  sui  margini  di  burroni  umidi  ed  in- 
colti, e  predilige  le  fessure  delle  roccie  ed  i  terreni  calcari.  La  si 
vede  slanciarsi  sugli  alberi  che  essa  incontra,  sulle  roccie,  ed  inco- 
rona co'  suoi  abbondanti  pampini  tutti  i  cespugli  che  essa  trova  e 
che  coprono  in  gran  parte  questa  terra  di  natura  calcare.  In  questa 
selvaggia  condizione  di  vegetazione  la  vite  si  copre  di  frutti,  che  gli 
Arabi  raccolgono  e  vendono  ai  coloni,  i  quali  ne  fanno  un  vino  molto 
carico  di  colore,  assai  alcoolico  e  di  buon  gusto.  Una  di  queste  specie 
chiamata  dagli  arabi  Hasseroun,  ha  molta  analogia  coll'uva  tintoria 
(temturier),  e  come  questa  è  nerissima,  e  potrebbe  per  conseguenza 
servire  ad  accrescere  il  colore  dei  piccoli  vini;  produce  vino  alcoolico 
d'un  gusto  franco  che  può  rivaleggiare  nel  commercio  coi  nostri  mi- 
gliori vini  del  Mezzogiorno. 

«  È    inoltre  d'  una  prodigiosa  fertilità,    imperocché  non  è  raro  il 


(1)  V.  Gazette  du  Village  (1883). 


86  CAPITOLO  IV 


caso  di  vedere  queste  piante  di  vite  produrre  150  chilogrammi 
d'uva.  Io  ho  visto  un  proprietario  pesare  320  chilogrammi  d'  uva 
raccolta  sopra  una  sola  vite,  e  che  gli  ha  dato  due  ettolitri  di  vino 
eccellente.  Bisogna  però  dire  che  il  tronco  misurava  50  centimetri 
di  circonferenza,  e  che  l'arabo  più  vecchio  del  paese  l'aveva  sempre 
veduto  della  stessa  grossezza. 

«  Infine,  come  resistenza,  ciò  che  io  posso  affermare,  si  è  che  io 
ho  portato  nel  1875  nella  proprietà  di  mio  padre  al  cascinale  di 
Vignères,  a  Cavaillon  (Vaucluse),  10  piedi  di  Hasseroun,  con  cui 
ho  rimpiazzato  dei  mancanti  in  una  vigna  decimata  dalla  fillossera. 
Ora  son  due  anni  (era  nel  1881),  queste  piante  erano  splendide  per 
vigore  e  sanità;  stendevano  i  loro  bei  tralci  sulle  viti  morte,  che 
loro  servivano  di  sostegno   e  sotto  i  quali  queste  ultime    sparivano. 

«  A.  mio  avviso,  il  successo  come  resistenza  di  una  vite  simile 
non  è  più  dubbio,  ed  io  non  saprei  abbastanza  incoraggiare  i  viti- 
coltori della  madre  patria  di  esperimentare  nelle  loro  novelle  pian- 
tagioni le  viti  arabe.  In  tutti  i  casi  si  sarà  sempre  sicuri  di  aver 
piante  assolutamente  esenti  da  infezioni  ». 

§  3.  Descrizione  della  vite  o  organografìa.  —  È  noto  che 
Y organografia,  o  morfologia  esterna,  studia  la  conformazione  degli 
organi  delle  piante.  Questo  studio  faremo  qui  per  la  vite,  ma  con 
obbiettivo  piuttosto  pratico  che  scientifico;  nel  paragrafo  successivo 
ci  occuperemo  invece  della  morfologia  interna  o  anatomia  della  viti, 
ed  in  altro  paragrafo  ancora  studieremo  la  fisiologia  della  vite,  cioè 
il  suo  modo  di  vivere  e  fruttificare;  così  questo  capitolo  della  bota- 
nica della  vite  forse  non  riuscirà  del  tutto  imperfetto  e  ci  permet- 
terà di  trarre  utili  precetti  per  la  pratica  della  viticoltura. 

La  Vite  è  un  frutice  o  arbusto  sarmentoso,  i  cui  rami  tendono  na- 
turalmente ad  arrampicarsi  sugli  alberi  o  sui  sostegni  vicini,  attac- 
candovisi  con  forza  mediante  i  cirri  o  viticci.  Per  studiare  convene- 
volmente la  pianta  della  vite  è  necessario  considerare:  1°)  Le  radici; 
2°)  Il  ceppo  o  caule  o  fusto;  3°)  I  rami  o  tralci,  ed  i  succhioni; 
4°)  I  germogli  o  pampini;  5°)  Le  femminelle  o  nepoti;  6°)  I  vi- 
ticci] 7°)  Le  foglie;  8°)  Le  gemme;  9°)  I  fiori;  10°)  Vuva. 

1.°  Le  radici  della  vite  ottenuta  da  seme  o  da  gemma  isolata,  sono 
a  fìttone,  legnose,  con  molte  diramazioni  laterali,  munite  di  numerose 
radichette  cioè  di  ampio  cappellamento  ;  le  radichette  sono  distese  e 
senza  nodosità  né  nervature;  se  si  riscontrano  queste  ciò  vuol  dire  che 


BOTANICA  DELLA  VITE  87 


la  radice  è  fìllosserata  o  invasa  da  rizomorfe  (1),  oppure,  in  rari  casi, 
dall'anguillaia  radicicola  (2).  Le  radichette  della  vite  presentano  una  cu- 
ticola delicatissima,  che  serve,  nella  parte  tenera  ed  ancora  biancastra, 
all'assorbimento  delle  sostanze  alimentari,  mentre  la  porzione  già  fat- 
tasi bruna  e  ricoperta  da  corteccia  tuberosa,  più  non  giova  a  tal 
uopo;  l'assorbimento  ha  luogo  per  endosmosi  (3)  a  traverso  le  delicate 
membrane  delle  cellule  delle  radichette.  Gli  è  a  queste  estremità  che 
stanno  le  spongiole  o  spongille,  che  costituiscono  il  punto  vegetativo 
della  radice,  cioè  la  parte  in  via  di  formazione  del  cappellamento; 
quando  la  vite  soffre  la  siccità  una  parte  di  questo  cappellamento 
quasi  si  dissecca,  precisamente  nel  punto  vegetativo,  mentre  ciò  non 
accade  nei  terreni  freschi,  ove  anzi  la  vegetazione  continua  anche 
durante  i  grandi  calori;  si  è  appunto  allora  che  gli  acini  ingrossano 
mercè  la  maggior  copia  di  umore  assorbito  dal  suolo,  d'onde  l'utilità 
del  tener  fresco  il  terreno  del  vigneto  colle  zappature  agostane. 

Le  radichette  della  vite  presentano  generalmente  pochi  peli  radi- 
cali; questo  almeno  abbiamo  potuto  constatare  nelle  radici  di  barbera, 
croetto,  fresia  e  Celerina  o  slarina  :  simili  peli  altro  non  sono  che  allun- 
gamenti tubulari  delle  cellule  esterne  delle  radichette  stesse,  e  servono 
a  moltiplicare  il  numero  dei  punti  di  contatto  della  radice  col  terreno. 

Abbiamo  detto  che  la  radice  della  vite  ottenuta  da  seme  è  a  fittone; 
però  tutti  sanno  che  la  vite  si  suole  moltiplicare  per  talee,  e  raris- 
sime volte  mercè  il  seme:  quando  si  adoperano  le  talee  la  radice 
della  vite  presenta  l'aspetto  delle  fig.  1  e  4,  ove  vedesi  che  da  ogni  nodo 
parte  un  gruppo  di  radici  e  di  radichette  in  direzione  orizzontale  o 
ad  angolo  (fig.  2)  a  seconda  delle  condizioni  di  siccità  del  terreno  e 
di  profondità  del  piantamento,  (4)  inquantochè  nei  piantamenti  troppo 
profondi  ed  in  terreni  tenaci  l'ultima  corona  di  radici  anziché  essere 
orizzontale  si  rivolge  all'insù.  Quando  infine  si  piantano  i  soli  occhi 
delle  talee,  cioè  le  sole  gemme  con  un  po'  di  legno,  si  ha  il  sistema 
radicale  indicato  dalla  fig.  3;  ove  in  a  è  indicata  la  gemma,  ed  in 
b  a  b  tre  gruppi  di  radici. 

Nella  radice  della  vite  distinguonsi  varie  parti,  cioè  il   colletto  o 


(1)  V.  Malattie  della  vite. 

(2)  Queste  anguillule  furono  scoperte  dai  Dr.  Bellati  e  Saccardo  nei  vigneti  di 
Alano  di  Piave:  ne  riparleremo  a  lungo  studiando  i  parassiti  delle  viti. 

(3    Al  §  5  (Fisiologia  della  vite)  spiegheremo  i  fenomeni  di  osmosi,  o  diffusione, 
che  avvengono  a  traverso  le  membrane  delle  radici. 
(4)  Vedi  il  paragrafo  Piantamento  delle  viti. 


88 


CAPITOLO  IV 


nodo  vitale  {a  fìg.  4);  esso  non  è  bene  spiegato  come  nelle  piante  er- 
bacee vivaci,  tuttavia  si  può  definirlo  la  parte  superiore  a  fior  di 
terra  S  S,  mediante  la  quale  la  radice  si  unisce  al  caule  o  ceppo; 
la  radice  madre  e  da  cui  partono  le  radici  laterali  g  :  le  radici 
aeree  o  superficiali  b  presso  la  superfìcie  del  suolo,  analoghe  a  quelle 
avventizie  che  producono  il  granturco,  Y  avena  ed  altre  piante  col- 
tivate; queste  radici  se  sono  utili  ad  alcune  piante  perchè  assorbono 
umidità  dall'  aria,  non  lo  sono  alla  vite,  essendo  troppo  facilmente 
esposte  al  gelo  od  al  calore  estivo,  a  seconda  dei  climi,  mentre  d'altra 
parte  impediscono  in  certo  qual  modo  lo    sviluppo  delle  radici  infe- 


Fig.   1. 

riori;  per  questo  si  consiglia  generalmente  di  reciderle:  l'estremità  d 
della  radice  madre,  da  cui  partono  le  radici  inferiori  e  e  ora  diri- 
gendosi all'ingiù  a  guisa  di  fìttone,  ora  prendendo  la  direzione  oriz- 
zontale spingendosi  talvolta  a  molti  metri  di  distanza,  massi- 
mamente se  la  vite  è  educata  alta  (1);  infine  le  radici  capillari 
ffj  o   radichete,  le   cui  estremità  offrono    le  spongille;  mercè    le 


(1)  È  questa  la  conseguenza  dell'armonia  che  regna  fra  i  tralci  e  le  radici, 
del  che  diremo  in  disteso  a  suo  luogo.  Qui  soggiungeremo  soltanto  che  quando 
il  terreno  è  bene  smosso  (scanso  reale)  le  radici  —  anche  delle  viti  nane  —  rag- 
giungono lunghezze  non  indifferenti. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


parti  giovani  delle  radichette,  come  già  dicevamo,  l'alimento  viene 
assorbito  e  penetra  nella  radice;  le  spugnole,  cioè  le  spongille 
delle  radichette,  essendo  protette  da  una  guaina  composta  di  cel- 
lule morte  del  tessuto  cellulare  della  radice,  non  possono  assor- 
bire alimenti  (1);  questo  cappuccio,  di  colore  giallognolo,  detto 
pileoriza,  protegge  la  punta  vivente  della  radice,  mentre  essa  va 
sempre  più  penetrando    nel  suolo.  L'  assorbimento  avviene    adunque 


per  mezzo  delle  radichette  giovani  e  dei  peli,  e  l'accrescimento  per  mezzo 
delle  spongiole;  questo  ci  spiega  come  lo  spargere  il  concime  presso  il 
ceppo  delle  viti  sia  quasi  sempre  inefficace  e  giovi  invece  assai  meglio 
sotterrarlo  fra  i  filari,  ad  una  certa  distanza  dai  tronchi,  vale  a  dire 


(1)  Questo  hanno  dimostrato  le  belle  esperienze  di  Ohlerts. 


90 


CAPITOLO  IV 


in  quella  porzione    del  terreno    ove  si  trovano  in  maggior    copia  le 
radichette  a'ssorbitrici. 

Diremo  poi,  parlando  della  anatomia  della  vite,  come  fra  le  ra- 
dichette e  le  foglie  siavi  grande  analogia,  e  ne  trarremo  utili  con- 
seguenze per  la  viticoltura. 


Fig.  4. 


2.°  Il  ceppo  o  fusto  della  vite  può  essere  più  o  meno  lungo  a 
seconda  del  modo  con  cui  la  pianta  è  allevata;  e  così  abbiamo  molte 
gradazioni  a  partire  dalla  vite  bassa  senza  sostegni  alla  vite  maritata 
agli  alberi  ed  ai  pergolati;  nelle  viti  basse  si  suol  chiamarlo  ceppo, 
ceppaja,  ed  impropriamente  anche  ceppata;  in  quelle  alte  tronco: 
in  ogni  caso  è  legnoso,  come  ognuno  sa,  sarmentoso,  ricoperto  da 
corteccia  di  vario  spessore;  generalmente  più  unita  e  più  compatta 
nelle    viti  americane    che  nelle    europee.  —    La  corteccia    presenta 


BOTANICA  DELLA  VITE  91 

• 
screpolature  dirette  nel  senso  delle  fibre  longitudinali,  più  o  meno 
numerose  e  più  o  meno  ampie;  essa  aderisce  con  maggiore  o  minore 
intensità  al  legno,  ma  in  generale  è  poco  aderente.  Nei  ceppi  annosi 
si  osserva  infatti  che  gli  strati  corticali  esterni  si  distaccano  dal 
fusto,  ma  non  sempre  cadono;  questa  corteccia  rugosa  e  morta,  è 
assolutamente  estranea  alle  funzioni  vitali  della  vite,  e  costituisce 
un  vero  strato  suberoso  che  si  può  togliere,  come  il  sughero,  anzi 
è  utile  di  togliere,  come  dimostreremo  parlando  dello  scortecciamento 
delle  viti;  sotto  a  questa  corteccia  esterna  morta,  si  trova  una  cor- 
teccia più  giovine  e  viva,  di  color  grigio  rossigno  (come  i  giovani  tralci) 
e  che  presenta  delle  striscie  per  il  lungo;  queste  striscie  sono  i  fascii 
fibrosi  del  libro,  che  è  la  prima  parte  interna  della  corteccia  (1), 
e  possono  separarsi  in  lunghi  fili. 

3.°  /  rami  ed  i  succhioni.  I  rami,  o  più  propriamente  tralci,  o 
sarmenti,  sono  getti  legnosi  aventi  almeno  un  anno  di  età,  a  scorza 
più  o  meno  bruna  e  più  o  meno  densa  secondo  la  loro  età;  quelli  che 
hanno  un  solo  anno  sono  i  veri  sarmenti,  e  portano  bottoni  dai  quali 
partono  i  getti  uviferi  o  germogli,  mentre  quelli  che  contano  due 
o  più  anni  di  età  generalmente  non  portano  cacchii  uviferi.  A  questa 
regola  si  danno,  per  quello  che  ci  fu  dato  di  constatare,  due  sole 
eccezioni:  1.°  talvolta  portano  qualche  raro  grappolo  quei  polloni  che 
nascono  sul  ceppo  della  vite,  specialmente  nei  nostri  paesi  meridio- 
nali, od  in  qualche  vite  a  pergolato;  2.°  talvolta  vedonsi  grappolini 
sui  getti  estivi  (o  femminelle)  che  spuntano  all'ascella  delle  foglie  dei 
getti  primaverili;  ma  in  rari  casi  si  è  potuto  trarre  serio  partito  da 
queste  fruttificazioni  anormali. 

I  rami  della  vite  hanno  vario  colore,  come  il  cinereo,  il  nocciola, 
il  castagno,  l'avana,  il  cannella  più  o  meno  biancastri,  e  talvolta 
sono  rossicci;  il  colore  non  sempre  è  uniforme,  e  talora  si  fa  più 
scuro  o  più  carico  ai  nodi:  —  quasi  sempre  i  sarmenti  sono  striati, 
cioè  leggermente  solcati  longitudinalmente  da  strie  più  o  meno  fìtte; 
talvolta  però  sono  rigati  e  punteggiati.  La  loro  durezza  è  variabile, 
come  è  pure  variabile  il  midollo,  che  è  più  o  meno  abbondante  a 
seconda  dei  vitigni;  la  loro  aderenza  al  legno  vecchio  differisce  pure 
da  varietà  a  varietà. 


(1)  Per  dare  un'idea  delle  fibre  del  libro  a  chi  non  conosce  gli  elementi  della 
botanica,  diremo  che  sono  appunto  fibre  liberiane  quelle  del  lino  e  della  canapa 
adoperate  per  i  tessuti  ecc. 


92  CAPITOLO  IV 


I  tralci  della  vite  sono  nodosi,  cioè  divisi  in  internodii  o  meritala 
di  lunghezza  variabile  non  solo  secondo  i  vitigni  ma  anche  secondo 
il  metodo  di  potatura,  come  abbiamo  constatato  con  molte  esperienze 
di  cui  diremo  a  suo  luogo.  I  nodi  che  separano  i  meritala"  sono  più 
o  meno  rilevati  e  più  o  meno  coloriti,  talvolta  non  colorati  diversa- 
mente dal  sarmento,  tal'altra  come  di  color  ruggine. 

I succhioni  —  che  taluno  chiama  anche  polloni  —  sono  getti  sterili, 
cioè  non  uviferi,  i  quali  nascono  direttamente  sul  ceppo  della  vite;  nella 
loro  struttura  esterna  non  differiscono  dai  getti  uviferi,  solo  che  sono 
quasi  sempre  sprovvisti  di  grappoli,  come  dicevamo  or'  ora;  costi- 
tuiscono quindi  veri  getti  parassiti,  che  vivono  a  danno  dei  germogli 
superiori,  i  quali  o  hanno  uva  o  sono  destinati,  dal  potatore,  a  dare 
tralci  frutticosi  per  l'anno  che  segue;  è  per  questo  che,  salvo  casi 
speciali  che  studieremo  parlando  della  scacchiatura,  si  sogliono  sop- 
primere. 

4.°  J  germogli,  pampini  o  cacchii  sono  getti  erbacei  a  pri- 
mavera ed  estate,  legnosi  in  autunno,  che  spuntano  generalmente 
sui  sarmenti  di  un  anno:  —  appena  sbucciate  le  gemme  a  primavera, 
cioè  quando  i  germogli  sono  giovanissimi,  appaiono  più  o  meno  to- 
mentosi o  cotonosi,  cioè  coperti  di  peluria  o  lanuggine;  di  colore 
verde  più  o  meno  carico,  alle  volte  biancastri  come  nel  nebiolo  e 
nel  tokai,  talora  unicolori,  tal'altra  leggermente  rosei  in  punta:  cre- 
scendo abbastanza  rapidamente  nel  loro  sviluppo,  possono  raggiun- 
gere una  lunghezza  di  parecchi  decimetri,  più  o  meno  a  seconda  del 
vigore  della  vite  e  della  fertilità  del  suolo;  portano  le  foglie,  i  viticci 
ed  i  grappoli;  questi  in  numero  variabile  da  uno  a  tre  (1),  ma  possono 
altresì  esserne  sprovvisti.  I  germogli  portano  pure  gemme  nascenti, 
che  in  autunno  sono  poi  veri  bottoni  frutticosi  per  l'anno  successivo, 
ed  infine,  accanto  a  queste  gemme,  portano  eziandio  dei  getti  secon- 
darli o  femminelle,  di  cui  diremo  in  seguito.  In  alcuni  casi  questi 
getti  secondarli  portano  grappolini,  detti  secondi  grappoli,  dei  quali 
pure  ci  occuperemo  fra  non  molto.  Nella  fig.  5  vedesi  un  tralcio 
d'un  anno  d  dal  quale  sono  spuntati  tre  germogli  uviferi  b  b  e,  i 
due  superiori  dalla  stessa  gemma:  questo  caso  è  raro,  ma  noi  abbiamo 
potuto  riscontrarlo  con  una  frequenza  relativa  in  alcuni  nostri  fi- 
lari di  fresia  molto  robusti;    in  allora    però    uno    dei  due    getti    è 


(1)  Fanno  solo  eccezione  le  viti  americane  Labrusca,  che  ne  possono  portare  da 
tre  a  cinque,  rare  volte  sei,  secondo  il  Dr.  G.  Engelmann. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


93 


sempre  meno  vigoroso  del  primo  spuntato,  ma  entrambi  portano  uva 


Fig.  5. 


generalmente    due  grappoli  nel    cacchio  principale    ed  uno  in  quello 
secondario,    e  nelle    annate  umide    un  solo    grappolo    per  caduno  e 


94  CAPITOLO  IV 


molti  viticci  v  come  nel  precedente  disegno,  che  abbiamo  tolto  dal 
vero  nella  decorsa  primavera.  (La  porzione  superiore  del  tralcio  d'un 
anno  d  non  è  disegnata  per  maggior  chiarezza). 

5.°  Le  femminelle  o  nepoti  sono  getti  erbacei,  chiamati  anche 
rimessiticci,  che  spuntano  sul  finire  della  primavera  sui  germogli  di 
cui  dicemmo  or  ora;  la  loro  struttura  esterna  non  differisce  da  quella 
dei  germogli  ed  essi  pure  portano  foglie,  viticci,  e  qualche  volta  se- 
condi grappoli;  le  gemme  che  stanno  all'ascella  delle  loro  foglie  (punto 
d'inserzione)  spesso  sbucciano  ed  allora  le  femminelle  portano  delle 
sotto- femminelle,  cioè  dei  getti  erbacei  di  varia  lunghezza,  i  quali 
rappresentano  le  ultime  ramificazioni  del  germoglio  uscito  a  prima- 
vera dal  bottone  frutticoso  posto  sul  sarmento  legnoso.  —  Il  numero 
delle  femminelle,  o  nepoti  dei  Toscani,  è  maggiore  quando  si  praticano 
precocemente  le  cimature  dei  germogli  uviferi;  e  così  pure  cimando  le 
femminelle,  si  ottengono  più  numerose  le  sotto-femminelle.  A  suo  luogo 
diremo  della  importanza  di  questi  organi  della  vite,  nel  processo  della 
fruttificazione. 

6.°  I  viticci  o  cirri  o  capreoli  (fig.  6)  che  taluno  chiama  anche 
forchette,  sono  appendici  filamentose  prima  erbacee,  indi  legnose  in 
autunno  od  anche  in  estate  se  non  si  avviticchiano  a  qualche  og- 
getto (1),  provenienti  dall'allungamento  dei  peduncoli  florali,  vale  a 
dire  che  sono  grappoli  abortiti;  infatti  occupano  la  posizione  stessa 
dei  grappoli,  cioè  sono  sempre  opposti  alle  foglie  come  i  grappoli 
stessi:  d'altra  parte  non  è  raro  trovare  viticci  i  quali  portano  ancora 
alle  loro  estremità  uno  o  più  acini  d'uva  (fig.  7  d  d,  fig.  8  e  d)\ 
queste  figure  rappresentano  esattamente  viticci  da  noi  trovati  nei 
nostri  vigneti  nel  Monferrato  (2)  e  dimostrano  in  modo  chiaro  l'o- 
rigine di  consimili  appendici  della  vite;  gli  esemplari  simili  a  quelli 
qui  disegnati  sono  tanto  più  numerosi  quanto  più  la  primavera  tra- 
scorre umida,  d'onde  la  illazione  che  Tumido  soverchio  fa  abortire  i 
grappoli,  il  che  è  noto  a  tutti  i  viticultori  (3).    Abbiamo  anche  os- 


(1)  Questa  regola  però  non  è  costante:  abbiamo  talvolta  osservato  viticci  inat- 
tivi che  si  sono  serbati  verdi  sino  all'  agosto  inoltrato.  Abbiamo  pure  osservato 
che  il  viticcio  prossimo  ad  uno  che  si  è  avviticchiato,  quasi  sempre  si  essica 
prontamente. 

(2)  Osservazioni  fatte  sui  vitigni  Barbera,  Lambrusco  o  Croetto  e  Fresia.  Ciò 
si  verifica  d'altronde  su  tutti  i  vitigni. 

(3)  I  viticultori  tedeschi  dicono  allora  «  Die  Trauben  vergabeln  sich  »  perchè 
essi  chiamano  anche  Gabeln  i  viticci. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


95 


Fiff.  6. 


9(3 


CAPITOLO  IV 


servato,  a  questo  proposito,  che  allorquando  la  primavera  è  molto 
umida  sin  dal  suo  principio,  si  hanno  molti  viticci  sui  germogli  uvi- 
feri, mentre  invece  se  la  primavera  è  umidiccia  sul  tardi,  cioè 
quasi  in  principio  dell'  estate,  i  viticci  abbondano  sulle  femmi- 
nelle. L'umido  soverchio  è  quindi  una  fra  le  cause  principali  che 
provocano  la  formazione  dei  capreoli,  il  che  è  naturale  se  si  riflette 
che  l'umido  favorisce  l'allungamento  delle  parti  verdi  della  vite,  cioè 
la  sua  produzione  erbacea. 


In  primavere  molto  asciutte  e  calde  abbiamo  osservato  la  quasi 
assoluta  mancanza  dei  viticci  nei  germogli  uviferi,  e  cosi  in  alcuni 
germogli  di  fresia  abbiamo  potuto  contare  10  internodii,  altrettante 
gemme  e  due  grappoli,  senza  neppure  un  capreolo;  i  viticci  si  mo- 
stravano soltanto  sulle  femminelle,  e  non  sui  pampini  uviferi.  Note- 
remo però  che  i  primi  nodi,  quelli  cioè  prossimi  all'  inserzione  del 
pampino  sul  tralcio,  ne  sono  sempre  sprovvisti. 

La  disposizione  dei  viticci  in  tutte  le  viti  europee  ed  americane, 
fatta  eccezione  per  le  Labrusca,  selvatiche  o  coltivate,  è  quella  indi- 
cata dalla  fìg.  6:  un  viticcio  1  a  sinistra,  poi  al  nodo  successivo 
altro  viticcio  2  a  destra,  indi  un  terzo  nodo  3  senza  viticcio:  poscia 
altri  due   nodi  con  viticci,    4  e  5,  cui    segue  altro  nodo  sprovvisto, 


BOTANICA  DELLA  VITE 


97 


6,  indi  ancora  due  viticci  7  e  8,  ed  altro  nodo  9  senza  cirro;  e  poi 
da  capo  un  viticcio  10  e  così  di  seguito.  Allorquando  vi  ha  un  nodo 
senza  viticcio,  il  primo  viticcio  che  segue  è  sempre  dallo  stesso  lato 
dell'ultimo  viticcio  che  precede  il  nodo  stesso  :  e  così  il  viticcio  4  è 
dallo  stesso  lato  del  viticcio  2,  cioè  a  destra,  mentre  il  viticcio  7  è 
a  sinistra  come  il  5,  e  via  di  seguito. 

Tutti  i  viticci,  come  già  dicemmo,  -sono  opposti  ad  una  foglia,  cioè 
sono  opposi  tifo  Ut;  le  eccezioni  sono  rarissime.  Accade  lo  stesso  dei 
grappoli. 


Fig.  8. 

I  viticci  nei  germogli  uviferi  generalmente  incominciano  dopo  il 
nodo  che  segue  l'ultimo  grappolo,  il  qual  nodo  quindi  ne. è  sempre 
sprovvisto:  nelle  femminelle  incominciano  dopo  la  seconda  o  terza 
foglia;  in  qualche  varietà  dopo  la  prima.  Le  eccezioni  sono  anche  a 
questo  riguardo  assai  rare  (1),  come  sono  rare  le  eccezioni  alla  di- 
sposizione indicata  dalla  fig.  6:  pure  qualche  volta  abbiamo  osservato 
tre  nodi  ed  anche  quattro  consecutivi  provvisti  di  cirri.  Ma  queste 
eccezioni  non  infirmano  per  nulla  la  legge  generale  della  intermit- 
tenza dei  viticci.  Dicemmo  però  che  essi  sono  continui  nella  vite  ta- 


(1)  Nel  luglio  di  quest'anno  abbiamo  riscontrato  un  curioso  caso  di  mancanza 
assoluta  di  viticci  in  un  germoglio  frutticoso  di  fresia:  esso  contava  10  internodi 
tunghi  6  centim.  con  due  grappoli  e  neppure  un  viticcio:  questi  si  trovavano  sol- 
tanto sulle  femminelle. 

0.  OxTAvr,   Trattato  di  Viticoltura,  8 


CAPITOLO  IV 


brusca  e  sue  varietà;  infatti  ad  ogni  foglia  in  questa  specie  si  trova, 
dal  lato  opposto,  o  un  cirro  o  una  infiorescenza  (grappolo). 

In  ogni  viticcio  si  distinguono  generalmente  quattro  parti;  il  pe- 
duncolo a  (fig.  7),  la  ramificazione  maggiore  d,  la  scaglia  b  alla  sua 
base,  e  la  ramificazione  minore  e. 

Queste  ramificazioni  si  possono  anche  osservare  sui  viticci  giova- 
nissimi, cioè  aventi  una  lunghezza  totale  di  pochi  millimetri:  crescendo 
esse  variano  però  di  numero,  e  possono  raggiungere  il  numero  di 
sette  od  otto,  come  si  vede  nella  fig.  6  al  viticcio  N.  1:  in  essa  può 
anche  osservarsi  che  la  ramificazione  più  lunga  spesso  si  biforca  in 
due  filamenti  di  diversa  lunghezza;  il  maggiore  talvolta  si  biforca  a 
sua  volta,  massimamente  nelle  annate  molto  umide.  Pare  che  anche 
la  varietà  del  vitigno  influisca  sul  numero  delle  diramazioni  dei  vi- 
ticci, onde  in  alcune  Ampelografie  leggesi  di  vitigni  a  viticci  bifidi 
(2  diramazioni)  o  trifidi  (3  diramazioni)  e  via  dicendo. 

È  noto  che  se  condo  alcuni  agronomi  e  botanici,  sarebbe  possibile 
mutare  in  grappolo  una  fra  le  ramificazioni  del  viticcio.  Gasparin 
dice  (1)  che  «  si  riesce  spesso  a  convertire  il  viticcio  in  grappolo, 
amputando  una  delle  due  diramazioni  del  viticcio,  quella  che  non  porta 
alla  sua  estremità  una  piccola  prominenza  (asperità)  »:  ma  qui  non  si 
capisce  di  quale  prominenza  intenda  parlare  l'eminente  agronomo  fran- 
cese. Ultimamente  i  signori  Barbant,  Loborier  e  Laporta  consigliarono 
di  mozzare  per  tempo  la  diramazione  del  viticcio  che  porta  la  scaglia 
alla  base,  cioè  la  più  lunga  ossia  quella  che  or' ora  vedremo  chiamarsi 
viticcio  di  grappolo:  essi  asseriscono  che  facendo  quella  amputazione 
poco  dopo  che  il  viticcio  è  comparso,  si  riesce  di  certo  a  mutare 
l'altra  diramazione  in  un  grappolo.  Diremo  tuttavia  che  bisogna  ac- 
cettare tutto  ciò  con  molta  riserva,  poiché  le  prove  fatte  da  altri 
hanno  dato  sempre  risultati  negativi. 

Le  spire  dei  viticci  vanno  da  destra  a  sinistra,  oppure  da  sinistra 
a  destra  senza  una  legge  fissa;  questo  è  quanto  abbiamo  potuto  os- 
servare su  numerosissimi  vitigni  italiani.  Invece,  secondo  Bdbo  (2), 
tutti  i  viticci  avrebbero  le  loro  spire  dirette  verso  sinistra.  Lo  stesso 
autore  soggiunge  che  i  cirri  possono  attorcigliarsi  soltanto  attorno 
ad  oggetti  aventi  una  grossezza  doppia  della  loro,  mentre  chiunque 


(1)  Cours  d'agriculture  —   Tome  IV:  Paris  1848  pag.  625. 

(2)  Handbuch  des   Weinbaues  und  der  Kellerwirthschaft  —  (Berlin,  1881)  — 
(Erster  Band:  Weinbau,  s.  91  :  alle  Ranken  voinden  sich  nach  links). 


BOTANICA  DELLA  VITE  99 

può  osservare  che  essi  si  avviticchiano  anche  a  paletti  aventi  un  dia- 
metro assai  maggiore  di  quello  che  essi  misurano.  Infine  diremo  che  non 
di  rado  i  viticci  si  avvolgono  a  spirale  su  sé  stessi  o  attorno  al  pe- 
duncolo del  grappolo,  e  qualche  volta  anche  attorno  alle  foglie. 

Mohl  e  Butrochet  hanno  osservato  che  i  viticci,  dopo  alcuni  giri,  si 
piegano  dalla  luce  verso  l'oscuro:  Mohl  asserisce  inoltre  che  nelle  viti, 
le  quali  stanno  a  spalliera  contro  un  muro,  i  viticci  si  dirigono  verso 
questo,  e  che  nei  vigneti  in  pien  campo  generalmente  prendono  una 
direzione  verso  nord.  Tutti  poi  avranno  osservato  che  le  varie  rami- 
ficazioni dello  stesso  cirro  hanno  movimenti  indipendenti.  Darwin  (1) 
ha  eziandio  potuto  osservare  il  sub- peduncolo  b  (fig.  7)  d'un  grap- 
polo e  piegato  intorno  ad  un  bastone  ed  anche  in  parte  intorno  ad 
una  foglia  con  cui  era  venuto  in  contatto,  per  cui  non  v'ha  dubbio 
che  esso  ha  la  stessa  natura  del  ramo  corrispondente  d'  un  viticcio 
ordinario,  quando  questo  non  porta  che  alcuni  fiori,  giacché  in  tale 
caso,  come  giustamente  osserva  il  celebre  naturalista,  diviene  meno 
ramificato,  aumenta  in  lunghezza  e  guadagna  tanto  in  sensibilità 
quanto  in  facoltà  di  movimento  spontaneo  (2).  Il  viticcio  d  che  ha 
un  peduncolo  a  comune  con  un  grappolo  e  (fig.  7,  a  sinistra)  chia- 
mato viticcio  di  grappolo  oppure  viticcio  di  fiore,  ed  ha  sempre 
una  scaglia  alla  sua  base  b  analogamente  alla  ramificazione  più  lunga 
e  biforcuta  del  viticcio  comune,  o  semplice  organo  di  prensione  (fig.  6). 
Questi  viticci  di  grappolo  non  sono  sempre  sterili,  come  taluno  ha 
asserito;  talvolta  portano  essi  pure  fiori  che  danno  uva,  per  cui  si  ha 
un  doppio  grappolo,  o  grappolo  gemino;  ne  abbiamo  noi  stessi  un 
esempio  in  un  nostro  pergolato  di  moscatello  nero  ove  quasi  tutti 
i  viticci  di  grappolo  sono  veri  secondi  grappoli  con  uva  che  giunge 
a  perfetta  maturazione;  il  caso  è  abbastanza  frequente  anche  nelle 
graperies  o  serre  da  uva  d'Inghilterra,  ove  il  doppio  grappolo  è  detto 


(1)7  movimenti  'e  le  abitudini  delle  piante  rampicanti  (Traduz.  italiana  di  Ca- 
nestrini e  Saccardo:  Unione  Tipografica-Editrice,  Torino  1878),  pag.  85-86. 

(2)  Secondo  le  osservazioni  di  Darwin  (loc.  cit.  pag.  101)  la  vite  sarebbe  fra 
tutte  le  piante  rampicanti  quella  che  gira  più  debolmente,  «  presentando  essa 
evidentemente  soltanto  una  traccia  di  una  facoltà  primitiva.  »  Il  celebre  natu- 
ralista inglese,  autore  della  teoria  della  selezione  naturale  (selectio  naturalis) , 
vuol  alludere  con  queste  parole  alle  modificazioni  che  i  metodi  di  viticoltura  hanno 
indotto  nella  vite,  cioè  nella  sua  costituzione  morfologica  esterna  ed  interna.  Lo 
studio  dei  viticci  ci  prova  che  la  vite  è  in  un  periodo  di  transizione.  (V.  anche 
la  nota  nella  pagina  che  segue). 


100  CAPITOLO  IV 


cluster,  cioè  gruppo  (1).  Quando,  come  accade  quasi  sempre,  il  vi- 
ticcio di  grappolo  non  porta  bottoni  fiorali,  esso  si  essica  nell'estate 
(luglio)  ond'è  che  tutti  possono  poi  osservare,  sul  peduncolo  dei  grap- 
poli, una  cicatrice  la  quale  rappresenta  il  punto  di  dove  partiva  il( 
detto  capreolo. 

I  viticci  della  vite  sono  di  natura  cessile,  cioè  provengono  dall'asse 
della  pianta,  e  più  precisamente  da  gemme  terminali  dei  tralci  in  istato 
di  sviluppo  normale,  e  non  dalla  modificazione  di  foglie,  come  nei  piselli, 
nelle  veccie,  ecc.  in  cui  i  cirri  sono  invece  di  natura  appendicolare; 
questo  può  osservarsi  chiaramente  nella  fig.  6  (pag.  95)  nella  parte 
superiore  di  essa;  l'internodio  6-7  presentava  dapprima  alla  sua 
estremità  due  gemme,  una  terminale  l'altra  ascellare,  cioè  posta  al- 
l' ascella  dell'  ultima  foglia;  la  prima  diede  un  viticcio  (negli  inter- 
nodii  inferiori  al  viticcio  num.  1,  aveva  dato  un  grappolo),  mentre  la 
seconda  produsse  un  nuovo  ramo  7-8,  che  spostando  a  sinistra  il 
viticcio  si  collocò  nella  stessa  direzione  dell'internodio  6-7.  Accadde 
lo  stesso  al  punto  segnato  col  numero  8,  ove  trovavansi  pure  una 
gemma  terminale,  che  diede  il  viticcio  8,  ed  altra  ascellare  che  diede 
l'internodio  8-9  in  continuazione  dei  precedenti,  avendo  spostato  il 
viticcio  8  a  destra.  La  gemma  ascellare  dà  adunque  un  asse  più 
forte  della  gemma  terminale,  onde  l'asse  di  questa  (viticcio  o  grap- 
polo) viene  spostato  da  quello  e  rimane  ai  lati  del  tralcio  in  svi- 
luppo. Ma  al  punto  segnato  col  numero  9  non  si  ha  che  la  gemma 
ascellare,  quindi  manca  il  capreolo,  che  riappare  poi  al  numero  10 
e  così  di  seguito,  cioè  si  hanno  sempre  due  internodii  che  si  bi- 
forcano (2)   ed   uno   no   (3).   Ales.   Braun,  De    Candolle,   A.   De 


(1)  Darwin  (loc.  cit.  pag.  87)  considerando  che  nelle  viti  si  trovano,  come  si  è 
detto,  viticci  semplici  e  viticci  con  fiori,  accenna  a  che  il  genere  Cissus  (pure 
della  famiglia  delle  Yitaceae)  non  offre  gradazioni,  e  presenta  soltanto  viticci  bene 
sviluppati  e  gruppi  di  fiori.  Indi  conclude  con  la  seguente  acuta  osservazione:  «  Se 
il  genere  Yitis  fosse  stato  sconosciuto,  il  più  ardito  partigiano  della  modifica- 
zione delle  specie  non  avrebbe  mai  supposto  che  lo  stesso  individuo,  allo  stesso 
periodo  di  sviluppo,  avesse  offerto  ogni  possibile  gradazione  fra  i  gambi  fiorali  or- 
dinari per  il  sostegno  dei  fiori  e  delle  frutta,  ed  i  viticci  adoperati  esclusivamente 
per  arrampicarsi.  Ma  la  vite  ci  dà  chiaramente  un  tale  esempio;  ed  essa  mi  pare 
una  prova  di  transizione  sorprendente  e  curiosa  quanto  si  può  immaginare.  »  Si 
vegga  anche  la  nota  (2)  nella  pagina  che  precede. 

(2)  Questo  sistema  di  ramificazione  è  detto  dai  botanici  sirnpodiale,  cioè  con 
bipartizione  dell'apice  o  estremità  del  fusto. 

(3)  In  questo  caso  invece  la  ramificazione  è  monopodiale,  cioè  senza  biparti- 
zione dell'apice  del  ramo.  La  vite  adunque  presenta  un  sistema  di  ramificazione 
misto. 


BOTANICA  DELLA  VITE  101 

Jussieu,  C.  Darwin  ed  altri  insigni  botanici  sono  di  questo  av- 
viso: invece  W.  Velieri  e  0.  Penzig  sostengono  che  i  viticci  sono 
veri  germogli  laterali  che  nascono  sui  lati  del  fusto,  opposti  alle 
foglie,  incominciando  con  piccole  protuberanze,  e  non  ammettono 
quindi  che  essi  rappresentino  l'apice  di  un  internodio.  Ma  dopo  che 
Eichler  ha  dimostrato  (1881-1882)  che  un  cirro  rinforzandosi  può 
ricuperare  il  posto  che  veramente  gli  spetta,  cosicché  il  tralcio  può 
essere  terminato  in  modo  definitivo  da  un  viticcio  (1)  la  quistione 
ci  pare  risolta  in  modo  definitivo. 

Ci  rimane  a  dire  dell'ufficio  dei  viticci;  della  loro  costituzione  e 
del  perchè  si  avvolgano  a  spirale  diremo  più  innanzi  studiando  l'ana- 
tomia della  vite.  È  evidente  che  l'ufficio  dei  viticci  ordinarii  è  quello 
di  innalzare  i  rami  fronzuti  della  vite,  per  cui  una  maggior  quan- 
tità di  foglie  e  gli  stessi  tralci  possano  godere  della  benefica  in- 
fluenza dell'aria,  nonché  del  calore  e  della  luce  solare;  è  ovvio  poi 
il  comprendere  che,  nello  stesso  tempo,  il  viticcio  tiene  salda  la  vite, 
come  pure  i  tralci,  ai  sostegni,  mentre  il  viticcio  di  grappolo  aiuta 
il  grappolo  stesso.  Parlando  a  suo  luogo  della  importanza  dei  viticci 
dal  lato  viticolo  pratico,  vedremo  se  convenga  o  non  di  sopprimerli, 
come  si  usa  in  alcune  provincie  italiane  (2). 

7.°  Le  foglie  della  vite  si  compongono  di  tre  parti  essenziali, 
cioè  il  picciuolo  o  peziolo  o  gambo;  —  il  lembo  o  lamina,  vale 
a  dire  la  parte  piana  e  dilatata;  —  le  nervature  o  costole  colle  vene 
e  le  venicelle:  debbonsi  considerare  inoltre  i  peli  e  le  stipole. 

Il  picciuolo  (p  fig.  9  e  10)  ha  una  lunghezza  ed  uno  spessore 
varii  secondo  le  varie  specie  e  varietà  di  vizzati;  generalmente  è 
rotondo,  talvolta  depresso  nella  parte  superiore,  ossia  terete,  e  porta 
peli  più  o  meno  numerosi,  se  pure,  come  accade  in  molte  varietà, 
non  ne  è  affatto  sprovvisto;  il  suo  colore  è  talora  verde,  tal'altra 
rossiccio,  più  o  meno  striato,  più  o  meno  pallido   verso   l'estremità. 

Il  lembo  della  foglia  di  vite  è  più  o  meno  ampio  secondo  le  diverse 
varietà;  ha  un  colore  verde  intenso  o  chiaro  durante  la  vegetazione, 
ed  assume  una  tinta  giallo-chiara  con  macchie  rossastre  od  abbron- 
zate in  autunno;  alcune  varietà  hanno  le  foglie  rosse  sul  finire 
dell'agosto,  altre  col  contorno  tinto  di  amaranto  in  estate.  Il  lembo 


(1)  0.    Comes  —  Botanica  {La  scienza  e  la  pratica   dell'  agricoltura,   voi.  II, 
pag.  67). 

(2)  Veggasi  «  Soppressione  dei  viticci  »  ove  si  parla  della  potatura  verde. 


102  CAPITOLO  IV 


è  più  o  meno  sottile,  rugoso  e  morbido,  e  si  notano  differenze 
fra  la  pagina  superiore  e  quella  inferiore  della  stessa  foglia;  la  su- 
periore ad  esempio  può  essere  di  colore  verde- oscuro  e  la  inferiore 
di  colore  meno  carico.  È  poi  noto  a  tutti  che  la  pagina  inferiore  è 
più  ricca  di  peli  {tomentosa,  pubescente  o  cotonosa,  talvolta  a  guisa 
di  ragnatela,  talvolta  a  guisa  di  fiocchetti)  che  non  la  superiore,  la 
quale  o  ne  sembra  totalmente  sprovvista  (cioè  glabra)  o  mostra 
soltanto  una  rara  peluria.  Il  lembo  è  variamente  frastagliato,  cioè 
ha  una  dentatura  differente,  più  o  meno  rada  e  profonda  e  più  o  meno 
mucronata,  cioè  coi  denti  terminanti  in  punte  sottili,  acute  o  ad 
uncino;  in  alcune  varietà  il  dente    centrale    è  molto    acuminato,    in 


altre  no.  Il  lembo  offre  grandi  divisioni  dette  seni,  le  quali  for- 
mano i  lobi,  che  sono  generalmente  cinque  (fig.  9  ab  e  de)  ma,  pos- 
sono essere  anche  soli  tre  (fig.  10  fgh)  (1);  nel  primo  caso  la  foglia 
è  quinquelobata  o  cinquelobata,  nel  secondo  è  trilobata.  Si  chiama 
palmare  o  palmata  la  foglia  di  vite  avente  lobi  profondi  a  simi- 
glianza  della  foglia  di  fico,  e  ciò  perchè  in  certo  qual  modo  ricorda 
la  mano  aperta.  Il  seno  del  picciuolo  dicesi  seno  peziolare;  esso  è 
più  o  meno  rotondo  o  elittico,  variamente  profondo  ed  aperto,  e  può 


(1)  Il  nebbiolo  (spanna,  raelasca,  eco.)  presenta,  ad  esempio,  foglie  cinquelobate 
e  foglie  trilobate. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


103 


presentare  i  due  lembi  laterali  sovrapposti;  gli  altri  seni  sono  detti 
superiori  od  inferiori  a  seconda  della  loro  maggiore  o  minore  di- 
stanza dal  picciuolo,  e  possono  essere  più  o  meno  stretti,  elittici, 
profondi  e  via  dicendo.  Si  chiama  lobo  di  mezzo  quello  che  costi- 
tuisce la  parte  superiore  estrema  della  foglia.  Esso  ha  forme  varia- 
bili, potendo  essere  cuoriforme  o  allungato  o  dilatato  ecc. 

Le  nervature  partono  dall'  inserziore  del  picciuolo  e  vanno  sino 
al  margine  della  foglia,  divergendo  le  une  dalle  altre;  la  foglia  della 
vite  è  perciò  peltinervia:  generalmente  le  nervature  principali  sono 
cinque  (fig.  9),  di   cui  la   mediana  (o   costola   o   rachide)  è  la   più 


Fig.  10. 


robusta  e  si  trova  nella  direzione  del  picciuolo  di  cui  è  la  continua- 
zione, mentre  le  altre  quattro,  che  ne  sono  le  diramazioni,  formano 
angoli  differenti  (45°  e  talvolta  90°  come  può  vedersi  nella  fig.  10) 
per  cui  le  foglie  della  Vite  sono  angulinervie.  Le  nervature  prin- 
cipali si  dirigono  verso  il  mezzo  dei  singoli  lobi  della  foglia;  da  esse 
partono  poi  nervature  secondarie,  terziarie,  ecc.  (vene  e  venicellej 
le  quali  si  confondono,  si  uniscono  (si  anastomosano)  le  une  colle 
altre,  per  cui  il  lembo  prende  l'aspetto  d'un  reticolato  (nervatura 
palmata-reticolata).  Le  nervature  sono  più  o  meno  rilevate,  con 
diramazioni  più  o  meno  numerose,  colorite  in  rosso  alla  base,  oppure 


104  CAPITOLO  IV 


di  color  verde- chiaro,  o  bianco -verdastro:  quasi  sempre  sono  spor- 
genti, rotonde  nella  pagina  inferiore  delle  foglie,  mentre  sono  come 
depresse  e  piane  nella  superiore,  massime  nelle  ultime  diramazioni. 
Infine  diremo  che  le  nervature  principali  presentano  peli  più  o  meno 
numerosi,  come  ad  esempio  nel  San  Gioveto  piccolo  (forte). 

I  peli,  di  cui  abbiamo  già  detto  qualche  cosa  parlando  del  lembo 
della  foglia,  sono  organi  filamentosi  che  giovano  ad  accrescere  il  po- 
tere di  esalazione  o  traspirazione  del  vapor  acqueo  della  pianta  per 
mezzo  delle  foglie.  Queste  sono  più  o  meno  pubescenti  a  seconda 
delle  varietà;  ma  anche  quelle  che  si  sogliono  chiamare  liscie,  scabre 
o  glabre  presentano  rari  peli  presso  le  nervature  o  sopra  di  esse, 
massime  nella  pagina  inferiore  che  è  la  più  tomentosa  (pag.  102). 

Della  forma  dei  peli  diremo  nel  paragrafo  seguente  studiando  l'a- 
natomìa della  Vite;  qui  ci  limiteremo  ad  accennare  che  la  peluria 
varia  molto  di  intensità  e  di  apparenza  a  seconda  delle  differenti  va- 
rietà di  vizzati,  alcuni  dei  quali  mostrano  la  pagina  inferiore  delle 
loro  foglie  come  cotonosa  (il  barbera  ne  porge  un  beli'  esempio), 
altri  quasi  fosse  coperta  da  una  lieve  ragnatela,  altri  invece  portano 
come  dei  fiocchetti  di  peli,  altri  ancora  paiono  non  portarne  affatto, 
come  talvolta  il  dolcetto  e  via  dicendo.  Questo  carattere  della  pu- 
bescenza  è  costante  per  una  data  varietà,  benché  talvolta  una  va- 
rietà a  foglie  glabre  possa  mostrarsi  alquanto  pelosa;  ed  a  cagion 
d'esempio  le  foglie  appunto  del  dolcetto  ora  mostransi  glabre  ora 
leggermente  tomentose,  a  seconda  del  locale  ove  cresce  la  pianta, 
dell'età  della  foglia,  ecc.  Ad  ogni  modo  gli  arapelografi  tengono  in 
molto  calcolo  questo  carattere  nel  classificare  le  varietà. 

Le  stipole  sono  piccole  appendici,  o  foglioline  precoci,  che  stanno 
ai  lati  del  picciuolo  e  precisamente  al  punto  d'  origine  della  foglia 
sul  ramo;  quando  sono  libere  cadono,  ond'  è  che  molti  forse  crede- 
ranno che  le  foglie  della  vite  ne  siano  sprovviste:  ma  esaminando 
attentamente  il  posto  che  occupavano  si  possono  vedere  due  cica- 
trici, segno  che  esistevano  realmente,  compiendo  al  loro  ufficio  di 
proteggere  la  foglia  prima  del  suo  sviluppo,  cioè  durante  la  prefo- 
liazione  od  ibernazione  nella  gemma.  Le  stipole  della  vite  hanno 
una  forma  ovale  allungata  o  quadrangolare  con  angoli  rotondati  (1) 
e  non  presentano  picciuolo,  cioè  sono  sessili;  nella   gemma  si   svi- 


(1)  0.  Penzig.  Anatomia  della   Vite  (Archivio  del  Laboratorio  Crittogamico  di 
Pavia),  voi.  IV,  pag.  155  e  159. 


BOTANICA  DELLA  VITE  105 

luppano  con  vigore  e  proteggono,  coprendole,  le  giovani  foglie;  ma 
siccome  cessano  assai  presto  di  crescere,  mentre  le  foglie  continuano 
a  svilupparsi  senza  interruzione,  così  esse  cadono  precocemente  e 
non  rimangono  che  le  suddette  cicatrici. 

Descritte  così  le  varie  parti  onde  si  compone  la  foglia  della  Vite, 
ci  rimane  a  dire  qualche  cosa  sulla  loro  disposizione  sui  rami  o  fillo- 
tassi. Tutti  sanno  che  ad  ogni  nodo  d'un  tralcio  di  vite  (fig.  6  pag.  95) 
corrisponde  una  sola  foglia,  per  cui  le  foglie  della  vite  sono  soli- 
tarie, e  vengono  così  chiamate  per  distinguerle  dalle  foglie  dette  op- 
poste. Prendendo  ad  esame  un  tralcio  fronzuto,  e  sia  pure  quello  che 
abbiamo  disegnato  nella  detta  fig.  6,  si  osserva  che  data  una  foglia 
qualunque,  ad  esempio  quella  segnata  col  num.  1,  la  successiva,  cioè 
il  num.  2,  non  si  trova  in  corrispondenza  colla  prima:  vi  si  trovano 
invece  verticalmente  le  foglie  segnate  coi  numeri  3,  5,  7,  9  e  via 
via.  Possiamo  quindi  concludere  che  le  foglie  della  vite  sono  di- 
sposte su  due  file  equidistanti  fra  di  loro,  e  si  alternano  in  guisa 
da  corrispondersi  di  due  in  due:  esse  sono  quindi  foglie  distiche. 
Avvolgendo  un  filo  a  spirale  attorno  ad  un  ramo  di  vite  (fig.  6)  a 
partire  dalla  base  della  foglia  numero  1  e  facendolo  passare  con- 
secutivamente per  tutte  le  foglie,  si  ha  una  spirale  detta  genera- 
trice, i  cui  cicli  sono  rappresentati  dalle  porzioni  di  spirale  com- 
presi fra  le  foglie  corrispondenti  verticalmente  ai  numeri  1,  3,  5, 
7,  ecc.  Ogni  ciclo  (1-3,  3-5,  5-7,  ecc.)  nella  vite  consta  di  un  passo 
di  spira  perchè  alla  foglia  1  corrisponde  la  foglia  3,  alla  foglia  3 
la  foglia  5  e  via  via  (1):  in  ogni  ciclo  e  quindi  in  ogni  passo  di 
spira  si  contano  due  foglie;  infatti  il  ciclo  1-2-3  tocca  le  foglie  1 
e  2;  il  ciclo  3-4-5  tocca  le  foglie  3  e  4  e  così  di  seguito.  Pertanto, 
come  venne  proposto  dal  Dott.  Braun,  si  suole  indicare  questa  di- 
sposizione mediante  una  frazione  il  cui  numeratore  indica  il  numero 
dei  passi  di  spira  del  ciclo  (quindi  1  nel  caso  della  vite),  mentre  il 
denominatore  indica  il  numero  delle  foglie  del  ciclo  (cioè  2).  La 
espressione  frazionaria 

2 
è  detta  indice  di  fillotassi,  e   significa   che  nella    vite  la    distanza 


(1)  Nel    pesco  invece    alla  foglia  1    corrisponde   la  foglia  6  per  cui  ogni  ciclo 
comprende  due  passi  di  spira:  è  facile  constatarlo  esaminando  un  ramo  di  pesco. 


106  CAPITOLO  IV 


angolare  di  due  foglie  consecutive  è  uguale  ad  una  mezza  circonfe- 
renza (1). 

Fu  veramente  provvida  questa  regolare  e  geometrica  disposizione 
delle  foglie  lungo  i  rami  della  vite,  inquantochè  non  trovandosi  mai 
due  foglie  consecutive  che  si  corrispondano  verticalmente,  neppure 
avviene  mai  che  una  foglia  impedisca  totalmente  all'altra  di  godere 
della  benefica  azione  della  luce  solare,  la  quale,  come  vedremo  a  suo 
luogo,  ha  una  così  grande  influenza  sui  fenomeni  della  nutrizione  e 
sulla  produzione  dello  zucchero. 

8.°  Le  gemine  della  vite  non  possono,  rigorosamente  parlando, 
distinguersi  in  gemme  da  legno  {foglifere  o  ramifere)  ed  in  gemme 
da  frutto  {fiorifere  od  alabastri),  cioè  in  occhi  e  bottoni;  infatti 
da  una  gemma  di  vite  può  escire  un  germoglio  che  porta  fiori  e  fo- 
glie ad  un  tempo,  quindi  le  gemme  della  Vitis  vinifera  sono  miste  o 
ramifere.  Il  viticultore  intelligente  sa  discernere  gli  occhi  puramente 
ramiferi  da  quelli  misti,  cioè  che  sbocciando  daranno  un  ramo  con 
bottoni  fioriferi  all'ascella  delle  foglie;  questi  bottoni  danno  origine 
ai  grappoli,  e  come  già  dicemmo  sono  generalmente  due,  rare 
volte  tre,  ed  in  casi  eccezionali  più  di  tre  (2) .  Gli  occhi  ramiferi  sono 
generalmente  più  acuminati,  quasi  diremmo  aguzzi,  imperfetti,  mentre 
i  bottoni  misti  si  presentano  turgidi  e  quadrangolari,  se  così  possiamo 
dire;  questi  ultimi  però  non  sempre  danno  getti  uviferi,  anzi  si  può 
asserire  in  tesi  generale  che  i  bottoni  collocati  nella  parte  inferiore 
del  tralcio,  vale  a  dire  presso  la  sua  inserzione  sul  vecchio,  non  sono 
fruttiferi,  anche  se  ne  hanno  l'apparenza;  onde,  come  vedremo,  ta- 
luni li  acciecano  (3).  È  curioso  il  fatto  che  questi  bottoni  sono  ap- 
punto generalmente  quelli  sprovvisti  di  viticcio  durante  il  periodo 
vegetativo  del  precedente  anno;  al  paragrafo  sulla  fisiologia  della 
vite  ritorneremo  su  di  ciò. 

Le  gemme  della  vite  sono  tutte  ascellari,   cioè  poste   all'  ascella 


(1)  Accade  lo  stesso  nelle  graminacee  e  nell'olmo;  invece  ad  esempio  nel  pesco 
l'angolo  di   divergenza  di  due   foglie    consecutive  è   misurato  da  un  arco  uguale 

2 
a  2j5  di  circonferenza,  e  perciò  l'indice  di  fillotassi  è  -— 

o 

(2)  H.  W.  Dahlen  narra  di  aver  visto  germogli  uviferi  con  sei  grappoli  {Die 
Weinbereitung  —  Vieweg  in  Braunschweig  —  1882,  pag.  10).  Noi  abbiamo  visto 
un  solo  caso  di  4  grappoli  in  un  germoglio,  nonostante  lunghe  e  frequenti  escur- 
sioni viticole. 

(3)  V.  alla  descrizione  dei  principali  sistemi  di  viticoltura  il  Metodo  Van- 
nuccini. 


BOTANICA  DELLA  VITE  107 

delle  foglie:  quasi  sempre  esse  non  sono  solitarie,  ma  più  spesso 
per  così  dire  sovrapposte  ;  infatti  oltre  alla  gemma  principale,  si 
trova  accanto  ad  essa  una  gemma  secondaria,  e  in  qualche  caso, 
non  tanto  raro  quanto  potrebbe  credersi,  una  terziaria;  queste  ul- 
time gemme  chiamansi  usualmente  sotf  occhi  o  contr  occhi  e  spesso, 
se  perisce  il  bottone  principale,  si  sviluppano  oltre  e  possono  anche 
portare  uva. 

Ma  le  gemme  della  vite  si  distinguono  anche  in  pronte  e  dor- 
mienti: le  prime  stanno  su  getti  dell'annata,  germogliano  neh"  anno 
stesso  e  producono  le  femminelle  portanti  talvolta  i  così  detti  secondi 
grappoli;  esse  sono  veri  sott'occhi  posti  presso  il  bottone  o  l'occhio 
dormienti.  Questi  ultimi  stanno  invece  su  tralci  di  un  anno  d'  età  e 
sono  detti  dormienti  perchè  non  si  sviluppano  se  non  nella  primavera 
dell'anno  successivo  a  quello  della  loro  formazione.  Essi  sono  vestiti, 
cioè  protetti  da  appendici  coriacee  embìHcate,  ossia  simili  ad  embrici 
e  disposte  come  il  frutto  squamoso  dei  pini,  per  approfittare  meglio 
del  poco  spazio  che  occupano;  queste  squame  sono  internamente  co- 
perte o  imbottite,  se  così  possiamo  esprimerci,  di  molta  lanuggine, 
per  meglio  proteggere  le  parti  interne  tenere  della  gemma  durante 
i  rigori  dell'inverno.  Appunto  perciò  queste  gemme  dormienti  furono 
chiamate,  da  Linneo,  svernatoi  o  ibernacoli;  Mirbel  chiamò  perula 
l'involucro  protettore  e  diconsi  poi  tegmenti  le  singole  squame  che 
lo  compongono. 

Non  tutte  le  varietà  di  viti  portano  gemme  a  perula  lanugginosa 
o  tomentosa;  alcune  mostrano  bottoni  solo  leggermente  pelosi  sui 
getti  allo  stato  erbaceo,  altre  hanno  gemme  poco  lanugginose;  e 
questo  senza  che  si  possano  stabilire  classazioni,  perchè  nei  paesi 
caldi  troviamo  viti  a  gemme  tomentose  (es.  la  vite  Troja  delle  Puglie) 
e  nei  freddi  viti  a  gemme  senza  lanuggine  (es.  il  Dolcetto  di  Pie- 
monte che  dà  solo  in  primavera  un  getto  leggermente  lanugginoso). 
Anche  la  forma  delle  gemme  varia  a  seconda  dei  differenti  vitigni; 
ora  è  arrotondata,  ora  depressa,  ora  acuminata,  ora  conica,  ora  a 
guisa  di  amandola,  con  squame  di  vario  colore  e  via  via. 

9°  /  fiori  della  vite  —  salve  poche  eccezioni  (1)  —  si  com- 
pongono di  quattro  parti  essenziali;  il  calice,  la  corolla,  gli  stami, 
ed  il  pistillo,  e  perciò  sono  completi:  essi  si  mostrano  aggregati  in 


(1)  Al  paragrafo  seguente  diremo  dei  fiori  anormali  della  vite,  cioè  incompleti, 
per  cui  le  piante  che  li  portano  sono  sterili. 


108  CAPITOLO  IV 


modo  da  costituire,  come  tutti  sanno,  una  infiorescenza  a  grappolo 
o  racemo,  il  quale  consiste  in  un  asse  principale,  detto  rachide  (che 
non  è  altro  che  la  continuazione  del  peduncolo  o  gambo)  attorno  al 
quale  stanno  varii  rami  secondarli;  questi  rami,  disposti  con  una  certa 
uniformità  sulla  rachide,  sono  detti  sub-peduncoli;  essi  ramificano 
alla  loro  volta  e  portano  i  fiori,  per  cui  la  infiorescenza  della  vite 
anziché  essere  semplice  è  composta.  I  piccoli  gambi  che  sostengono 
i  singoli  fiori,  e  quindi  più  tardi  i  singoli  acini,  sono  detti  pedunco- 
letti  o  pedicelli,  onde  i  fiori  della  vite  sono  peduncolati  (1). 

I  rami  secondarli  coi  loro  grappoletti  di  fiori  o  racimoli  sono  sempre 
più  sviluppati  presso  la  base  della  infiorescenza  e  costituiscono,  presso 
alcune  varietà  di  vite,  come  chi  dicesse  le  ale  dei  grappoli,  i  quali 
infatti  chiamansi  alati  se  i  grappoletti  sono  molto  pronunciati;  questi 
grappoletti  possono  poi  essere  sostenuti  da  un  sub-peduncolo  cadente, 
più  o  meno  floscio,  più  o  meno  lungo,  più  o  meno  erbaceo  e  via 
via,  d'onde  le  varie  forme  dei  grappoli  a  seconda  delle  varietà;  come 
ad  esempio  grappoli  quasi  cilindrici,  conici  o  piramidali,  molto  o  poco 
alati,  irregolari,  più  o  meno  allungati,  più  o  meno  ramosi  ecc.  Infine 
se  i  grappoletti  di  fiori,  e  quindi  di  acini,  sono  molto  ravvicinati  gli 
uni  agli  altri,  i  grappoli  sono  detti  uniti  e  talvolta  anche  serrati;  in 
caso  contrario  sono  detti  spargoli  o  sciolti:  di  più,  un  grappolo  può 
essere  ad  esempio  a  racimoli  spargoli  ed  avere  gli  acini  più  o  meno 
densi. 

Le  infiorescenze  della  vite  sono  sempre,  come  dicemmo  dei  viticci, 
opposte  alle  foglie,  cioè  opposi  tifo  He;  invece  normalmente  le  infio- 
rescenze in  quasi  tutte  le  piante,  o  nascono  all'  ascella  delle  foglie 
(ascellari)  o  partono  dall'estremità  del  fusto  o  dell'asse  d'incremento 
(terminali)  come  nel  Tulipano,  o  sono  miste,  cioè  offrono  riuniti  i 
due  modi  di  infiorescenza.  Le  infiorescenze  della  vite  sono  quindi 
extra-ascellari,  e  siccome  deviano  dalla  suddetta  legge  generale  che 
regola  la  disposizione  dei  fiori  sul  fusto,  tanto  bene  studiate  da 
Roeper,  Bravais  ed  altri,  così  appartengono  al  piccolo  numero  delle 
infiorescenze  anomale. 

Esaminiamo  ora  la  conformazione  esterna  dei  quattro  organi  o  ver- 
ticilli onde,  come  dicemmo,  si  compone  il  fiore. 

II  fiore  (fìg.  11)  è  il  verticillo  più  esterno  come  tutti  sanno,  e 
racchiude  per  così   dire  gli  altri    organi  fiorali;    nella    vite    è  molto 


(1)  Diconsi  invece  sessili  i  fiori  senza  peduncolo,  come  quelli  della  Verbena. 


BOTANICA  DELLA  VITE  109 


piccolo,  come  si  può  vedere  nella  figura  11,  ed  i  suoi  sepali  essendo 
uniti  o  saldati  fra  di  loro,  ne  consegue  che  il  calice  nella  vite  è  ga- 
mosepalo  o  monosepalo,  distinguendosi  così  dai  calici  polisepali  cioè 
a  sepali  liberi.  Esso  presenta  cinque  dentelli  onde  è  cinquedentato. 
La  sua  parte  superiore,  ossia  l'orlo,  è  libera;  mentre  la  inferiore  è 
unita  al  ricettacolo,  che  è  il  breve  asse  su  cui  si  inseriscono  tutte 
le  appendici  del  fiore,  corrispondente  al  ramo  vegetativo.  Al  principio 
della  fioritura  il  calice  spesso  si  essica  e  più  tardi  cade. 


Fig.  11.  Fig.  12.  Fig.  13. 

La  corolla  avviluppa  e  protegge  gli  organi  della  riproduzione: 
essa  è  quasi  sempre  costituita  da  cinque  foglioline  o  petali  (fig.  lice 
fig.  12  e)  e  segue  immediatamente  il  calice:  esaminando  un  fiore  di  vite 
prima  che  si  apra  (la  fig.  1 1  lo  mostra  già  aperto)  si  osserva  che  i  cinque 
petali  si  alternano  coi  cinque  dentelli  del  calice,  e  toccano  questi  ul- 
timi soltanto  pei  loro  margini,  onde  si  ha  una  così  detta  estivazione 
valvare  (1).  I  petali  nel  fiore  della  vite  da  principio  sono  divisi  come 
da  cinque  piccoli  solchi  longitudinali  che  vanno  dalla  base  alla  estre- 
mità; ma  quando  incomincia  la  fruttificazione  la  corolla  si  divide  in 
cinque  parti  che  sono  appunto  i  petali:  essi  però  restano  saldati  nella 
loro  parte  superiore  e  staccansi  solo  alla  base  (fig.  11  e)  rimanendo 
con  quest'ultima  ripiegata  in  alto  a  guisa  di  cappuccio  protettore  del 
pistillo  e  degli  stami:  i  petali  non  essendo  veramente    saldati  fra  di 


(1)  I  botanici  chiamano  estivazione  il  modo  differente  con  cui  sono  disposte  le 
parti  componenti  il  fiore  prima  che  questo  si  apra.  Oltre  la  estivazione  valvare, 
si  ha  quella  detta  torsiva,  (di  cui  ci  porge  un  esempio  la  corolla  dei  fiori  di  malva) 
e  la  quinconciale. 


110  CAPITOLO  IV 


loro,  ma  liberi,  la  corolla  della  vite,  a  differenza  del  calice,  è  poli- 
petala. In  alcune  varietà  di  viti  i  petali  anziché  essere  cinque,  come 
accade  generalmente,  sono  sei  e  talvolta  anche  sette.  Il  complesso 
della  corolla  nel  fiore  della  vite  ha  una  forma  che  generalmente 
corrisponde  a  quella  del  futuro  acino. 

Gli  stami,  o  organi  maschili,  nel  fiore  della  vite  sono  quasi  sempre 
cinque  (fig.  13  d  d)  e  costituiscono  il  così  detto  androceo,  che  è  il 
terzo  verticillo  del  fiore,  racchiuso  nella  corolla:  se  sono  cinque  l'an- 
droceo  è  pentandro,  ed  è  questo  il  caso  più  comune  nella  vite,  quan- 
tunque vi  siano  fiori  di  vite  con  quattro,  oppure  sei  od  anche  sette 
stami,  nel  qual  caso  anche  i  petali  si  contano  in  egual  numero.  Ogni 
stame  consta  del  filamento  e  dell'andrà:  i  filamenti  sono  liberi  e 
sorgono  dal  ricettacolo  su  cui  sono  inseriti,  precisamente  fra  i  pe- 
tali e  la  base  dell'ovario;  perciò  l'androceo  nella  vite  è  ipogino  (1)  o 
infero,  mentre  l'ovario  è  supero  perchè  situato  superiormente  al  ca- 
lice alla  corolla  ed  all'androceo:  tutto  ciò  appare  evidente  nella  fig.  13 
ove  in  d  d  ecc.  sono  disegnati  cinque  filamenti  colle  rispettive  antere. 
I  filamenti  nel  fiore  della  vite  sono  subulati  cioè  foggiati  a  guisa 
di  lesina,  allungati  ed  assottigliati  verso  la  estremità. 

Vanterà  sta  all'  estremità  del  filamento,  e  costituisce  come  un 
sacco  membranoso  giallognolo,  quasi  foggiato  a  guisa  di  cuore  (fig.  14) 
entro  cui  si  trova  il  polline  o  polvere  fecondante:  l'antara  è  divisa 
in  due  logge  o  cavità,  o  forse  meglio  borse,  addossate  una  all'altra 
e  solo  separate  da  un  tessuto  intermedio  detto  connettivo;  essendo 
due  le  logge,  l'antera  è  biloculare  nella  vite,  ed  è  quanto  accade 
generalmente  in  pressoché  tutti  i  fiori  delle  varie  piante.  L'antera  è 
fissata  al  filamento  per  la  parte  mediana  del  suo  dorso  (fig.  14  b) 
per  cui  è  mediifissa;  avendo  poi  la  sua  faccia  rivolta  verso  il  centro 
del  fiore  (fig.  13  d  d)  è  intr^orsa  (2).  L'antera  è  oscillante,  ed  ha 
una  deiscenza,  cioè  un  modo  d'aprirsi,  longitudinale.  —  (Fig.  14  a  fila- 
mento con  antera  molto  ingrossata  vista  per  davanti;  b,  vista  per  di 
dietro;  e,  vista  dopo  l'apertura  delle  borse  d  d,  e  l'uscita  del  polline). 

77  polline  è  costituito  (fig.  15  ingr.  410)  da  una  polvere  di  color 
giallo  chiaro;  la  forma  dei  granellini  che  lo  compongono  può  essere 
elittica  come  in  a  o  più   acuminata   come    in   b  ;   del   diametro   più 


(1)  Dicesi  invece  peritino   se  gli  stami  sono   inseriti    sul  calice  —  e  epigino  o 
supero  se  stanno  Della  parte  superiore  dell'ovario,  il  quale  allora  vien  detto  infero, 

(2)  In  altre  piante  l'antera  ha  una  posizione  opposta  (l'sti-orsa). 


BOTANICA  DELLA  VITE 


111 


lungo  di  circa  25  micromillimetri  ed  il  [più  corto  di  circa  15  min.; 
ma  di  essi  parleremo  più  a  lungo  nel  paragrafo  seguente  {Anatomia 
della  vite). 


d 


a 


Fig.  14s. 

Il  pistillo  è  il  verticillo  centrale  del  fiore  della  vite;  esso  qui  co- 
stituisce da  solo  il  gineceo,  ed  è  un  pistillo  supero  come  già 
vedemmo  (fig.  11  b)  terminante  in  una  apertura  detta  stimma, 
(fig.  13  f)  e  diviso  internamente  in  due  logge,  qualche  volta  in  tre  (1): 
in  ogni  loggia  vi  sono  due  ovuli.  Il  pistillo  è  composto  di  due  o  tre 


Fig.  15. 

parti,  dette  carpelli,  saldate  fra  di  loro  e  che  corrispondono  appunto 
alle  due  o  tre  logge  interne;  esso  è  perciò  un  pistillo  composto  o 
pluricarpellare ,  e  forma  due  o  tre  ovarii:  però  usualmente  si  chiama 
ovario  l'intero  pistillo.  Siccome  ogni  ovario  contiene  più  di  un  ovulo, 
ne  viene  che  esso  è  pluriovulato.  La  sua  forma  è  o  arrotondata  o 
allungata,  e  quasi  diremmo  fusiforme  a  mo'  di  bottiglia,  d'onde  le 
varie  forme  degli  acini  di  cui  diremo  fra  poco.  Lo  stimma,  o  aper- 
tura del  pistillo,  generalmente  non  è    posto  in    cima    ad   uno    stilo, 


(1)  Ciò  accade  quando  i  fiori  hanno  sei  o  sette  petali  e  sei  o  sette  stami. 


112  CAPITOLO  IV 


come  in  altri  fiori,  ma  sta  immediatamente  sub"  ovario  (fig.  13  f), 
per  cui  lo  stimma  nel  fiore  della  vite  è  sessile  (1);  se  esiste  uno 
stilo  esso  è  assai  breve  e  semplice,  ma  ciò  è  raro.  Lo  stimma  è  ar- 
rotondato piatto,  e  leggermente  depresso  nel  centro. 

10.°  L'uva.  Come  tutti  sanno  il  grappolo  o  pigna  si  compone 
essenzialmente  degli  acini;  in  quanto  al  gambo  ai  peduncoli  ed  ai 
picciuoli  rimandiamo  il  lettore  a  quanto  dicemmo  (a  pag.  108)  par- 
lando delle  infiorescenze  della  vite,  il  che  naturalmente  vale  pure 
per  quanto  riguarda  la  varia  forma  dei  grappoli  d'  uva.  L' acino 
botanicamente  parlando  è  una  bacca  carnosa,  così  detta  perchè 
tutto  il  pericarpio  è  polposo,  soffice,  succulento  e  non  vi  ha  noc- 
ciolo in  essa,  ma  solo  i  semi:  nel  frutto  dell'  uva  manca  adunque 
l'endocarpio,  che  è  quella  membrana  indurita,  coriacea,  ossea,  che 
tutti  abbiamo  osservato  nella  pesca,  nella  susina,  nella  ciliegia  ecc., 
vale  a  dire  il  nocciolo:  neh'  acino  d' uva  l' endocarpio  è  confuso 
colle  altre  parti  del  pericarpio..  Invece  è  molto  sviluppata  la  parte 
carnosa,  succulenta,  zuccherina  che  sta  fra  la  pellicola  (epicarpio) 
ed  i  semi,  e  che  dicesi  mesocarpio  o  sarcocarpio:  quindi  nella 
bacca  dell'uva  il  'pericarpio  si  distingue  essenzialmente  in  due  parti: 
V epicarpio  ed  il  mesocarpio  o  parenchima  (2).  L'acino  non  è  de- 
iscente, cioè  il  suo  pericarpio  non  si  apre,  quando  i  semi  sono  ma- 
turi, per  dar  luogo  alla  disseminazione;  esso  quindi,  come  tutti  i 
frutti  carnosi,  è  indeiscente. 

La  forma  degli  acini  può  essere  sferica  o  depressa;  subrotonda, 
dubbia  o  incostante,  e  decisamente  ovale  (3):  queste  forme  però  non 
sono  scrupolosamente  costanti  per  una  data  varietà,  poiché  le  con- 
dizioni di  clima  e  di  suolo  possono  far  assumere  ad  uve  ad  acino 
rotondo  la  forma  oblunga:  tuttavia  gli  ampelografi  tengono  calcolo 
anche  di  questo  carattere. 


(1  I  botanici  chiamano  sessili  le  foglie,  i  fiori,  le  antere,  e  gli  stami  che  non 
hanno  picciuoli,  o  peduncoli,  o  stili,  o  altri  sostegni. 

(2)  Chiamasi  parenchima  la  parte  generalmente  molle  (tessuto  cellulare)  dei 
frutti,  delle  foglie  ecc.  Al  contrario  chiamansi  fibre  i  vasi  dei  vegetali  riuniti  in 
fascii  e  costituenti  come  la  trama  o  lo  scheletro  di  quasi  tutti  gli  organi.  Nelle 
foglie,  ad  esempio,  è  facile  distinguere  il  parenchima  dalle  fibre. 

(3)  È  questa  la  divisione  adottata  eziandio  dal  valente  ampelografo  G.  Di  Ro~ 
vasenda  (op.  cit.  pag.  203)  —  Però  L.  Oudart  divideva  gli  acini  in  due  soli  or- 
dini: acino  rotondo  ed  acino  oblungo,  ritenendo  egli  che  gli  acini  subrotondi, 
essendo  rari  assai,  si  potessero  unire  colle  uve  ad  acino  rotondo.  Al  capitolo  Am- 
pelogr.afia  ritorneremo  su  di  ciò. 


BOTANICA  DELLA  VITE  113 

Gli  acini  sono  più  o  meno  aderenti  al  peduncolo,  massime  nel 
periodo  della  maturanza;  in  alcune  varietà  possono  anche  cadere  di 
per  sé  stessi,  se  nel  detto  periodo  sopraggiungono  le  pioggie  e  se 
il  terreno  del  vigneto  è  poco  permeabile.  Il  colore  degli  acini  può 
essere  bianco,  rosso  o  nero,  con  gradazioni  diverse,  come  nero- 
violaceo,  rosso-rubino,  azzurro-cupo,  giallo-dorato,  verdognolo  ecc.; 
alcuni  ampelografì  però  distinguono  le  uve  soltanto  in  colorate  e 
bianche;  comunque  sia,  è  certo  che  questo  carattere  è  fra  i  più  costanti, 
onde  Tampelografia,  come  vedremo  più  tardi,  ne  tiene  grande  conto. 

La  pellicola  o  buccia  degli  acini  d'uva  chiamasi  propriamente  la  fio- 
cine; essa,  oltre  al  differente  colore,  può  mostrarsi  pruinosa  oppure 
lucida;  coriacea  o  sottile.  Diconsi  pruinosi  o  annebbiati  o  cenerini 
gli  acini  che  sono  ricoperti  come  da  un  pulviscolo  bianchiccio,  o  per 
parlare  più  propriamente,  che  sono  spalmati  da  una  sostanza  grassa, 
la  quale  oltre  a  proteggerli  contro  le  intemperie,  perchè  è  impenetrabile 
all'acqua,  giova  molto  allo  sviluppo  degli  eteri  (fragranza)  nel  futuro 
vino:  sono  annebbiati  gli  acini  del  Nebbiolo,  sono  pruinosi  quelli  del 
San  Gioveto  piccolo  e  del  Dolcetto,  e  sono  cenerini  quelli  della  Cenerina 
o  Celerina  o  Slarina.  È  lucida  invece  la  fiocine  non  pruinosa,  come 
ad  esempio  quella  dell'  uva  Troia  delle  Puglie.  Chiamasi  coriacea 
quella  degli  acini  che  volgarmente  diciamo  duri  o  croccanti,  com'è 
delle  uve  che  si  conservano  per  fare  i  vini  passiti  o  ad  uso  tavola 
per  l'inverno,  quali  la  Verdea,  TErba-luce,  ecc. 

Veniamo  ora  ai  semi  d'uva,  detti  più  propriamente  vinacciuoli; 
il  loro  numero  nell'acino  varia  da  zero  a  quattro  al  massimo,  su  di 
che  ritorneremo  nel  paragrafo  seguente.  Per  ora  ci  limiteremo  a  de 
scrivere  esternamente  il  vinacciuolo  (fig.  16):  dicesi  becco  la  sua 
estremità,  più  o  meno  allungata;  calaza  un  rigonfiamento  circolare 
od  ovale  che  si  trova  quasi  nel  centro  del  vinacciuolo:  rafe  o  ra~ 
fide  o  vasidutto  è  una  prominenza  che,  in  forma  di  cordoncino,  parte 
dalla  calaza,  si  ripiega  nella  parte  opposta  del  seme  (parte  ventrale) 
e  va  a  terminare  alla  punta  del  becco  o  ilo,  che  è  il  punto  d'inser- 
zione del  seme  sul  pericarpio:  vertice  è  l'estremità  opposta  al  becco. 
La  calaza  e  la  parte  anteriore  del  rafide  si  trovano  in  una  infos- 
satura  che  va  dalla  parte  centrale  al  vertice  (1). 


(1)  Questa  breve  e  chiara  descrizione    coir  unita   figura  togliamo  dalla    Guida 

pratica  per  la  ricostituzione  dei  vigneti  italiani  dell' agr.  V.  Vannuccini  —  (Fi- 
renze 1883,  pag.  22-23). 

0.  Ottavi,   Trattalo  di  Viticoltura.  9 


114 


CAPITOLO.  IV 


Queste  sono  adunque  le  parti  esterne  del  vinacciuolo;  ma  è  a  no- 
tarsi che  la  loro  conformazione  varia  col  variare  del  loro  numero 
nell'acino,  e  sovratutto  poi  col  variare  delle  specie  di  viti.  Engelmann 
ha  constatato  che  se  in  un  acino  vi  ha  un  solo  vinacciuolo,  esso 
prende  una  forma  più  arrotondata;  se  ve  ne  sono  due,  essi  sono  alquanto 
appiattiti  sul  lato  interno  ed  arrotondati  sull'  esterno  ;    se   infine   ve 


ea-lattu 


lAe/ctloe 


ì^i£qisìs  atti/ut 


ne  sono  tre  o  quattro,  i  vinacciuoli  sono  più  allungati  ed  angolari. 
Queste  differenze  possono  riscontrarsi  anche  negli  acini  d'uno  stesso 
grappolo.  Ma  le  differenze  fra  specie  e  specie  sono  assai  più  importanti 
e  notevoli,  massimamente  per  le  viti  americane.  Si  deve  ad  En- 
gelmann il  miglior  lavoro  su  questo  importante  argomento;  da  esso 
prendiamo  le  figure  che  seguono,  acciò  il  lettore  possa  vedere  le  dif- 
ferenze che  passano  fra  i  vinacciuoli  di  alcune  specie. 

Fig.  Il  a  —  seme  di  vite  Riesling,  ingrandimento  di  4  diametri;  b 
Chasselas;  e  Black-Hamburg  di  una  serra  di  viti  presso  Londra. 

Fig.  18  d  —  Lambrusca  di  Toscana  e  del  Nord  d'Italia. 

Le  viti  della  specie  europea  (  Vitis  vinifera)  hanno,  come  vedesi,  un 
becco  molto  più  allungato  ed  una  calaza  più  grande  che  non  le  specie 
americane;  inoltre  la  calaza  occupa  la  parte  superiore  e  non  la  me- 
diana del  vinacciuolo.  I  quattro  vinacciuoli  qui  disegnati  non  com- 
prendono però  tutte  le  forme  delle  viti  d'Europa;    tuttavia   i   loro 


BOTANICA  DELLA  V1TK 


15 


caratteri  fondamentali  non  variano  di  molto  nelle   altre  numerosis- 
sime varietà. 


a 


Fig    17. 


Fig.  18. 


Fig.  19  e  fg  e  fig.  20  2/  quattro  vinacciuoli  di  viti  Riparia  sel- 
vatiche; e  f  Goat  Island,  alle  cascate  del  Niagara;  g  dal  lago  Cham- 
plain;  fig.  20  i;  June  grape  (uva  di  giugno)  delle  rive  del  Missis- 


Fig.  19. 


sipì,  al  disotto  di  San  Luigi.    Questi  vinacciuoli  sono  ottusi,  o  molto 
leggermente  depressi  al  vertice;  la  calaza  è  piuttosto   piatta,   allun- 


m 


Fig.  20. 


gata  e   si  perde  gradualmente  in   una    infossatura   che  racchiude  il 
rafe  appena  saliente. 


116 


CAPITOLO  IV 


Fig.  20  l  m:  forme  coltivate  di  Riparia  (l  Taylor-Bullit  e  m  Clinton): 
vinacciuoli  più  grossi,  ma  delFistessa  forma. 

Tralasciamo  altre  descrizioni  per  amor  di  brevità  (1)  e  poniamo 
così  termine  alla  morfologia  esterna  della  vite. 

§  4.  Anatomia  della  vite.  —  Abbiamo  già  detto,  incomin- 
ciando il  §  3,  che  l'anatomia  corrisponde  alla  morfologia  interna, 
per  cui  dovremo  ora  fare,  per  i  singoli  organi  onde  si  compone  la 
Vite,  lo  studio  della  loro  intima  costituzione  o  struttura:  a  tale  uopo 
terremo  lo  stesso  ordine  seguito  nella  morfologia  esterna,  incomin- 
ciando dalla  radice  per  terminare  agli  acini  ed  ai  loro  semi. 

l.°  La  radice.  Se  noi  confidiamo  al  suolo  in  determinate  con- 
dizioni di  calore  e  di  umidità,  delle  quali   ci   occuperemo   studiando 


Fig.  21. 


Fig.  22. 


la  seminagione  della  vite,  un  vinacciuolo,  vediamo  che,  dopo  un 
tempo  più  o  meno  lungo,  si  sviluppano  due  foglie  seminali  o  cotile- 
donari, (fig.  21  e  22)  ed  una  radichelta  a  fìttone,  la  quale  si  sviluppa 


(1)  Chi  desiderasse  maggiori  notizie,  cousuiti  Les   Vìgnes  Américaincs  par  Bush 
e  Meissner  (IIoopli-Milauo). 


BOTANICA  DELLA  VITE  117 

rapidamente  nel  suolo,  più  rapidamente  che  il  fusticino;  questo  è  la 
continuazione  di  quella  e  perciò  fra  la  struttura  interna  della  radice 
e  quella  del  fusto  non  sonovi  che  poche  differenze  essenziali. 

La  tenera  punta  della  radichetta  già  mostra  le  spongiole  e  la  pi- 
leoriza  (pag.  87  e  89)  di  colore  giallognolo,  costituita  da  cellule  di- 
staccatesi dal  tessuto  cellulare  della  radice  e  poi  morte;  esse  pro- 
teggono la  punta  vivente  della  radice.  La  parte  esterna  delle  radi- 
chette  presenta  anzitutto  una  speciale  epidermide,  detta  epiblema, 
composta  di  cellule  appiattite  e  senza  pori  o  meati  (1);  la  parte  te- 
nera e  bianchiccia  delle  estremità  delle  radichette,  nonché  i  peli  ra- 
dicali che  ivi  si  trovano,  costituiscono  il  sistema  assorbente  della 
pianticina,  quando  vengono  in  contatto  colle  particelle  del  suolo; 
ed  eziandio  in  una  vite  completamente  sviluppata  è  sempre  la  gio- 
vine punta  delle  radichette  che  prende  gli  alimenti  dal  terreno,  come 
diremo  più  distesamente  nel  successivo  paragrafo  (Fisiologia). 

La  parte  interna  della  radichetta  è  quasi  totalmente  costituita  da 
tessuto  cellulare  attraversato  da  vasi  (tessuto  vascolare)  che  ne  occu- 
pano la  parte  centrale,  come  si  vede  nel  disegno  (fig.  23).  La  piccola 


Fig.  23. 

zona  centrale  libera  da  vasi  si  può  considerare  come  il  midollo 
(tessuto  cellulare  impregnato  di  succhi).  Invecchiando  la  radice,  l'e- 
pidermide è  surrogata  da  uno  strato  di  cellule  morte.  Infatti  nelle 
radici  vecchie  vediamo  anzitutto  all'esterno  un  vero  strato  sugheroso 
(cellule  sugherose   o    suberose)   che  si  può   separare  in    squame 


(1)  Diconsi  meati  o  spazii  intercellulari,  le  cavità  che  si  riscontrano  tra  le  cel- 
lule, massime  se  queste  sono  arrotondate. 


118  CAPITOLO  IV 


come  accade  dei  tronchi;  queste  squame  sono  costituite  dai  fascii  fi- 
brosi del  libro.  Alla  scorza  fa  seguito  una  zona  di  tessuto  cellulare 
o  parenchima  (1)  le  cui  cellule  non  si  sono  vuotate  del  loro  succo 
come  accade  di  quelle  esterne  anzidette,  ma  ne  sono  impregnate  es- 
sendo in  pieno  sviluppo. 

Queste  cellule  contengono  molti  granuli  amidacei.  L'amido  si 
trova  nelle  cellule  non  solo  dei  grani  (cereali)  e  dei  tuberi  (patate), 
ma  anche  nel  legno  degli  alberi,  e  ci  accadrà  molte  volte  di  accen- 
narlo studiando  l'anatomia  della  Vite;  specialmente  perchè  nelle  foglie 
di  quest'ultima,  se  esposte  direttamente  al  sole,  si  forma  pure  amido 
in  grande  quantità  durante  l'estate  e  perchè  l'amido  in  determinate 
circostanze  si  metamorfosa  in  glucosio  o  zucchero. 

I  granuli  d'  amido  osservati  al  microscopio  offrono  forme  molto 
differenti  e  grossezze  pure  diverse;  la  loro  presenza  si  può  ricono- 
scere facilmente  mettendoli  in  contatto  con  una  soluzione  acquosa  o 
alcoolica  di  iodio;  se  ne  ottiene  così  un  colore  azzurro  porporino  assai 
bello  (2). 

Oltre  all'amido,  nelle  radici,  massime  se  vecchie,  si  riscontrano  ab- 
bondanti i  cristalli  di  ossalato  di  calcio  (3)  nelle  cellule  del  paren- 
chima corticale:  da  principio  1'  ossalato  è  disciolto  entro  le  cellule 
della  radice,  benché  sia  insolubile  nell'acqua  pura;  ma  quando  la  radice 
è  bene  sviluppata  si  hanno  i  cristalli  quasi  visibili  ad  occhio  nudo,  o 
almeno  con  piccolo  ingrandimento.  Questi  cristalli  (ossalati,  solfati, 
fosfati,  carbonati  di  calcio,  ecc.)  hanno  ricevuto  diversi  nomi:  chia- 


(1)  Abbiamo  già  detto  (pag.  112  nota  2.a)  che  il  tessuto  parenchimatoso  è  il 
tessuto  cellulare  molle,  composto  di  cellule  poliedriche  oppure  arrotondate,  nel 
qual  caso  ò  detto  merenchima  :  si  chiama  invece  prosenchima  il  tessuto  composto 
di  cellule  allungate  o  fibre  (tessuto  fibroso).  È  bene  conoscere  questi  termini  bo- 
tanici. 

(2)  L'amido  ha  la  identica  composizione  chimica  della  cellulosa  (  Co  Hio  O5  ). 
E  noto  che  la  pianta  ò  un  aggregato  di  cellule  microscopiche;  le  pareti  delle 
cellule  sono  cellulosa,  la  quale  costituisce  come  lo  scheletro  della  pianta,  dandole 
la  solidità.  I  corpi  che  più  abbondano  nelle  piante  coltivate  sono,  per  ordine 
d'importanza,  l'acqua,  la  cellulosa,  e  Yamido. 

(3)  Gli  elementi  superflui  od  eccessivi  della  pianta,  0  rimangono  disciolti  nei 
succhi,  e  sono  emessi  sotto  forma  di  efflorescenza,  oppure  si  depositano  nelle 
cellule,  incrostando  talvolta  le  pareti  cellulari.  S.  W.  Johnson  dice  che  quan- 
tunque questi  cristalli  non  siano  mandati  fuori  dall'  organismo,  tuttavia  si  pos- 
sono giustamente  considerare  come  escrezioni.  (V.  Come  crescano  i  raccolti,  di 
Johnson  traci.  Giglioli  —  Milano:  Treves,  pag.  201). 


BOTANICA  DELLA  VITE  119 

mansi  cistoliti  le  concrezioni  cristalline,  le  quali  sono  attaccate  ad 
una  parete  cellulare;  rafidi  i  fascii  di  cristalli  aventi  la  forma  di 
aghi;  druse  se  l'agglomeramento  dei  cristalli  assume  come  la  forma 
d'una  stella.  Di  questi  cristalli  diremo  più  a  lungo  studiando  l'ana- 
tomia della  foglia.  Nelle  cellule  del  parenchima  radicale  si  trovano 
specialmente  i  rafidi. 

Dopo  la  scorza  ed  il  tessuto  cellulare,  o  parenchima  corticale,  tro- 
viamo nella  radice  della  vite  uno  strato  intermedio  detto  zona  ge- 
neratrice o  cambio,  che  riscontreremo  anche  nel  caule;  nella  radice 
però  questa  zona,  che  taluno  chiama  libro  tenero,  consta  soltanto 
di  tessuto  cellulare  e  vascolare  (1)  cui  fa  seguito  il  corpo  legnoso 
che  occupa  il  centro  della  radice,  ove  non  si  riscontra  più  il  midollo 
delle  giovani  radici,  o  almeno  è  quasi  impercettibile  nelle  radici 
molto  vecchie. 

Il  tessuto  vascolare  della  radice  consta  principalmente  di  vasi  'pun- 
teggiati e  rigati,  (fig.  24)  cosidetti  per  l'apparenza  delle  loro  pareti, 
nei  quali  quasi  sempre  si  riscontra  amido  in  piccoli  granelli,  secondo 
il  Prof.  G.  Briosi.  Aggiungeremo  che  tutto  il  tessuto  cellulare  della 
radice  abbonda  di  vasi  laticiferi  (1). 

Il  corpo  legnoso  è  attraversato  dai  raggi  midollari  come  il  caule. 

2.°  Il  fasto.  Per  quanto  il  caule  si  confonda  in  certo  qual  modo 

col    corpo    della   radice,    da    cui    non   lo    separa    nessuna    linea    di 

demarcazione,   pure  nella   vite   vi  sono  talune    differenze    essenziali 

tra  la  struttura  interna  dell'uno  e  dell'altro. 

Se  noi  pratichiamo  un  taglio  orizzontale  nel  ceppo  di  una  vite, 
o  in  una  diramazione  legnosa  di  essa,  noi  vediamo  chiaramente  (fig.  25) 
tre  zone  concentriche;  cioè  nel  centro  il  midollo,  poscia  il  corpo  le- 
gnoso, indi  all'esterno  la  corteccia.  Studiamo  queste  tre  zone  inco- 
minciando dalla  corteccia. 

La  parte  più  esterna  di  essa  è,  come  già  dicemmo,  X epidermide, 
composta  di  uno  o  più  strati  di  cellule  a  grosse  pareti  intimamente 
uniti  fra  di  loro;  si  attribuisce  all'azione  diretta  dell'aria,  della  luce 


(1)  Ricorderemo  che  il  tessuto  vascolare  è  formato  dai  vasi,  i  quali  sono  organi 
essenziali  della  nutrizione:  appariscono  come  tubi  o  canali  aperti  ai  due  capi,  non 
ramificati,  a  pareti  sottili,  più  o  meno  lunghi,  isolati  o  riuniti  in  fascii,  i  quali 
penetrano  entro  il" tessuto  cellulare.  Diconsi  vasi  laticiferi,  quei  vasi  semplici  o 
ramificati  che  contengono  il  latice  o  succo  proprio  della  pianta.  (L'oppio,  le  gom- 
me resine  ecc.  si  ricavano  appunto  dai  latici  di  talune  piante). 


120 


CAPITOLO  IV 


e  di  tutti  gli  agenti  atmosferici  sul  tessuto  cellulare  esterno,  l'ori- 
gine dell'epidermide,  come  già  sostenne  pel  primo  Malpighi,  quantun- 
que le  cellule  che  la  compongono  differiscano  notevolmente  da  quelle 
del  tessuto  sottostante.  Essa  mostra  un  certo  numero  di  stomi  (men- 
tre questi  mancano  nelle  radici)  i  quali  riscontreremo  assai  più  nu- 
merosi nelle  foglie:  questi  stomi  o  pori  corticali  (fig.  26)  rendono  per 
così  dire  la  vite  permeabile  all'aria,  ed  Hales  trovò  pel  primo  che 
per  loro  mezzo  l'aria  penetra  nei  vasi  longitudinali  del  fusto  legnoso. 
Come  mostra  la  fig.  26  essi  constano  di  due  cellule  a  forma  di  mezzaluna, 
le  quali  formano  come  piccoli  occhi  oblunghi,  talvolta  poligonali,  posti 


Fig.  24 


Fig  25. 


nello  spessore  dell'epidermide,  e  le  di  cui  pareti  sono  suscettibili  di  re- 
stringersi o  allargarsi;  già  da  parecchi  anni  Amici  provò  che  l'umi- 
dità soverchia  quasi  li  fa  chiudere,  mentre  il  secco  e  l'azione  diretta  dei 
raggi  solari  li  dilatano  e  li  aprono.  L'epidermide  ha  uno  spessore  vario 
secondo  le  diverse  varietà  di  viti  (1),*  però  essa  esiste  soltanto  nelle 
parti  giovani  del  fusto;  nelle  altre,  quando  hanno  due  o  più  anni, 
troviamo  invece  lo  strato  sugheroso  (pag.  91)  che  tutti  i  viticul- 
tari avranno  certo  osservato  sui  tronchi  vecchi,  ove  è  assai  spesso. 


(1)  Secondo  il  Dr.  0.  Penzig  la  varia  grossezza  della  cuticola  determinerebbe 
la  maggiore  o  minore  resistenza  che  le  varie  viti  possono  opporre  ai  parassiti. 
Archivio  del  Laboratorio  crittogamico  Garovaglio,  Pavia   1882,  pag.   153). 


BOTANICA  DELLA  VITE  121 

Dopo  lo  strato  sugheroso  troviamo,  nel  tronco  della  vite,  un  tes- 
suto corticale  da  cui  trae  appunto  origine  il  detto  tessuto  sugheroso; 
e  poscia  fanno  seguito  i  fascii  fibrosi  del  libro,  di  cui  già  parlammo 
a  pag.  91.  Tutto  ciò  costituisce  la  corteccia  della  vite. 

Procedendo  verso  l'interno  del  ceppo  troviamo  il  corpo  legnoso: 
ma  fra  esso  e  la  corteccia  si  trova  la  zona  generatrice  o  cambio, 
già  accennata  a  pag.  119,  composta  di  tessuto  cellulare  e  vascolare 
e  che  Mirbel,  sin  dal  1816,  definì  un  tessuto  assai  giovine  che  forma 
la  continuazione  del  libro,  ed  in  cui  circola  il  succo  nutritore,  per 
la  qual  cosa  esso  si  cangia  insensibilmente  in  legno  ed  in  libro  se- 
condochè  tocca  il  primo  od  il  secondo  (1).  Ciò  è  tanto  vero  che  e- 


Fig.  26. 

saminando  in  primavera  un  tronco  di  vite,  si  trova  la  superficie  del 
legno  (alburno)  e  quella  interna  della  corteccia  (libro)  come  turgida 
e  ricoperta  di  tessuto  cellulare  formativo,  ossia  nascente,  inzuppato 
di  succhi:  così  si  formano  sia  le  fibre  del  libro  che  quelle  del  legno. 
E  se  in  primavera  noi  possiamo  scortecciare  facilmente  un  ramo  di 
vite  sino  a  scoprire  il  legno,  si  è  appunto  perchè  le  cellule  del  cam- 
bio sono  giovani  e  delicate,  mentre  in  autunno  sono  pienamente 
sviluppate,  si  indurano  e  diventano  legnose  o  liberiane. 

Veniamo  ora  al ^ corpo  legnoso:  esso  si  compone  di  due  parti,  il 
legno  giovane,  a  contatto  colla  zona  generatrice,  detto  alburno  (2) 


(1)  Mirbel  disse  che  questa  trasformazione  è   percettibile   all'occhio   dell'osser- 
vatore. 

(2)  Alburno,  quasi  per  significare  un  legno  più   bianco;   infatti   talvolta  è   più 
pallido  del  legno  propriamente  detto  cioè  più  interno,  e  tal'altra  è  bianco  come  nel- 


122  CAPITOLO  IV 


ed  il  legno  propriamente  detto,  chiamato  duramen  o  cuore  del  legno, 
od  anche  semplicemente  legno,  il  quale  è  più  duro  e  consistente  del- 
l'alburno. Nel  corpo  legnoso  della  vite  vi  ha  poca  differenza  di  co- 
lore fra  queste  due  parti;  F  alburno  però  è  meno  consistente. 

Nella  fìg.  25  abbiamo  disegnato  una  sezione  orizzontale  d'un  tronco  di 
vite  barbera;  in  essa  si  vedono  chiaramente  gli  strati  legnosi  circolari 
che  costituiscono  il  corpo  legnoso,  disposti  attorno  al  canale  midol- 
lare; ogni  anno  si  forma  uno  di  consimili  anelli  all'esterno  di  quelli 
che  già  costituivano  il  corpo  legnoso,  ma  non  sempre  essi  sono  di- 
sposti regolarmente  attorno  al  midollo:  se  il  tronco  o  ramo  della 
vite  è  verticale  abbiamo  la  disposizione  a  della  fìg.  27;  ma  se  è  molto 
ricurvato,  come  accade  generalmente  nei  sistemi  di  educare  la  vite, 
allora  si  ha  la  disposizione  b  cogli  strati  annuali  che  si  protendono 
eccentricamente  verso  il  lato  inferiore  del  ramo.  Questi  anelli  legnosi 


Fig.  27. 

annuali  rimangono  sempre  visibili  nel  caule,  onde  dal  loro  numero 
può  dedursi  quanti  anni  abbia  la  vite;  (nella  fig.  25  il  numero  degli 
strati  non  corrisponde  a  quello  degli  anni  perchè  l'abbiamo  ingran- 
dita di  2  volte  onde  renderla  più  chiara).  Conviene  tuttavia  notare 
che  ciò  si  verifica  specialmente  nei  paesi  ove,  per  il  freddo  dell'in- 
verno, la  vegetazione  della  vite  cessa  del  tutto  o  quasi,  poiché  se 
essa  continuasse  quasi  senza  interruzione  (pag.  30)  gli  strati  legnosi 
annuali  si  confonderebbero  gli  uni  cogli  altri,  e  allora  sarebbe  molto 
difficile  dedurre  dal  loro  esame  l'età  della  vite. 

Come  vedesi  nella  fig.  25  ogni  anello  legnoso  annuale  è  separato 
dai  due  altri  in  mezzo  a  cui  si  trova,  mediante  un  sottile  strato;  esso 
è  costituito  da  cellule  legnose  più  piccale  delle  altre,  e  corrisponde 


T  ebano,  ove  il  legno  interno  è  a  dirittura  nero,  e  nel  campeggio,  ove  è  rosso  _ 
Però  questa  differenza  di  colorazione  è  insensibile  nei  legni  bianchi  e  leggeri 
(pini,  pioppi,  ecc.  ecc.).  ^ 


BOTANICA  DELLA  VITE  123 

al  momento  dell'anno  in  cui  la  vegetazione  della  vite  si  arresta:  du- 
rante la  vegetazione  le  cellule  sono  più  grosse,  d'onde  questi  sottili 
strati  di  legno  più  compatto,  bene  visibili  anche  ad  occhio  nudo. 
Esaminandoli  al  microscopio  si  riconosce  che  essi  sono  composti  di 
tessuto  legnoso  perfettamente  identico  a  quello  che  costituisce  V  in- 
tera massa  legnosa. 

La  fibra  legnosa,  massime  del  legno  o  duramen,  è  impregnata 
da  lignina^  oltre  alla  cellulosa  che  costituisce,  come  già  dicemmo 
a  pag.  118  la  parete  delle  cellule:  la  lignina  ha  una  composizione  non 
ancora  bene  definita,  ed  è  forse  una  miscela  di  varie  sostanze  (Schulze). 

Veniamo  ora  al  midollo,  che  è  la  parte  centrale  del  fusto  della 
vite:  esso  è  racchiuso  nell'astuccio  midollare  di  forma  circolare,  il 
quale  altro  non  è  che  la  parte  interna  del  primo  strato  legnoso  for- 
matosi, ond'  è  che  non  è  separato  dal  corpo  legnoso.  Esso  si  com- 
pone di  trachee  (1),  vasi  punteggiati  (2)  e  tessuto  legnoso. 

Il  midollo  consta,  nella  vite,  di  grandi  cellule,  ossia  d'una  massa 
continua  di  tessuto  cellulare,  impregnata  di  succo,  ma  che  offre  ca- 
ratteri diversi  secondochè  si  esamina  un  ramo  giovine  oppure  un 
vecchio  tronco:  in  quest'ultimo  caso  il  midollo  si  riduce  notevolmente 
di  volume  (fig.  25)  e  cede  grande  parte  de'  suoi  succhi  alle  altre 
parti  del  tronco,  onde  le  cellule  si  vuotano,  le  loro  pareti  inspes- 
siscono e  si  impregnano  di  lignina,  per  cui  il  midollo  si  riduce  ad 
una  massa  quasi  diremmo  arida,  di  colore  rossastro  o  monachino, 
come  gli  strati  corticali,  mentre  quando  è  giovine  è  bianco. 

Dal  midollo  partono  i  raggi  midollari  e  vanno  al  tessuto  cellu- 
lare della  corteccia;  essi  altro  non  sono  che  lamine  verticali  di  tes- 
suto cellulare,  le  quali,  come  si  vede  chiaramente  nella  fig.  25,  divi- 
dono il  corpo  legnoso  in  tanti  compartimenti  formando  per  così  dire 
delle  chiusure:  essi  sono  di  colore  più  chiaro  e  però  si  vedono  fa- 
cilmente, come  si  vedono  gli  strati  legnosi  annuali.  I  raggi  midollari 
tagliano  appunto  questi  anelli  legnosi:  essi  notansi  assai  numerosi 
nei  giovani  tralci,  specialmente  nel  legno  di  un   anno    sul  quale   sia 


(1)  Sono  tubetti  cilindrici,  lunghi,  a  pareti  sottili  e  membranose,  aventi  nel 
loro  interno  un  filo  ravvolto  a  spirale,  per  cui  si  chiamano  anche  vasi  a  spirale. 
Il  filo  è  cilindrico  e  pieno  di  sava;  il  tubo  cilindrico  è  invece  pieno  d'aria. 

(2)  I  vasi  (pag.  119  nota  l.a)  sono  detti  punteggiati  quando  mostrano  sulla 
periferia  dei  puntidisposti  con  una  certa  regolarità  in  linea  trasversale:  questi  punti 
sono  realmente  spazii  (areolé)  nei  quali  non  si  sono  deposte  sostanze,  per  cui  mercè 
di  essi  il  succo  può  venire  facilmente  assorbito  e  poscia  diffuso. 


124 


CAPITOLO  IV 


praticata  una  sezione  trasversale;  ma,  com'  è  evidente,  quanto  più 
abbondano  tanto  minore  è  il  loro  spessore.  Essi  constano  di  cellule 
aventi  una  forma  speciale,  e  visti  in  una  sezione  orizzontale  appa- 
iono come  tanti  quadrilateri  allungati  (fig.  28:  a  midollo,  b  raggio  mi- 
dollare, e  epidermide  della  corteccia)  :  tali  cellule  sono  prismatiche 
assai  regolari  con  pareti  punteggiate  ad  occhiello  (fig.  29  e  30  r  r)\ 
esse  sono  molto  ricche  di  amido  nochè  di  tannino  (1),  il  quale  ri- 
scontrasi anche  negli  strati  corticali  e  nel  libro;  inoltre  contengono 
cristalli  di  ossalato  di  calce  (rafidi)  e  cristalli  isolati  presso  gli  strati 
esterni  del  libro. 


Per  dare  ora  un'  idea  complessiva  della  costituzione  morfologica 
interna  del  fusto  della  vite  esamineremo  la  fig.  29  (2)  che  rappre- 
senta un  taglio  trasversale  del  legno,  ingrandito  400  volte:  in  g  ve- 
diamo i  vasi  (pag.  119);  in  r  un  raggio  midollare  ed  in  II  le  fibre 
del  libro  (pag.  121)  a  figura  allungata  ed  aguzza  e  poco  punteggiate. 
La  fig.  30  invece  ci  mostra  un  taglio  longitudinale  del  fusto  della  vite 
ingrandito  300  volte;  g  g  sono  i  vasi  rigati,  o  più  propriamente  sca- 


(1)  0.  Penzig,  loc.  cit.  pag.  151. 

(2)  Riproduciamo  le  fig.  29  e  30  dal  citato  lavoro 
del  Laboratorio  crittogamico  di  Pavia). 


del  Dott.    Penzig   (Archivio 


BOTANICA  DELLA  VITE 


125 


lari  formi,  essendo  le  linee  trasversali  assai  regolari;  questi  vasi  pre- 
sentano pure  le  areole  di  cui  parlammo  a  pag.  123,  nota  2;  l  Me 
libre  libriformi  semplici;  V  V  quelle  tramezzate  o  septate  da  sottili 
tramezzi;  p  p  il  parenchima  legnoso:  r  r  un  raggio  midollare. 

3°.  Il  legno  giovine.  Passiamo   ora  a  studiare  1'  anatomia   del 
tralcio  legnoso  della  vite:  esso  non  presenta  differenze  dal  legno  del 


Fi-.  29. 


fusto  or'ora  studiato  ed  offre  uno  o  due  anelli  legnosi  secondochè  ha 
uno  o  due  anni. 

Il  midollo,  relativamente  al  legno  ed  alla  corteccia,  è  molto  svi- 
luppato, siccome  ci  mostra  la  fìg.  31,  la  quale  rappresenta  un  tralcio 
di  un  anno  d'età:  il  suo  colore  è  più  chiaro  che  non  nel  legno  vecchio; 
inoltre  esso  è  più  ricco  di  succhi. 

Nel  legno  giovine  il  midollo  non  è  continuo,  ma  ai  nodi  pre- 
senta delle    soluzioni    di    continuità,    cioè    dei   tramezzi   legnosi  di 


126 


CAPITOLO  IV 


color  chiaro,  come  vedesi  in  a  e  b  fig.  31.  Gli  è  perciò  che  nei  tralci 
della  vite  troviamo  i  meritalli  o  internodii  aventi  ciascuno  un  mi- 
dollo proprio,  cioè  indipendente  da  quello  degli  internodii  superiore 
ed  inferiore.  La  gemma  o  bottone  fa  sempre  parte  del  meritallo  ad 
essa  superiore  (1)  il  cui  midollo  senza  dubbio  contribuisce  a  renderla 


Fig.  30. 


più  robusta  e  più  feconda  :  ond'  è  che  il  potatore  razionale  non  re- 
cide mai  il  tralcio  presso  la  gemma,  ma  bensì  alla  estremità  del  suo 


(1)  Ciò  però  non  significa  che  la  gemma,  se  separata  dal  suo  meritallo,  debba 
certamente  perire:  è  noto  che  si  possono  seminare  le  semplici  gemme  (V.  più  in- 
nanzi Pianlamento  della  vite). 


BOTANICA  DELLA  VITE 


127 


internodio.  Questa  gemma,  alla  quale  sovrasta  un  internodio  (il  quale 
però  deve  essere  chiuso  superiormente  dal  tramezzo  legnoso)  si  chiama 
gemma  franca,  quasi  per  indicare  che  non  può  fallire,  e  difatti  è 
raro  che  non  sbucci.  Se  però  l'internodio  venisse  tagliato  troppo  in 
basso,  così  da  non  essere  chiuso  dal  tramezzo  legnoso  superiore,  il 
midollo  si  guasterebbe  e  l'astuccio  midollare  potrebbe  servire  di  nido 
ad  insetti,  per  cui  ne  verrebbe  gravemente  danneggiata  la  gemma: 
questo  fatto  ci  è  accaduto  di  constatarlo  più  volte. 

Invecchiando  il  legno,  i  tramezzi  legnosi  si  fanno  sempre  più  scuri, 


Fiff.  31. 


Fi-    32. 


sino  a  prendere  lo  stesso  colore  del  midollo:  infine  scompaiono.  Non 
sapremmo  precisare  quando  ciò  accada,  solo  possiamo  dire  di  aver 
trovato  i  detti  tramezzi  di  colore  scuro,  ma  ancora  sufficientemente 
duri,  nel  legno  di  vite  di  cinque  anni. 

La  quantità  di  midollo  contenuta  nei  tralci  della  vite  varia  a  se- 
conda delle  varietà  differenti  di  vizzati:  e  così  abbiamo  quelli  con 
sarmenti  ricchi  di  midollo,  altri  medianamente  provvisti  ed  altri  po- 
veri.   Si  osserva  generalmente  che   quando  il   midollo  è  scarso  ab- 


128 


CAPITOLO  IV 


bonda  il  legno,  ed  è  naturale;  onde  allora  il  vitigno  è  più  robusto 
e  più  resistente  alle  intemperie  e  sovratutto  ai  grandi  freddi:  però 
non  si  deve  ritenere  ciò  come  assoluto,  essendovi  talune  eccezioni, 
fra  cui  il  barbera,  che  nonostante  un  copioso  midollo  è  robustissimo 
e  che  abbiamo  visto  resistere  a  forti  geli  nel  rigidissimo  inverno  del 
1880  in  cui  in  Monferrato  si  ebbero,  nel  gennaio,  10  gradi  C.  sotto 
lo  zero  a  mezzogiorno. 

Anche  nel  legno  giovine,  come  nel  ceppo,  trovasi  tannino,  ossa- 
lato  di  calcio  ed  amido  e  nulla  abbiamo  da  aggiungere  su  di  ciò. 


Pia-.  33. 


4.°  /  germogli.  Se  noi  pratichiamo  un  taglio  orizzontale  sovra 
un  germoglio  erbaceo  vediamo  agevolmente  come  le  parti  verdi 
della  vite  si  compongano  di  fascii  vascolari  bene  distinti  (fig.  32) 
che  scorrono  lungo  il  germoglio  parallelamente  al  copioso  midollo 
che  essi  circondano.  Come  si  vede  nella  fig.  32  i  fascii  sono  attra- 
versati da  un  anello,  detto  anello  cT  inspessimento,  ond'  è  che  ri- 
mangono divisi  in  due  parti:  la  più  piccola  è  esterna  e  fa  parte  del 
libro;  la  più  grande   è  interna  ed  appartiene  al    legno.  Questi  fascii 


BOTANICA  DELLA  VITE 


129 


di  vasi  da  principio  sono  più  rari  di  quanto  non  appaia  nella  fìg.  32, 
e  fra  di  essi  trovansi  parecchi  strati  di  parenchima,  oltre  ai  raggi 
midollari  molto  marcati:  ma  a  poco  a  poco  i  fascii  si  moltiplicano, 
suddividendosi  ciascuno  in  due  altri    fasci  distinti,  separati    solo  dai 


Fi-.  34. 


raggi  midollari:  ciò  accade  rapidamente  e  spiega  il  pronto  accrescersi 
del  diametro  dei  germogli  viticoli. 

La  fìg.  33  rappresenta  un  taglio  trasversale  d'un  giovane  tralcio 
ingrandito  200  volte:  in  l  abbiamo    il  libro;  in   g  i  vasi;    in  e    cri- 
0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  10 


130  CAPITOLO  IV 


stalli  isolati  di  ossalato  di  calcio;  in  d  druse  stellate  pure  di  ossalato, 
ed  in  r  rafidi  dello  stesso  sale  (vedi  pag.  119). 

Ricorderemo  che  nelle  parti  giovani  della  vite,  le  quali  sono  ri- 
coperte dall'epidermide  di  colore  verde,  manca  lo  strato  sugheroso 
che  si  riscontra  nel  legno  di  due  o  più  anni;  inoltre  queste  parti 
verdi  presentano  (pag.  92)  peli  analoghi  a  quelli  del  picciuolo  della 
foglia.  Il  citato  Dottor  0.  Penzig  ha  disegnato  (fig.  34)  uno  di  questi 
peli  semplici  con  un  ingrandimento  di  1[500:  essi  sono  di  forma  co- 
nica, immersi  mercè  la  loro  base  in  una  massa  di  cellule  epidermiche, 
la  quale  quasi  come  glandola  (1)  sporge  dalla  superficie  del  ger- 
moglio o  del  peziolo;  la  loro  parete  è  spessa  ed  è  formata  da  una 
cuticola  densa  e  pieghettata,  il  cui  contenuto  mostra  chiaramente  la 
circolazione  del  plasma  granuloso  lungo  la  parete  stessa  (2).  Questi 
peli  si  possono  quindi  considerare  come  unicellulari,  cioè  costituiti 
da    una  grande  cellula  allungata  contenente,    come  tutte    le  cellule, 


Fig.  35. 

quel  liquido  denso  e  granuloso  che  è  detto  liquido  formativo  o  pro- 
toplasma, oltre  al  nucleo  nel  centro.  Pare  che  nei  peli  della  vite  non 
esista  amido,  mentre  esso  trovasi  invece  nei  peli  del  genere  Ampelopsis 
(pag.  76). 

L'estremità  del  germoglio  della  vite  può  rappresentarsi  come  nella 
fìg.  35  (ingrandimento  1[200):  in  /'  f  f"  sono  indicati  i  principii 
delle  foglie;  in  r'  r"  i  viticci;  in  n'  ri'  le  stipole  (pag.  104);  ed  in  s 


(1)  Le  glandule  sono  piccoli  ammassi  di  cellule,  le  quali  secernono  umori  spe- 
ciali, ora  odorosi  ora  acri  ecc.  Ad  esempio  nelle  ortiche  le  glandule  che  si  trovano 
alla  base  dei  peli  secernono  quell'  umore  caustico  che,  passando  pei  peli  stessi, 
viene  ad  irritare  la  pelle  di  chi  tocca  l'ortica,  perchè  nell'atto  del  toccare  rom- 
pesi  la  punta  fragile  dei  peli. 

(2)  0.  Penzig  loc.  cit.  pag.   156. 


BOTANICA  DELLA  VITE  131 


la  sommità  del  fusto  (1).  Alla  foglia  f  è  opposto  il  viticcio  r'\  alla 
foglia  f"  il  viticcio  r"  secondo  la  regola  generale  accennata  a  pa- 
gina 94.  Alla  foglia  f  non  corrisponde  un  viticcio,  ma  poi  si  ha  un 
viticcio  r'  opposto  ad  una  foglia  f,  ed  una  foglia  f"  opposta  ad 
un  viticcio  r"  in  conformità  di  quanto  dicemmo  a  pag.  96  accen- 
nando alla  legge  generale  della  intermittenza  dei  viticci. 

5°.  /  viticci.  Se  noi  pratichiamo  una  sezione  orizzontale  a  tra- 
verso un  viticcio,  vediamo  che  i  fascii  fibro-vascolari  sono  disposti 
secondo  la  fìg.  36  :  questi  fascii  sono  molto  numerosi  e  molto»  vicini 
gli  uni  agli  altri;  come  quelli  dei  germogli  essi  sono  disposti  in  cir- 
colo attorno  al  midollo,  e  provengono  per  così  dire  da  una  dirama- 
zione dei  fascii  vascolari  del  germoglio  stesso  da  cui  parte  il  viticcio: 
i  vasi  a  spirale  vi  sono  predominanti.  L'  epidermide  è  costituita  da 
cellule  allungate,  e  vi  si  trovano  stomi  come  nei  germogli  :  il  libro 
è  pure  bene  determinato.  Mancano  i  peli,  o   almeno   sono   rarissimi 


Fig.  36.  Fig.  37. 

e  si  trovano  solo  nei  giovani  cirri  di  alcune  varietà.  L'amido,  il 
tannino  e  l'ossalato  di  calcio  vi  si  trovano  distribuiti  come  nel  fusto. 
6°.  Le  foglie.  Nel  picciuolo  i  fascii  fibro-vascolari  sono  disposti 
come  lo  indica  la  fìg.  37,  con  una  depressione  verso  la  faccia  supe- 
riore del  picciuolo  stesso,  e  costituiscono  essi  pure  una  diramazione 
di  quelli  del  germoglio;  alla  estremità  del  picciuolo  si  distribuiscono 
nelle  nervature,  nelle  vene  e  nelle  venicelle  (pag.  103).  Questa 
rete  di  vasi  a   maglie  poligonali  (2)   costituisce   un  solido    scheletro 


(1)  Penzig  Id.  id.  pag.  162. 

(2)  Queste  maglie  anastomizzandosi  costituiscono  il  reticolato  delle  nervature, 
(veggasi  la  fig.  42  a  pag.  137):  in  ciascuna  di  queste  maglie  penetra  un  ramo 
(raramente  due)  formato  di  trachee,  che  si  ramifica  più  o  meno  regolarmente  in 
quella  guisa  che  dicesi  pedata,  e  le  cui  ramificazioni  ulteriori  sono  formate  di 
semplici  tracheidi  che  terminano  a  fondo  cieco,  cioè  non  si  anastomizzano   ulte- 


132  CAPITOLO  IV 


per  la  foglia,  come  già  osservammo  a  pag.  112  (nota  2a),  mentre 
gli  spazii  che  intercedono  fra  i  vasi  sono  più  o  meno  ripieni  di  cellule 
parenchimatose  con  granuli  di  clorofilla  di  cui  diremo  or'ora. 

L'epidermide  del  picciuolo  è  costituita  da  ampie  cellule,  e  mostra  stomi 
nonché  peli  corti  di  forma  uguale  a  quella  indicata  a  pag.  129.  Anche 
nel  picciuolo,  come  nei  germogli  e  nel  fusto,  si  trovano  ossalato  di 
calcio,  tannino  e  amido. 

Le  due  pagine  della  foglia  sono  ricoperte  da  una  epidermide 
robusta  e  spessa,  poco  aderente  al  tessuto  sottostante,  composta 
di  cellule  appiattite  e  diafane,  cioè  senza  granuli  di  clorofilla.  L'  e- 
pidermide  presenta  certe  aperture,  o  pori  respiratori!,  che  già  ve- 
demmo (a  pag.  121)  chiamarsi  stomi,  mercè  cui  gli  spazii  intercel- 
lulari della  foglia  comunicano  coli'  atmosfera  :  gli  stomi  sono   raris- 


Fig.  38. 

simi,  e  spesso  mancano  del  tutto,  nella  pagina  superiore  della  foglia 
{a  fig.  38),  mentre  sono  molto  numerosi  nella  pagina  inferiore  (b  fig.  38), 
la  qual  cosa  si  osserva  in  tutte  le  foglie  delle  piante  terrestri  (1): 
si  può  quindi  concludere  che  le  parti  delle  foglie  le  quali  sono  più  di- 
rettamente esposte  al  calore  solare  sono  quelle  che  difettano  o  man- 
cano di  pori  respiratomi;  infatti,  secondo  alcuni  botanici,  il  calore  e 
la  siccità  non  solo  farebbero  restringere  1'  orifizio    di    questi    stomi, 


riormente.  11  Dott.  Giuseppe  Cuboni  di  Collegllano  fu  quegli  che  pel  primo  de- 
scrisse  questo  modo  di  terminarsi  delle  ultime  estremità  libere  dei  cordoni  va- 
scolari nelle  foglie. 

(1)  Le  foglie  sommerse  delle  piante  acquatiche  ne  sono  sprovviste  del  tutto, 
tolte  poche  eccezioni:  le  foglie  galleggianti  hanno  stoini  soltanto  sulla  pagina 
superiore, 


BOTANICA  DELLA  VITE 


133 


ma  talvolta  lo  costringerebbero  a  chiudersi  del  tutto,  laddove,  con- 
trariamente a  quanto  dicemmo  a  pag.  120,  l' amido  ne  provo- 
cherebbe l' apertura  e  l' allargamento,  tanto  più  se  coadiuvato  da 
una  luce  viva.  Noteremo  però,  che  se  la  luce  favorisce  l'aper- 
tura dei  pori,  come  già  ammetteva  Amici,  V  ombra  ne  fa  aumen- 
tare il  numero,  cosicché  talvolta  in  luoghi  ombreggiati  ed  umidi 
anche  la  pagina  superiore  ne  è  sufficientemente  provvista. 

Abbiamo  detto  che  le  cellule  dell'epidermide  non  contengono  gra- 
nuli di  clorofilla:  ne  contengono  però  le  cellule  che  costituiscono  gli 
stomi,  e  forse  dipende  da  ciò  la  diversa  intensità  di  colorazione  verde 
che  si  osserva  talvolta  fra  le  due  pagine  della  stessa  foglia. 

La  fig.  39,  la  quale  rappresenta  una  sezione  trasversale  assai  in- 
grandita della  foglia,  ci  indica  chiaramente  la  disposizione  delle  varie 


Fig.  39. 


parti  nello  spessore  della  foglia  stessa:  e  così  in  e  e  abbiamo  l'epi- 
dermide della  pagina  superiore  senza  stomi,  ed  in  é  e'  l'epidermide 
della  pagina  inferiore:  o  indica  uno  stoma  formato  dalle  due  cel- 
lule s  s  poste  una  verso  l'altra,  per  cui  ne  risulta  un  poro  nell'epi- 
dermide: in  p  p  p'  p'  abbiamo  il  tessuto  cellulare  del  parenchima 
contenente  i  granuli  di  clorofilla  segnati  colla  lettera  e:  —  p  p  in- 
dicherebbe il  vero  parenchima  a  cellule  allungate,  disposte  per  così 
dire  a  palizzata  e  molto  vicine  le  une  alle  altre,  mentre  p'  p'  pr  ecc. 
sarebbero  varii  strati  del  così  detto  merenchima  (pag.  118,  nota  la) 


134 


CAPITOLO  IV 


o  tessuto  spugnoso  a  cellule  arrotondate,  le  quali  perciò  lasciano  fra 
di  loro  gli  spazii  i  i  detti  meati  intercellulari,  come  già  sappiamo. 

La  fig.  40  mostra  la  sezione  trasversale  molto  ingrandita  di  una 
nervatura,  ove  e  e  indica  l'epidermide,  e  e  il  tessuto  cellulare  e  t 
un  pelo,  poiché  le  nervature  principali  presentano  sempre  peli  (pa- 
gina 104). 

Infatti  nella  pagina  inferiore  della  foglia  di  vite  si  trovano  sulle 
nervature  molti  peli ,  come  già  dicemmo  :  di  essi  abbiamo  dato 
una  descrizione  a  pag.  129  fig.  34.  Aggiungeremo  qui  che  oltre 
a  questi  peli  di  forma  conica,  che  sono  i  più  numerosi,  se  ne  tro- 
vano altri  assai  sottili,  lunghi  e  flessuosi,  per  cui  intrecciandosi  fra 
di  loro  talvolta  danno  luogo  a  quella  pubescenza  che  a  pag.  102  chia- 
mammo   ragnatela,  mentre  tal'altra  costituiscono  come  un  vero  strato 


J<òO 


o 


ODO 


p  C  J 


Fisr.  40. 


cotonoso.  Infine  il  D.r  Penzig  ha  pel  primo  osservato  una  terza 
forma  di  peli  sulle  foglie  della  vite,  come  pure  sul  picciuolo,  sui  gio- 
vani tralci  e  sui  viticci  (1):  questi  peli,  che  si  osservano  pure  sulle 
foglie  del  genere  Ampelopsis,  hanno  (fig.  41)  un  gambo  cortissimo  com- 


(1)  Loc.  cit.  pag.  158. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


135 


posto  di  molte  cellule  ed  un  capolino  assai  grande,  talvolta  lungo  2 
millimetri,  ialino  e  luccicante  quasi  a  mo'  di  perla  diafana,  onde  molti 
osservatori  furono  già  tratti  in  inganno  prendendo  simili  peli  per 
ova  di  insetti  oppure  per  acari  parassiti  della  foglia.  Nel  centro  del 
capolino  esistono  molte  grandi  cellule  piene  di  plasma  e  di  succo 
limpido:  sui  fianchi  si  vede  un  solo  stoma  st  di  forma  ordinaria,  le 
cui  cellule  contengono  molta  clorofilla  e  molto  amido. 

Per  ultimare  quanto  si  riferisce  alla  anatomia  della  foglia  ci  rimane 
a  parlare  della  clorofilla  e  dell'ossalo  di  calcio,  sin  qui  accennati 
soltanto  fuggevolmente. 

La  clorofilla  (1)  si  presenta  nel  parenchima  della  foglia  sotto 
forma    di    granuli,  i  quali  trovansi  nel  protoplasma  cellulare,  costi- 


Fig.  41. 

tuiti  da  un  nucleo  di  amido  circondato  da  vera  clorofilla:  infatti 
trattati  col  iodio  (pag.  118)  si  colorano  tosto  in  violetto.  La  clorofilla 
è  solubile  nell'alcool,  nell'etere  e  negli  acidi  cloridrico  e  solforico,  che 


(1)  Clorofilla  significa  verde  delle  foglie. 


136  CAPITOLO  IV 


si  colorano  intensamente  in  verde:  secondo  Fréray  essa  si  può  decom- 
porre in  due  sostanze  coloranti  trattandola  con  un  miscuglio  di  acido 
idroclorico  ed  etere;  si  ottiene  allora  sciolta  nell'  etere  una  sostanza 
azurra,  che  Frémy  chiamò  cianofilla  (o  fillocianina)  mentre  nell'a- 
cido rimane  una  sostanza  gialla,  detta  xantofilla  (o  filloxantina) 
alla  quale  probabilmente  si  deve  il  colore  giallo  che  assumono  le 
foglie  in  autunno.  Noi  abbiamo  trovato  però  nelle  foglie  di  alcune 
viti  (barbera,  tintoria,  ecc,)  una  copiosa  materia  colorante  rossa,  a- 
naloga  alla  enocianina;  essa  si  produce  solo  sul  finir  dell'  estate. 
Ne  riparleremo  al  capitolo   Chimica  della   Vite. 

È  importante  sapere  che  senza  ferro  non  può  formarsi  clorofilla, 
per  cui  le  piante  le  quali  vegetano  in  terreni  privi  di  ferro  riman- 
gono bianche;  ma  basta  aggiungere  al  terreno  sali  di  ferro  (solfato 
o  cloruro)  perchè  comparisca  il  color  verde,  come  hanno  dimostrato 
con  esperienze  dirette  Salm-Horstmar,  Sachs  e  Gris.  Quest'ultimo  e- 
sperimentatore  osservò,  coli' aiuto  del  microscopio,  che  mancando  il 
ferro  il  protoplasma  delle  cellule  (pag.  130)  rimaneva  una  massa  in- 
coio ra  o  gialla,  mentre  sotto  l' influenza  del  ferro  non  tardavano  a 
formarsi  i  granuli  della  clorofilla.  Sono  le  cellule  contenenti  questi 
granuli,  che  sotto  l'influenza  moderata  della  luce  e  del  calore  hanno 
il  potere  di  decomporre  V  acido  carbonico  dell'  aria,  assimilandosi  il 
carbonio  e  formando,  cogli  elementi  dell'  acqua  e  del  suolo,  le  so- 
stanze organiche  onde  è  costituita  la  pianta.  Concludendo,  diremo  che 
il  ferro  è  indispensabile  alla  produzione  della  clorofilla  e  quindi  anche 
alla  vita  ed  allo  sviluppo  delle  piante;  la  pratica  della  viticultura  ci 
insegna  infatti  che  il  ferro  (solfato)  sparso  sul  terreno,  è  di  grande 
giovamento  alla  vite,  il  cui  fogliame  si  fa  rigoglioso  ed  assume  un 
bel  colore  verde  carico. 

Uossalato  di  calcio  (pag.  118)  è  stato  studiato  ultimamente  con 
molta  cura,  nelle  foglie  della  vite,  dal  Dr.  Cuboni  (1),  il  quale  ha  esa- 
minato ai  microscopio  il  tessuto  della  foglia  direttamente  in  super- 
ficie e  non  già  in  sottili  sezioni  trasversali  come  si  usa  fare  ordina- 
riamente: egli  ha  trattato  le  foglie  assai  giovani  con  alcool,  per 
allontanare  la  clorofilla,  e  le  foglie  adulte  con  idrato  di  potassio,  la- 
vando poscia  il  preparato  con  acido  acetico:  con  questi  metodi  egli 
ha  potuto  constatare:  1°)  che  le  foglie  giovani  della  Vitis  vinifera 
non  contengono  altri  cristalli  (di  ossalato  di  calcio)  che  i  rafidi,  mentre 


(1)  Rivista  di  Vit.  ed  Eh.  di  Conegliano  (N.  23  e  24  1S83). 


BOTANICA  DELLA  VITE 


137 


le  druse  non  compariscono  se  non  nelle  foglie  adulte.  (A  pag.  119  ab- 
biamo detto  che  cosa  siano  questi  cristalli).  2°)  Che  i  rafidi  sono  sempre 
contenuti  entro  grandi  cellule  di  forma  speciale,  differentissime  dalle 
cellule  ordinarie  che  costituiscono  il  parenchima  della  foglia,  mentre 
le  druse  sono  contenute  entro  cellule  piccolissime,  inoltre  i  primi  dif- 
feriscono dalle  seconde  per  la  diversa  posizione  che  costantemente 
occupano  nel  tessuto  della  foglia. 

Le  cellule  contenenti  rafidi  hanno    una  forma  ordinariamente    ci- 
lindrica (fig.  42;    porzione    di  foglia  giovine  di  Raboso  ingr.  140  e 


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Fie.     2. 


fig.  43  a  b  e  cellule  con  rafidi  isolate  ingrandite  600  volte):  il  dia- 
metro trasversale  ordinariamente  misura  da  20  a  25  millesimi  di 
millimetro,  mentre  quello  longitudinale  varia  assai,  cioè  da  100  a 
200  millesimi  di  millimetro:  il  fascio  dei  rafidi  è  lungo  da  30  a  35 
millesimi  di  millimetro.  —  La  fig.  44  ci  mostra  una  porzione  di  foglia 
adulta  di  vite  Rabosa  colle  cellule  a  rafidi  e  le  druse  ingr.  140  e  la 
fig.  45  in  a  ci  rappresenta  varie  cellu'e  a  druse  di  forma  quasi  cu- 


138 


CAPITOLO  IV 


bica  ed  il  cui  lato  maggiore  misura  soltanto  10-12  millesimi  di  mil- 
limetro; ed  in  b  una  cellula  a  rafidi  trattata  con  acido  acetico  con- 
centrato, nel  qual  caso  si  forma  subito  un  precipitato  gelatinoso  opaco 
che  inviluppa  il  fascio  dei  rafidi.  Questo  precipitato,  a  parere  del 
Dr.  Cuboni,  è  dovuto  senza  dubbio  alla  coagulazione  di  una  sostanza 
che  prima  era  disciolta  nel  succo  cellulare:  essa  è  molto  abbondante 
nelle  cellule  delle  foglie  giovani,  ma  va  mano  mano  scemando  col 
crescere  dell'età  della  foglia,  finché  nelle  foglie  autunnali  il  tratta- 
mento coll'acido  acetico  non  determina  che  un  coagulo  sottilissimo 
intorno  al  fascio.  Questo  coagulo  non  presenta  alcuna  delle  reazioni 
caratteristiche  del  protoplasma:  è  solubile  nell'acido  cloridrico  e  forse 
non  è  altro  che  l'ossalato  di  calcio  disciolto  nel  succo  cellulare  che 
precipita  allo  stato  amorfo  coll'acido  acetico. 


Fig.  43. 


11  D.r  Cuboni  ha  osservato  pel  primo  che  le  cellule  a  rafidi  nelle 
maglie  poligonali  di  fascii  fibro-vascolari  che  costituiscono  il  reticolo 
delle  nervature,  si  trovano  in  numero  di  una  o  due,  ai  lati  del  cor- 
done vascolare  che  penetra  nelle  maglie  stesse,  come  è  chiaramente 
indicato  nella  fig.  42.  Il  numero  di  queste  cellule,  il  quale  pare  varii 
da  70  ad  80  per  ogni  millimetro  quadrato,  non    aumenta  né    dimi- 


BOTANICA  DELLA  VITE 


139 


nuisce  coll'età  della  foglia,  a  cominciare  dal  momento  in  cui  essa  ha 
raggiunto  la  sua  forma  definitiva.  Invece  le  druse  non  si  trovano 
che  nelle  foglie  adulte,  molto  tardi  verso  l'autunno:  le  cellule  che  le 
contengono  sono  piccolissime  e  sono  disposte,  come  si  vede  nella 
fig.  44,  in  una  fila  più  o  meno  interrotta  alla  diritta  ed  alla  sinistra 
di  ciascun  cordone  vascolare.  Il  numero  di  queste  cellule  va  mano 
mano  aumentando  coll'età  delle  foglie,  e  le  prime  si  formano  vicine 
alle  nervature  più  grosse. 


^T\ 


Infine  diremo  che  il  D.r  Cuboni  ha  trovato  le  cellule  a  rafidi  in 
200  e  più  viti  europee,  nonché  nelle  americane  Labrusca,  Riparia 
ed  Aestivalis  e  nelle  foglie  dell'  Ampelopsis  hederacea  :  quindi  pro- 
babilmente esse  sono  caratteristiche  di  tutte  le  Ampelidee  (pag.  76). 
Nel  paragrafo  seguente  sulla  fisiologia  della  vite,  diremo  dell'azione 
della  luce  solare  e  delle  condizioni  fisico -chimiche  del  terreno  su 
questi  cristalli  di  ossalato  di  calcio. 

7.°  Le  gemme  {occhi  e  bottoni).  I  botanici  chiamano  prefoglia- 
zione (pag.  104)  la  disposizione  che  hanno  le  foglie  entro  le  gemme 
foglifere  {occhi)  prima  che  queste  si  aprano:  chiamano  poi  pre-fio- 


140 


CAPITOLO  IV 


razione  la  disposizione  delle  varie  parti  del  fiore  entro  le  gemme 
fiorifere  {bottoni).  Tanto  la  prefogliazione  quanto  la  preflorazione 
sono  generalmente  le  stesse,  cioè  sono  costanti,  in  tutte  le  piante 
di  una  stessa  famiglia  naturale,  ond'  è  che  vi  si  attribuisce  molta 
importanza.  La  prefogliazione  dicesi  anche  ibernazione,  e  la  pre- 
florazione è  pure  chiamata  estivazione. 


Fig.  45. 

Negli  occhi  della  vite  le  foglie  sono  ripiegate  su  sé  stesse  secondo 
la  loro  lunghezza  a  guisa  d'un  ventaglio,  e  perciò  la  prefogliazione 
è  plicata  o  pieghettata  od  anche  increspata.  Le  foglie  normali 
negli  occhi  sono  protette,  come  già  dicemmo  a  pag.  104,  dalle  sti- 
pole.  Queste  foglioline  precoci  sono  ricoperte  da  una  epidermide  a 
cellule  sottili,  senza  stomi,  ma  con  lunghi  peli  da  ambe  le  faccie  per 
meglio  proteggere  la  vera  foglia  prima  del  suo  sviluppo,  quasi  come 
farebbe  una  guaina:  secondo  il  Dott.  Penzig  nella  base  delle  stipole 
non  penetrano  affatto  fascii  fibro -vascolari,  locchè  è  strano;  perchè 
in  generale  le  stipole  hanno  una  nervatura  mediana,  osservata  in- 
fatti nel  genere  Cissus  dalla  stesso  Penzig.  Infine  le  stipole  presen- 
tano ossalato  di  calcio  (rafìdi  a  grossi  fascii:  veggasi  la  fig.  42  a  pa- 
gina 137),  ma  invece  mancano  di  clorofilla,  d'amido  e  di  tannino  (1). 


(1)  Loc.  cit.  pag.  160. 


BOTANICA  DELLA  VITE  141 

Nei  bottoni  della  vite  i  cinque  petali  si  alternano  coi  cinque  den- 
telli del  calice,  toccando  questi  ultimi  soltanto  pei  loro  margini,  per 
cui  la  preflorazione  è  detta  valvare  (veggasi  la  pag.  109).  Nei  bot- 
toni i  fiori  sono  protetti  dalle  brattee  che  corrispondono  alle  stipole 
delle  foglie.  Le  brattee  trovansi  anche  sui  cirri,  ed  è  questa  un'altra 
prova  che  il  viticcio  è  un  grappolo  abortito:  la  brattea  del  viticcio 
corrisponde  alla  scaglia  della  sua  ramificazione  maggiore,  come  dicemmo 
a  pag.  98  (fig.  7  d)\  le  brattee  possono  trasformarsi  in  vere  foglie  pic- 
ciuolate,  mentre  talvolta  anche  le  diramazioni  secondarie  dei  cirri  por- 
tano brattee  alla  cui  ascella  nascono  i  pedicelli  fiorali  dei  quali  di- 
remo or'ora.  Queste  brattee  hanno  una  sola  nervatura  mediana  assai 
sporgente:  le  parti  laterali  sono  tenere,  sottili  e  scolorate.  (Penzig). 

Tutte  le  gemme  della  vite,  ma  specialmente  quelle  bene  svilup- 
pate, presentano  in  autunno,  sotto  di  esse,  come  un  rigonfiamento 
del  legno  (una  specie  di  mensoletta  o  rigonfiamento  polputo)  rac- 
chiudente una  sostanza  di  apparenza  amilacea,  la  quale  rappresenta 
i  cotiledoni  dei  semi.  Infatti  questo  rigonfiamento  alimenta  il  tenero 
germoglio  nella  successiva  primavera  sino  a  che  esso  non  abbia  cac- 
ciato le  foglie,  ed  intrecciate  le  sue  fibre  con  quelle  del  libro  del 
ramo. 

8.°  /  fiori.  I  sepali  del  calice  ed  i  petali  della  corolla  sono  essi 
pure  attraversati  come  le  foglie  da  fascii  fibro- va  scolari;  la  qual  cosa 
è  naturale,  poiché  in  sostanza  i  sepali,  i  petali,  gli  stami  ed  i  car- 
pelli (pag.  Ili)  altro  non  sono  che  foglie  variamente  modificate  (1). 
Fra  i  fascii  suddetti  trovasi  un  tessuto  parenchimatoso,  appunto  come 
nelle  foglie:  l'epidermide  ricopre  il  tutto,  e  mostra  benché  in  piccolo 
numero,  gli  stomi. 

La  struttura  interna  del  fiore  è  la  seguente  (fig.  46  ingrandita 
50  volte)  (2):  sotto  l'apertura  o  stimma  a  si  trova  come  un  breve 
stilo  b  che  realmente  è  la  parte  superiore  dell'ovario:  esso  da  prin- 
cipio è  ripieno  di  un  tessuto  che  trae  origine  dalla  sua  parete  interna 
ed  è  composto  di  cellule  leggermente  connesse  fra  di  loro:  tale  tes- 


(1)  È  noto  che  i  giardinieri  per  produrre  i  così  detti  fiori  doppi  si  giovano 
appunto  dell'identità  che  passa  fra  la  natura  delle  varie  parti  del  fiore,  trasformando 
ad  esempio  gli  stami  in  petali. 

(2)  Togliamo  questa  figura  da  una  recentissima  ed  interessante  memoria  del 
Dott.  Portele,  dell'Istituto  Agrario  di  S.  Michele  nel  Tirolo.  (Studien  iiber  die 
Entwicklung  der  Traubenbeere  t-  1883). 


142  CAPITOLO  IV 


suto  cellulare  costituisce  in  sostanza  le  papille  dello  stimma  a.  Questo 
ultimo  forma  generalmente  un  tutto  senza  divisioni  e  solo  la  La- 
brusca  qualche  volta  ha  uno  stimma  che  si  può  considerare  come  di- 
viso in  cinque  parti.  Il  breve  stilo  b  è  realmente  aperto  solo  quando 
i  carpelli  invece  di  essere  due  sono  tre  (come  già  accennammo  a  pa- 
gina 111)  e  contengono  quindi  sei  semi  o  ovuli,  la  qual  cosa  fu  ri- 
petutamente osservata  da  Portele  nei  Riesling. 

Non  appena  i  granellini  del  polline  cadono  sullo  stimma,  questo  si 
rigonfia  e  spinge  i  tubetti  pollinici  a  traverso  l'accennato  tessuto  b 
dello  stilo  (detto  precisamente  tessuto  conduttore)  sino  agli  ovuli  k 
ed  s  che  si  trovano  nell'ovario.  Gli  ovuli  sono  fìssati  mediante  il  funi- 
colo o  cordone  ombellicale  r  alla  parete  y  dei  carpelli  oplacenta  (1). 
Prima  ancora  che  i  tegumenti  od  involucri  degli  ovuli  n  ed  o  pren- 
dano origine  dalla  base  m  degli  ovuli  stessi,  questi  subiscono  un  mo- 
vimento di  rotazione  tale  che  al  tempo  della  piena  fioritura  (come 
è  rappresentato  nella  sezione  longitudinale  della  fìg.  46)  il  micro- 
pilo  x  viene  a  trovarsi  a  lato  del  funicolo  r  il  cui  tessuto  allun- 
gandosi viene  così  a  formare  quella  linea  sporgente  che  a  pag.  144 
abbiamo  chiamato  rafe  o  vasidutto.  Il  micropilo  è  un'apertura  stretta 
a  guisa  di  canale,  formata  per  così  dire  da  un  rigonfiamento  anulare 
di  cellule  del  tegumento  esterno  n  e  dell'interno  o,  ed  a  traverso  la 
quale  gli  otricelli  pollinici  riescono  agli  ovuli. 

Riassumendo,  nella  fìg.  46  le  lettere  laterali  indicano  quanto  segue: 

a  Cellule  delle  papille  dello  stimma;  b  breve  stilo;  e  ovario;  d  nettario; 
(pag.  143);  f  un  pezzo  di  stame  o  per  dir  meglio  di  filamento  inserito 
presso  la  base  dell'ovario;  g  punto  da  cui  si  distaccarono  i  petali;  h 
rudimenti  del  calice;  k  ovulo  in  sezione  verticale;  s  ovulo  in  prospet- 
tiva; n  tegumenti  esterni  dell'ovulo;  o  tegumenti  interni;  p  germe  del- 
l'ovulo; x  micropilo;  r  funicolo;  v-v  cordoni  fibro  vascolari  in  numero 
di  15  a  18  provenienti  dal  pedicello  ed  entranti  nel  fiore;  z  punto 
da  cui  si  diramano  i  fascii  fibro-vascolari  i  quali  scorrono  lungo  le 
pareti  dell'ovario  i:  w  punto  di  dove  partono  altri  fascii  o  cordoni 
per  dirigersi  agli  ovuli;  y  parete  del  carpello,  la  quale  sull'epidermide 
esterna  presenta  alcuni  stomi,  e  nelle  cellule  della  interna,  che  sono 
poligonali,  offre  un  grande  numero  di  druse  stellate  di  ossalato  di 
calcio. 

L'ovario  porta  alla  sua  base  come  un  cerchio  di  cinque  protube- 


(1)  Chiamasi  placenta  quella  porzione  dell'ottano  che  porta  gli  ovuli. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


143 


ranze  o  glandole  d  (1),  le  quali  si  alternano  cogli  stami  f;  esse  con- 
sistono in  cellule  parenchimatose  colorate  in  giallo,  le  quali  conten- 
gono molto  zucchero  ed  un  olio  essenziale  {nettare).  A  parere  di  Plan- 
chon  corrisponderebbero  ad  un  secondo  circolo  di  stami  rudimentali, 


V      V 


Fig.  46. 


e  Portele  ha  potuto  constatare  che  possono  eziandio  metamorfosarsi 
in  petali;  i  botanici  sono  però  molto  discordi  su  di  ciò.  Solo  è  noto 
che  tali  glandole  nettariche,  da  cui  proviene  il  gratissimo  odore  dei 


(1)  Queste  cinque  glandole  si  possono  vedere  nettamente   nelle  figure    11  e  13 
a  pag.  109  alla  base  dell'ovario,  tra  questo  e  il  calice. 


144  CAPITOLO  IV 


fiori  della  vite,  si  essiccano  dopo  la  fioritura,  ma  rimangono  aderenti 
alla  base  dell'acino  sino  alla  sua  maturazione. 

Gli  stami  abbiamo  già  visto  (pag.  110)  che  constano  del  filamento 
e  dell'antera;  il  filamento  è  attraversato  nella  sua  parte  mediana  da 
un  cordone  di  vasi  a  spirale  che  poscia  entra  nella  parte  di  mezzo  del 
dorso  dell'antera:  facendo  una  sezione  trasversale  si  osservano  nel 
filamento,  da  ogni  lato  del  fascio  vascolare,  tre  a  quattro  serie  di  cel- 
lule parenchimatose,  a  pareti  delicate,  contenenti  zucchero;  la  cloro- 
filla ed  il  tannino  si  trovano  specialmente  nelle  cellule  più  esterne 
al  momento  della  fioritura,  e  nei  filamenti  vecchi  si  trovano  eziandio 
traccie  di  amido  (1). 

L'  antera  è  composta  di  puro  tessuto  parenchimatoso  ;  le  sue  due 
logge  o  borse  nei  primi  stadii  del  loro  sviluppo  sono  riempite  d'un 
protoplasma  fortemente  azotato,  nel  quale  vedonsi  piccolissimi  gra- 
nuli rotondi  di  amido.  Da  questo  protoplasma  prendono  origine  i 
granuli  di  polline  (figura  47  a,  b,).  Successivamente  le  borse 
dell'antera  presentano  le  pareti  formate  da  una  serie  di  cellule  molto 
omogenee,  le  quali  ne  costituiscono  l'epidermide;  ma  quando  il  fiore 
incomincia  ad  aprirsi,  le  membrane  esterne  di  queste  cellule  dell'epi- 
dermide si  essiccano,  le  pareti  si  stracciano  longitudinalmente  ed  i 
granuli  di  polline  escono  e  sono  portati  dal  vento  o  dagli  insetti 
sugli  stimmi  dell'ovario.  (Veggasi  la  fig.  14  a  pag.  111). 

Il  polline  è  formato,  come  dicevamo  or'  ora,  da  cellule  del  pro- 
toplasma che  si  trova  nell'antera  nei  primi  momenti  del  suo  sviluppo; 
successivamente  esse  prendono  una  configurazione  speciale,  hanno 
una  doppia  parete  e  contengono  un  liquido  granelloso  detto  fovilla, 
composto  essenzialmente  di  acqua,  materie  azotate  (plasma)  e  zuc- 
chero; Fritzche  sostiene  che  non  di  rado  nella  fovilla  trovansi  anche 
granuli  di  amido  tanto  teneri  da  muoversi  di  continuo  (movimento 
broivniano  o  meglio  brauniano)  (2). 

I  granuli  sono  estremamente  piccoli,  e  si  contano  a  migliaia  in  un 
antera:  essi  hanno  o  la  forma  elittica  a  o  la  allungata  b,  come  già  sap- 
piamo: la  loro  parete  esterna  è  sottile  ed  elastica,  e  messi  nell'acqua 
questa  viene  assorbita  per  endosmosi,  onde  i  granuli  si  gonfiano  in 


(1)  Loc.  cit.  (Portelo),  pag.   10. 

(2)  Hrown  osservò  pel  primo  che  quando  in  un  liquido  si  trovano  in  sospen- 
sione  corpicini  assai  minuti,  essi  vanno  saggetti  ad  un  movimento  oscillatorio  con- 
tinuo, come  accade  ad  esempio  sciogliendo  dell'inchiostro  di  China  nell'acqua. 


BOTANICA  DELLA  VITE  145 


breve  tempo  e  scompaiono  allora  le  due  pieghe  che  prima  si  osserva- 
vano sulla  detta  parete  esteriore.  Ma  considerando  la  loro  forma  quando 
non  sono  gonfiati  dall'acqua,  si  osserva,  come  ha  constatato  pel  primo 
il  Dr.  Portele,  che  allorquando  i  filamenti  sono  più  corti  che  l'ovario 
propriamente  detto,  cioè  fatta  astrazione  dallo  stilo  e  dallo  stimma, 
allora  i  granuli  di  polline  hanno  sempre  la  forma  acuminata  b;  mentre 
quando  i  filamenti  sono  più  lunghi  dell'ovario,  i  granuli  presentano  sem- 
pre la  forma  a;  se  poi  i  rapporti  fra  queste  due  lunghezze  non  differi- 


Fig.  47. 


scono  di  molto,  si  possono  osservare  V  una  accanto  all'  altra  le  due 
forme;  infine  tanto  più  brevi  sono  i  filamenti  relativamente  all'ovario, 
tanto  più  acuminati  mostransi  i  granelli  pollinici.  La  differente  lun- 
ghezza dei  filamenti  è  pure  in  relazione  coll'apertura  dello  stimma:  se 
quelli  sono  corti,  lo  stimma  è  più  largo  e  più  basso;  se  quelli  sono  lun- 
ghi è  più  stretto  e  più  alto.  Il  Dr.  Portele  ha  fatto  un'altra  curiosa  os- 
servazione, ed  è  questa;  che  in  quasi  tutte  le  varietà  d'uva  con  stami 
più  corti  dell'ovario,  i  fiori  cadono  facilmente  prima  di  attecchire,  cioè 
si  verifica  il  così  detto  aborto  o  coulure  dei  Francesi.  Il  Portele 
cita  ad  esempio  le  uve  moscate:  ebbene  egli  ha  perfettamente  ragione, 
inquantochè  anche  nel  Monferrato,  di  dove  noi  scriviamo,  il  moscato 
rosso,  il  così  detto  moscatellino,  pure  rosso,  il  moscato  bianco  o  greco, 
e  la  moscadella  bianca  o  bergamotto,  vanno  ogni  anno  molto  sog- 
getti alla  caduta  dei  fiori.  Finora  non  abbiamo  potuto  trovare  una 
soddisfacente  spiegazione  di  questo  fatto. 

Ma  il  fiore  della  vite  può  essere  anormale,  come  già  dicemmo  a 
pag.  107,  e  le  anormalità  possono  essere  varie.  Talvolta  ad  esempio  gli 
stami  mostrano  i  filamenti  ripiegati  e  le  antere  rivolte  all' insù  in- 
vece di  avere  la  faccia  verso  il  centro  del  fiore:  secondo  Portele 
ciò  dipende  dalla  soverchia  umidità  della  primavera,  per  cui  i  petali 
della  corolla  non  cadono  abbastanza  prontamente  e  quindi  gli  stami 
rimangono  curvati  e  tortuosi.  Però  pare  che  ciò  non  rechi  nocu- 
mento alla  fioritura,  per  le  ragioni  che  diremo  parlando  della  impol- 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura,  11 


146  CAPITOLO  IV 


linazione  nei  fiori  della  vite,  la  quale  avviene  essenzialmente  con 
polline  di  altri  fiori. 

A  cagione  delle  sfavorevoli  condizioni  climatologiche  della  prima- 
vera, può  anche  accadere  che  la  corolla  quinquepetala  si  sollevi  bensì, 
ma  non  cada  totalmente:  in  questo  caso  una  parte  degli  stami  si 
raggrinza  e  perisce,  e  l'ovario  finisce  per  cadere,  onde  l'acino  è  per- 
duto del  tutto. 

Alle  volte  lo  stimma  dell'ovario,  il  quale  si  mostra  soverchiamente 
grosso,  non  si  sviluppa  affatto;  ed  anche  in  questo  caso  la  feconda- 
zione e  l'attecchimento  del  fiore  non  sono  possibili;  quindi  esso  cade. 
Invece  quando  i  petali  della  corolla  si  distaccano  dalla  loro  parte  su- 
periore e,  rimanendo  fìssati  alla,  base  dell'ovario  per  la  loro  parte 
inferiore,  si  ripiegano  all'ingiù,  la  fecondazione  può  ancora  aver  luogo, 
purché  lo  stimma  sia  sviluppato.  Portele  ha  anche  osservato  che 
talvolta  gli  stami  prendono  l'aspetto  di  foglioline  ripiene  di  clorofilla 
mentre  l'antera  è  gialla.  Però  il  loro  polline  è  normalmente  svilup- 
pato. I  petali  poi  possono  essere  doppii,  cioè  in  due  ordini  l'uno  sul- 
l'altro quasi  a  guisa  dei  fiori  detti  appunto  doppii:  in  questo  caso  i 
nettarii  si  sono  trasformati  in  petali,  e  difatti  essi  mancano  sempre  in 
fiori  consimili:  l'ovario  però  è  regolare  ed  il  polline  pure  normale, 
onde  non  sempre  si  ha  la  perdita  del  frutto:  V  acino  però  rimane 
più  piccolo  di  metà  e  più  ancora,  vale  a  dire  che  può  avere  un 
diametro  di  soli  2  millimetri  e  mezzo  invece  d'uno  di  5  a  7  (1). 

Questa  piccolezza  degli  acini  è  da  attribuirsi  al  fatto  che  gli  ovuli 
non  si  sono  sviluppati  regolarmente  e  completamente;  ciò  è  tanto 
vero  che,  allorquando  un  ovulo  si  sviluppa  male,  l'acino  appare  sen- 
sibilmente più  grosso  dal  lato  del  vinacciuolo,  ossia  dell'  altro  ovulo 
bene  sviluppato.  Inoltre  è  noto  che  gli  acini  delle  uve  senza  vinac- 
ciuoli (i  Corinti)  sono  sempre  piccoli.  I  vinacciuoli  non  completamente 
sviluppati  hanno  essi  pure,  come  gli  acini,  metà  grossezza  al  mas- 
simo di  quelli  che  si  trovano  in  acini  regolarmente  cresciuti,  ed 
inoltre  sono  privi  della  facoltà  di  germinare. 

Abbiamo  accennato  alle  uve  che  sono  prive  di  vinacciuoli,  cioè 
apirene,  poiché  dicesi  apirenità  (2)  la  mancanza  dei  semi  negli  acini; 


(1)  Portele  loc.  cit,  pag.  19.  Lo  studioso  che  desiderasse  conoscere  tutte  le  ri- 
cerche di  questo  diligente  osservatore  dovrebbe  provvedersi  1'  accennata  memoria 
(Hoepli  —  Milano). 

(2)  Parola  tolta  dal  greco  (a  privazione,  pyren  nucleo  o  vinacciuolo). 


BOTANICA  DELLA  VITE  147 

sono  tali  tutti  i  Corìnti,  uve  che  ci  vennero  dalla  Grecia  e  dall'Oriente  (1), 
ma  possono  eziandio  diventare  temporaneamente  apirene  le  uve 
di  alcuni  fra  i  nostri  vitigni  se  vengono  a  trovarsi  in  speciali  cir- 
costanze, in  certe  annate,  come  ebbe  ad  osservare  il  Mendola  ac- 
cidentalmente nel  Cataratta  di  Sicilia  ed  in  altri  vitigni  della  sua 
bellissima  collezione  ampelografica.  Qual'  è  la  causa  di  questa  man- 
canza di  vinacciuoli?  Putliat  crede  che  si  debba  rintracciarla  in  un 
difetto  di  conformazione  degli  organi  sessuali,  {Le  Vignoble  1874, 
Avril);  ma  Portele,  dopo  diligente  esame  del  fiore,  è  venuto  a  con- 
cludere che  fra  il  fiore  dei  Corinti  e  quello  normale  delle  altre  uve 
non  vi  ha  la  minima  differenza  sia  nella  struttura  esterna  sia  nella 
anatomica  (toc.  cit.  pag.  20)  e  Muller-Thurgau  attribuisce  la  api- 
renità  al  mancato  sviluppo  degli  ovuli  dopo  avvenuta  la  fecondazione 
{Weinbau,  1883,  n.  22  e  23).  Questa  conclusione  del  Dr.  Mtiller 
ci  pare  accettabile,  massime  dopo  le  osservazioni  del  Portele. 

Nel  novero  delle  viti  a  fiori  anormali  dobbiamo  infine  collocare  anche 
le  Lambrusche  selvatiche;  i  loro  fiori  presentano  uno  stimma  molto 
appiattito;  lo  stilo  manca  affatto,  onde  lo  stimma  è  applicato  diret- 
tamente sull'ovario,  mentre  i  filamenti  delle  antere  sono  relativamente 
assai  lunghi:  la  corolla,  durante  la  fioritura,  è  sollevata  a  mò  di 
padiglione  dagli  stami  ed  il  fiore  ha  i  nettarii  che  mandano  molto 
odore.  Il  polline  pare  costituito  regolarmente,  e  1'  ovario  pure;  con- 
tuttociò  le  lambrusche  sono  generalmente  sterili,  forse  perchè  il 
fiore,  essendo  sorretto  da  un  pedicello  lungo  e  delicato,  cade  facil- 
mente: tuttavia,  invecchiando  molto,  esse  diventano  fertili  (pag.  16). 
9.°  Gli  acini  ed  i  vinacciuoli.  Ci  rimane  ora  a  descrivere  l'in- 
terno dei  frutti  della  vite.  L'acino  (fìg.  48)  si  compone  della  fiocine 
o  epicarpio  a;  del  mesocarpio  o  sarcocarpio  b,  d,  che  è  la  parte 
carnosa  e  succulenta  (parenchima):  la  porzione  centrale  d  del  meso- 
carpio è  composta  di  un  succo  come  dire  vischioso,  entro  il  quale 
stanno  i  vinacciuoli;  l'epicarpio  ed  il  mesocarpio  costituiscono  il  così 
detto  pericarpio  a,  b  e  d,  che  proviene  dai  carpelli  dell'ovario:  in- 
fine dei  semi  e  che  sono  raramente  quattro  come  nel  disegno,  più 
spesso  soli  due  e  talvolta  mancanti,  come  dicemmo  a  pagina  146. 
Ogni  acino  è  sopportato   da  un    pedicello    liscio   rotondo    sul    quale 


(1)  Veggansi  sulla  tribù  dei  Corinti  un  esteso  ed  attraente  studio  pubblicato 
nell'anno  1878  del  nostro  Giornale  Vinicolo  Italiano  dal  dotto  ampelografo  Ba- 
rone A.  Mendola. 


148 


CAPITOLO  IV 


notansi  alcuni  peli  assai  piccoli:  questo  pedicello  ha  una  costitu- 
zione anatomica  simile  a  quella  dei  viticci  (fascii  vascolari,  paren- 
chima, epidermide  e  piccolissimo  midollo).  La  parte  carnosa  b  e  d, 
quasi  sempre  di  colore  bianco  giallastro,  risulta  dall'  agglomera- 
zione di  numerosissime  cellule  assai  piccole  a  forma  di  glandole, 
nelle  quali  avviene  la  secrezione  o  produzione  del  succo.  Dal  picciuolo 
entrano  generalmente  neh"  acino  i  vasi   conduttori  della  linfa   nutri- 


Fig.  48. 


trice,  che  si  ramificano  poi  in  ogni  parte  dell'acino:  il  numero  di 
questi  vasi  corrisponde  a  quello  degli  ovuli  o  semi  (vinacciuoli)  (fi- 
gura 46  v  v  e  fìg.  13). 

La  fiocine  risulta  dagli  strati  più  esterni  del  tessuto  cellulare  del- 
l' acino,  e  consta  di  piccole  cellule  appiattite  molto  spesse:  lo  strato 
più  esterno  costituisce  una  cuticola  spessa  da  3  a  6  millesimi  di 
millimetro,  sotto  a  cui  si  trovano  cellule  estremamente  piccole, 
lunghe  da  10  a  30  millimillimetri  e  larghe  da  3  a  7.  Procedendo 
verso  l'interno,  gli  strati  sono  formati  da  cellule  sempre  più  grandi 
sino  a  raggiungere  una  lunghezza  di  circa  100  millimillimetri  ed 
una  larghezza  di  20:  infine  le  cellule  della  parte  carnosa  dell'  acino 
possono  raggiungere  un  diametro  di  circa  mezzo  millimetro.  La 
fiocine  è  composta  di  un  differente  numero  di  strati  di  cellule,  a 
seconda  delle  varie  uve:  alcune  ne  hanno  da  10  a  12  (Labrusca) 
altre  soli  8,  altre  ancora  soli  6.  Ciò  nonostante  essa  è  talvolta  diafana, 
sempre  poi  elastica  quando  l'acino  si  avvicina  alla  maturità,  mentre 
prima  è  dura  e  rigida. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


149 


Nell'acino  maturo  si  trovano  varie  sostanze  disposte  a  poco  presso 
come  ora  diremo: 

Attorno  ai  vinacciuoli  a  (fig.  49)  abbiamo  anzitutto  uno  strato  b  la  cui 
composizione  è  molto  complessa,  ma  che  presenta  la  caratteri- 
stica di  essere  quasi  privo  di  zucchero;  esso  consta  pertanto  di 
sostanze  albuminoidi  (o  azotate)  di  acidi  liberi,  fra  cui  però 
scarseggia  assai  l'acido  tartarico,  e  di  cremor tartaro:  ha  una  cotale 
densità  e  si  presenta  come  vischioso  a  causa  delle  materie  albumi- 
noidi  suddette.  Allo  strato  b  ne  segue  un  altro  e  assai  più  grosso  e 
più  liquido,  perchè  contiene  molta  acqua;  il  suo  componente  più 
importante  è  lo  zucchero,  cui  tengon  dietro  l'acido  tartarico  libero, 
altri  acidi,  varii  sali,  ed  infine  una  piccola  quatità  di  albumina, 
assai  meno  però  che  non  nello  strato  b.  Dopo  lo    strato  e  abbiamo 


Fig.  49. 


un  piccolo  strato  d,  abbastanza  ricco  di  zucchero,  di  consistenza  car- 
nosa, e  composto  essenzialmente  di  sostanze  le  quali,  come  Y  amido, 
la  gomma  e  le  mucillagini,  sono  quasi  tutte  destinate,  col  concorso 
della  luce,  del  calore  e  dell'umidità,  ed  essere  trasformate  in  zucchero: 
in  questo  strato  però  non  mancano  affatto  né  le  sostanze  albumi- 
noidi,  né  i  sali  e  gli  acidi.  Infine  l' ultimo  strato  e  è  per  così 
dire  aderente  alla  buccia  dell'  acino  ed  ha  una  grande  importanza 
per  l'enologo:  infatti  in  esso  trovasi  anzitutto  la  materia  colo- 
rante (1);  vi  si   incontra   pure    V  acido    tannico,    o    tannino,    ma 


(1)  Sono  ben  rare  le  uve  le  quali,  come  la  nota  Tintorìa,  contengano  materia 
colorante  anche  negli  altri  strati  dell'acino. 


150  CAPITOLO  IV 


però  solo  quando  l'acino  è  quasi  maturo,  perchè  il  tannino  non  si 
forma  che  negli  ultimi  giorni  della  maturazione  dell'uva:  nell'ultimo 
strato  trovansi  pure  le  sostanze  aromatiche,  che  tutti  conoscono 
perchè  il  loro  sapore  è  pronunciatissimo  in  certe  uve,  come  i  moscati, 
gli  aleatici,  le  malvasie  e  molte  uve  americane:  queste  sostanze  aro- 
matiche però  non  si  devono  confondere  cogli  eteri  da  cui  deriva  la 
fragranza  dei  vini  vecchi:  gli  aromi  sono  realmente  olii  volatili,  di 
maniera  che  se,  estratti  che  fossero  dall'uva,  si  avesse  a  versarne 
una  goccia  su  un  pezzo  di  carta,  tale  goccia  finirebbe  per  non  lasciare 
veruna  macchia,  appunto  per  la  natura  volatile  dell'essenza:  diciamo 
questo  per  ispiegare  popolarmente  il  significato  delle  parole  «  olii 
volatili.  » 

Ci  rimane  ora  ad  esaminare  il  vinacciuolo. 

Nell'acino  può  mancare  a  dirittura,  come  nelle  uve  greche  (Co- 
rinto) ed  allora  già  sappiamo  (pag.  146)  che  l'acino  è  detto  apireno; 
ma  generalmente  vi  si  trovano,  come  già  dicemmo,  due  o  tre  semi, 
rare  volte  uno  solo  oppure  quattro;  e  secondo  alcuni  si  danno  casi  in  cui 
i  vinacciuoli  sono  anche  cinque  o  sei.  In  allora  le  tre  logge  dell'ovario, 
(le  quali  da  principio  sempre  mostransi  in  questo  numero,  ma  a  fiore 
sviluppato  riduconsi  a  due)  contengono  due  ovuli  per  caduna,  ed  hanno 
quindi  portato  a  compimento  tutti  gli  ovuli;  ma  il  caso  è  quanto  mai 
raro,  come  è  anche  raro  che  le  dette  logge  si  conservino  in  numero 
di  tre;  già  vedemmo  a  pag.  Ili  che  usualmente  sono  solo  due  di- 
stintamente sviluppate.  Anche  gli  ovuli  sono  sei  da  principio,  ma 
non  se  ne  sviluppano  che  due  o  tre;  gli  altri  abortiscono. 


I  vinacciuoli  sono  separati  da  un  tramezzo  carnoso  composto  di 
cellule  parenchimatiche  e  derivante  dalla  parete  dei  carpelli  {y  fig.  46); 
questo  tramezzo,  che  è  composto  di  due  parti,  aumenta  di  volume 
mano  mano  che  l'uva  va  maturando:  nella  fig.  50  abbiamo  una  se- 
zione trasversale  d'un  acino,  in  cui  a  b  da  un  lato  e  g  d  dall'altro 


BOTANICA  DELLA  VITE 


161 


indicano  quattro  vinacciuoli,  f  segna  il  tramezzo  carnoso,  /  indica  i 
due  o  più  fasci  di  vasi  (pag.  148)  i  quali  entrano  nel  tramezzo/1,  ed 
infine  e  mostra  lo  strato  di  tessuto  fibroso  a  rete  che  separa  la  fio- 
cine dalla  parte  polposa  dell'acino.  Ma  allorquando  uno  o  più  ovuli  abor- 
tiscono, allora  il  tramezzo  carnoso  ne  occupa  il  posto,  aumentando  di 
volume:  —  la  fig.  51  ci  mostra  alcuni  casi  di  aborto  (1);  in  A  abbiamo 
un  solo  vinacciuolo  a,  ed  il  tramezzo  carnoso  b  colle  sue  cellule 
parenchimatiche  occupa  il  rimanente  spazio  dell'ovario:  in  B  abbiamo 
due  semi  a  a  disposti  uno  sovra  1'  altro,  mentre  in  C  sono  disposti 
differentemente,  ma  sempre  il  tramezzo  b  occupa  il  posto  dei  vinac- 
ciuoli mancanti.  Dal  che  si  deduce  che  la  quantità  di  mosto  che  può 
dare  un  acino  è  tanto  maggiore  quanto  più  piccolo  è  il  numero  dei 
vinacciuoli  sviluppati. 


Fig.  51. 

Ogni  vinacciuolo  proviene  da  un  ovulo  completamente  sviluppato,  la 
cui  posizione  abbiamo  indicata  a  pag.  143,  fig.  46.  L'ovolo,  non  ap- 
pena fecondato,  cresce  rapidamente  e  presenta  i  rudimenti  delle  parti 
di  cui  va  poi  a  comporsi  il  vinacciuolo:  infatti  abbiamo  in  esso  la 
parte  interna  detta  nocella  o  nucleo,  o  terzina  di  Mirbel,  composta 
di  cellule  molto  sottili  e  bene  unite;  ad  essa  fa  seguito  la  secondina  o 
tegumento,  e  poscia  viene  la  primina  o  testa.  L'ovulo  è  attaccato  alla 
placenta  (pag.  142)  per  mezzo  di  un  breve  cordone  ombellicale,  ed 
il  punto  in  cui  questo  aderisce  alla  primina  è  detto  ilo.  La  nocella, 
al  momento  della  fecondazione  dell'ovulo,  presenta  nel  suo  interno 
una  lunga  cavità,  detta  sacco  embrionale,  nel  quale  riscontransi  un 
liquido  protoplasmatico  e  due  vescicole  embrionali  nella  estremità 
superiore  del  sacco;  una  di  queste  vescicole,  fecondata  che  sia  dal 
polline,  si  sviluppa  ed  abbiamo  1'  embrione;  V  altra,  non  fecondata, 
scompare. 

Gli  ovuli  da  principio  s.ono  costituiti  in  modo  tale  che  la  calaza 


(1)  Portele   loc.  cit.  pag.  36. 


152  CAPITOLO  IV 


(veggasi  la  fìg.  16  a  pag.  114)  si  trova  alla  estremità  opposta  del  becco 
o  ilo,  mentre  questo  risulta  vicino  al  micropilo;  essi  sono  allora  ovuli 
anatropi.  Ma  più  tardi,  continuando  Y  ovulo  a  svilupparsi,  subisce 
come  un  movimento  di  rotazione,  pel  quale  la  sua  cima  o  micropilo 
si  avvicina  alla  base  o  calaza,  e  l'ovulo  risulta  come  curvato  su  sé 
stesso;  allora  diventa  campolitropo. 

Nel  vinacciuolo  completamente  sviluppato  troviamo  essenzialmente 
due  parti:  il  tegumento  esterno  .o  episperma,  ed  il  contenuto  o 
mandorlo  coli'  embrione.  U  episperma  risulta  dalla  primina  e  dalla 
secondina  accennate  or'  ora,  e  difatti  è  composto  di  due  membrane; 
l'esterna,  risultante  da  molti  strati  a  cellule  poligonali  ricche  di  pla- 
sma scolorato,  e  l' interna  o  secondina,  composta  di  soli  tre  strati 
di  cellule  schiacciate  (1). 

Il  mandorlo  contiene  il  germe,  nonché  un  tessuto  cellulare  detto  peri- 
sperma o  endosperma,  ricco  di  materia  grassa  e  d'olio,  con  albume 
di  poca  consistenza,  e  con  qualche  cristallo  (drusa)  di  ossalato  di 
calcio  (2).  Il  germe  o  embrione,  assai  piccolo,  è  collocato  alla  estre- 
mità superiore  del  vinacciuolo,  colla  radichetta  verso  il  micropilo, 
siccome  accade  generalmente  nei  differenti  semi;  esso  ha  quindi  una 
direzione  opposta  alla  normale,  perchè  il  micropilo  è  alla  cima  del- 
l'ovulo, e  la  radichetta  si  deve  considerare  come  la  base  dell'embrione. 

L'embrione,  quando  è  completamente  sviluppato,  presenta  i  rudi- 
menti della  futura  pianta;  cioè  l'asse  (radichetta  e  fusticino  o  plu- 
mula),  i  cotiledoni  (prime  foglioline)  e  la  gemmula  mercè  cui  l'asse 
si  allunga  e  produce  le  prime  foglie  propriamente  dette.  Nella  fìg.  56 
pag.  156  abbiamo  disegnato  dal  vero  una  giovine  pianticina  colla 
radichetta,  Tasse,  le  due  foglie  cotiledonari  e  la  prima  foglia  regolare. 

Il  vinacciulo  non  contiene  amido;  invece  è  ricco  di  tannino,  il 
quale  si  trova  nell'epidermide  esterna,  nonché  nei  tessuti  della  pri- 
mina e  della  secondina:  la  quantità  di  tannino  si  può  calcolare  in 
media  al  5  0[q.  L'olio  sovraccennato  si  trova  nella  mandorla  secca 
nella  proporzione  del  15  0[Q'  è  un  olio  fìsso,  buono  per  gli  usi  in- 
dustriali. 

§  5.  Fisiologia  della  Vite.  Ora  che  conosciamo  la   struttura 
esterna  ed  interna    della    Vite,  dobbiamo  studiare  come  viva,  come 


(1)  Penzig:  loc.  cit.  pag.  171. 

(2)  Babo:  loc.  cit.  pag.  39. 


BOTANICA  DELLA  VITE  153 

fruttifichi    e    come    porti    i    suoi    frutti    a   quel    grado    di    matura- 
zione che  è  richiesto  dagli  usi  enologici  ed  alimentari,  questo  essendo 
l'obbiettivo  per  cui  si  coltiva  la  vite.  Tale  arduo  e  delicato  compito 
spetta  alla  fisiologia    vegetale;  vediamo    pertanto  quanto    ci  appren- 
dono sulla  importantissima  quistione  gli  studii   e  le    esperienze   fatti 
negli  scorsi  anni  dai  botanici  e  dai  viticultori  in  Italia,  in  Germania 
ed  in  Francia.  Divideremo  questo   paragrafo  in  varie    parti,  e  così: 
1°)  Germogliamento  dei  vinacciuoli; 
2°)  Respirazione  e  traspirazione  della  vite; 
3°)  Nutrizione  ed  accrescimento        » 
4°)  Vegetazione  » 

5°)  Fioritura  » 

6°)  Fruttificazione  » 

7°)  Maturazione  dell'uva; 
8°)  Longevità. 
1°)  Germogliamento  dei  vinacciuoli.  I  semi  della  vite,  come  ac- 
cade delle  sementi  in  generale,  non  possono  germogliare  se  non  sono 
posti  in  determinate  condizioni  di  umidità  e  di  calore;  questi  agenti, 
coadiuvati  dall'ossigeno  atmosferico,  il  quale  eccita  lo  sviluppo  del- 
l'embrione, come  dimostrò  Saussure,  provocano  1'  uscita  della  radi- 
chetta  e  della  plumula.  Si  può  asserire  che  la  germogliazione  avviene 
anche  in  piena  terra  per  tutti  i  semi  di  vite,  europea  o  americana, 
onde  non  è  indispensabile  apposito  germinatoio;  noi,  che  seminiamo 
viti  da  più  anni,  ne  abbiamo  sempre  fatto  senza. 

La  quantità  di  calore  di  cui  abbisognano  i  vinacciuoli  per  germo- 
gliare varia  a  seconda  dei  differenti  vitigni;  per  esempio  le  viti  Aesti- 
valis  e  Cinerea  richiedono  maggior  calore  che  non  le  V.  Riparia  e 
loro  derivati  (Clinton,  Taylor  e  Solonis);  queste  ultime  quindi  sono 
a  consigliarsi  pei  paesi  a  primavera  fredda,  mentre  le  prime  conviene 
coprirle  con  letame  paglioso  o  con  altro  corpo  coibente. 

L'umido  non  deve  essere  deficiente,  perchè  se  ciò  accade  l'acqua 
non  riesce  a  penetrare  a  traverso  il  duro  episperma,  e  quindi  il 
seme  non  si  gonfia,  non  si  ha  verun  movimento  nelle  cellule  germi- 
nali e  la  germogliazione  è  impossibile.  È  quello  che  accade  spesso, 
perchè  la  seminagione  della  vite  è  quasi  una  pratica  sconosciuta,  ed 
è  soltanto  dopo  l' introduzione  delle  viti  americane  quali  resistenti 
alla  fillossera,  che  si  fecero  al  riguardo  accurate  esperienze  (1). 


(1)  Dobbiamo  però  accennare  alle  numerose  seminagioni  fatte  dal   prefato  Ba- 


154  CAPITOLO  IV 


Per  dar  tempo  ai  vinacciuoli  di  provvedersi  della  quantità  di  ti- 
mido di  cui  abbisognano,  è  necessario  tenerli  durante  alcune  settimane 
stratificati  nella  sabbia  fina  ed  umida,  oppure  immergerli  nell'  acqua 
durante  quattro,  cinque  e  sino  otto  giorni.  Abbiamo  fatto  alcune 
esperienze  per  vedere  quale  influenza  può  esercitare  la  temperatura 
dell'acqua  sul  germogliamento,  nonché  il  miscuglio  d'acqua  e  soda  o 
urina.  Ecco  i  risultati: 

Vinacciuoli  (1)  immersi  per  24  ore  in  acqua  sem-  )  Germ0£iiarono 
plice,  tenuta  al  sole:  seminati  poi  in  terreno  assai  \      tutti, 
fertile,  e  coperti  con  3   centimetri  di   terriccio.    ) 

Vinacciuoli  tenuti  per  dodici  ore  in  acqua  calda  \  Qerm0o-iiar0I10 
a  40°  C  che  poi  si  lasciò   raffreddare   del  tutto:  >  y  quasi  tutti, 
seminati  come  sopra.  ) 

Vinacciuoli  tenuti  per  dodici  ore  in  acqua  e  )  Ne  germogliò  un 
soda  (acqua  quasi  satura).  )       quarto  circa. 

Vinacciuoli  tenuti  per  dodici  ore  in  acqua  ed  )  j^e  germogliò  la 
urina  di  cavallo  già  fermentata  (50  Ojo)-  >      metà. 

Non  è  adunque  necessario  tenere  i  vinacciuoli  durante  quattro  o  più 
giorni  nell'acqua,  se  questa  è  alquanto  riscaldata,  perchè  in  tal  caso 
agisce  più  prontamente  sull'involucro  dei  semi  stessi.  Al  capitolo  Se- 
minagione della  vite  entreremo  in  altri  dettagli  pratici,  che  qui 
sarebbero  fuor  di  luogo.  Soggiungeremo  soltanto  che,  sotterrato  il 
vinacciuolo,  dopo  un  tempo  più  o  meno  lungo  (talvolta  dopo  quattro 
mesi  e  talvolta  ancora  dopo  un  anno  se  difettano  l' umido  ed 
il  calore  e  se  si  tratta  di  semi  d' uve  americane)  esce  prima  la 
radichetta  e  poscia  il  fusticino,  con  due  foglie  cotiledonari  o  false- 
foglie,  onde  si  hanno  i  quattro  aspetti  indicati  dalle  figure  52,  53, 
54  e  55.  Nelle  fìg.  54  e  55  si  vede  spuntare  una  prima  foglia  rego- 
lare, che  è  poi  pienamente  sviluppata  nella  fig.  56  fra  le  due  cotile- 
donari: lateralmente  ad  essa  ne  spunta  tosto  una  seconda,  e  non 
tardano  pure  a  formarsi  le  gemme  laterali,  per  cui  la  pianticella 
prende  forma.  —  Nel  primo  periodo  la  pianta  germinale  vive  a  spese 
dell'endosperma  (pag.  152).  Ma  noi  abbiamo  visto  che  l'endosperma 


rone  Mendola  a  Favara  (Girgenti)  prima  ancora  dell'invasione  fillosserica:  perciò 
il  Mendola  ci  ha  apprese  molte  utili  nozioni  a  questo  riguardo. 
(1)  Scuppernong,  del  Sud  degli  Stati  Uniti  d'America. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


155 


del  vinacciuolo  contiene  specialmente  materie  grasse  ed  olio,  che  sono 
quasi  insolubili  od  intieramente  insolubili  nell'  acqua,    e    perciò    non 


J? 


Fig.  52. 


Fig.  53. 


Fig.  54. 


Fig.  55. 


potrebbero  servire  alla  nutrizione;  senonchè,  per  le  belle  esperienze 
di  Sachs  e  Fleury,  sappiamo  che  i  corpi  grassi    durante    il  germo- 


156 


CAPITOLO  IV 


gliamento  si  trasformano  quasi  totalmente  in  amido,  il  quale  alla 
sua  volta  si  cangia  in  destrina  (1)  e  zucchero  d'  uva,  cioè  in  so- 
stanze solubili  nell'acqua.  In  quanto  all'albume,  è  noto  che  gli  albu- 
minoidi  sono  generalmente  solubili  nell'acqua.  Questi  albuminoidi  sotto 


Fig.  56. 


l'azione  dell'  ossigeno  od  in  presenza  dell'  acqua  si  decompongono  e 
poscia  danno  origine  ai  così  detti  fermenti,  i  quali  agiscono  sul- 
l'amido e  lo  cangiano,  come  dicevamo,  in  destrina  e  zucchero.  Payen 
e  Persoz  hanno  sostenuto  invece  sin  dal  1883  che  nel  seme  germo- 
gliale si  trova  presso  Y  embrione  una  sostanza  azotata,  detta  dia- 


(1)  L'amido  esposto  per  qualche  ora  al  calore  di  un  forno  si  gonfia  e  si  muta 
in  una  sostanza  bruno-chiara  detta  destrina,  ed  in  commercio  gomma-britannica. 
Anche  gli  acidi  ed  i  fermenti  trasformano  l'amido  in  destrina. 


BOTANICA  DELLA  VITE  157 

siasi,  la  quale  provoca  la  trasformazione  dell'  amido  :  una  parte  di 
diastasi  può  trasformare  2000  parti  di  amido  prima  in  destrina  e 
poi  in  zucchero  (1). 

Durante  il  germogliamento  si  producono  acido  carbonico,  acido 
acetico  ed  acido  lattico,  oltre  a  traccie  di  ammoniaca  e  di  azoto:  una 
parte  dell'acido  carbonico  proviene,  secondo  alcuni  botanici,  da  una 
vera  fermentazione  alcoolica  dello  zucchero;  altro  diossido  carbonico 
proverrebbe  dalla  ossidazione  degli  albuminoidi.  Infine  non  vogliamo 
scordare  di  far  cenno  dello  sviluppo  di  calore  che  accompagna  sempre 
il  germogliamento,  e  che  è  dovuto  alle  azioni  chimiche,  fra  cui  so- 
vratutto  l'assorbimento  dell'acqua  e  l'assorbimento  dell'ossigeno. 

Ma  se  l'acqua  ha  grande  importanza  nel  primo  atto  del  germo- 
gliamento, cioè  nella  soluzione  delle  materie  nutritive  dei  cotiledoni, 
è  pure  indispensabile  quale  veicolo  di  queste  materie  stesse  a  prò 
della  radichetta,  indi  dell'  intera  pianticina,  la  qual  cosa  avviene  a 
traverso  il  tessuto  vascolare,  secondo  Herbert  Spencer. 

Crescendo  la  giovine  pianta  embrionale,  a  spese  dell'  endosperma, 
i  cotiledoni  escono  col  fusticino  dal  terreno  e  formano  le  due  prime 
foglie  (fig.  54)  che  già  chiamammo  cotiledonari.  A  queste  seguono 
le  vere  foglie  della  vite,  e  la  pianticella,  già  provvista  all'estremità 
della  radichetta  di  radici  penetranti  nel  suolo,  cessa  di  vivere  a  spese 
del  seme  (fig.  56). 

2°  Respirazione  e  traspirazione  della  vite.  La  vera  respi- 
razione vegetale,  nel  senso  della  respirazione  animale  (assorbimento 
di  ossigeno  ed  emissione  di  acido  carbonico)  avviene  solo  di  notte 
per  le  parti  verdi  delle  piante,  e  di  giorno  per  le  parti  non  verdi;  di 
giorno  nelle  parti  verdi  abbiamo  invece  un  fenomeno  inverso  (assor- 
bimento dell'acido  carbonico).  Questa  respirazione  diurna  —  o  piut- 
tosto assimilazione  —  avviene,  come  è  noto,  essenzialmente  per 
mezzo  delle  foglie,  ma  altresì  per  tutte  quelle  parti  verdi  (germogli) 
le  quali  sono  provviste  di  clorofilla  (pag.  135).  Essa  consiste  nel- 
l'assorbimento dell'acido  carbonico  dell'aria  e  nella  emissione  di  ossi- 
geno nonché  del  vapor  acqueo  esuberante;  il  tutto  sotto  l'azione  della 
luce  e  del  calore  solari.  Questo  ossigeno  deriva  dalla  riduzione  dell'a- 
cido carbonico  e  del  vapor  acqueo,  locchè  accade  appunto  nei  granuli  di 


(1)  Johnson  op.  cit.  pag.  345  e  346:  «  Non  è  ancora  stato  spiegato  con  cer- 
tezza in  qual  maniera  la  diastasi  ed  altre  simili  sostanze,  cagionino  le  modificazioni 
descritte  ». 


158  CAPITOLO  IV 


clorofilla.  Le  foglie  trattengono  quindi  carbonio,  che  proviene  dal- 
l'acido carbonico,  non  che  idrogeno,  il  quale  invece  è  proveniente 
dall'acqua  (1). 

La  clorofilla  non  può  assolutamente  agire  senza  la  luce  solare  (2); 
anzi  senza  la  luce  non  si  formerebbero  neppure  i  granuli  di  essa, 
come  hanno  dimostrato  Sachs  e  Mayer.  Una  pianta  di  vite  (come 
qualsiasi  altro  vegetabile,  fatta  eccezione  pei  funghi  (3)  )  qualora  te- 
nuta per  un  certo  tempo  al  buio,  perirebbe  sicuramente,  perchè  si 
decomporrebbero  i  granuli  di  clorofilla  e  scomparirebbero,  onde  non 
sarebbe  più  possibile  la  respirazione. 

La  formazione  della  clorofilla  è  eziandio  influenzata  dal  calore; 
noi  non  sappiamo  quale  sia,  per  la  vite,  il  limite  minimo  di  calore 
sotto  il  quale  più  non  si  forma  clorofilla  sappiamo:  solo  che,  in  ge- 
nerale, una  temperatura  di  35°  rappresenta  il  limite  massimo  favo- 
revole a  quella  produzione  fWiesner).  Fino  a  35°  la  rapidità  con 
cui  formansi  i  granuli  di  clorofilla  cresce  col  crescere  della  tempe- 
ratura :  oltre  questo  limite  la  clorofilla  finisce  col  non  più  formarsi. 

Quelle  parti  della  vite  le  quali  non  sono  clorofillate,  ci  danno 
una  prova  evidente  dell'importanza  M  questa  sostanza  verde  nei  pro- 
cessi di  elaborazione  ed  assimilazione  :  infatti  i  fiori,  e  specialmente 
gli  stami,  appunto  siccome  parti  non  clorofillate,  assorbono  ossigeno 
ed  emettono  acido  carbonico;  e  gli  acini  dell'  uva  in  maturazione, 
quando  hanno  perduto  il  loro  colore  verde  e  quindi  la  clorofilla,  in- 
vece di  ridurre  l'acido  carbonico,  siccome  dicemmo  or  ora,  esalando 
ossigeno  ed  assimilando  carbonio,  assorbono  invece  essi  pure  1'  ossi- 
geno dell'aria  ed  emettono  acido  cai  bonico  e  vapore  acqueo;  la  ma- 
turazione dell'uva  è  quindi  una  vera  ossidazione,  la  quale  continua 
anche  dopo  che  il  grappolo  è  stato  distaccato  dal  tralcio. 


(1)  Per  chi  non  lo  sapesse,  diremo  che  l'acido  carbonico  o  diossido  di  carbonio 
si  compone  di  carbonio  ed  ossigeno  (  C  O2  )  —  e  l'acqua  di  idrogeno  ed  ossigeno 
(  H2  0  ).  La  metà  circa  del  peso  della  materia  secca  delle  piante  è  costituita  da 
carbonio  (Sachs). 

(2)  Gli  è  sotto  l' influenza  della  luce  bianca,  cioè  della  luce  solare  non  iscom- 
posta,  che  la  formazione  della  clorofilla  raggiunge  il  suo  massimo.  (È  noto  che  la 
luce  solare  può  scomporsi,  col  prisma  triangolare  di  cristallo,  in  sette  colori  diversi). 

(3)  I  funghi  costituiscono  la  classe  dei  vegetali  senza  clorofilla,  i  quali  perciò 
appunto  non  possono  elaborare  materiali,  cioè  produrre  composti  organici  (cellu- 
losa, amido,  glucosio  ecc.):  essi  quindi,  come  gli  animali,  debbono  vivere  a  spese 
delle  sostanze  organiche  già  elaborate  da  vegetali  clorofillati.  Fra  questi  ultimi 
la  Vite  occupa  un  posto  importantissimo. 


BOTANICA  DELLA  VITE  159 


Inoltre  è  noto  che  di  notte,  quando,  mancando  la  luce,  cessa  il 
lavoro  di  elaborazione  della  clorofilla,  le  piante  assorbono  ossigeno, 
ed  emettono  acido  carbonico  ed  acqua. 

Ma  le  foglie  non  servono  solo  alla  respirazione;  per  loro  mezzo  si 
compie,  come  abbiamo  già  accennato,  la  traspirazione,  che  è  quella 
funzione  importantissima  per  cui  la  pianta  dalle  cellule  dell'epidermide 
e  dagli  stomi  (pag.  132)  perde  sotto  forma  di  vapore,  l'acqua  che  le 
riesce  esuberante  (circa  i  due  terzi  della  quantità  assorbita).  Nello 
stesso  tempo,  penetrando  nuova  acqua  dalle  radici,  penetrano  pure 
le  materie  saline  dal  terreno,  d'onde  il  legame  che  passa  tra  la  tra- 
spirazione e  lo  sviluppo  vegetale.  Cotale  esalazione  non  può  avve- 
nire senza  il  calore  e  la  luce  del  sole,  ed  è  molto  maggiore  se  la 
luce  è  viva  e  l'aria  secca,  mentre  diminuisce  d'assai  e  può  anche 
cessare  se  l'aria  è  umida,  come  ad  esempio  accade  durante  un  tempo 
piovoso. 

Se  la  traspirazione  fa  rapidamente  perdere  alla  pianta  una  quantità 
d'acqua  maggiore  di  quella  assorbita  dalle  radici,  la  pianta  stessa  ne 
soffre  e  può  essicarsi;  ma  in  condizioni  normali  è  funzione  assai  im- 
portante, come  quella  che  dà  sfogo  all'acqua  esuberante  della  linfa 
ascendente,  ricca  di  materiali  utili  provenienti  dal  terreno;  anzi,  se- 
condo le  recenti  esperienze  del  prof.  Bóhm  (1)  la  evaporazione  a 
traverso  gli  stomi  delle  foglie,  sarebbe  la  causa  principale  dell'ascen- 
sione del  succo,  coadiuvata  però  dalla  pressione  dell'aria  e  dalla  e- 
lasticità  delle  pareti  delle  cellule.  Gli  ultimi  studii  sulla  traspirazione 
hanno  provato,  in  modo  non  dubbio,  che  essa  è  debolissima  all'om- 
bra, quasi  nulla  durante  la  notte,  mentre  è  attivissima  se  la  luce  so- 
lare è  viva,  e  questo  indipendentemente  dal  calore. 

Infine  non  vogliamo  scordare  di  dire  che  la  vite,  come  tutte  le 
altre  piante,  evapora  acqua,  così  come  farebbe  se  fosse  morta  e 
come  fa  ad  esempio  il  terreno;  questa  evaporazione  è  adunque  un  fe- 
nomeno puramente  fisico,  mentre  l'anzidetta  traspirazione  è  un  vero 
fenomeno  fisiologico  ben  diverso.  Infatti  la  vite  evapora  anche  al 
buio,  cioè  tanto  di  notte  quanto  di  giorno,  più  o  meno  secondo  la  tem- 
peratura e  l'umidità  dell'aria;  invece  essa  non  traspira  che  alla  luce. 

Per  dare  una  idea  della  quantità  d'acqua  consumata  giornalmente 
dalla  vite,  riferiremo  qui  una  tabella  comparativa  di  E.  Risler: 


(1)  A.  Levi.  (L'Actimometro  Arago-Davy)  Rivista  di   Vit,  ed  En.  di  Conegliano 
1879  pag.  68. 


160 

CAPITOLO 

IV 

Media 

diurna 

millimetri  d'acqua 

Erba  medica 

da  3,4  a  7,0 

Prati  naturali 

da  3,1  a  7,3 

Avena 

da  2,9  a  4,9 

Fave 

più  di  3,0 

Granturco 

da  2,8  a  4,0 

Frumento 

da  2,7  a  2,8 

Trifoglio 

più  di  2,9 

Segale 

»     2,3 

Vite 

da  0,9  a  1,3 

Patate 

da  0,7  a  1,4 

Pino 

da  0,5  a  1,1 

Quercia 

da  0,5  a  0,8 

La  vite  adunque  esige  assai  meno  acqua  delle  piante  foraggiere 
e  delle  cereali,  ed  invero  tutti  sanno  che  anche  in  terreni  aridissimi 
e  quando  l'annata  trascorre  assai  asciutta  il  raccolto  può  essere  ot- 
timo e  quasi  sempre  anche  abbondante,  mentre  nelle  condizioni  op- 
poste è  mediocre  e  generalmente  scarso. 

3°  Nutrizione  ed  accrescimento  della  vite.  —  Gli  organi  del- 
l'alimentazione delle  piante  sono,  come  è  noto,  le  radichette  e  le  fo- 
glie. Tutte  le  piante  sono  composte  di  sostanze  fisse  (ceneri)  e  di 
sostanze  combustibili  o  volatili  (gaz);  le  prime  vengono  tutte  dal 
suolo  per  mezzo  appunto  delle  radichette,  le  seconde  quasi  tutte 
dall'aria  e  dall'acqua  mercè   le  foglie. 

Sostanze  fisse  Sostanze  volatili 

Potassio    \   Solfati  Carbonio 


dall'aria 
e 


Calcio        !   Fosfati  Ossigeno 

Magnesio      Nitrati  Idrogeno  , 

Ferro         )■  Cloruri  Azoto  (1)  )   dal1  acqua 

Oltre  ad  altre  di  importanza  Azoto  ) 

secondaria.  Zolfo  >   dal  suolo 

Fosforo 


(l)  L'azoto  (o  nitrogeno)  che  si  trova  nell'aria  in  piccolissima  quantità  sotto 
forma  di  ammoniaca  (carbonato  ammonico)  è  assimilato  di  giorno  e  di  notte  dalle 
parti  verdi  della  pianta,  e  specialmente  dalle  foglie,  come  hanno  dimostrato  in 
modo  evidente  A.  Stóckhardt  (1859),  A.  Selmi  (1864),  Th.  Schlocsling  e  A.  Ma- 
yer  (1874). 


BOTANICA  DELLA  VITE  161 

I  sali  nutritivi  sono  assorbiti,  come  già  si  disse  a  pag.  87,  mercè 
la  parte  tenera  e  biancastra  delle  radichette;  ed  essendo  sciolti  nel- 
l'acqua (che  la  vite  prende  quasi  totalmente  dal  suolo)  si  innal- 
zano nel  fusto  a  traverso  il  corpo  legnoso,  costituendo  la  così 
detta  linfa  ascendente  o  succo  greggio.  L' acqua  è  il  principale 
ingrediente  di  questo  succo,  mentre  i  sali  vi  sono  sempre  contenuti 
in  piccole  quantità.  Nel  suo  tragitto  la  linfa  si  arricchisce  anche  di 
materiali  utili,  che  trova  nell'interno  del  legno  della  vite  serbati  dal- 
l'anno antecedente,  e  giunge  infine  alle  foglie. 

Nelle  foglie,  che  sono  il  vero  laboratorio  della  pianta,  queste  so- 
stanze, unitamente  al  carbonio  all'idrogeno  ed  all'azoto  tolti  all'aria, 
danno  origine  alla  materia  organica  (1);  sono  le  cellule  provviste 
di  clorofilla  che  compiono  questa  importantissima  elaborazione. 

Le  materie  organiche,  dette  anche  principii  immediati,  costitui- 
scono la  parte  essenziale  dell'organismo  ed  esse  sole  possono  costi- 
tuire organi  vitali,  diventando  allora  materie  organizzate;  le  prin- 
cipali materie  organiche  sono  l'amido,  lo  zucchero,  le  sostanze  albu- 
minoidi  (azotate  o  proteiche)  le  sostanze  coloranti,  gli  acidi  vegetali, 
il  tannino,  i  corpi  grassi,  gli  olii,  nonché  il  pectosio  (polpa  e  gelatina 
delle  frutta). 

II  succo  ascendente  così  elaborato,  scende  poscia  dalle  foglie  e, 
come  suol  dirsi,  emigra  verso  i  frutti  ossia  gli  acini,  nonché  verso 
tutti  gli  organi  attivi  della  pianta  sino  alle  radici,  a  traverso  la  zona 
generatrice  di  cui  abbiamo  parlato  a  pag.  121,  cangiandosi  insensi- 
bilmente in  legno  ed  in  libro,  vale  a  dire  cooperando  al  lavoro  di 
organizzazione  dei  tessuti  della  vite.  Questo  succo  elaborato  suole 
chiamarsi  linfa  discendente. 

La  materia  organica  si  forma  quindi  da  materiali  ino'rg anici  e- 
sclusivamente  nei  vegetali  provvisti  di  clorofilla,  fra  i  quali  la  vite  oc- 
cupa un  posto  importante:  i  vegetali  non  clorofillati  e  gli  animali 
distruggono  invece  la  materia  organica  rilucendola  alle  materie  inor- 
ganiche di  cui  era  composta;  ma  i  vegetali  con  queste  materie  prime 


(1)  «  È  usuale,  tra  gli  scrittori  d'agricoltura,  di  limitare  l'espressione  organico 
alla  porzione  volatile  ed  apparentemente  distruttibile  dei  corpi  vegetali  ed  animali, 
e  di  chiamare  inorganici  gli  ingredienti  della  loro  cenere.  Un  simile  uso  di  pa- 
role è  pochissimo  corretto.  Quello  che  si  trova  nelle  ceneri  di  un  albero  o  di  un 
seme,  essendo  una  parte  essenziale  dell'organismo,  è  tanto  organico  quanto  la 
parte  volatile.  »  Così  Johnson  (op.  cit.  p.  16)  —  Soggiungeremo  pertanto  che 
anche  il  carbonio,  l'acqua,  l'ammoniaca  ecc.  sono  elementi  inorganici. 

0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura.  12 


162  CAPITOLO  IV 


ricompongono  nuove  sostanze  organiche,  ed  ecco  il  ciclo  che  percorre 
la  materia  passando  dal  vegetale  all'animale. 

Come  avvenga  che  nel  protoplasma  clorofillato  delle  foglie  si  formi 
la  materia  organica  non  fu  tuttora  spiegato  in  modo  soddisfacente; 
solo  è  noto  qual'  è  la  prima  sostanza  che  in  esso  si  forma,  nel  caso 
speciale  della  vite.  Gli  studii  relativi  a  questo  importantante  oggetto 
si  debbono  anzitutto  a  Sachs,  Molli,  Kramer  ecc.  e  poscia  a  Briosi, 
Penzig,  Mùller,  Cuboni  ed  altri  esperimentatori.  Sachs  sostenne 
con  molti  altri  illustri  botanici,  che  il  primo  prodotto  organico  che 
si  forma  nelle  foglie  di  vite  sotto  1'  azione  dei  granuli  di  clorofilla, 
si  è  V amido,  dal  quale  poi  deriverebbero  lo  zucchero,  la  destrina, 
la  cellulosa,  le  materie  grasse  ecc.  ecc.  (1),  tutte  sostanze  le  quali 
in  complesso  costituiscono  circa  i  7[8  della  sostanza  secca  della 
pianta. 

Invece  Briosi  (1872  e  1878)  e  più  tardi  Penzig  (1882)  osserva- 
rono che  nei  grani  di  clorofilla  delle  foglie  di  vite  non  si  trova  amido, 
ma  bensì  tannino  ed  in  abbondanza  (2).  Senonchè  il  Dott.  Cuboni, 
prendendo  le  mosse  dalle  osservazioni  fatte  al  Briosi  dal  Dott.  Mùller- 
Thurgau  in  una  sua  conferenza  tenuta  nel  1881  a  Geisenheim,  riu- 
sciva molto  abilmente  a  mettere  d'  accordo  questi  risultati  apparen- 
temente cotanto  contradditorii.  Il  Cuboni  ripeteva  infatti  le  espe- 
rienze del  Mùller,  seguendo  anche  nella  ricerca  dell'amido  lo  stesso 
procedimento  tenuto  da  lui:  è  bene  citare  testualmente.  «  Egli  opera  a 
questo  modo  :  tratta  la  foglia  con  alcool  per  allontanare  il  color  verde, 
lascia  la  foglia  per  lungo  tempo  in  una  soluzione  di  potassa  e  poscia  la 
tratta  colla  soluzione  di  iodio.  Esaminando  a  questo  modo  una  foglia 
immediatamente  dopo  che  è  stata  per  qualche  tempo  sotto  l'azione  della 
luce  diretta,  comparisce  un  bellissimo  color  violetto  caratteristico  dell'a- 
mido; se  invece  la  foglia  esaminata  è  rimasta  per  qualche  tempo 
fuori  della  luce  diretta,  il  color  violetto  non  si  manifesta  più.  » 


(1)  Queste  sostanze  sono  dette  idrati  di  carbonio  perchè  risultano  dalla 
combinazione  del  carbonio  coli'  idrogeno  e  l' ossigeno,  nelle  stesse  proporzioni, 
questi  ultimi,  in  cui  trovansi  nell'  acqua:  popolarmente  si  potrebbe  dire  che  gli 
idrati  carbonici  sono  combinazioni  di  carbonio  con  acqua. 

(2)  Il  tannino,  detto  anche  acido  tannico,  benché  assai  debolmente  acido,  venne 
considerato  sino  a  questi  ultimi  te  mpi  come  un  glucoside,  perchè  capace  di  sdop- 
piarsi in  glucosio  ed  acido  gallico.  Ma  dietro  le  ricerche  accurate  di  Ugo  Schifi' 
si  deve  oggi  ritenerlo  come  acido  digallico.  Il  tannino  è  esso  pure  composto  di 
carbonio,  idrogeno  ed  ossigeno. 


BOTANICA  DELLA  VITE  163 

«  Ora  tutto  ciò  è  verissimo,  e  Mùller-Thurgau  ha  ragione;  le  cen- 
tinaia di  esperienze  da  me  fatte  negli  scorsi  mesi  (1883)  me  lo  hanno 
perfettamente  confermato.  Anzi  nel  dubbio  che  il  color  violetto,  che  la 
tintura  di  iodio  genera  in  queste  foglie,  fosse  determinato  non  già 
dall'amido  esistente  nei  granuli  di  clorofilla,  ma  dalla  cellulosa  mo- 
dificata forse  dall'azione  della  potassa,  ho  voluto  escludere  quest'al- 
cali troppo  energico.  Dopo  parecchi  tentativi  ho  trovato  che  per  ren- 
dere la  soluzione  di  iodio  penetrabile  nella  foglia,  e  quindi  capace 
di  determinare  la  reazione  sia  sulle  cellule  della  zona  spungosa  che 
della  cosidetta  palizzata,  si  presta  benissimo  il  sapone  di  colofonio, 
suggeritomi  dal  mio  collega  Prof.  Comboni.  Le  foglie  di  vite  scolo- 
rate coll'alcool  ed  immerse  per  qualche  minuto  in  una  soluzione  calda 
di  colofonio,  trattate  colla  tintura  di  iodio,  si  colorano  in  violetto. 

«  Non  vi  è  dubbio  quindi,  secondo  me,  che  anche  nella  vite  il  primo 
prodotto  dell'  assimilazione,  almeno  quello  osservabile  microscopica- 
mente, è  1'  amido,  ed  il  Mùller-Thurgau  ha  il  merito  di  averlo  per 
primo  dimostrato. 

«  Restava  una  difficoltà:  come  spiegare  l'asserzione  contraria  di 
microscopisti  così  valenti  come  il  Briosi  ed  il  Penzig? 

«  Le  ulteriori  esperienze  lo  chiarirono  nettamente,  dimostrando  che 
l'amido  formato  nelle  foglie  di  vite  sotto  l'influenza  diretta  dei  raggi 
solari  scomparisce  con  istraordinaria  rapidità  durante  la  notte,  ov- 
vero anche  nel  giorno  stesso  quando  la  foglia  rimanga  per  un  certo 
tempo  sottratta  all'azione  diretta  dei  raggi  solari.  Per  questo  riguardo 
le  foglie  della  vite  presentano  una  serie  di  fenomeni  notevolissimi, 
mostrandosi  sensibili  alla  luce  in  un  grado  molto  maggiore  di  quello 
che  finora  si  conoscesse  per  le  piante  superiori  (1).  Mi  limiterò  qui 
a  riferire  i  risultati  principali  delle  mie  osservazioni  fatte  nei  mesi 
di  giugno,  luglio,  agosto,  settembre  ed  ottobre  di  quest'anno  (1883): 

1.  Le  foglie  di  vite  raccolte  prima  della  levata  del  sole  o  prima 
che  il  sole  le  abbia  colpite  coi  suoi  raggi  si  mostrano  prive  quasi 
totalmente  d'amido; 

2.  Le  foglie  raccolte  in  un  giorno  piovoso  od  anche  soltanto 
nebuloso  non  contengono  amido;  ugualmente  non  contengono  amido, 
ovvero  ne  contengono    piccolissima    quantità,    le  foglie    rimaste  alla 


(1)  Vedi  Pfeffer,  Pflanzen  Physiologie,  Band  1,  pag.  191,  e  la  monografia  di 
Ugo  de  Vries  «  Wachstumgeschichte  der  Kartoffelplanzen  (Landw.  Jahrbucher 
1878,  pag.  591).  » 


164  CAPITOLO  IV 


luce  diffusa    o  all'  ombra,    ma  non    colpite   direttamente   dai   raggi 
solari. 

3.  Nelle  foglie  esposte  direttamente  al  sole  nelle  calde  giornate 
d'estate  l'amido  si  forma  in  grande  quantità  ed  in  poco  tempo:  basta 
tenere  esposta  la  foglia  ai  raggi  del  sole  per  un  paio  d'  ore  per 
ottenere  colla  tintura  di  iodio  una  intensa  colorazione  violetta. 

Un'  elegante  dimostrazione  dell'  influenza  della  luce  nella  genesi 
dell'amido  si  ha  ricoprendo  le  foglie  con  stagnola,  lasciandone  sco- 
perta qualche  porzione  circoscritta;  l'amido  allora  non  si  forma  che 
nei  punti  scoperti.  Se  sopra  la  stagnola,  con  la  quale  si  ricopre  le 
foglie  vi  si  intagliano  alcune  lettere  o  parole,  quando  si  va  a  trat- 
tare queste  foglie  colla  tintura  di  iodio,  si  ottiene  una  riproduzione 
esattissima  delle  medesime  lettere  o  parole  colorate  in  violetto,  con 
contorni  così  precisi  e  distinti  come  se  fossero  state  formate  con  un 
pennello. 

«  L'esperienza  riesce  meglio  nelle  foglie  giovani  che  nelle  vecchie, 
nelle  quali  è  evidente  che  il  processo  di  assimilazione  procede  con 
minor  energia. 

«  Così  pure  da  queste  esperienze  è  risultato  evidente  che  la  colo- 
razione violetta  (e  quindi  la  formazione  dell'amido)  riesce  tanto  più 
intensa  ed  omogenea,  non  solamente  quanto  più  intensa  e  di  maggior 
durata  è  stata  l'energia  dei  raggi  luminosi,  ma  anche  quanto  più 
alta  è  la  temperatura  dell'aria.  Le  condizioni  precise  secondo  le  quali 
il  fenomeno  varia  rispetto  a  questi  due  agenti  luce  e  calore,  non  le 
ho  finora  studiate,  ma  non  sarà  inutile  ricordare  che  ho  potuto  con- 
statare formazione  d'amido  nelle  foglie  di  vite  fino  al  giorno  21  no- 
vembre, nel  quale  giorno  un  termometro  esposto  al  sole  vicino  alla 
foglia  sperimentata  segnava  17°;  nei  giorni  successivi  invece  non  mi 
riuscì  più  di  constatare  formazione  di  amido  sebbene  il  cielo  fosse 
sereno,  ma  in  questi  giorni  il  termometro  non  si  elevò  sopra  13°. 

Non  ho  bisogno  di  far  notare  quanto  V  esatta  investigazione  di 
tutte  le  circostanze  che  valgono  a  favorire  o  a  rallentare  la  forma- 
zione dell'amido  interessi  il  fisiologo  non  solo,  ma  abbia  anche  una 
importanza  grandissima  nella  pratica.  Giacche  è  questo  amido  che 
convertito  in  zucchero  emigra  dalla  foglia  e  va  ad  immagazzinarsi 
nell'acino.  »  (1). 

Soggiungeremo  che    l' amido  non    solo  si    muta  in    zucchero,   ma 


(1)  Rivista  di  Yitic.  ed  Enol.  di  Conegliano,  N.  23  e  24  dicembre  1883. 


BOTANICA  DELLA  VITE  165 

compie  nella  vegetazione  della  vite  importanti  funzioni.  Anzitutto 
coopera  alla  formazione  di  nuove  cellule  e  di  nuovi  organi;  inoltre 
si  accumula  nel  legno,  e  già  vedemmo  che  le  gemme  sono  poste  so- 
pra una  specie  di  mensoletta  contenente  materia  amidacea  in  cui  il 
tenero  germoglio  trova  il  suo  primo  alimento  sinché  non  abbia  messo 
le  foglie.  Infine  si  può  ritenere  che  dall'  amido  prendano  origine  i 
diversi  acidi  organici  (malico,  tartrico,  ossalico,  succinico,  ecc.)  delle 
foglie  e  delle  uve  immature,  nonché  la  cellulosa,  le  sostanze  grasse 
ed  altre  sovra  accennate. 

Ma,  come  dicemmo,  il  lavorìo  delle  foglie  è  coadiuvato  dalla 
funzione  assorbente  che  esercitano  le  radici.  Già  sappiamo  che  sol- 
tanto la  parte  giovine  della  radice  è  adattata  ad  assorbire  nutrimento, 
inquantochè  le  parti  vecchie  sono  rivestite  da  un  inviluppo  soveroso 
impenetrabile.  Da  ciò  ne  segue  che  la  vite,  per  prosperare,  deve  for- 
mare continuamente  nuove  radici;  ora,  quanto  più  noi  favoriremo 
questa  formazione,  tanto  più  facilmente  la  pianta  compirà  le  sue  fun- 
zioni fisiologiche,  e  tanto  più  a  lungo  noi  possederemo  un  ceppo 
robusto. 

In  base  a  questi  principii  il  Dr.  Mùller  Thurgau  si  diede  a  ricer- 
care —  nel  1873  —  quali  fossero  gli  agenti  che  esercitavano  una 
influenza  favorevole  sulle  radici  della  vite,  cioè  sul  loro  accresci- 
mento e  sulla  loro  attività.  Le  sue  ricerche,  di  cui  diremo  or' ora, 
sono  basate  sulle  seguenti  considerazioni:  —  Acciò  una  radice  possa 
crescere,  gli  sono  necessarii  dei  materiali  adattati;  ora  i  materiali  che 
essa  prende  dal  suolo  non  servono  a  quello  scopo,  imperocché  sono 
unicamente  sali  inorganici,  i  quali  dapprima  vogliono  essere  elabo- 
rati. Come  tutte  le  parti  del  vegetabile,  anche  la  crescente  punta 
della  radice  è  composta  da  numerose  cellule  ognuna  delle  quali  pre- 
senta essenzialmente  due  parti,  cioè  la  parete  cellulare  o  cellulosa, 
ed  il  contenuto,  detto,  come  già  sappiamo, protoplasma,  che  è  spesso 
di  consistenza  granulosa  e  più  o  meno  liquido  (filante).  Il  protoplasma 
è  la  parte  essenziale  e  vivente  della  cellula;  provvede  alle  funzioni 
di  questa,  costruisce  nuove  pareti  cellulari  e  nuove  cellule;  ed  in  que- 
sto modo  permette  l'accrescimento  della  radice.  Per  molte  cellule  è 
facile  convincersi  della  vitalità  del  protoplasma  quando  lo  si  osserva 
in  movimento  automatico  attorno  alla  parete  cellulare.  Noi  possiamo 
adunque  paragonare  la  parte  crescente  delle  radici  ad  un  immenso 
fabbricato:  in  ognuna  delle  sue  numerosissime  camere  sta  un  infati- 
cabile lavoratore,  il  protoplasma;  le  pareti  delle  camere  noi  le  chia- 


166  CAPITOLO  IV 


miamo  pareli  cellulari.  Ora  le  pareti  cellulari  sono  composte  di  cel- 
lulosa, mentre  il  protoplasma  consiste  di  sostanze  albuminoidi. 

Abbiamo  già  detto  che  il  materiale  principale  per  la  formazione 
della  parete  cellulare,  è  preparato  nelle  foglie  verdi  sotto  l'influsso 
della  luce  e  del  calore:  esso  è  l'amido,  il  quale  è  formato  da  acido 
carbonico  ed  acqua.  L'acido  carbonico  passa  direttamente  dall'aria  nelle 
foglie,  l'acqua  è  quivi  diretta  per  mezzo  delle  radici  e  del  fusto,  e 
viene  dal  suolo.  L'amido  formatosi  e  poscia  trasformato  in  zucchero 
ed  emigra  dalle  foglie  nelle  differenti  parti  crescenti  della  pianta,  e 
così  anche  nella  parte  crescente  delle  radici.  Or  quivi  lo  zucchero  è 
utilizzato  alla  costruzione  di  nuove  pareti  cellulari.  Amido,  zucchero  e 
cellulosa  hanno  la  stessa  composizione  chimica;  essi  consistono  di  car- 
bonio, ossigeno  ed  idrogeno;  queste  tre  sostanze  appartengono  agli 
idrati  di  carbonio  (pag.  162).  Abbiamo  dunque: 

Acido  carbonico   ,    J  ^    .  r  Amido,  zucchero,  cellulosa 

Acqua TdS  i        (Idrati  di  carbonio) 

Ma  acciò  possa  formarsi  la  parte  più  importante  della  cellula,  il 
protoplasma,  la  pianta  deve  produrre  albumina. 

Essa  abbisogna  perciò  d'  un  idrato  di  carbonio,  ed  inoltre  di  a- 
zoto  sotto  forma  d'un  sale  ammoniacale  o  nitrico. 

('    Carbonio   ] 
Idrato  di  carbonio    <    Ossigeno   f  _,     .  ,,       .     .,.  ' . 

f    Idrogeno    ì  Costanze  albuminoidi,  protoplasma 

Sale  azotato  .....  Azoto        ) 

Gli  idrati  di  carbonio  (ossia  l'amido)  come  venne  indicato,  son  for- 
mati nelle  foglie  verdi;  per  contro,  dove  s'originino  le  sostanze  al- 
buminoidi fin  qui  non  era  stato  messo  in  sodo.  Ora,  le  ricerche  del 
Dr.  Mùller  formano  una  contribuzione  alla  soluzione  del  quesito  «  se 
presso  le  piante  li  organizzazione  superiore  le  sostanze  albuminoidi 
sian  formate  ugualmente  soltanto  nelle  foglie,  oppure  se  la  forma- 
zione di  questo  importante  principio  costitutivo  possa  aver  luogo  an- 
che in  altre  parti  della  pianta,  per  esempio  nelle  radici,  quando  le 
medesime  abbiano  a  loro  disposizione  un  idrato  di  carbonio  ed  un 
sale  azotato  ». 

Ad  alcune  giovani  piante  di  semi  di  maiz,  di  frumento,    di   fave, 


BOTANICA  DELLA  VITE  167 


ecc.  allevate  nell'acqua  distillata,  furori  tolte  tutte  quante  le  radici 
lasciandone  loro  soltanto  due  di  uguale  lunghezza:  lo  stesso  venne 
fatto  con  maglioli  di  vite  che  avevano  vegetato  nell'acqua  distillata. 
Ognuna  delle  pianticelle  così  preparata,  venne  allora  collocata  sopra 
due  recipienti  posti  uno  accanto  all'altro,  però  in  modo  tale  che  ca- 
duna  delle  due  radici  pescasse  in  altro  vaso.  In  uno  de'  vasi  tro- 
vavasi  una  completa  soluzione  nutritiva  (acqua  distillata  coi  sali  ne- 
cessarii  alla  nutrizione),  e  nell'altro  la  medesima  soluzione  privata 
però  dei  sali  azotati. 

Ora  se  l'azoto,  per  formare  con  un  idrato  di  carbonio  l'albumina, 
deve  passare  nelle  foglie,  vuol  dire  che  allora  le  sostanze  azotate 
di  nuova  formazione  devono  anzitutto  andare  dalle  foglie  alle  radici, 
e  non  v'ha  alcuna  ragione  perchè  l'una  delle  radici  ne  riceva  più 
dell'altra:  mostreranno  tutt'e  due  un  accrescimento  ugualmente  forte. 
Per  contro,  se  la  cosa  si  passa  diversamente,  cioè  se  anche  le 
cellule  delle  radici  possono  esse  stesse  preparare  sostanze  azotate, 
allora  la  radice  che  si  trova  nella  soluzione  azotata  dovrà,  mercè 
lo  zucchero  che  proviene  dalle  foglie  e  l'azoto  assorbito  direttamente, 
formare  sostanze  albuminoidi  ed  essere  ricca  di  protoplasma.  L'altra 
radice  invece,  che  si  trova  in  una  soluzione  sprovvista  di  azoto,  ri- 
ceverà bensi  abbastanza  di  zucchero  dalle  foglie,  ma  le  mancherà 
l'azoto  necessario  alla  formazione  del  protoplasma:  essa  dovrà  pren- 
dere questo  azoto,  o  sotto  forma  di  albumina  già  preparata  o  sotto 
forma  di  sali  azotati,  dai  fusti  e  dalle  foglie,  oppure  dalle  altre  ra- 
dici. Dovrà  quindi  essere  più  povera  di  protoplasma  che  non  la  ra- 
dice che  si  trova  nella  soluzione  contenente  azoto,  e  perciò  crescerà 
anche  meno  rapidamente. 

Or  bene,  le  numerose  ricerche  del  dott.  Mùller-Thurgau  hanno  di- 
mostrato realmente  una  tale  differenza  nell'accrescimento  delle  due 
radici,  e  con  ciò  hanno  pure  dimostrato  la  verità  della  suesposta  dot- 
trina, cioè  che  anche  le  radici  possoìio  usuf ruttar  e  V  azoto  che  è 
posto  esteriormente  a  loro  disposizione,  e  così  formare  albumina. 

Per  avere  la  sicurezza  che  nessuna  altra  causa  potesse  aver  provo- 
cato un  più  rapido  sviluppo  di  una  delle  radici  (locchè  del  resto  era 
già  stato  escluso  dal  grande  numero  delle  ricerche),  la  soluzione,  in 
molte  esperienze,  venne  cangiata  di  tempo  in  tempo,  cosicché  la  ra- 
dice, la  quale  da  principio  si  trovava  in  una  soluzione  azotata,  ve- 
niva posta  in  una  soluzione  priva  d'azoto,  e  l'altra  invece,  durante 
questo  frattempo,  pescava  in  soluzione  azotata.  Ma  sempre  accadde 


168  CAPITOLO  IV 


che  la  radice  la  quale  pescava  direttamente  nella  soluzione  azotata, 
mostrava   quell'abbondante  accrescimento. 

Queste  ricerche  furono  condotte  a  termine  in  ugual  modo  tanto 
nella  sabbia  che  nella  terra,  e  diedero  gli  stessi  resultati. 

Il  Dr.  Mùller-Thurgau  al  Congresso  viticolo  di  Coblenza  (Settembre 
1879)  fece  andar  in  giro  fra  i  congregati  un  certo  numero  di  piante 
coltivate  nel  suddetto  modo:  il  più  forte  sviluppo  dei  sistemi  radi- 
cali cresciuti  in  soluzioni  azotate  fu  facilmente  riconosciuto  da  ognuno. 

La  differenza  era  specialmente  spiccata  pel  numero  delle  radici 
secondarie  (capell amento)  le  quali  erano  molto  più  fitte;  esse  erano 
poi  anche  più  sviluppate.  Per  esempio  in  due  radici  di  viti  cresciute 
in  soluzione  azotata,  si  vedevano  numerose  radichette  già  sulle  ra- 
dici secondarie  (cioè  si  contavano  tre  ordini  di  radici)  mentre  in  al- 
tri sistemi  radicali  venuti  in  soluzioni  senza  azoto,  non  si  osserva- 
vano per  anco  quelle  radichette  del  terzo  ordine. 

Il  dottor  Mùller-Thurgau  conchiude  osservando  che,  dal  lato  scien- 
tifico, risulta  dalle  suesposte  ricerche  come  le  cellule  delle  radici  siano 
in  condizione  di  preparare  sostanze  albuminoidi  quando  ricevano  i- 
drati  di  carbonio  dalle  foglie  ed  esternamente  possano  usufruire  d'un 
sale  azotato.  Per  la  pratica  poi  possiamo  concludere  che  l'accresci- 
mento di  un  sistema  radicale  è  assai  accelerato  se  noi  poniamo  a  sua 
disposizione  i  necessarii  sali  azotati. 

A  ciò  hanno  condotto  le  ricerche  del  laboratorio:  per  vedere  ora 
sino  a  qual  punto  questi  risultati  possono  giovare  ai  viticoltori, 
è  mestieri  fare  esperienze  coi  concimi  nei  vigneti,  esperienze  che 
già  furono  incominciate  per  cura  dello  stesso  esperimentatore.  In- 
tanto è  provato  questo,  che  nel  trattamento  dei  letami  e  dei  con- 
cimi ecc.  l'azoto  non  deve  essere  cotanto  trascurato,  come  pur  troppo 
lo  fu  sin  qui.  E  si  dovrebbe  pure  in  avvenire,  nella  valutazione  della 
quantità  di  sostanze  nutritizie  esportate  annualmente  da  un  vigneto 
sotto  forma  di  legno,  fogliame,  uve,  ecc.  non  più   scordare   l'azoto. 

Alla  domanda  che  fu  fatta  al  dott.  Mùller-Thurgau,  se  l'azoto  as- 
similato dalla  radice  che  pesca  nella  soluzione  azotata  venga  solo 
usufruttato  per  questa  radice  stessa,  oppure  se  una  parte  del  me- 
desimo emigri  anche  nell'altra  radice,  egli  rispose  che  sperimental- 
mente ciò  non  lo  ha  constatato:  è  tuttavia  ammessibile  che  una 
parte  di  quell'azoto  profitti  anche  alla  seconda  radice.  Ma  la  mag- 
gior parte  della  sostanza  azotata  assorbita  rimane  nella  radice  che 
pesca  nella  soluzione  nutriente  azotata;  è  quivi  impiegata   alla   for- 


BOTANICA  DELLA  VITE  169 

inazione  del  protoplasma  e  favorisce  il  rapido  sviluppo  di  quella  ra- 
dice stessa.  Questa,  in  tutti  i  casi,  è  più  innanzi  nello  sviluppo  che 
non  l'altra. 

Oltre  all'azoto,  la  vite  prende  al  terreno,  per  mezzo  delle  sue  ra- 
dichete, acido  fosforico,  calce,  potassa  e  silice,  ed  in  via  secon- 
daria magnesia,  ferro,  acido  solforico,  sodio,  alluminio,  cloro  e 
manganese:  ma  su  di  ciò  ritorneremo  al  capitolo  Chimica  della 
vite. 

Il  periodo  di  nutrizione  ed  accrescimento  della  vite  dura  general- 
mente parlando  quattro  mesi,  dall'aprile  al  settembre;  verso  il  finire 
dell'agosto  o  nel  principio  del  settembre,  a  seconda  dell'andamento 
delle  stagioni,  cessa  il  periodo  di  accrescimento,  ed  incomincia  quello 
di  maturazione  non  solo  dell'uva  pendente  ma  anche  del  legno  a  van- 
taggio della  fruttificazione  successiva;  è  noto  infatti  che  quando  in 
questo  periodo  il  tempo  è  costantemente  sereno,  e  si  ha  perciò  luce 
viva  e  calore  sufficiente,  i  viticultori  sogliono  dire  che  il  legno  ma- 
tura bene.  Gli  è  pure  in  questo  periodo  che  si  elaborano  e  si  per- 
fezionano i  materiali  raccolti  nelle  mensolette  delle  gemme,  di  cui 
parlammo  testé  a  pag.  165. 

Durante  questo  periodo,  siccome  la  clorofilla  va  mano  mano  scom- 
parendo, (salve  speciali  condizioni  atmosferiche  molto  favorevoli) 
cessa  la  riduzione  dell'  acido  carbonico  nelle  foglie,  cessa  cioè  l'as- 
similazione; le  foglie  ed  i  frutti  respirano  allora  come  respirano 
gli  animali,  cioè  trattenendo  Y  ossigeno  ed  emettendo  l' acido  car- 
bonico. Contemporaneamente  ha  luogo  V  emigrazione  dell'  amido 
dalle  foglie  ai  sarmenti  ed  alle  gemme,  e  dello  zucchero  verso  gli 
acini;  su  di  che  si  intratterremo  più  a  lungo  fra  breve  studiando  la 
maturazione  dell'uva. 

Ma  anche  dopo  la  caduta  delle  foglie  non  cessa  il  processo  di  e- 
laborazione  dei  materiali  immagazzinati  nei  sarmenti  e  presso  le  gemme; 
abbiamo  ripetutamente  osservato  che  un  autunno  ed  un  inverno  re- 
lativamente caldi  e  abitualmente  con  cielo  sereno  influiscono  notevol- 
mente sulla  maturazione  del  legno  della  vite;  il  quale  assume  una 
colorazione  rossigna  e  mostra  le  gemme  più  turgide  che  non  in  con- 
dizioni meteorologiche  meno  favorevoli;  la  cacciata  dei  pampini  in 
primavera  è  allora  sempre  assai  vigorosa,  mercè  l'anzidetto  perfezio- 
namento del  legno. 

L'accrescimento  della  vite  avviene,  come  in  tutte  le  piante  dicoti- 
ledoni, esternamente;  quindi  essa  appartiene  al  novero  delle  piante 


170  CAPITOLO  IV 


esogene,  così  dette  perchè  il  loro  fusto  aumenta  di  diametro  mercè 
nuovi  tessuti  che  si  organizzano  nella  parte  interna  della  corteccia 
formando  un  anello  attorno  al  midollo,  come  abbiamo  visto  apag.  121. 

Invece  le  piante  endogene,  cioè  le  monocotiledoni,  crescono  in- 
ternamente (frumento,  granturco,  avena,  orzo,  le  palme,  ecc.)  ed 
ha  luogo  un  allungamento  anziché  un  ispessimento  successivo  del 
fusto,  fatte  poche  eccezioni  (1). 

Gli  è  appunto  per  il  modo  d'accrescimento  del  tronco  di  vite,  che  noi 
vediamo  esternamente  quello  strato  suberoso  (pag.  91)  che  si  può 
togliere  siccome  inutile,  essendo  infatti  la  parte  morta  della  cortec- 
cia. (Veggasi:  scortecciamento  delle  viti). 

4.°  Vegetazione  della  vite.  —  Il  risveglio  della  vegetazione 
nella  vite  si  manifesta  con  una  perdita  di  umore  acquoso  dalla  e- 
stremità  de'  suoi  tralci;  questo  umore  è  detto  comunemente  il  pianto 
della  vite.  Vediamo  come  e  quando  avvenga  questo  fenomeno;  di- 
remo poi  di  che  cosa  sia  composto  cotale  umore. 

Se  noi  prendiamo  un  imbuto  di  vetro  con  collo  lungo  e  sottile,  e 
lo  chiudiamo  con  un  pezzo  di  vescica,  e  poscia  capovolgendolo  lo 
riempiamo  fino  al  collo  con  acqua  salata,  immergendo  infine  la  ve- 
scica in  un  recipiente  contenente  acqua,  osserviamo  due  fenomeni; 
cioè  che  il  liquido  si  innalza  nel  collo  dell'imbuto,  e  si  abbassa  nel 
recipiente.  Dutrochet,  il  quale  fece  pel  primo  questo  semplicissimo 
esperimento,  chiamò  corrente  di  endosmosi  (propulsione  all'indentro) 
quella  dell'acqua  penetrante  dal  recipiente  nell'imbuto,  ed  esosmosi 
il  passaggio  del  sale  dall'imbuto  verso  l'esterno,  poiché  egli  osservò 
infatti  che  l'acqua  del  recipiente  era  divenuta  salata.  Dutrochet  chiamò 
osmosi  (ossia  impulso)  il  complesso  di  questi  fenomeni  di  diffusione 
a  traverso  le  membrane. 

Orbene  la  stessa  azione  osmotica  viene  esercitata  a  traverso  la 
tenera  cuticola  delle  radichette  ed  i  peli  radicali  della  vite,  dall'acqua 
del  terreno  coi  sali  che  essa  tiene  disciolti  (fosfati,  nitrati,  solfati 
di  calce,  di  potassa,  ecc.);  e  questo  fenomeno  è  favorito  dalla  rapidità 
di  diffusione  dei  sali  stessi.  L'acqua  penetrata  che  sia  nelle  cellule  delle 
radichette,  le  fa  rigonfiare  distendendone  per  modo  di  dire  le  pareti 
(tessuto  cellulare),  onde  filtra  poi   a  traverso  di  esse,    diffondendosi 


(1)  L'albero  del  sangue  di  drago  (Dracoena  drago),  che  è  una  palma  di  Tene- 
riffa,  cresce  anche  in  circonferenza;  ma  è  questa  una  eccezione,  d'  altronde  bene- 
spiegata  dai  botanici. 


BOTANICA  DELLA  VITE  171 

da  cellula  a  cellula  sino  a  giungere  ai  vasi,  che  sono  come  tubi 
verticali  entro  cui  si  innalza  (1)  siccome  ha  dimostrato  Sachs  con 
una  brillante  ed  ingegnosa  esperienza. 

Riflettiamo  ora  per  un  momento  alla  sproporzione  rimarchevole  che 
esiste  fra  il  tronco  di  una  vite  e  V  ampiezza  del  suo  sistema  radi- 
cale; è  facile  vedere  che  il  sistema  assorbente  (radichette  e  peli)  è 
amplissimo  relativamente  al  fusto,  ed  è  ovvio  quindi  l'intendere  come 
il  succo  acquoso  assorbito  dal  suolo,  essendo  relativamente  assai  ab- 
bondante, debba  gocciolare  in  primavera  dalla  estremità  dei  tralci. 
Abbiamo  detto  in  primavera,  perchè  allorquando  i  tralci  sono 
provvisti  di  fogliame,  l'eccesso  di  acqua  è  smaltito  per  mezzo  della 
evaporazione  e  della  traspirazione  (pag.  159);  infatti  noi  abbiamo 
osservato  ripetutamente  che  quando  la  vite  porta  foglie  i  tralci  non 
piangono  che  di  notte,  cioè  quando  le  foglie  non  adempiono  più  a 
quest'ufficio  di  smaltitoi  aerei:  anzi  abbiamo  osservato  che  la  per- 
dita di  linfa  acquosa  va  scemando  man  mano  che  il  sole  si  alza  sul- 
l' orizzonte;  dimodoché  mentre  alle  ore  6  del  mattino  (ad  esempio  ai 
primi  di  maggio)  si  ha  il  pianto,  alle  ore  9  od  alle  10  ciò  non  è 
più  possibile,  essendo  subentrata  una  evaporazione  potente.  (Il  liquido 
acquoso  lascia  un  deposito  di  gomma  sulla  estremità  del  tralcio,  il 
quale  può  impedire  il  pianto;  tagliando  una  piccolissima  porzione  del 
tralcio  stesso,  il  pianto  ricompare,  talvolta  anche  a  primavera  innol- 
trata,  salvo  che  si  verifichino  le  accennate  circostanze:  è  bene  tener 
nota  di  ciò  nell'  esaminare  la  intermittezza  di  questo  fenomeno). 

Non  tutti  però  ammettono  che  la  causa  principale  dell'ascensione 
del  succo  risieda  nell'osmosi:  il  Prof.  Bòhm  (2)  con  esperienze  eli- 
rette  dimostrò  che  tale  fenomeno  è  un  effetto  della  traspirazione, 
della  elasticità  delle  pareti  delle  cellule  e  della  pressione  dell'  aria. 
Ma,  poiché  la  traspirazione  è  quasi  nulla  durante  la  notte,  come 
spiegare  il  pianto  notturno  delle  viti  da  noi  osservato  ?  Forse  colla 
evaporazione  (pag.  159)  la  quale,  come  fenomeno  puramente  fisico, 
ha  luogo  anche  in  mancanza  della  luce,  nonché  coi  fenomeni  di 
osmosi.  Del  resto  Herbert  Spencer  già  aveva  attribuito  il  movimento 


(1)  Il  succo  giunto  ai  vasi  corre  con  molta  maggior  velocità:  Herbert  Spencer 
trovò  che  i  liquidi  assorbiti  dalle  piante  corrono  con  una  velocità  cinquanta  volte 
maggiore  nel  tessuto  vascolare,  paragonato  al  tessuto  cellulare  (Principles  of  Biology 
volume  II,  pag.  555). 

(2)  Veggasi  la  pag.  159,  nota  1. 


172  CAPITOLO  IV 


dei  succhi  essenzialmente  alla  traspirazione  delle  foglie  adulte,  coadiu- 
vate da  altre  cause,  fra  cui  l'osmosi  e  la  capillarità,  ossia  l'attrazione  di 
adesione,  (1)  che  certo  deve  favorire  il  passaggio  del  succo  a  traverso 
i  tessuti  della  pianta. 

La  forza  con  cui  il  succo  acquoso  penetrante  dalle  radichette  sale 
lungo  il  tronco  della  vite  e  si  diffonde  pei  tralci  è  veramente  rag-*' 
guardevole.  Chi  la  misurò  pel  primo  fu  Hales,  sin  dal  1727;  egli 
trovò  che  essa  può  fare  equilibrio  ad  una  atmosfera,  e  talvolta  an- 
che ad  una  atmosfera  e  mezza  di  pressione,  sostenendo  una  colonna 
di  mercurio  alta  822  mm.,  ossia  una  colonna  d'acqua  alta  m.  11,096. 
Hales  notò  pure  che  la  pressione  esercitata  dalla  pianta  della  vite 
dal  basso  in  alto  è  cinque  volte  maggiore  di  quella  con  cui  viene 
spinto  il  sangue  nelle  più  grosse  arterie  del  cavallo.  Hofmeister  un 
secolo  dopo,  esperimentando  su  piante  di  viti  in  vasi,  trovò  in  con- 
fronto con  piante  di  fagiolo  e  d'  ortica  le  seguenti  pressioni: 

Vite 725  mm. 

Ortica 350     » 

Fagiolo 150     » 

Recentemente  (1873)  Neubauer  e  Canstein  (Annalen  der  (feno- 
logie, TV,  pag.  502  e  517)  istituirono  altre  interessanti  esperienze 
sull'argomento,  che  stimiamo  utile  far  conoscere.  —  Neubauer  si 
valse  dell'apparecchio  disegnato  nella  fig.  57;  in  T  abbiamo  un  ramo  di 
vite,  il  quale  mediante  un  forte  anello  di  cauciù  L  è  posto  in  cor- 
rispondenza con  un  tubo  di  vetro  a;  l'anello  L  è  legato  strettamente 
al  tralcio  ed  al  tubo  a.  Quest'ultimo  pesca  in  un  vaso  di  vetro  A 
il  quale  nella  sua  parte  inferiore  e  per  un  terzo  circa  della  sua  al- 
tezza è  ripieno  di  mercurio;  nella  porzione  rimanente  come  pure  nel 
tubo  a  si  mette  acqua.  Nel  mercurio  pesca  un  lungo  tubo  b  b  gra- 
duato in  millimetri.  Il  vaso  A  è  posto  in  una  vaschetta  V  ripiena 
d'acqua,  nella  quale  pesca  un  termometro  t.  Neubauer  osservò,  con 
questo  apparecchio,  che  nelle  giornate  calde  dell'aprile  del  1873  la 
pressione  aveva  raggiunto  i  112  millimetri  (2):  essa  diminuì  allo  sbuc- 
ciare delle  gemme,  e  cessò  allo  sviluppo  delle  foglie,  quando  queste  en- 


fi) E  noto  che  i  liquidi  per  attrazione   capillare  si   innalzano  nei   tubi   sottili 
o  capillari. 

(2)  La  temperatura  essendo  ridotta  a  zero. 


BOTANICA  DELLA  VITE 


173 


trarono  in  funzione.  La  evaporazione  allora  si  era  fatta  assai  forte; 
essa  venne  misurata  da  Neubauer  coll'appareccbio  rappresentato  dalla 
fìg.  58.  In  b  abbiamo  un  getto  di  vite  fronzuto  il  quale  pesca  in  un 
tubo  di  vetro  e  pieno  d'acqua  ma  chiuso  ermeticamente:  questo  tubo 
è  introdotto  in  un  cilindro  a  sul  cui  fondo   trovasi    del  mercurio,  e 


Fig.  57. 


Fiar.  58. 


che  è  pure  ermeticamente  chiuso  in  d.  Ora  più  il  mercurio  si  sol- 
leva e  più  è  forte  la  evaporazione  :  infatti  Neubauer  trovò  che  un 
germoglio  di  vite  lungo  28  centimetri  e  con  una  superficie  di  foglie 
uguale  a  340  centimetri  quadrati,  solleva  una  colonna  di  mercurio 
di  183  millimetri,  alla  temperatura  di  23,5°  C. 

Riflettendo  pertanto  alla  potenza  con  cui  il  succo  sale  in   prima- 


174  CAPITOLO  IV 


vera  dalle  radici  ai  tralci  della  vite,  si  troverà  che  è  molto  efficace 
la  espressione  usata  dai  viticultori,  i  quali  dicono  che,  nelle  prima- 
vere umide,  il  pianto  affoga  i  fiorellini;  su  di  ciò  ritorneremo  stu- 
diando l'aborto  dei  fiori  (francesamente  colatura). 

Da  quanto  abbiamo  detto  risulta  che  nell'  organismo  vegetale  so- 
novi  due  correnti  di  succhi;  l'una  ascendente  dalle  radici  al  fogliame, 
F  altra  discendente  dal  fogliame  alle  parti  vitali  della  pianta  non 
escluse  le  radici.  La  linfa  ascendente  circola  principalmente  pel  tes- 
suto vascolare,  quella  discendente  pel  tessuto  cellulare;  i  due  movi- 
menti sono  indipendenti  l'uno  dall'altro,  ed  il  secondo  è  certamente 
dovuto  in  gran  parte  all'  azione  osmotica  a  traverso  le  membrane 
delle  cellule.  Accade  quindi  una  vera  diffusione,  non  soltanto  all'ingiù 
verso  le  radici,  ma  anche  in  alto  per  tutte  le  parti  della  pianta  (gemme, 
tralci,  frutti)  dei  principii  organici  di  cui  abbiamo  parlato  a  pag.  161. 

Ci  rimane  a  studiare  la  composizione  del  liquido  che  costituisce 
il  pianto  della  vite;  da  quanto  precede  si  deduce  che  esso  non 
è  costituito  da  pura  acqua,  come  crede  il  volgo  dei  viticultori; 
consiste  invece  di  acqua  la  quale  tiene  in  dissoluzione  gli  elementi 
minerali  che  la  terra  somministra  alle  piante,  elementi  che  abbiamo 
enumerato  a  pag.  160.  —  La  sua  composizione  varia  a  seconda  delle 
annate  più  o  meno  piovose,  ed  a  seconda  della  stagione,  perchè  col 
progredire  di  questa  aumentano  in  esso  i  fosfati,  nonché  il  totale 
delle  materie  minerali,  mentre  diminuisce  quello  delle  organiche,  certo 
perchè  va  scemando  la  quantità  di  queste  ultime  posta  in  serbo  dal- 
l'anno precedente,  come  già  si  disse. 

Il  Dott.  Ghizzoni  (1)  ha  studiato  con  cura  il  pianto  della  vite,  rac- 
cogliendo la  linfa  a  diverse  altezze  nonché  dallo  stesso  vitigno,  però 
coltivato  in  luoghi  differenti.  Crediamo  utile  riassumere  tali  esperienze, 
raffrontandole  con  altre  del  Dott.  Rotondi. 

a)  La  prima  conclusione  che  si  desume  dalle  esperienze  del 
Ghizzoni  è  questa,  che  la  linfa  della  vite  è  costantemente  acida, 
ed  olire  al  portare  alla  pianta  nuovi  elementi,  promuove  Vas- 
similabiliià  di  talune  sostanze  contenute  nella  pianta,  ed  agisce 
producendo  lo  sviluppo  delle  gemme.  Questa  azione  sarebbe  pro- 
dotta dal  primo  succo  che  si  innalza  nella  pianta,  il  quale  essendo 
acido,  rende  solubile,  cioè  atta  all'assimilazione,  una  certa  quantità 
di  materie  attornianti  le   gemme   e  destinate  al  futuro  sviluppo  del 


(1)  Rivista  di  Viticoltura  ed  Enologia  di  Conegliano,  1878. 


BOTANICA  DELLA  VITE  175 


germe.  Per  il  Ghizzoni  pertanto  lo  sviluppo  delle  gemme  sarebbe  ia 
tatto  paragonabile  a  quello  dei  semi,  e  la  linfa  della  vite  avrebbe 
nei  primi  momenti  lo  stesso  ufficio  della  diastasi,  la  quale,  come  di- 
cemmo a  pag.  156,  trasforma  in  materia  solubile  quella  che  altri- 
menti non  avrebbe,  per  la  sua  insolubilità,  potuto  aiutare  e  svolgere 
il  tenero  embrione  dei  semi.  In  altri  termini,  secondo  l'esperimenta- 
tore,  la  prima  linfa  agirebbe  da  vero  solvente  sulle  materie  insolubili 
che  stanno  attorno  alle  gemme. 

Contrariamente  alle  deduzioni  del  Ghizzoni,  è  noto  essere  risultato 
all'ing.  Rotondi  (già  della  Stazione  Enologica  di  Asti)  che  la  linfa  sud- 
detta, specialmente  nelle  viti  ad  uve  rosse,  avrebbe  una  reazione  non 
acida,  cioè  neutra  od  alcalina.  Queste  sconcordanze  dimostrano  che 
il  quesito  non  è  ancora  bene  risolto:  gioverà  quindi  fare  nuove  e- 
sperienze  e  tenere  anche  calcolo  di  quel  pianto  che  sgocciola  dalle 
viti  durante  la  notte  verso  il  finir  di  maggio  cioè  allorquando  i 
tralci  sono  già  provvisti  di  foglie,  per  cui  il  pianto  cessa  di  giorno: 
svettando  in  tali  momenti  i  tralci  si  ha  pur  tuttavia  uno  sgocciola- 
mento notturno  che  meriterebbe  d'essere  studiato;  abbiamo  già  detto 
a  tal  riguardo  che  esso  scema  man  mano  che  il  sole  si  alza  sull'o- 
rizzonte, cosicché  verso  le  ore  9  o  10  del  mattino  cessa   del  tutto. 

b)  Altra  conclusione  del  Ghizzoni  è  la  seguente:  che  nel  pianto 
delle  viti  la  quantità  dei  nitrati  è  in  ragione  inversa  della  bontà 
dei  vitigni. 

e)  I  nitrati  stanno  nelle  linfe  in  ragione  diretta  della  ve- 
getatila (campi  ed  orti)  del  terreno,  ed  in  ragion  inversa  della 
bontà  del  metodo  di  coltivazione. 

d)  In  genere  la  sostanza  organica  é,  nelle  viti  nere,  pre- 
dominante sulla  minerale',  mentre  per  le  viti  ad  uva  bianca  la 
minerale  si  troverebbe  in  quantità  predominante  suU organica. 

e)  Mentre  nel  basso  (cioè  nella  linfa  inferiore  d'una  vite)  v'ha 
predominio  di  materia  minerale,  nell'alto  vha  quello  della  ma- 
teria organica. 

f)  Nel  suo  decorso  quindi,  la  linfa  mentre  si  carica  di  ma- 
teria organica  perde  in  materie  minerali. 

g)  I  fosfati  aumentano  in  genere  col  procedere  della  sta- 
gione, aumentando  anche  il  totale  delle  materie  minerali,  men- 
tre diminuisce  quello  delle  organiche. 

Il  dott.  Ghizzoni,  dai  fatti  che  accenna  desume  che  non  si  dovrebbe 
far  perdere  alla  vite,  con  una  potatura  tardiva   o  primaverile,  una 


176  CAPITOLO  IV 


certa  quantità  della  sua  linfa;  stabilito  infatti,  coll'esperimentatore, 
che  l'azione  di  detta  linfa  sia  quella  di  promuovere  ed  aiutare  lo  svi- 
luppo delle  gemme,  parrebbe  potersi  conchiudere  che  questo  viene 
necessariamente  ritardato  quando  venga  a  perdersi  una  gran  parte 
di  quella. 

Noi  non  esitiamo  a  convenire  in  massima  con  quanto  qui  dice  lo 
studioso  autore:  ma  non  possiamo  tuttavia  scordare  gli  indiscutibili 
vantaggi  del  salasso  primaverile  delle  viti  nelle  primavere  umide, 
precedute  da  un  autunno  e  da  un  inverno  pure  umidi,  e  ciò  onde 
evitare  la  colatura  dei  fiori  la  quale  quasi  ogni  anno  arreca  così 
gravi  danni  ai  vigneti  dell'alta  e  media  Italia.  Facciamo  quindi  voti 
acciò  l'importante  quistione  del  pianto  della  vite  sia  pure  studiata  nel 
caso,  non  certo  raro,  d'una  vite  pletorica. 

Dalle  nostre  numerose  osservazioni  risulterebbe  infatti,  che  con  viti 
cosifatte  ed  in  primavere  molto  piovose,  è  assolutamente  indispen- 
sabile provocare  o  aiutare  il  pianto,  nei  modi  che  diremo  studiando 
F  aborto  dei  fiori,  e  questo  tanto  più  se  trattasi  di  viti  giovani,  ri- 
gogliose e  potate  corte.  Per  contro,  nei  paesi  a  primavera  general- 
mente secca  e  calda,  e  dove  si  hanno  viti  vecchie  e  non  molto  ri- 
gogliose, bisogna  che  la  vite  non  pianga  o  pianga  assai  poco  (pota- 
tura precoce,  meglio  se  autunnale). 

Ma  lo  studio  della  vegetazione  della  vite  non  può  limitarsi  a  quanto 
si  riferisce  al  pianto:  abbiamo  altre  importanti  considerazioni  a  fare 
su  questo  grave  soggetto,  specialmente  riguardo  al  portamento  delle 
radici,  alla  tendenza  naturale  dei  tralci  e  dei  viticci  ed  alla  varia 
lunghezza  degli  internodi. 

Il  portamento  del  sistema  radicale  della  vite  varia  a  seconda 
di  differenti  circostanze;  non  parliamo  del  numero  più  o  meno  grande 
delle  radichette,  il  quale  dipende  dai  sali  azotati  (nitrato  di  potassa, 
solfato  d'ammoniaca)  che  si  trovano  più  o  meno  in  copia  a  disposi- 
zione delle  radici  (pag.  166):  vogliamo  invece  alludere  alla  disposi- 
zione delle  radichette  stesse  ed  alla  loro  profondità  variabile.  Nei 
vigneti  non  mai  lavorati  esse  si  portano  a  poca  distanza  dalla  su- 
perficie del  suolo,  quasi  in  cerca  di  principii  assimilabili;  diciamo 
quasi  in  cerca  di  alimento,  perchè  realmente  la  radice  non  si  di- 
rige verso  le  sostanze  nutritizie,  ma  solo  si  sviluppa  e  si  ramifica 
tanto  più  copiosamente  quanto  più  abbondante  è  l'alimento,  se  così 
possiamo  dire,  col  quale  si  trova  in  vicinanza,  in  contatto:  ora,  es- 
sendo dimostrato    dalle  esperienze    di   Emilio  WolfF  e  Boussingault, 


BOTANICA  DELLA  VITE  177 

che  nei  terreni  lavorati,  cosicché  gli  agenti  atmosferici  vi  abbiano 
facile  accesso,  si  forma  una  maggior  quantità  di  nitrati  (1),  è  facile 
intendere  come  le  radichette  si  formino  più  copiose  negli  strati  su- 
perficiali del  terreno,  se  questo  è  lavorato  a  poca  profondità  o  peggio 
se  non  mai  lavorato.  Allorquando  poi  il  piantamento  della  vite  è 
fatto  troppo  profondamente  e,  come  suol  dirsi,  sul  duro,  allora  (fig.  2 
pag.  89  tolta  da  un  nostro  piantamento  a  0,60  di  profondità)  accade 
che  l'ultima  corona  di  radici  si  dirige  all'insù,  come  dicevamo  or'  ora, 
laddove  le  altre  corone  sono  orizzontali  o  quasi.  Certamente  ciò  non 
accadrà  nelle  terre  leggere  e  ciottolose;  infatti  nei  terreni  lapillari 
sofficissimi  dei  dintorni  di  Napoli  si  piantano  i  maglioli  ad  oltre  un 
metro  di  profondità,  senza  inconvenienti:  ma  nelle  terre  compatte  si 
verifica  quanto  dicevamo  sopra,  e  la  vite  ne  soffre,  avendo  un  si- 
stema radicale  che  non  si  sviluppa  in  condizioni  troppo  favorevoli. 
Il  piantamento  profondo  vuol  dunque  essere  accompagnato,  o  per 
meglio  dire,  preceduto  dal  lavoro  profondo:  in  caso  diverso  la  radice 
si  riduce  ad  un  fittone  quasi  sprovvisto  di  radichette,  ed  ha  una  sola 
corona  di  radici  secondarie  quasi  presso  la  superfìcie  del  suolo:  ad 
esempio  un  magliolo  (fig.  59)  piantato  profondamente  sino  al  segno 
b,  in  terreno  non  scassato  convenientemente,  mette  bensì  in  principio 
una  corona  di  radici  sotto  al  punto  a,  ma  queste  in  così  cattive  con- 
dizioni di  suolo  deperiscono  rapidamente,  onde  il  sistema  radicale  in 
pochi  anni  si  riduce  a  poco  presso  come  è  disegnato  nella  fig.  60, 
cioè  alle  sole  radici  superficiali,  troppo  esposte  all'azione  della  sic- 
cità e  troppo  facilmente  danneggiate  dagli  istrumenti  lavoratorii:  ora 
è  evidente  che,  se  soffrono  queste  radici,  tale  pianta  non  può  con- 
tare su  altre  più  profonde,  ed  intristisce  essa  pure. 

Infine  per  la  grande  armonia  che  regna  fra  il  sistema  sotterraneo 
e  quello  aereo  della  pianta,  avviene  che  ogni  offesa  recata  ai  rami 
si  ripercuote  sulle  radici;  d'onde  il  consiglio  di  non  potare  la  giovine 
vite  al  suo  primo  anno  e  di  potarla  leggermente  al  secondo,  perchè 
così  operando  si  permette  un  ampio  sviluppo  al  sistema  radicale,  che 
ha  tanta  influenza  sulla  produttività,  sulla  robustezza  e  sulla  longe- 
vità delle  viti.  È  poi   ovvio  il  comprendere  che,    appunto  in  conse- 


(1)  Wolff,  professore  'a  Hoenheim  (Baden)  trovò,  con  esperienze  dirette,  che 
quando  la  terra  è  bene  smossa  e  divisa,  l'ammoniaca  del  terreno  si  cangia  in  a- 
cido  nitrico  per  l'azione  dell'ossigeno  dell'aria.  Boussìngault  (Chimie  Agricole  L 
jpag.  296)  venne  alla  stessa  conclusione. 

0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura.  13 


178 


CAPITOLO  IV 


guenza  di  cotale  armonia  vegetativa,  il  sistema  radicale  sarà  assai 
meno  sviluppato  nelle  viti  potate  corte  ed  educate  basse,  che  non  in 
quelle  allevate  a  lunghi  tralci,  nel  qual  caso  si  possono  vedere  ra- 
dici lunghe  oltre  i  dieci  metri.  Ed  è  tale  1'  armonia  fra  i  rami  e  le 
radici  che  abbiamo  osservato  molte  volte  come  a  rami  robusti  corri- 


Fig.  59. 


Figr.  60. 


spondano,  dallo  stesso  lato  della  pianta,  radici  secondarie  robuste;  e 
come  offendendo  ad  esempio  la  pianta  a  diritta,  ne  soffrono  precisa- 
mente le  radici  a  diritta:  cosa  facile  a  spiegarsi  se  si  riflette,  come 
dicevamo  studiando  l'anatomia  della  radice  e  del  caule  (pag.  119),  che 
i  vasi  del  tessuto  vascolare  vanno  dalla  prima  al  secondo  senza  in- 
terruzione, senza  cioè  una  vera  linea  di  demarcazione  al  così  detto 


BOTANICA  DELLA  VITE  179 

nodo  vitale,  e  proseguono  così  ponendo  in  comunicazione  le  foglie 
colle  radichette;  ma  queste  non  possono  vivere  e  svilupparsi  oltre 
senza  gli  idrati  di  carbonio  di  quelle  (pag.  168),  onde  se  si  offende 
il  sistema  aereo  si  offende  pure  il  sistema  sotterraneo. 

Passiamo  ora  a  studiare  la  tendenza  naturale  dei  tralci.  Ab- 
biamo già  detto,  al  paragrafo  sull'  organografia,  che  i  tralci  della 
vite  propendono  ad  allungarsi  ed  espandersi  strisciando  sul  terreno 
se  pure  non  si  slanciano  sugli  alberi  che  loro  si  trovano  vicini,  rag- 
giungendo altezze  relativamente  grandi:  si  narra  infatti  di  viti  d'A- 
frica e  d'America,  che  slanciansi  a  guisa  di  ponti  attraverso  i  fiumi; 
e  Plinio  ci  tramanda  d'una  statua  di  Giove  fatta  con  un  tronco  di 
vite  e  di  colonne  di  tempii  pure  di  viti.  È  pure  noto  che  le  viti  sel- 
vatiche, delle  quali  abbiamo  già  parlato  più  addietro,  assumono  spesso 
proporzioni  enormi;  e  che  le  viti  coltivate  stesse,  se  si  abbandonano 
a  sé,  possono  coprire  coi  loro  tralci  molta  superficie  di  terreno  (1). 
In  quei  pochi  locali  (ad  esempio  nella  Valle  d'  Aosta)  ove  si  lascia 
la  vite  libera  (vale  a  dire  che  non  le  si  recidono  mai  tralci  secchi, 
come  si  fa  potando)  essa  si  espande  con  tanta  ricchezza  di  vegeta- 
zione, che  si  è  costretti  a  fare  i  piantamene  ponendo  i  filari  a  5 
metri  di  distanza  uno  dall'altro,  e  le  piante  nelle  file  a  ben  25  metri 
l'ima  dall'altra;  queste  enormi  distanze  sono  indispensabili.  Che  dire 
poi  delle  viti  americane?  Giustamente  quelle  selvatiche  furono  chia- 
mate piante  da  bosco  (2)  poiché  si  arrampicano  fìuo  alle  più  alte 
cime  degli  alberi,  ove  maturano  i  loro  frutti. 

Ora,  tutto  ciò  dimostra  che  la  tendenza  naturale  della  vite  è  quella 
di  allungare  quasi  direbbesi  senza  limiti  i  suoi  tralci,  a  guisa  di  ri- 
gogliosa liana;  che  se  noi  la  vediamo  invece  nei  nostri  vigneti  ridotta 
generalmente  a  meschine  proporzioni  si  è  per  i  sistemi  di  viticoltura 
in  uso,  così  spesso  antirazionali.  Né  vale  il  dire  che  così  si  deve  fare 
se  si  vogliono  avere  frutti  zuccherini  ed  abbondanti,  perchè  è  noto 
che,  ad  esempio,  le  viti  tenute  col  sistema  francese  detto  en  chaintres 
(ampie  spalliere  orizzontali)  talora  con  15  tralci  frutticosi  lunghi  da 
metri  1,50  a  2,  danno  molta  uva,  che  matura  bene,  mentre  le  piante  vi 
sono  più  longeve  che  non  seguendo  il  sistema  delle  energiche  potature. 


(1)  Il  Dott.  A.  Cencelli-Perti  narra  d'un  suo  ceppo  di  pizzutello  (uva  Cornetta) 
il  quale  si  estende  su  una  superficie  di  150  metri  quadrati,  da  tempi  remotis- 
simi. [Albereto  Fedisco:  Conegliano  1874,  pag.  4). 

(2)  Così  il  viticultore  americano  Hecker  negli  Annalen  der  Oenologie  (1883). 
Citato  da  A.  Cencelli  (op.  cit.  4). 


180  CAPITOLO  IV 


Ed  anche  con  taluni  sistemi  italiani  di  viti  maritate  ad  alberi,  specie- 
se  all'acero  campestre  (1),  si  hanno  viti  le  quali  sono  più  longeve 
che  non  quelle  educate  basse,  oltre  ad  offrire  una  produzione  più 
costante;  locchè  è  senza  dubbio  conseguenza  del  sistema  di  potatura 
lunga,  mercè  cui  si  asseconda  la  tendenza  naturale  dei  tralci. 

Tuttavia  non  vorremmo  che  si  spingesse  questo  principio  sino  alle 
sue  ultime  conseguenze,  cioè  se  ne  deducesse  che  la  potatura  annuale 
della  vite  è  più  dannosa  che  utile;  noi  diciamo  solo  che  un  eccesso  nella 
potatura  (potatura  povera  o  corta)  rende  la  vite  vecchia  e  spossata 
in  poco  tempo,  perchè  essendo  meschini  i  suoi  tralci  si  fanno  me- 
schine anche  le  sue  radici.  Inoltre  è  certo  che  la  potatura  energica 
modifica  i  tessuti  della  vite  per  quanto  riguarda  la  loro  compattezza. 

Ci  porge  una  prova  assai  convincente  degli  inconvenienti  ai  quali 
si  può  andar  incontro  inceppando  nella  vite  quello  sfogo  che  le  è 
indispensabile  siccome  pianta  sarmentosa,  la  storia  delle  viti  americane 
nel  Nord  America  ed  in  Europa.  Nel  Nord  America  i  viticultori  eu- 
ropei che,  sin  dal  1600,  vi  si  recarono  a  coltivare  viti,  volendo  educare 
quelle  indigene  colla  potatura  corta,  non  riuscirono  mai  ad  avere  viti 
robuste  e  longeve;  il  sig.  Hecker  (loc.  cit,  pag.  13)  dice  chiaramente 
che  le  viti  americane  non  si  debbono  sottoporre  al  taglio  corto,  bensì 
potarle  a  tralcio  lungo,  e  soggiunge  che  chi  pota  secondo  la  ma- 
niera tedesca  (corto)  raccoglie  poco,  mentre  essi,  gli  Americani,  po- 
tano soventi  volte  i  loro  tralci  a  20-30  gemme,  nei  terreni  fertili; 
infine  conclude  che  «  chi  fra  gli  Alleganei  e  le  Montagne  Rocciose 
non  vuol  ottenere  punto  raccolta,  deve  lasciar  potare  il  suo  vigneto 
da  un  vignaiuolo  tedesco,  perchè  allora  sarà  sicuro  che  egli  avrà 
rovinato  il  suo  vigneto.  » 

Le  viti  americane  introdotte  in  Europa  vogliono  sempre,  ed  è  na- 
turale, la  potatura  lunga,  che  è  la  più  consentanea  alla  loro  indole;, 
invece  nelle  numerose  coltivazioni  che  se  ne  sono  fatte  in  Francia, 
quali  resistenti  alla  fillossera,  si  seguirono  senz'altro  i  sistemi  locali, 
cioè  si  potarono  corte,  inducendo  così  talune  modificazioni  nei  tessuti 
oppure  inceppando  un  più  ampio  sviluppo  del  sistema  radicale.  La  mo- 
dificazione nella  compattezza  dei  tessuti  per  causa  della  coltura  che 
diremo  all'europea,  è  oramai  ammessa  dai  fisiologi,  e  ad  essa  si  attri- 
buisce   il    fatto    sconfortante  di    parecchi    vitigni  d'America,  i  quali 


(1)  L'  acero  o  oppio  ha  poche  radici  e  si   può  potare  energicamente;   perciò  si 
può  quasi  considerare  come  un  sostegno  non  vivo,  benché  sia  vivo. 


BOTANICA  DELLA  VITE  181 

mentre  nel  loro  paese  d'origine  resistono  alle  punture  della  fillossera, 
introdotti  in  Europa  vanno  grado  grado  perdendo  questa  loro  pre- 
ziosa proprietà,  cosicché  oggi  sono  pochissime  le  specie  che  ancora 
la  conservano. 

Concludendo  diremo  che  sono  a  ritenersi  come  canoni  importanti 
della  fisiologia  della  vite  questi;  1°)  che  la  espansione  che  si  lascia 
prendere  alla  vite  mentre  accresce  la  sua  fecondità  ne  accresce  pure 
il  vigore  e  la  durata  (Guyot);  2°)  che  in  generale  è  a  preferirsi  la 
potatura  ricca  a  quella  povera,  perchè  la  potatura  ricca  logora  la 
vite  solo  quando  il  suolo  è  spossato,  al  che  si  rimedia  con  opportune 
concimazioni,  laddove  la  potatura  povera  logora  la  pianta,  il  che  è 
assai  più  grave  (G.  A.  Ottavi).  Studiando  la  potatura  e  le  distanze 
dei  piantamenti  ci  accadrà  di  richiamare  in  nostro  aiuto  questi  pre- 
ziosi ammaestramenti. 

Veniamo  ora  alla  tendenza  naturale  dei  viticci:  già  sappiamo 
(pag.  94)  come  si  sviluppino  e  quale  ufficio  abbiano.  Le  spire  vanno 
da  destra  a  sinistra  o  viceversa,  senza  seguire  una  norma  costante; 
cosa  però  non  ammessa  da  tutti,  poiché  v'  ha  chi  sostiene  che  essi 
generalmente  tendono  a  sinistra.  Certo  è  però  che  la  loro  tendenza 
naturale  è  quella  di  attorcigliarsi  agli  oggetti  cui  vengono  in  contatto 
colle  loro  estremità,  fosse  anche  un  altro  viticcio,  o  il  gambo  d'un 
grappolo,  o  una  foglia,  od  un  tralcio:  così  attorcigliati  ai  sostegni 
delle  viti,  le  tengono  salde,  le  rendono  resistenti  all'azione  dei  venti, 
ed  innalzano  i  pampini  esponendo  meglio  le  foglie  all'azione  impor- 
tantissima della  luce  solare. 

Ma  se  i  viticci  colle  loro  estremità  (nelle  quali  il  Dr.  Penzig  crede 
esistano  i  rudimenti  di  organi  già  destinati  (1)  molto  probabilmente  a 
congiungere  la  vite  al  sostegno)  non  riescono  a  toccare  qualche  og- 
getto, generalmente  non  si  contraggono  a  spirale  :  tuttavia  non  è 
necessario  che  essi  tocchino  l'oggetto  precisamente  coll'apice;  abbiamo 
osservato  che  il  contatto  su  qualsiasi  punto  della  loro  superfìce  li 
fa  ricurvare  verso  l'oggetto.  I  viticci  sono  molto  più  sensibili  quando 
sono  giovani;  allora  anche  toccati  leggermente,  si  curvano,  ma  se 
cessa  tosto  il  contatto  si  raddrizzano. 


(1)  Questi  organi  si  osservano  ancora  nell'Ampelopsis,  e  consistono  come  in  un 
disco  che  aderisce  ai  muri  con  forza.  Il  Dr.  Penzig  crede  che  nella  vite  le  punte 
dei  cirri  avessero  un  tempo  questa  funzione,  ma  ora  non  più  perchè  acquistarono 
irritabilità  su  tutti  i  punti. 


182  CAPITOLO  IV 


Dunque  la  tendenza  naturale  dei  viticci  è  quella  di  avvolgersi  a 
spirale;  se  non  possono,  diremo  così,  soddisfare  a  questa  loro  esigenza 
naturale,  si  essicano.  E  così  di  due  viticci  consecutivi  (pag.  95)  quando 
uno  si  è  avviticchiato,  non  essendo  più  necessario,  per  sostenere  il 
pampino,  che  si  attorcigli  anche  1'  altro,  in  quest'ultimo  cessa  la  vi- 
talità e  quasi  si  atrofizza.  Studiando  se  convenga  o  non  sopprimere 
i  viticci,  diremo  se  oltre  all'ufficio  di  organi  di  prensione  essi  adem- 
piano anche,  come  taluno  crede,  a  quello  di  organi  coadiutori  di  nu- 
trizione, essendo  clorofìllati  essi  pure  come  le  foglie. 

Darwin  ha  cercato  di  spiegare  perchè  quando  un  viticcio  tocca 
un  oggetto  si  curva  e  si  avvolge  a  spirale  attorno  ad  esso:  a  suo 
parere  ciò  dipenderebbe  dalla  contrazione  delle  cellule  lungo  il  lato 
concavo  (1)  ed  in  ciò  si  trova  d'accordo  con  H.  De  Vries  e  con  Sachs, 
il  quale  dice  che  quando  il  viticcio  viene  in  contatto  con  un  oggetto, 
si  accelera  notevolmente  lo  sviluppo  della  superficie  convessa,  mentre 
vi  ha  contrazione  nella  superfìcie  concava.  È  però  diffìcile  spiegare 
come  mai  talvolta  i  viticci  si  avvolgano  a  spirale  senza  toccare  ve- 
rmi oggetto,  come  abbiamo  potuto  osservare  più  d'una  volta;  in  questi 
casi  i  viticci  della  vite  si  comportano  come  quelli  di  altre  molte  piante, 
i  quali  si  contraggono  spiralmente  senza  essere  mai  venuti  in  con- 
tatto con  oggetti;  ciò  accade  però  solo  quando  i  viticci  stanno  pen- 
zoloni ed  hanno  perduto  in  grande  parte  la  loro  sensibilità,  cosicché 
a  poco  a  poco  finiscono  coll'essicarsi. 

Ci  rimane  a  studiare  quanto  si  riferisce  alla  lunghezza  degli  in- 
ternodii  ne'  suoi  rapporti  colla  vegetazione  della  vite. 

Si  ritiene  generalmente  che  la  lunghezza  degli  internodi  (meritalli 
o  mesofiti)  sia  costante  per  le  singole  varietà  di  vitigni,  e  per  vie- 
meglio convalidare  questa  opinione  si  citano  anche  le  osservazioni 
di  Pier  de'  Crescenzi,  il  quale  visitando  i  vigneti  di  Asti  osservava 
che  gli  internodi  dei  nebbioli  erano  lunghi;  «  queste  generazioni  di 
«  viti,  dice  egli,  hanno  le  loro  gemme  per  lunghi  internodi  distanti:  » 
ora,  chi  ha  veduto  oggi  viti  di  nebbiolo  può  far  fede  che  gli  inter- 
nodi sono  tuttavia  lunghi;  eppure  sono  trascorsi  nientemeno  che  G00 
anni.  Il  compianto  Luigi  Oudart  nella  sua  Introduzione  alla  am- 
pelografia  italiana,  narra  di  aver  veduto  un  vigneto  piantato  con 
Pinot  e  Gamai  or  sono  più  di  ottantanni  dall'avo  del  conte  di  Ca- 
stelborgo,   nel   suo  podere  di  Neive  presso  Alba;  «  e  queste  specie, 


(1)  Le  piante  rampicanti  —  pag.  107. 


BOTANICA  DELLA  VITE  183 

dice  egli,  benché  piantate  in  un  terreno  e  sotto  un  clima  tanto  di- 
verso da  quello  della  Borgogna  e  del  Beaujolais,  coltivate  e  potate 
così  diversamente,  conservano  i  loro  nodi  alla  distanza  che  anche 
oggi  conservano  nei  vigneti  della  Borgogna  e  del  Beaujolais.  » 

Il  sig.  Oudart,  basandosi  su  questi  ed  altri  fatti,  i  quali  pare  par- 
lino in  favore  d'una  costante  lunghezza  dei  meritalli  per  ogni  vizzato, 
propose  nel  1874  una  classificazione  dei  vizzati  stessi  in  tre  grandi 
schiatte  o  tribù,  collocando  nella  prima  le  viti  ad  internodi  corti, 
nella  seconda  quelli  ad  internodi  medii  e  nella  terza  quelli  ad  inter- 
nodi lunghi.  In  quell'anno,  prendendo  ad  esame  nel  voi.  XXXI  del 
Coltivatore,  questa  proposta,  e  citando  alcune  nostre  osservazioni 
fatte  sui  principali  vitigni  del  Monferrato,  ci  associavamo  alle  idee 
del  valente  sig.  Oudart;  non  vi  si  associava  però  il  barone  Antonio 
Mendola,  dotto  ampelografo  siciliano,  il  quale  in  una  lettera  a  noi  di- 
retta concludeva  col  dire  «  che  questo  carattere  (la  lunghezza  degli  in- 
ternodi) tanto  proteiforme,  tanto  incerto,  tanto  difficilmente  apprezzabile 
e  che  cangia  coi  climi  e  colle  età,  colle  colture,  colle  esposizioni,  non 
è  un  carattere  distintivo,  ma  una  mera  particolarità  da  tenersi  in  un 
cotal  conto  in  via  secondaria,  non  mai  da  poterne  far  base  fonda- 
mentale di  un  sistema.  » 

In  progresso  di  tempo,  facendo  ricerche  su  questo  argomento,  ci 
accadde  di  trovare  parecchi  autori  in  accordo  col  sig.  Oudart,  e  così 
i  francesi  Conte  Odart,  Olivier  de  Serres,  Victor  Rendu  e  lo  spa- 
gnuolo  Simon  de  Rojas.  Ma  oltre  alle  ricerche  sui  libri  facemmo 
anche  varie  esperienze  sui  vigneti,  cercando,  con  speciali  trattamenti 
inflitti  alle  viti,  di  fare  variare  la  lunghezza  dei  meritalli;  ora  queste 
esperienze  ci  portarono  invece  a  concludere  che  ben  s'  apponeva  il 
barone  Mendola,  poiché  il  sistema  di  coltura  può  influire  a  ren- 
dere piti  o  meno  lunghi  gli  internodi. 

Le  piante  sulle  quali  facemmo  le  nostre  osservazioni  erano  poste 
in  filari  distanti  3  metri  circa  uno  dall'  altro;  solo  che  mentre  uno 
dei  filari  era  coltivato  al  sistema  monferrino,  1'  altro  era  tenuto  ad 
alberello.  Il  vitigno  era  lo  stesso,  il  terreno  lo  stesso,  la  esposizione 
la  stessa:  solo  era  diverso  il  metodo  di  educazione  della  vite.  In- 
fatti col  sistema  monferrino  si  ha  un  lungo  tralcio  frutticoso  ed  uno 
sperone  legnoso,  e  non  si  praticano  cimature  o  svettature;  invece 
col  sistema  alla  latina  o  ad  alberello  da  noi  modificato,  si  pratica 
una  cimatura  graduale  prima  della  fioritura  (si  noti  bene  questa  cir- 
costanza) svettando  coll'unghia  i  getti  uviferi,  man  mano  che  si  al- 


184 


CAPITOLO  IV 


lungano,  e  precisamente  quando  è  spuntata  la  quarta  o  quinta  foglia 
sopra  1'  ultimo  grappolo.  Per  tale  cimatura  (che  non  vuoisi  confon- 
dere, come  si  fa  spesso,  colle  cimature  tardive  e  colle  scacchiature) 
si  esporta  la  vera  punta  dei  getti  dell'annata,  la  quale  ha  V  aspetto 
di  un  piccolissimo  ventaglio;  si  concentra  per  tal  maniera  il  vigore 
della  pianta  nella  sua  parte  inferiore  locchè  è  indispensabile  per 
costituire  un  vero  e  solido  alberello,  con  una  impalcatura  ugual- 
mente solida. 

Veniamo  ora  alle  suddette  osservazioni. 

(Dopo  4  anni  di  cultura  ad  alberello  e  5  di  cultura  a  tralcio  lungo). 


VITIGNO 


Viti  ad  alberello 


Lunghezza  degli  internodi 
sui  tralci  di  un  anno 


Viti  a  tralcio  lungo 


Lunghezza   degli    internodi 
sui  tralci  di  un  anno 


Pianta  di  Barbera ... 


/    Cent.  11 

»  8  50 

»  13 

»  6  50 


6  50 
6  50 


Pianta  di  Barbera. 


/    Cent. 


Pianta  di  Barbera. 


9  75 


Cent.  9 


10 
10 
11 
11 

7 

4 
11 
13 

6 

6  50 

9  50 

9 
10 

9 
9  50 

7 


10 

8 
11 
14 

6 


50 


Media  e.  8  75 


Cent. 


Media  e.  9  20 


Cent. 


Media  e.  9  10 


Cent. 


10 
14 
15 
9 
12 
15 

13  50 
16  50 

16 
11 

7  50 
14 
12 
10 
13 
10 

8 

10  50 
14 
15 
16 
10 

10 

16  50 
1150 

9 

12  50 
15 
15  50 

9 
15 
12  50 


Media  e.  12  50 


}  Media  e.  11  90 


Media  e.  12  65 


BOTANICA  DELLA  VITE 


185 


VITIGNO 


Viti  ad  alberello 


Lunghezza  degli  intemodi 
sui  tralci  di  uu  anno 


Viti  a  tralcio  lungo 


Lunghezza  degli  internodi 
sui  tralci  di  un  anno 


Cent.  11 

J>  4 


Pianta  di  Barbera..../ 


Pianta  di  Barbera. 


Pianta  di  Fresia. 


Pianta  di  Fresia. 


Cent. 


Cent. 
» 


/   Cent. 


6 

7  50 
6  50 
3 


6 

4 
10 

4 
10 


>  Media  e.  6  90 


10 

4 


50 


10 
15 

8  50 
17 

6 

7 


4 

6 
10 

4  50 

5  50 
1150 

8 

5  50 
8  50 
8 

7 
8  50 

7  50 
10 

6  50 
9 

4  50 
6 

8  50 
13 

9  50 
10 

11 


>Media  e.  8  50 


Media  e.  7  45 


Cent.  13 

»  1150 
»       9 

»  10 
»       8  50 

»  13  50 

»  10  50 

»  12 

»  10 

>  12 

»  14 

»  13 
»       9 

»  10 

»  12 

Cent.  10 

»  10 

»  12 

»  13 

»  11 

»  10 

»  14 

»  10  50 
»       9 

»  10 

»  10 
»       8 

»  1150 

»  10 
»  7 
»  8 
»       9 

Cent.  12  50    \ 

»  12  50    ' 

»  10 

»  11 

»  11 


Media  e.  1120 


)Media  e.  10  10 


Media  e.  11  16 


\ Media  e.  8  45 


Cent. 


9  50 
14 
11 

9  50 


»       8 


9  50 
11 
7 
7 

8  50 
7 


Media  e.    8  37 


186 


CAPITOLO  IV 


VITIGNO 


Viti  ad  alberello 


Lunghezza  degli  iaternodi 
sui  tralci  di  un  anno 


Viti  a  tralcio  lungo 


Lunghezza  degli  internodi 
sui  tralci  di  un  anno 


Pianta  di  Fresia. 


Pianta  di  Fresia. 


Pianta  di  Fresia. 


/    Cent.  8  50    \ 

»  7 

»  3  50   / 

»  7  50 

»  4  50 

»  6 

»  7 


Cent.  4 

»  5  50 

»  5 

»  6  50 

»  7  50 

»  4  50 

»  5 

»  6  50 

Cent.  5  50 

»  5 

»  3  50 

»  5 

»  5  50 

»  9  50 

»  11 

»  5 


Media  e.  6  10 


Media  e.  5  56 


Media  e.  6  20 


Cent. 


Cent. 


Cent. 


Media  e.    7  60 


Media  e.  1150 


Media  e.    8  10 


Riuniamo  ora  in  un  solo  quadro  tutte  le  medie: 


VITIGNO 


Ad  alberello 


A  tralcio  lungo 


Barbera 
» 
» 
» 
» 

Fresia 


Cent. 


Cent. 


8  75 

9  20 
9  10 

6  90 

8  50 

7  45 

8  45 
6  10 

5  56 

6  20 


\  Media  e.  8  49 


Media  e.  6  75 


Cent. 


Cent. 


12  50 
1190 
12  65 
1120 

10  10 

11  16 
8  37 

7  60 
1150 

8  10 


Mediac.il  6T 


Media  e.  9  34 


Dall'esame  di  questi  dati  deducesi  che  a  parità  di  vitigno,  di  suolo, 
di  esposizione  e  di  altitudine,  il  sistema  di  cultura  ad  alberello  in- 
fluisce a  far  diminuire  la  lunghezza  dei  meritalli  in  proporzione  molto 


BOTANICA  DELLA  VITE 


187 


sensibile.  Nel  caso  suddetto  questa  diminuzione  risultò  alquanto  mag- 
giore per  il  barbera  che  non  p^l  fresia:  volendo  stabilire  un  dato 
medio  pei  due  vitigni,  avremo: 


Viti  a  lungo  tralcio cent.  10,50 


Viti  ad  alberello 


7,62 


Differenza cent.    2,88 

Ma  quale  importanza  può  egli  avere  per  la  pratica  della  viticul- 
tura una  maggiore  o  minore  lunghezza  dei  meritalli? 

Ignoriamo  fino  a  qual  punto  i  viticultori  abbiano  riflettuto  ad  un 
simile  quesito;  crediamo  però  di  non  andar  errati  asserendo  che  po- 
chi si  sono  curati  di  risolverlo.  Eppure,  come  si  vedrà  dagli  altri 
dati  che  seguono,  è  a  ritenersi  che  ad  una  minor  lunghezza  dei 
meritalli  corrisponde  in  generale  una  maggior  fecondità  nelle 
gemme  uvifere. 

Ecco  a  questo  riguardo  alcuni  dati  esatti  fornitici  nel  giugno  del 
1882  dallo  stesso  vigneto  dove  facemmo  le  precedenti  osservazioni. 


VITIGNO 


LUNGHEZZA. 
DEI   MERITALLI 


GRAPPOLI 
PER   GEMMA 


Media  di  varii  vitigni  vecchi  e  a  tralcio  lungo  .     . 

Media  di  varii  vitigni  vecchi  a  tralcio  lungo  ma 
cimati 

Barbera  in  filari  distanti  4  m.  coltivati  a  frumento 
(età  anni  8) 

Barbera  della  stessa  età  ma  cimata,  e  senza  col- 
ture negli  interfilari 

Pinot  anni  4  a  6,  specializzati,  alberelli  .... 

Cabernet         id.  id.  id 

Grenache  o  Alicante        id.  id 

Barbera  id.  id.  id 

Teinturier      id.  id.  id 

Bonarda  id.  id.  id 

Nebiolo  id.  id.  id 

Slarina  id.  id.  id 

Fresia  id.  id.  id 

Croetto  id.  id.  id 


Centim.  10  25 

»  8  50 

»  14  25 

»  9  95 

»  6  70 

»  9  15 

»  6  05 

»  8  75 

»  8  70 

»  8 

»  10 

»  7 

»  8  75 

»  7 


N.     1 
»      1  25 
»     0  60 


75 
30 


Le  misure  furono  prese  tra  la  quarta  e  la  sesta  gemma  dei  tralci 
uviferi  lasciati  alla  potatura,  cioè  fra  le    gemme   che    sbucciando  ci 


188  CAPITOLO  IV 


avevano  dato  i  germogli  uviferi:  i  dati  sovra  riferiti  sono  le   medie 
di  misure  determinate  su  sei  piante  per  ogni  qualità. 

Sin  dal  1874  il  prof.  Carlo  Hugues,  avendo  istituito  varie  ricer- 
che sulla  lunghezza  dei  meritalli  nei  vitigni  coltivati  a  Rovereto,  ebbe 
a  trovare,  analogamente  a  quanto  dicemmo  or'ora,  che  i  vitigni  a 
nodi  corti  eran  i  più  ricchi  in  grappoli.  Le  sue  osservazioni  versa- 
rono su  vitigni  tedeschi  ed  italiani,  e  confermarono  pure  il  fatto  già 
accennato  che  la  lunghezza  degli  internodi  non  è  un  carattere  co- 
stante delle  diverse  varietà  di  vizzati.  D'altra  parte  anche  qui  si  può 
ricordare  Y  adagio,  che  non  vi  ha  nulla  di  nuovo  sotto  il  sole,  poiché 
il  valente  viticultore  latino  Plinio  Secondo  (C.  Plini  Secundi,  Na- 
turalis  Historiae,  liber  XVII)  aveva  scritto  fin  dai  suoi  tempi,  al 
cap.  21,  che  la  densità  o  spessezza  delle  gemme  è  indizio  di  fe- 
condità: densitas  gemmarum  fertilitatis  indicium  est. 

Concludendo,  diremo  che  la  lunghezza  degli  internodi  può  variare 
a  seconda  dei  sistemi  di  potatura,  e  che  le  gemme  dei  tralci  ad  in- 
ternodi brevi  sono  in  generale  più  feconde  di  quelle  dei  tralci  a  in- 
ternodi lunghi. 

5.°  Fioritura  delle  viti.  Eccoci  ora  all'  importantissimo  atto 
della  vita  vegetativa  che  incomincia  colla  comparsa  del  fiore  e  ter- 
mina coli' allegamento  del  frutto:  della  fruttificazione  parleremo  poi, 
per  ora  diremo  solo  della  fioritura  propriamente  detta  e  della  fecon- 
dazione dei  fiori. 

I  fiori  delle  vite  si  presentano  quasi  sempre,  come  già  sappiamo, 
su  germogli  spuntati  in  primavera  da  gemme  di  tralci  i  quali  hanno 
un  anno  di  vita,  cioè  di  tralci  dell'  anno  avanti.  A  questa  regola 
si  danno,  per  quello  che  ci  fu  dato  di  constatare,  due  eccezioni: 
1°)  talvolta  portano  qualche  raro  grappolo  quei  polloni  che  nascono 
sul  ceppo  o  vecchio  tronco  della  vite,  specialmente  nei  paesi  meri- 
dionali, od  in  qualche  vite  a  pergolato;  2°)  talvolta  vedonsi  grappoli 
sui  getti  estivi  (le  femminelle)  che  spuntano  all'ascella  delle  foglie 
dei  getti  primaverili:  ma  in  rari  casi  si  è  potuto  trarre  partito  da 
queste  fruttificazioni  anormali. 

La  fioritura  della  vite  è  singolarmente  favorita  da  una  primavera 
calda  e  moderatamente  umida:  è  un  errore  quello  di  credere  che  l'u- 
mido sia  assolutamente  dannoso  ai  fiori,  perchè  è  a  sapersi  che  senza 
l'azione  di  esso  sul  polline  la  fecondazione  non  potrebbe  aver  luogo:  i 
granelli  pollinici  si  gonfiano  per  endosmosi,  le  loro  pieghe  scompaiono 
(pag.  145)  ed  essi  finiscono  per  emettere  il  loro   contenuto,  d'onde 


BOTANICA  DELLA  VITE  189 

la  fecondazione.  Certo  però  le  pioggie  abbondanti  sono  molto  dan- 
nose, perchè  disperdono  il  polline.  Dannosissimo  è  pure  il  freddo,  e 
sovratutto  il  freddo  accompagnato  da  molta  umidità,  nel  qual  caso 
il  fiore  della  vite  abortisce  facilmente. 

L'osservazione  ci  ha  pure  appreso  che  la  viva  luce  solare  favo- 
risce in  modo  singolare  la  fioritura  della  vite;  per  cui  quando  la 
primavera  si  mantiene  calda,  con  cielo  abitualmente  sereno,  e  mo- 
deratamente umida,  la  vendemmia  è  in  generale  abbondante,  se  non 
soppraggiungono  avversità. 

La  fioritura  avviene  nell'ordine  seguente:  prima  fioriscono  i  grap- 
poli della  base  del  germoglio,  poi  gli  altri;  e  nel  grappolo  prima  fio- 
riscono gli  acini  che  stanno  presso  il  gambo:  adunque  la  fioritura 
avviene  secondo  lo  stesso  ordine  con  cui  si  formano  i  grappoli  sui 
tralci  e  gli  acini  sulla  rachide. 

Come  ha  luogo  la  fioritura  della  vite?  Un  tempo  si  riteneva  che  la 
fecondazione  degli  ovuli  avvenisse  a  vaso  chiuso,  cioè  sotto  la  cuffia 
della  corolla  quinquepetala  (pag.  109);  poscia  si  credette  che  la  vite 
appartenesse  alla  classe  delle  piante  anemofile,  cioè  fecondate  per 
opera  del  vento,  quale  veicolo  pel  trasporto  del  polline;  così  essendo 
è  evidente  che  non  può  arrivare  il  polline  sugli  stimmi  se  non 
quando  la  cuffia  sia  caduta.  Ma  oggidì  si  ritiene  che  siano  gli  m- 
settì  i  pronubi  della  vite,  e  lo  si  argomenta  anche  dal  fatto  che  i 
fiori  della  vite  sono  provvisti,  come  già  sappiamo  (pag.  143)  di  glan- 
dole  nettariche  che  esalano  gratissimo  odore;  queste  glandole  infatti 
non  si  essicano  se  non  quando  la  fioritura  è  finita. 

Abbiamo  fatto  alcune  ricerche  sulla  impollinazione  nei  fiori  della 
vite  e  vogliamo  qui  riferirle  a  complemento  di  quanto  ora  dicemmo. 

Oramai,  dietro  le  osservazioni  dell'illustre  botanico  dott.  Engel- 
mann  di  San  Luigi  (Missouri),  non  v'ha  più  alcun  dubbio  che  la  vite 
selvatica,  ne'  luoghi  primitivi  della  sua  origine  (e  ciò  sia  che  si 
tratti  di"  vite  asiatico-europea,  di  vite  americana  o  di  qualsiasi  altra 
vera  vite)  è  poligama;  ciò  vuol  dire  che  vi  sono  le  piante  che  por- 
tano unicamente  fiori  maschi,  e  le  piante  che  portano  o  fiori  com- 
pleti (maschi  e  femmine;  ermafroditi)  o  rarissime  volte  fiori  femminei; 
in  una  parola  fiori  fertili,  mentre  i  primi  sono  sterili.  Faremo  però 
notare  che  i  fiori  fertili  sono  quasi  sempre  ermafroditi,  perchè  (come 
dice  Engelmann)  non  pare  essersi  mai  osservati  fiori  femminei  sprov- 
visti di  stami.  Così  se  noi  seminiamo  dei  vinacciuoli,  otteniamo  sog- 
getti  sterili   e   soggetti  fertili;  questi  ultimi  sono  a  fiori  completi,  e 


190  CAPITOLO  IV 


sono  quelli  che  noi  prescegliamo  per  la  coltura,  distruggendo  gli 
altri,  locchè  ci  pare  un  errore,  come  diremo  fra  breve. 

La  fecondazione  dei  fiori  della  vite  può  dunque  aver  luogo  in  tre 
modi  diversi,  cioè  con  tre  pollini;  o  col  polline  dei  soggetti  sterili,  a 
fiori  maschi,  o  col  polline  di  altri  stami  che  non  siano  quelli  dell'o- 
vario fecondato,  ma  di  fiori  ermafroditi,  o  infine  col  polline  dei  cin- 
que stami  medesimi  che  circondano  il  pistillo  o  ovario  fecondato.  — 
La  prima  maniera  di  impollinazione  si  chiama  impollinazione  o  fe- 
condazione dioica  (1),  la  seconda,  monoica  (2),  e  la  terza,  omoclina. 

Ora,  le  osservazioni  già  fatte  da  Hildebrand  e  da  Delpino  sull'a- 
rancio e  su  altre  piante,  porterebbero  a  credere  che  la  forza  fecon- 
dativa sia  variabile  nei  tre  suddetti  casi  d'impollinazione.  Così,  par- 
rebbe potersi  ammettere  che  quando  ha  luogo  la  fecondazione  omo- 
clina, si  abbia  l'infimo  grado  di  forza  fecondativa  e  per  ciò  zero  semi 
nell'acino  d'uva;  che  quando  invece  ha  luogo  un'impollinazione  mo- 
noica, si  abbia  un  grado  sensibilmente  maggiore,  potendo  variare  il 
numero  dei  semi  da  1  a  2  a  3;  e  che  infine  quando  può  verificarsi 
la  fecondazione  dioica,  allora  si  abbia  il  massimo  di  forza  fecondativa 
e  4  vinacciuoli  nell'ovario,  cioè  nell'acino. 

Per  vedere  quanto,  riguardo  alla  vite,  si  verifichi  in  natura  a 
questo  proposito  (poiché  pare  che  fin'ora  non  siansi  fatte  esperienze 
dirette,  ma  solo  si  sia  scritto  dietro  congetture  e  raffronti)  abbiamo 
fatto  le  seguenti  prove. 

Varii  grappolini  d'uva  barbera,  i  quali  non  erano  ancora  in  fiori- 
tura, vennero  introdotti  entro  leggere  boccettine  di  cristallo,  chiudendo 
poscia  queste  con  cura  attorno  al  gambo  del  grapp olino  stesso,  in 
guisa  che  assolutamente  non  potesse  penetrarvi  verun  insetto  appor- 
tatore di  polline,  e  solo  si  avesse  una  leggera  aerazione,  Questi  grap- 
polini non  potevano  ricevere  altro  polline  che  quello  dei  loro  stami;  — 
ciò  non  costituiva,  è  vero,  una  impollinazione  omoclina  propriamente 
detta,  perchè  entro  ogni  boccettina  vi  erano  varii  fiori  il  cui  polline 
poteva  incrociarsi,  ma  intanto  era  escluso  il  polline  non  solo  di  altri 
grappoli  dello  stesso  soggetto,  ma  altresì  quello  di  altri  soggetti,  il  quale 
come  vedremo,  può  avvicinarsi,  in  quanto  ad  attività  fecondatrice,  al 
polline  dei  fiori  maschi.  L'uva  allegò  bene  nelle  boccettine,  che  furon 
rotte  a  suo  tempo,  ed  ecco  il  numero  esatto  dei  semi  che  trovammo 
in  ogni  acino: 


(1)  Ce  ne  porge  un  esempio  comunissimo  la  canapa. 

(2)  Ce  ne  porge  pure  un  esempio  la  meliga  (maiz). 


BOTANICA  DELLA  VITE  191 

Con  un  solo  vinacciuolo  N.  210  acini 

N.  280  acini  \    Con  due  vinacciuoli           »  60      » 

di  berbara    j    Con  tre  vinacciuoli             »  10       » 

\    Con  quattro  vinacciuoli     »  0      » 

Per  confronto  prendemmo  ugual  numero  d'acini  della  stessa  uva, 
di  vitigni  allevati  collo  stesso  sistema  (alberello)  e  posti  nello  stesso 
vigneto:  ecco  i  risultati  della  controprova: 

[    Con  un  solo  vinacciuolo  N.     40  acini 
N.  280  acini  ]    Con  due  vinacciuoli  »      60     » 

di  barbera     \    Qon   tre   vinacciuoli  »      100      » 

\    Con  quattro  vinacciuoli     »      80     » 

Ci  pare  che  questo  esperimento  dia  ragione  alle  suddette  conget- 
ture, e  permetta  anche  di  "farvi  qualche  utile  aggiunta  per  la  viti- 
cultura. 

In  primo  luogo  sta  il  fatto  che  quando  un  fiore  di  vite  riceve  il 
polline  d'altri  fiori  (meglio  se  questi  fiori  appartengono  ad  altri  grap- 
poli o  ad  altri  soggetti),  la  fecondazione  è  sicura,  efficace;  ed  au- 
menta il  numero  dei  semi,  mentre  questi  senza  dubbio  darebbero  sog- 
getti assai  robusti  qualora  fossero  confidati  al  suolo.  Converrebbe 
dunque  di  avere  frammezzo  alle  nostre  viti  varii  soggetti  maschi, 
benché  sterili,  nella  proporzione  ad  esempio  di  uno  ogni  cinquanta 
ceppi  di  vite.  La  fecondazione  in  primavera  si  farebbe  meglio,  sa- 
rebbe cioè  completa,  e  non  abortirebbero  tanti  fiori,  come  accade  con 
certe  varietà  dei  nostri  vitigni. 

In  secondo  luogo  si  può  ritenere  che  il  polline  dei  fiori  che  ap- 
partengono ad  uno  stesso  grappolo,  ha  una  debole  forza  fecondatrice 
su  quei  fiori  stessi,  ed  il  numero  dei  semi  si  riduce  ad  uno  circa  per 
acino;  ci  avviciniamo  quindi  alla  fecondazione  omoclina,  con  zero  semi, 
sulla  quale  converrà  però  fare  esperienze  dirette. 

In  terzo  luogo  può  stabilirsi  che  il  polline  proveniente  da  fiori  eh  e 
stanno  su  altri  soggetti  ermafroditi,  od  anche  su  altri  grappoli  dello 
stesso  soggetto,  ha  una  forza  fecondativa  assai  superiore  a  quella 
del  caso  precedente,  come  risulta  dall'esame  dei  280  acini  dell'espe- 
rimento di  confronto. 

In  quarto  luogo  infine  è  a  ritenersi  che  nella  fecondazione  dei  fiori 
della  vite  v'ha  un  continuo  incrociamento  di  polline,  non  solo  tra  un 


192  CAPITOLO  IV 


grappolo  e  l'altro  della  stessa  pianta,  ma  anche  fra  i  grappoli  dei 
diversi  soggetti:  vuol  dire  adunque  che  i  semi  difficilmente  riprodur- 
ranno i  caratteri  individuali  della  pianta  madre.  Ciò  infatti  è  oramai 
noto  a  tutti  coloro  che  hanno  seminato  vinacciuoli;  anzi  questo  ibri- 
dismo è  molto  temuto  ora  in  Francia  per  le  viti  americane  colà  col- 
tivate, dei  cui  semi  si  fa  commercio,  perchè  si  è  osservato  che  ne 
nascono  soggetti  meno  resistenti  alle  punture  della  fillossera.  A  con- 
ferma di  ciò  diremo  che  il  professore  G.  Foéx,  raccomandando 
la  seminagione  di  alcune  viti  americane,  dopo  aver  consigliato  di 
«  scegliere  delle  razze  le  cui  proprietà  di  resistenza  non  siano  state 
«  alterate  dalla  ibridazione  colle  nostre  viti  indigene  »  soggiunge 
che  conviene  attenersi  specialmente  alle  viti  Riparia,  «  grdce  à 
«  la  hdtiveté  de  leur  floraison,  qui  exclui  tonte  chance  d'hybri- 
«  dation.  »  {Messager  Agric.  du  Midi  n.  2,  1880). 

Osserveremo  infine,  che  se  la  esperienza  sovracitata  conclude  in 
favore  della  impollinazione  dicog amica  (cioè  mediante  incrocia- 
mento di  polline)  ciò  è  in  perfetta  armonia  colle  leggi  naturali.  La 
dicogamìa  infatti  è  legge  universale,  ed  i  botanici  più  insigni  ci  di- 
cono che  essa  è  valida  e  nel  regno  vegetale  e  nel  regno  animale, 
nelle  crittogame  inferiori  e  nelle  superiori,  nelle  ginnosperme  e  nelle 
angiosperme,  nelle  dicotiledoni  e  nelle  monocotiledoni.  Sin  dal  1793 
Sprenghel  scrisse:  «  pare  che  la  natura  abbia  voluto  che  niun  fiore 
ermafrodita  sia  fecondato  col  polline  proprio  ».  Knight,  sette  anni 
più  tardi,  provò  che  se  si  adduce  agli  stimmi  polline  eteroclino,  si 
ottengono  semi  più  numerosi  e  una  posterità  più  robusta  che  non 
altrimenti.  Herbert  nel  1837  concluse  analogamente,  accennando  ad 
un  maggior  numero  di  semi  e  ad  una  prole  più  robusta.  Lo  stesso 
concluse  Darwin  nel  1858.  Infine  ci  dicano  uguali  cose  Delpino,  Hil- 
debrand,  Axell,  Ricca,  Erm.  Mùller,  Fr.  Mùller  ed  altri  illustri  bo- 
tanici. Il  nostro  Delpino  intanto  diede  a  quella  legge  il  nome  di  legge 
della  dicogamia. 

Sta  bene  che  nelle  piante  non  si  hanno  sempre  le  nozze  incrociate; 
ma  questa  è  una  previdente  disposizione  della  natura,  dal  momento 
che  i  vegetali  essendo  immobili  ed  avendo  organi  sessuali  pure  im- 
mobili, andrebbero  incontro  a  molti  inconvenienti  riguardo  alla  fe- 
condazione, locchè  non  si  verifica  nel  regno  animale.  La  natura  ha 
però  provvisto  che  vi  siano  dei  pronubi  (insetti,  uccelli  melifagi, 
vento,  acqua,  e  in  casi  rarissimi  le  lumache)  i  quali  si  incaricano 
di  portare  il  polline  eteroclino  (che  è  il  più  attivo)   da  un  soggetto- 


BOTANICA  DELLA  VITE  193 


all'altro.  Tutto  porta  a  credere  che,  nel  caso  della  vite,  siano  le 
mosche  gli  agenti  principali  della  traslazione  del  polline  o  gli  insetti 
in  genere  come  dicemmo  più  sopra;  su  di  che  ci  riserviamo  di  fare 
speciali  osservazioni:  —  sta  intanto  che  i  fiori  della  vite  non  sono 
adattati  all'impollinazione  per  mezzo  del  vento.  Naturalmente  essendo 
talvolta  deficiente  il  numero  delle  mosche  —  per  sfavorevoli  condi- 
zioni climatologiche  in  primavera  —  allora  ha  luogo  una  feconda- 
zione con  polline  omoclino  (cioè  senza  incrociamento):  ma  questo  pol- 
line è  poco  attivo,  ed  allora  molti  fiori  possono  abortire. 

6.°  Fruttificazione  della  vite.  Ed  eccoci  all'  atto  fisiologico 
precipuo,  massime  pel  viticultore  che  chiede  alla  vite  frutti  abbon- 
danti e  di  qualità  pregiata.  Vediamo  anzitutto  quanto  riguarda  il 
tralcio  frutticoso.  Esso  prende  origine  dalle  gemme  ascellari.  La 
gemma  è  verosimilmente  in  origine  una  cellula  vegetale,  cioè  un 
corpicciuolo  tondeggiante  formato  da  una  membrana  (cellulosa)  rac- 
chiudente un  nocciolo  di  sostanza  più  consistente,  il  quale  nuota  in 
un  liquido;  —  quando  poi  il  bottone  è  costituito  ed  ha  perforato  la 
corteccia,  presenta  nel  suo  interno  (cioè  entro  l'involucro  delle  scaglie 
protettrici)  un  embrione  di  germoglio,  del  quale  tutte  le  parti  late- 
rali —  i  rudimenti  delle  foglie  e  fors' anche  delle  gemme  fiorifere, 
foglifere  o  miste  —  stanno  quasi  diremmo  rannicchiate,  pieghettate 
attorno  ad  un  cortissimo  asse  (H.  De  Jussieu),  per  modo  da  occu- 
pare il  minore  spazio  possibile.  Come  avvenga  che  da  una  semplice 
cellula  si  formi  grado  grado  questo  bottone,  non  lo  si  sa  fin'ora;  si 
può  solo  ammettere  con  Raspail  che  la  gemma  si  costituisca  a  spese 
degli  strati  esterni  dell'alburno,  e  che  per  segmentazioni  incessanti 
(strozzature)  della  cellula  madre  da  cui  trasse  origine,  essa  finisca 
per  allungarsi  sotto  la  corteccia,  rendendosi  infine  esterna. 

Ora  se  è  vero  che,  consentaneamente  alle  razionali  idee  del  Ra- 
spai^ al  ritorno  della  primavera  l'alburno  dovrà  nutrire  gli  organi 
più  interni,  fra  cui  cotali  bottoni  latenti,  nessun  dubbio  che  esso  si 
andrà  esaurendo,  passando  in  parte  allo  stato  di  libro,  e  confonden- 
dosi per  tal  maniera  col  libro  degli  anni  antecedenti,  per  poi  passare 
allo  stato  di  corteccia  ed  infine  essicarsi  affatto.  Quindi  è  che  la 
pianta  sentirà  un  potente  bisogno  di  riparare  a  queste  perdite  per 
le  quali  il  legno  si  fa  alburno,  l'alburno  si  fa  libro,  ed  il  libro  cor- 
teccia. Se  la  pianta  si  troverà  in  condizioni  di  provvedere  a  questo 
suo  accrescimento  per  intuscezione,  vuol  dire  che  avrà  un  alburno 
ricco  di  materiali  atti  alla  buona  costituzione  delle  gemme  ed  al  loro 
0.    Ottayi,   Trattato  di  Viticoltura.  14 


194  CAPITOLO  IV 


accrescimento;  per  cui  ognuna  di  esse,  uscita  che  sia  di  sotto  la  cor- 
teccia, conterrà  nel  suo  interno  un  embrione  di  germoglio  provvisto 
di  parecchie  gemme  fiorifere.  Allungatosi  poi  il  germoglio  a  prima- 
vera, cotali  gemme  ci  daranno  i  grappoli.  Ogni  gemma  ne  contiene 
allo  stato  rudimentale  due  o  tre;  è  raro  che  non  ve  ne  siano  affatto; 
ma  non  è  egualmente  raro  il  loro  aborto,  per  cui  il  germoglio  nasce 
e  si  sviluppa  senza  portare  frutti.  Così  quando  la  gemma  si  costi- 
tuisce sotto  cattive  condizioni,  sovratutto  perchè  la  pianta  è  contra- 
riata dal  cattivo  andamento  delle  stagioni,  questi  embrioni  di  grap- 
poli possono  benissimo  fallire  completamente,  o  ridursi  ad  uno  solo 
per  bottone. 

Nel  tralcio  frutticoso  adunque  si   devono   considerare:  1°  i   frutti 
pendenti;  2°  i  bottoni  frutticosi  per  l'anno  successivo. 

Passiamo  ora  a  studiare  le  gemme,  le  quali   sono   la  base   della 
fruttificazione. 

Poiché  i  getti  primaverili  portanti  uva  nascono  dà  gemme,  vuol 
dire  che  il  loro  vigore,  la  loro  potenza  fruttificatrice  sarà  anzitutto 
in  relazione  diretta  colla  fecondità  delle  singole  gemme  madri.  Oltre 
a  ciò  se  questa  gemma  non  troverà  nel  legno  del  tralcio  (alburno) 
e  nel  succo  ascendente  quella  copia  di  alimenti  che  le  tornano  in- 
dispensabili, specialmente  durante  i  primi  momenti  del  suo  sviluppo 
e  della  cresciuta  del  proprio  germoglio,  darà  un  getto  meschino  e 
poco  fruttifero.  Dunque  quello  che  è  il  suolo,  ad  esempio,  per  il 
seme  di  frumento,  è  il  tralcio  di  un  anno  per  la  gemina.  Le 
radici  non  hanno  grande  influenza  nei  primi  momenti  della  germo- 
gliazione  e  della  cresciuta  dei  teneri  germogli;  prova  ne  sia  che  se 
si  pone  in  terra  un  pezzetto  di  tralcio  munito  di  alcune  gemme, 
queste  danno  piccoli  germogli  anche  prima  d'aver  cacciato  radici,  le 
quali  possano  elaborare  materiali  del  suolo.  A  suo  tempo  poi,  e  col 
comparire  delle  foglie,  le  radici  incomincieranno  la  loro  opera  ali- 
mentatrice,  perchè  allora  le  fibre  radicali  della  gemma  stessa  si  sa- 
ranno già  intrecciate,  o  diremo  meglio  anastomizzate,  colle  fibre  cor- 
ticali del  libro  preesistente.  Da  questo  punto  il  germoglio  cessa  di 
essere  un  parassita,  ma  fa  parte  attiva  del  vegetabile,  perchè  le  sue 
parti  verdi  incominciano  ad  assorbire  acido  carbonico  e  fors'  anche 
ossigeno.  Come  si  vede,  havvi  un  periodo  abbastanza  lungo,  durante 
il  quale  la  pianta  madre  deve  alimentare  del  proprio  non  pochi  pa- 
rassiti; sono  dessi  i  bottoni  (veri  svernatoi  di  Linneo)  che  spuntano 
all'ascella  delle  foglie  in  primavera  sui  rametti  dell'annata.  Essi  vi- 


BOTANICA  DELLA  VITE  195 

vono  a  spese  della  madre  tutta  l'estate,  tutto  l'autunno  ed  il  verno 
successivi,  nonché  una  parte  della  primavera,  benché  già  sviluppa- 
tisi in  teneri  germogli,  e  non  cessano  dal  loro  parassitismo  che  al- 
lorquando questi  ultimi,  per  la  loro  corteccia  recente  (che  è  verde) 
e  poi  per  le  prime  foglioline,  incominciano  ad  assorbire  acido  car- 
bonico e  fors'  anche  ossigeno  in  presenza  della  luce. 

Durante  tutto  questo  periodo  si  forma  pertanto  la  fruttifica- 
zione dell'anno  agrario  successivo,  fruttificazione  che  sarà  più 
o  meno  abbondante  a  seconda  delle  condizioni  metereologiche 
alle  quali  sarà  stata  soggetta  la  pianta  madre  nell'anno  agrario 
precedente. 

Le  gemme  infatti  avranno  risentito  esse  pure  l'influenza  di  queste 
condizioni  atmosferiche  e  se  la  madre  sarà  stata  contrariata  nella 
sua  vegetazione,  anche  le  gemme  dovranno  crescere  mal  costituite 
e  dare  Tanno  dopo  germogli  poco  o  punto  fruttiferi.  E  tutto  ciò 
perchè  ogni  influenza  metereologica  alquanto  costante,  si  tra- 
duce in  un  fatto  fisiologico  più  o  meno  importante. 

La  fruttificazione  futura  non  sarà  quindi  altro  che  la  risultante 
delle  varie  influenze  meteorologiche  dell'anno  anteriore,  tenendo  cal- 
colo, ben  inteso,  della  cooperazione  del  suolo  e  dei  concimi,  coope- 
razione che  noi  possiamo  già  valutare  in  anticipazione  con  grande 
certezza.  Anzi,  ci  preme  di  insistere  su  questo  punto,  acciò  non 
si  creda  che  siamo  ciechi  seguaci  dell'antica  massima  annus  fructi- 
ficai,  non  tellus,  che  pecca  alquanto  di  assolutismo,  tuttoché  sia  in 
parte  giusta. 

In  conclusione:  1°  La  fruttificazione  che  in  maggio  vediamo 
sulle  viti,  è  il  frutto  d'un  lavorìo  interno  della  pianta,  il  quale 
ebbe  a  durare  12  mesi  o  poco  meno;  2°  Le  gemme  spuntate  su 
tralci  dell'annata,  i  quali  più  propriamente  si  debbono  dire  germogli, 
e  che  mettono  quasi  un  anno  a  costituirsi,  possono  dare,  al  loro  schiu- 
dersi, getti  molto,  poco  o  punto  frutticosi;  invece  le  gemme  che  sor- 
gono sul  legno  di  soli  2,  di  3,  di  4  e  più  anni,  non  possono  (fatte 
rarissime  eccezioni)  dare  getti  fruttiferi,  per  quanto  siano  bene  co- 
stituite fin  dalla  loro  origine. 

Orbene  l'osservazione  ha  provato,  come  ci  fu  dato  constatare  per 
oltre  un  ventennio  (1),  che  «  durante  una  primavera  calda  e  so- 
pratutto poco  piovosa,  nelle  viti  rigogliose,  in  terre  fertili,  ben  te- 


(1)  Vedi  il  capitolo  Carpoprognosia. 


196  CAPITOLO  IV 


nute,  dell'alta  e  media  Italia,  nonché  nelle  regioni  alte  e  fresche  del 
Mezzodì,  le  gemme  ascellari  primaverili  che  debbono  svolgersi  nel 
successivo  anno,  si  organizzano  bene.  »  Giovano  pure  allo  stesso 
intento  uri  estate  ed  un  autunno  egualmente  caldi  e  poco  pio- 
vosi, e  giova  infine  il  non  essere  la  pianta  troppo  carica  di  frutti. 
Infatti  i  frutti,  che  sono  veri  parassiti  della  pianta  madre,  danneg- 
giano anche  e  gravemente  le  dette  gemme  ascellari,  ed  è  per  questo 
che  due  annate  di  copiosissima  vendemmia  può  dirsi  che  non  si  se- 
guono mai. 

È  superfluo  poi  soggiungere  che  i  concimi  ed  i  lavori  oppor- 
tuni aiutano,  come  diremo  a  suo  luogo,  la  fruttificazione  in  modo 
potente,  e  possono  in  parte,  se  non  in  tutto,  rimediare  alla  si- 
nistra influenza  di  cattive  condizioni  climateriche. 

Vediamo  ora  le  relazioni  che  passano  fra  le  gemme  ascellari,  le 
foglie  e  le  femminelle.  All'ascella  della  foglia  ove  trovasi  la  gemma 
fruttifera,  sorge  spesso,  per  non  dir  sempre,  una  femminella,  per  cui  il 
bottoncello  rimane  collocato  tra  questa  ed  il  picciuolo  della  accennata 
foglia.  Le  femminelle  già  sappiamo  che  sono  rimessiticci  (o  cacchii  o  getti) 
che  spuntano  sul  finire  della  primavera,  specialmente  su  quei  tralci  uviferi 
i  quali  furono  spuntati  al  principio  della  stessa  stagione.  Cosi,  dove 
si  cimano  molto  questi  tralci  frutticosi,  le  femminelle  sono  assai  più 
numerose  che  non  colà  dove  non  si  pratica  la  cimatura,  come  pure 
là  dove  le  piante  sono  poco  rigogliose.  Ma  a  che  cosa  servono 
le  femminelle?  Esse  hanno  due  uffici,  ed  ambedue  della  maggior  por- 
tata. L'uno  è  quello  di  permettere  col  loro  mezzo  alla  vite  quello 
sfogo  vegetativo  che  le  è  indispensabile,  siccome  pianta  per  natura 
rampicante  e  tendente  ad  estendersi  per  ogni  verso.  L'altro  è  quello 
di  giovare  alla  fruttificazione  dell'  anno  susseguente  a  quello  della 
loro  vita  vegetativa.  Bisogna  che  spieghiamo  bene  questi  due  punti, 
perchè  speriamo  cosi  di  poter  dissipare  varii  errori  che  si  commet- 
tono nel  cimare.  La  vite  è  un  frutice  a  rami  rampicanti,  i  quali, 
se  l'uomo  non  intervenisse  col  ferro  a  moderarne  il  rigoglio,  si  esten- 
derebbero rapidamente,  e  quasi  diremmo  prepotentemente  da  ogni 
lato,  avvitichiandosi  coi  capreoli  ai  sostegni  e  salendo  lunghesso  i 
medesimi  sino  a  grandi  altezze.  Se  il  viticultore  inceppa  questa  ten- 
denza naturale  della  preziosa  nostra  ampelidea,  accade  che  essa  ne 
soffre  più  o  meno  a  seconda  del  suo  stato  di  robustezza;  ed  in  tesi 
generale  può  stabilirsi  che  i  tagli  ripetuti,  energici  e  frequenti, 
siano  essi  su  rami  giovani  o  vecchi,  sono  sempre  dannosi  alla 


BOTANICA  DELLA  VITE  197 

pianta  nel  senso  che  ne  provocano  il  precoce  invecchiamento.  Of- 
fendendo i  rami,  infatti,  noi  offendiamo  le  radici.  Ma  se  il  viticul- 
tore  avveduto  limita  al  puro  necessario  le  amputazioni  alle  sue  viti, 
può  averne  eccellenti  risultati.  Si  osservi  che  cimando  i  tralci  uvi- 
feri spuntati  a  primavera,  spunta  tosto  a  fianco  alla  gemma  ap- 
pena nascente  che  si  disegna  su  di  essi,  una  femminella,  oltre  alla 
consueta  foglia.  È  codesta  la  manifestazione  d'un  prepotente  bisogno 
naturale  della  vite:  il  viticultore  le  impedisce  di  allungarsi  ed  esten- 
dersi per  mezzo  dei  tralci  uviferi  che  egli  le  ha  spuntato,  ed  essa 
caccia  rimessiticci  coi  quali  può  liberamente  espandersi.  Se  il  viti- 
cultore  allora  spunta  o  cima  anche  questi  rimessiticci,  la  vite  manda 
fuori  delle  sotto- femminelle,  perchè  quello  che  fu  chiamato  sfogo 
vegetativo  le  è  indispensabile.  Ed  ecco  qual'  è  il  primo  ufficio  delle 
femminelle. 

Ma  dicemmo  anche  che  esse  giovano  pure  alla  fruttificazione  fu- 
tura, e  precisamente  a  quella  dell'anno  che  segue.  Si  badi  infatti  che 
l'umile  bottone  che  sta  alla  loro  base,  cioè  presso  il  loro  punto  d'in- 
serzione, non  può  provvedere  da  solo  che  molto  debolmente  alla  sua 
cresciuta,  né  perfezionarsi  secondo  quanto  dicemmo  più  sopra.  Il  suo 
potere  assorbente  è  assai  poca  cosa,  massime  relativamente  al  ter- 
reno: esso  si  accresce  a  spese  dei  materiali  del  tralcio  stesso,  ma 
noi  riteniamo,  dietro  1'  osservazione  di  moltissimi  fatti,  che  ciò  non 
gli  basti  per  farsi  uu  turgido  bottone  fruttifero.  La  natura  però  ha 
pensato  a  codesto,  e  lo  ha  provveduto  di  una  foglia  che  gli  sorge 
accanto.  Anche  ciò  è  ottimo  per  la  buona  costituzione  della  gemma, 
perchè  la  foglia,  che  è  il  laboratorio  della  pianta,  lavora  anzi- 
tutto a  beneficio  della  sua  gemma  ascellare.  Queste  gemme 
ascellari  però  non  danno  sempre  molta  uva;  le  prove  di  ciò  sono 
qui  in  Monferrato,  di  dove  scriviamo,  numerosissime,  e  lo  consta- 
tammo molte  volte  osservando  i  getti  non  fruttiferi  dello  sperone. 
Ma  se,  come  fa  taluno,  si  provoca  lo  sviluppo  delle  femminelle  ac- 
canto alle  gemme  dei  futuri  speroni,  ecco  che  l'anno  dopo  si  ha  uva. 
Adunque  la  femminella  coadiuva  potentemente  la  foglia  suddetta  a 
fecondare  la  gemma,  la  quale  allora  presenta  altresì  sotto  di  sé,  in 
autunno,  un  bel  rigonfiamento  del  legno  (una  specie  di  mensoletta 
o  cuscinetto  polputo)  racchiudente  una  sostanza  di  apparenza  ami- 
lacea, la  quale  funge  la  stessa  parte  che  fungono  nei  semi  i  cotile- 
doni; cioè  deve  alimentare  il  tenero  germoglio  nella  successiva  pri- 
mavera sino  a  che  esso  non  abbia  cacciato  le  foglie  ed  intrecciate 
le  sue  fibre  radicali,  colle  fibre  corticali  del  libro. 


198  CAPITOLO  IV 


Ma  non  tutte  le  gemme  d'un  tralcio  frutticoso  sono  feconde, 
e  fra  le  feconde  non  tutte  lo  sono  in  uguale  misura.  Generalmente 
parlando  le  prime  gemme  dei  capi  a  frutto  sono  poco  frutticose,  e 
sono  poi  sempre  meno  feconde  delle  gemme  che  stanno  sulla  parte 
mediana  e  sulla  parte  estrema  dei  capi  stessi.  Queste  gemme  infe- 
riori si  possono  a  dirittura  considerare  come  sterili  allorquando  si 
sono  organizzate  sotto  la  influenza  d'un'estate  umida  e  poco  calda: 
infatti  in  questo  caso  le  viti  continuano  senza  posa  a  cacciare  fem- 
minelle e  foglie  e  bottoni  ascellari,  e  perfino  femminelle  sulle  femmi- 
nelle, e  per  ciò  le  gemme  che  si  trovano  alla  base  del  futuro  tral- 
cio frutticoso  non  possono  organizzarsi  bene,  ed  i  loro  serbatoi  riescono 
meno  bene  provvisti  di  materiali  utili:  ciò  non  accade  alle  gemme 
della  parte  superiore  del  futuro  tralcio,  perchè  essendo  questa  por- 
zione di  tralcio  penzoloni,  ricurvata  ed  assai  meglio  esposta  alla  luce 
ed  al  calore,  quelle  gemme  si  fanno  più  turgide  e  feconde,  coi  loro  ser- 
batoi ben  forniti  di  materiali  nutritizii.  Infatti  se  restate  trascorre 
molto  umida  accade  che  le  gemme  meglio  sviluppate  sono  quelle 
della  punta  dei  germogli  primaverili.  Potando  corto,  in  questi 
casi,  si  otterrebbe  ben  poca  uva  perchè  si  reciderebbe  la  parte  mi- 
gliore del  tralcio;  per  questo  noi  crediamo  che  la  potatura  debba  su- 
bire da  un  anno  all'altro  qualche  variante,  che  il  viticultore  stabi- 
lirà dietro  l'osservazione  attenta  delle  condizioni  meteorologiche  cui 
la  vite  fu  soggetta  durante  il  periodo  in  cui  si  prepara  la  fruttifi- 
cazione futura. 

Il  perchè  le  gemme  della  base  dei  tralci  frutticosi  siano  general- 
mente assai  meno  frutticose  di  quelle  della  parte  mediana  e  della 
estrema,  ci  pare  di  poterlo  rintracciare  considerando  quanto  segue: 
noi  sappiamo  che  se  si  piega  orizzontalmente  a  primavera  un  tralcio 
frutticoso,  il  succo  subisce  un  rallentamento  nel  suo  moto,  ed  i  bot- 
toni si  costituiscono  assai  bene,  facendosi  turgidi  e  fecondi,  mentre 
è  pur  noto  che  i  tralci  diritti  o  verticali  danno  sempre  pochis- 
simi frutti.  Consentaneamente  a  ciò  noi  vediamo  che  sono  poco  o 
punto  feconde  le  gemme  le  quali  si  trovano  sulla  porzione  verticale 
dei  tralci,  mentre  quelle  cresciute  e  sbucciate  sulla  porzione  oriz- 
zontale o  ricurva  sono  assai  più  ubertose. 

Non  bisogna  però  scordare  la  efficacia  delle  cimature  graduali, 
fatte  prima  della  fioritura,  sulla  fecondazione  dei  bottoni  inferiori  del 
futuro  tralcio  a  frutto;  quelle  svettature  oltre  a  cagionare  esse  pure 
un  arresto  nel  movimento  della  sava,  provocano  l'uscita  delle  fem- 


BOTANICA  DELLA  VITE  199 


minelle  a  lato  dei  bottoni  medesimi;  le  quali  femminelle,  come  dice- 
vamo or  ora,  loro  recano  non  piccolo  giovamento.  Ma  lasciamo  in 
disparte  per  ora  le  cimature  e  stiamo  al  nostro  argomento,  cioè 
alla  maggior  fecondità  delle  gemme  medie  e  superiori  dei  tralci  a 
frutto. 

Le  gemme  di  un  tralcio,  che  vuoisi  destinato  alla  futura  fruttifi- 
cazione, si  possono  a  nostro  avviso  dividere  in  due  gruppi:  le  prima- 
verili e  le  estive.  Le  prime  si  disegnano  sul  tralcio  crescente,  gene- 
ralmente in  maggio  ed  in  parte  di  giugno;  le  seconde  si  formano  in 
giugno  e  luglio  ad  un  dipresso:  or  bene,  la  differenza  che  passa, 
meteorologicamente  parlando,  fra  le  dette  due  stagioni  si  traduce  in 
una  differente  fecondità  delle  gemme  frutticose,  e  ciò  a  parte  l'in- 
fluenza della  piegatura  del  tralcio,  delle  cimature,  delle  incisioni  anu- 
lari e  via  dicendo. 

Infatti  le  gemme  che  chiamammo  primaverili  nascono  in  una  sta- 
gione meno  calda  e  spesso  più  umida  che  non  le  estive;  il  succo 
nutritore  è  allora  più  acquoso,  e  l'analisi  chimica  ci  dice  che  la  sua 
composizione  varia  sensibilmente  col  progredire  della  stagione.  E 
varia  anche  innalzandosi  nella  pianta,  perchè  nel  suo  tragitto  si  ca- 
rica di  materia  organica;  è  per  questo  che  nella  linfa  della  parte  in- 
feriore della  vite  v'ha  invece  predominio  di  materia  minerale  (pag.  174). 
Le  gemme  estive  adunque,  che  sono  poi  le  superiori,  si  trovano  in  con- 
dizione di  meglio  organizzarsi;  nei  loro  serbatoi  si  accumula  quindi 
molta  sostanza  amilacea,  ed  a  ciò  contribuisce  lo  stesso  calore  estivo, 
infine  sono  più  feconde  l'anno  successivo. 

Concludendo  si  potrebbe  consigliare  a  parer  nostro  l'accecamento 
delle  due  gemme  inferiori,  al  massimo  tre,  del  tralcio  frutticoso  (1) 
perchè  con  esso  si  ottengono  varii  vantaggi,  cioè  1°)  s'impedisce  l'uscita 
di  germogli  quasi  sempre  infecondi,  e  veri  ghiottoni;  2°)  si  favorisce 
l'allegamento  dei  frutti  perchè  si  impedisce  un  soverchio  adombramento 
dei  grappolini  nascenti;  3°)  si  favorisce  lo  sviluppo  dei  getti  dello 
sperone;  4°)  si  rendono  feconde  in  certa  misura  anche  le  gemme  de- 
gli speroni  stessi;  5°)  infine  si  ottiene  un  maggior  prodotto,  senza 
scapito  nella  vigorìa  della  pianta,  perchè  si  usufruttano  le  gemme 
più  feconde  del  tralcio  fruttifero. 


(1)  Fu  proposto  ed  attuato  con  pieno  successo  dal  compianto  Dr.  Luigi  Van- 
nuccini  di  Scansano  (V.  la  nostra  Monografia  sul  sistema  razionale  Yannuc- 
cini  edita  nel  1881  in  Casale). 


200  CAPITOLO  IV 


Sulla  fecondità  del  tralcio  frutticoso,  oltre  alle  cause  sovra  enu- 
merate, esercitano  pure  una  marcata  influenza  le  seguenti  altre. 

Anzitutto  accenneremo  al  movimento  più  o  meno  rapido  della 
linfa:  è  un  fatto  bene  accertato  in  fisiologia  vegetale  che  il  ritardo  nel 
movimento  della  sava  o  succo  nutritore,  favorisce  la  produzione 
dei  frutti,  alimenta  meglio  le  gemme  ascellari,  e  rassoda  il  le- 
gno dei  tralci;  mentre  V acceleramento  favorisce  la  produzione 
delle  foglie  e  delle  tenere  messe  erbacee.  Ciò  è  esatto  anche  per 
la  vite.  La  fisiologia  vegetale  ci  insegna  però  anche  che  questo  ri- 
tardo nel  movimento  della  sava,  allorquando  è  tale  da  arre- 
stare la  vegetazione,  finisce  per  arrecare  grande  nocumento 
alla  pianta  ed  ai  frutti.  Numerosissimi  sono  i  fatti  dai  quali  si 
desunsero  i  due  principii  qui  esposti;  gli  albericoltori  e  gli  stessi  or- 
ticoltori ce  ne  forniscono  molti.  La  cimatura  dei  meloni  e  di 
varie  altre  cucurbitacee,  quella  dei  piselli  e  dei  pomodori,  quella  del 
maice,  la  curvatura  dei  rami  troppo  diritti,  le  incisioni  anulari  sulla 
corteccia  e  via  dicendo,  sono  tutte  operazioni  (che  quasi  costitui- 
scono una  vera  ortopedìa  vegetale)  le  quali  hanno  per  iscopo  di  ri- 
tardare il  movimento  del  succo  nutritore,  per  favorire  i  frutti,  o  le 
gemme,  o  il  legno,  a  seconda  dei  casi. 

La  pratica  adunque  ci  insegna  a  sua  volta  che  se  si  piega  orizzon- 
talmente a  primavera  un  tralcio  frutticoso,  il  succo  subisce  un 
rallentamento  nel  suo  moto,  ed  i  bottoni  si  costituiscono  assai 
bene,  facendosi  turgidi  e  fecondi  secondo  quanto  premettemmo 
testé,  mentre  i  tralci  diritti  o  verticali  danno  sempre  pochissimi 
frutti. 

Le  cimature  graduali  (1)  cagionando  esse  pure  un  arresto  nel 
movimento  della  sava,  giovano  a  raggiungere  lo  stesso  intento. 
In  Toscana  la  piegatura  è  praticata  artificialmente  ogni  anno  e 
si  effettua  sul  finire  di  giugno.  È  pure  praticata  in  Monferrato,  nel- 
l'Astigiano ed  ovunque  con  successo,  massimamente  se  le  viti  sono 
vigorose.  Pelle  viti  deboli  o  vecchie  essa  sarebbe  però  superflua; 
ma  per  certi  vitigni  (bonarda,  grignolino)  essa  è  indispensabile.  Vo- 


(1)  Osserveremo  che  «  per  cimatura  intendiamo  quella  operazione  mercè  cui 
si  esporta  l'estremità  dei  germogli,  estremità  la  quale  ha  l'aspetto  d'un  piccolis- 
simo ventaglio;  tale  operazione  si  deve  fare  coli'  unghia.  »  La  cimatura  dunque 
non  è  né  una  sfogliatura,  né  una  scacchiatura,  come  erroneamente  molti  cre- 
dono; con  essa  si  esporta  unicamente  la  piccola  vetta  del  germoglio,  e  si  fa  quindi 
una  vera  svettatura. 


BOTANICA  DELLA  VITE  201 

lendosi  praticarla,  si  devono  anzitutto  recidere  i  capreoli  o  viticci  ai 
tralci  frutticosi  che  dovranno  servire  per  il  prossimo  anno,  e  poscia 
lasciare  ohe  da  sé  si  facciano  penzoloni  od  orizzontali,  salvo  poi  ad 
appoggiarli  agli  altri  tralci  vicini-  però  senza  far  ombra,  perchè  la 
luce  solare  loro  giova  assai. 

Influiscono  pure  sulla  fecondità  dei  tralci  frutticosi  i  lavori  op- 
portuni nel  vigneto,  coi  quali  si  ottengono  due  risultati:  il  primo  è 
la  distruzione  delle  male  erbe  che  recano  grave  danno  alle  viti 
togliendo  loro  alimento  e  bevanda;  il  secondo  quello  di  concentrare, 
se  così  possiamo  dire,  la  freschezza  nel  suolo,  e  ciò  per  la  ragione 
che  un  terreno  smosso,  riempiendosi  di  bolle  d'aria,  diventa  coibente, 
cioè  cattivo  conduttore  del  calorico,  epperciò  si  riscalda  meno;  onde 
le  radici  stanno  in  ambiente  fresco;  si  aggiunga  poi  che  la  terra  zap- 
pata assorbe  meglio  le  rugiade  notturne. 

I  concimi  appropriati  esercitano  pure  una  notevolissima  influenza 
sui  tralci  frutticosi.  Ma  a  questo  riguardo  è  bene  fare  alcune  distin- 
zioni; anzitutto  è  oramai  provato  che  il  letame  e  gli  altri  concimi 
molto  attivi  giovano  assai  nei  primi  anni  del  piantamento,  per- 
chè fanno  sviluppare  bene  e  presto  le  parti  legnose  che  debbono 
costituire  la  pianta.  In  avvenire,  invece,  non  bisognerà  eccedere 
nella  dose  del  letame  di  stalla  e  dei  concimi  ricchi  di  ammoniaca, 
perchè  usando  ingrassi  assai  azotati  si  ha  più  uva,  ma  vino 
meno  pregevole,  più  ricco  di  albuminoidi  e  perciò  più  facile 
ad  alterarsi. 

Infine  il  metodo  di  potatura  ed  il  momento  in  cui  si  effettua 
questa  importantissima  operazione  influisce  pure  assai  sulla  fecon- 
dità dei  capi  a  frutto.  Studiando  la  potatura  scenderemo  ai  dettagli; 
qui  ci  limiteremo  a  dire  che:  1°)  un  eccesso  nella  potatura  rendendo 
la  vite  stanca  in  poco  tempo,  rende  pure  meno  fertili  i  tralci  frut- 
tiferi; 2°)  che  simili  viti  estenuate  è  meglio  potarle  in  autunno,  cioè 
subito  dopo  la  vendemmia,  quando  le  foglie  sono  ancora  alquanto 
verdi  e  continua  qualche  movimento  nei  succhi;  questi  succhi  ven- 
gono così  usufruttati  a  beneficio  delle  gemme  frutticose  dei  tralci 
uviferi,  i  quali  appunto  per  ciò  non  si  debbono  sfogliare;  3°)  la  vite 
in  condizioni  quasi  normali,  cioè  non  troppo  rigogliosa,  ma  nemmeno 
spossata,  si  deve  potare  più  tardi;  nel  verno,  ad  esempio;  4°)  infine 
la  vite  giovane  e  robusta  si  deve  potare  tardi  in  primavera,  ma 
sempre  prima  nei  paesi  caldi  che  non  nei  freddi.  Queste  viti  rigo- 
gliose, che  crescono  su  terre  feraci,  massime  se  si  trovano  nell'Italia 


202  CAPITOLO  IV 


superiore,  ove  la  primavera  è  spesso  umida  assai,  è  indispensabile 
che  piangano  molto,  se  pur  si  vogliono  evitare  i  gravissimi  danni 
dell'aborto  dei  fiori. 

Da  quanto  qui  dicemmo  si  deduce  poi  che  le  viti  poste  in  terre 
aride,  quelle  dei  climi  assai  caldi,  o  esposte  al  sud  o  coltivate  sui 
poggi,  o  composte  di  vitigni  molto  feraci  e  produttivi,  debbono  po- 
tarsi prima  che  non  le  viti  poste  in  terre  fertili,  quelle  dei  climi 
mediani  o  freschi,  o  esposte  al  nord,  o  coltivate  nelle  piane,  o  com- 
poste di  vitigni  a  produzione  scarsa,  a  lunghi  internodi  e  che  sof- 
frono per  le  primavere  umide.  Quando  poi  una  vite  avesse  sofferto, 
o  avesse  portato  troppa  uva,  o  avesse  avuto  per  vicini,  negli  inter- 
filari,  il  frumento,  la  segale,  ecc.,  o  peggio  le  male  erbe,  e  non  si 
fosse  vangata  o  zappata  che  una  sol  volta,  essa  dovrà  potarsi  prima 
che  non  la  vite  che  abbia  vegetato  in  condizioni  normali;  e  ciò  per- 
chè avvantaggi  un  po'  neh'  autunno,  come  dicemmo  or  ora,  e  non 
pianga  troppo  in  primavera,  perdendo  quel  succo  di  cui  ha  tanto 
bisogno  e  che  in  essa  non  è  sicuramente  esuberante. 

La  conclusione  generale  di  quanto  abbiamo  detto  riguardo  alla 
fruttificazione  della  vite,  è  questa:  che  la  vite  deve  essere  bensì  vi- 
gorosa, ma  entro  certi  limiti,  oltrepassando  i  quali  si  otterrebbe  più 
legno  che  frutti;  bisogna  quindi  trasformare  il  vigore  in  fecondità; 
inoltre  il  viticultore  deve  risolvere  ogni  anno  un  triplice  problema, 
vale  a  dire  deve  predisporre  bene  nelle  gemme  ascellari  la  fruttifi- 
cazione del  successivo  anno;  deve  badare  di  non  recare  danno  al 
vigore  ed  alla  longevità  della  pianta;  infine  deve  aiutare  l'ingrossa- 
mento ed  il  perfezionamento  dei  frutti  pendenti,  del  che  diremo  fra 
poco. 

Ognuno  vede  quindi  quanto  difficile  sia  il  compito  del  viticultore, 
e  come  gli  sia  indispensabile  1'  aiuto  della  fisiologia  vegetale  nell'e- 
sercizio della  sua  arte,  poiché  il  solo  empirismo  non  potrebbe  trac- 
ciargli una  via  sicura. 

7°  Maturazione  dell'  uva.  Fintantoché  1'  uva  è  verde  essa  si 
comporta  come  le  foglie  (1)  vale  a  dire  che  essendo  clorofìllata  as- 
sorbe, benché  con  debolissima  attività,  acido  carbonico  ed  emette  os- 
sigeno; ma  dal  momento  in  cui  al  colore  verde  subentrano   il  rosso 


(1)  Frémy  (Comptes  rendus  de  VAcadémìe  des  Sciences,  t.  58  pag.  656)  «  Il 
«  frutto  verde  agisce  sull'atmosfera  a  modo  delle  foglie,  decomponendone  l'acido- 
«  carbonico  sotto  l'azione  della  luce  solare  ecc.  ». 


BOTANICA  DELLA  VITE  203 

od  il  giallo  (e  secondo  Bérard  anche  prima)  1'  uva  inspira  ossigeno 
ed  emette  acido  carbonico  ed  acqua,  cioè  respira  (pag.  158),  La  ma- 
turazione è  quindi  una  vera  ossidazione,  cioè  una  combustione  lenta. 
Queste  combustioni  insensibili,  non  essendo  accompagnate  dalla  pro- 
duzione di  luce  e  calore  (come  accade  ad  esempio  quando  abbrucia, 
cioè  si  ossida,  la  legna  nel  focolare)  sono  ignote  al  volgo  dei  viti- 
cultori;  ma  pure  conviene  avvezzarsi  a  considerare  siccome  combu- 
stione anche  la  ossidazione,  a  fine  di  intendere  in  qual  modo  avvengano 
quei  cambiamenti  nell'acino  che  da  acerbo  lo  fanno  divenire  maturo. 

Adunque  mano  mano  che  il  colore  verde  va  scomparendo  dall'uva, 
varii  dei  suoi  componenti  si  ossidano,  si  abbruciano,  si  distruggono 
dietro  le  azioni  chimiche  che  avvengono  fra  di  loro;  e  così  una  parte 
degli  acidi  vegetali  ossidandosi  si  cambia  in  acido  tartarico,  che  si 
combina  poi  colla  potassa,  d'onde  il  bitartrato  di  potassa  che  aumenta 
nell'uva  mano  mano  che  questa  va  maturando;  l'altra  parte  degli  acidi 
pure  ossidandosi  è  abbruciata  e  si  cangia  in  acido  carbonico  ed  acqua 
che,  come  dicemmo,  sono  emessi  dall'uva.  Il  tannino  in  parte  si  muta 
in  zucchero  (1)  ed  in  parte  emigra  sotto  la  buccia,  ove  si  trova  sempre 
unito  alla  materia  colorante,  e  nel  tegumento  esterno  dei  vinacciuoli 
(pag.  149).  Abbiamo  quindi  una  continua  diminuzione  di  principii 
acidi  nella  polpa  dell'uva. 

Ma  la  maturazione  dell'uva  non  consiste  solamente  in  questo  fe- 
nomeno di  ossidazione;  vi  ha  altresì  quello  importantissimo  della  for- 
mazione e  della  emigrazione  dello  zucchero  negli  acini.  È  fuor 
di  dubbio  che  negli  acini  si  forma  direttamente  dello  zucchero,  a 
parte  cioè  quello  che  loro  viene  dalle  foglie:  essendo  essi  clorofillati 
producono  zucchero  benché  in  quantità  molto  limitata.  Lo  abbiamo 
constatato  in  piante  di  viti  spogliate  quasi  totalmente  dalle  loro  foglie 
per  causa  della  peronospora  mentre  gli  acini  erano  appena  sul  prin- 
cipio della  maturanza  e  quasi  del  tutto  verdi;  contuttociò  il  loro 
mosto  conteneva  piccole  quantità  di  glucosio.  Gli  è  sotto  1'  azione 
della  luce,  del  calore  e  dell'umidità  che  nella  polpa  dell'acino  avven- 
gono quelle  trasformazioni  per  cui  le  mucilaggini,  la  pectina,  le 
gomme  ed  altre  sostanze  le  quali  si  possono  considerare  come  zuc- 


(1)  Secondo  Mayer  e  Sachs  (Vedi  A.  Levi:  Rivista  di  Vii.  ed  En.  di  Conegliano 
1879,  pag.  72.  —  Ciò  però  è  ora  contraddetto,  ed  il  Prof.  Comboni  (Trattato  di 
Enochimica  pag.  73)  dice  che  oggi  «  non  si  crede  più  alla  importanza  del  tan- 
nino nella  formazione  del  glucosio  ». 


204  CAPITOLO  IV 


cheri  imperfetti,  si  mutano  in  parte  in  zucchero  d'uva;  tutto  ciò  stu- 
elleremo più  in  disteso  al  capitolo  Meteorologia  viticola. 

Senza  dubbio  però  la  maggior  parte  dello  zucchero,  come  già  di- 
cemmo a  pag.  164,  si  forma  nelle  foglie  e  di  qui  emigra  negli  acini 
a  traverso  i  peduncoli  dei  grappoli  ed  i  pedicelli  degli  acini  stessi. 
Fra  le  molte  esperienze  fatte  per  dimostrare  questa  formazione  di 
glucosio  nelle  foglie  le  più  accurate  sono  certo  quelle  del  compianto 
Dr.  Macagno.  Eccone  le  conclusioni: 

1°  Nelle  foglie  della  vite  vi  sono  quantità  considerevoli  di  glucosio, 
ivi  preparato  a  vantaggio  dei  grappoli  sottostanti;  2°  il  glucosio 
abbonda  principalmente  nelle  foglie  della  punta  dei  tralci  frutticosi, 
cioè  nelle  foglie  estreme  del  germoglio  uvifero,  mentre  si  trova  in 
quantità  minore  nelle  foglie  situate  inferiormente  rispetto  ai  grappoli 
del  tralcio  stesso,  nonché  in  quelle  che  sono  destinate  unicamente 
alla  produzione  legnosa  ;  3°  in  conseguenza  di  ciò  le  sfogliature 
(non  le  cimature)  fatte  in  giugno,  luglio  ecc.,  mercè  le  quali  s1 
scacchia,  cioè  si  esporta  tutto  quanto  sta  al  disopra  della  terza  o 
quarta  foglia  oltre  l'ultimo  grappolo,  sono  generalmente  nocive  alla 
vite,  che  dà  allora  poca  uva  ed  uva  mal  matura  e  poco  zuccherina; 
4°  la  piena  luce  solare  attiva  la  funzione  delle  foglie,  e  quindi  ajuta 
potentemente  la  maturanza  dell'uva,  oltre  ad  aver  ajutato  dapprima 
la  fioritura,  impedendo  che  i  grappolini  si  trasformassero  in  viticci. 
Ecco  infatti  alcune  analisi  comparative: 

Uva  delle  viti  Uva  delle  viti 

scacchiate  (sfogliate)  non 

in  estate  scacchiate 

Glucosio,  o  zucchero  (p.  100)     14,600  17,541 

Acidità  totale  (per  1000)   .  .     14  13,200 

Quantità  di  mosto  (in  peso)  .  581  (p.  1000  peso  grapp.)     620  (p.  1000) 

La  maturazione  dell'  uva  adunque  risulta  dalla  ossidazione  d'  una 
parte  degli  acidi  organici  della  polpa  dell'acino,  dalla  formazione  di 
zucchero  negli  acini  stessi  e  sovratutto  dallo  zucchero  che  vi  si  ac- 
cumula proveniente    dalle  foglie  e  dalle  altre  parti  verdi  della  vite. 

Staccata  che  sia  l'uva  dal  tralcio  è  evidente  che  possono  conti- 
nuare a  verificarsi  nel  suo  parenchima  i  soli  fenomeni  di  ossidazione; 
ed  infatti  le  esperienze  del  Prof.  Pollacci,  del  Prof.  Pasteur  e  di  altri, 
hanno  dimostrato  che  nelle  uve,  dopo  la  loro  separazione  dalla  pianta, 
continuano  a  diminuire  gli  acidi,  che  vi  sono  come  bruciati:  noi  stessi 
usiamo  tenere  le  uve  poco  mature,  ma  sane,  ammucchiate  senza  rom- 


BOTANICA  DELLA  VITE  205 

perle  entro  tini,  perchè  abbiamo  constatato  che  vi  aumenta  il  per- 
cento di  zucchero  e  diminuisce  l'acidità  complessiva.  È  questo  il  me- 
todo del  portoghese  Sampayo,  che  anche  Vauquelin  e  Maumené 
hanno  trovato  efficace  per  favorire  la  maturità  dell'uva  vendemmiata. 
Il  Prof.  Pollaccì  trovò  però  che  la  diminuzione  degli  acidi  e  quindi 
l'aumento  dello  zucchero  hanno  un  limite;  infatti  la  quantità  di  zuc- 
chero, oltre  un  dato  punto,  incomincia  a  diminuire  e  continuando 
sempre  la  ossidazione  sovra  accennata,  la  polpa  dell'acino  finisce  per 
essere  decomposta  del  tutto,  tanto  più  perchè  vi  si  manifesta  anche 
una  speciale  fermentazione,  d'onde  la  produzione  dell'  acido  carbo- 
nico (1):  allora  lo  zucchero  sparisce  totalmente,  il  pericarpio  si  di- 
sorganizza ed  i  vinacciuoli  sono  allora  liberi.  Quest'ultimo  è  lo  scopo 
della  natura,  perchè  essa  provvede  essenzialmente  alla  riproduzione 
della  pianta,  ed  infatti  il  vinacciuolo  in  quello  stadio  di  disfacimento 
dell'acino  è  maturo  ed  ottimo  per  la  seminagione.  Ma  il  viticultore 
ha  uno  scopo  diverso;  egli  poco  si  cura  del  seme,  ed  invece  vuole 
un  acino  che  contenga  il  massimo  di  zucchero;  quindi  lo  raccoglie 
nel  punto  culminante  della  maturanza.  La  prima  dunque  si  potrebbe 
chiamare  maturità  botanica;  la  seconda  maturità  agricola,  pren- 
dendo ad  imprestito  una  dicitura  di  Gasparin. 

Vediamo  ora  quali  agenti  favoriscano  sovratutto  la  matura- 
zione. Dietro  numerosissime  osservazioni  (2)  da  noi  fatte  non  in  la- 
boratorio ma  nei  vigneti  stessi  e  per  molti  anni  consecutivi,  crediamo 
di  poter  stabilire  che  ciò  che  contribuisce  a  rendere  più  volumi- 
nosi gli  acini  ed  il  loro  succo  più  ricco  in  sostanza  zuccherina 
e  per  conseguenza  non  soverchiamente  aspro  né  troppo  ricco  di  al- 
buminoidi,  è  il  concorso  in  solido  dei  tre  fattori  luce,  calore  ed 
umido.  Se  facesse  difetto  l'azione  di  uno  di  questi  fattori,  qualunque 
esso  fosse,  la  maturazione  riescirebbe  imperfetta;  è  adunque  indi- 
spensabile il  loro  concorso,  come  è  indispensabile  ognuna  delle  tre  note 
musicali  di  un  accordo  perfetto  per  produrre  questo  accordo  stesso. 
a)  Circa  alla  influenza  della  luce  è  dimostrato  in  modo  irrefu- 
tabile (3)  che  se  essa  non  è  viva  e  potente,  il  calore  non  basta,  col- 


(1)  Frémy  (loc.  cit.)  dice  che  si  possono  ottimamente  conciliare  le  due  opinioni 
di  Chatin  (sviluppo  di  acido  carbonico  derivante  da  ossidazione)  e  di  CaJiours 
(sviluppo  di  acido  carbonico  per  causa  di  fermentazione). 

(2)  Le  accenneremo  in  disteso  al  capitolo  Meteorologia  applicata  alla  viticultura. 

(3)  Il  Dr.  A.  Levi  dopo  molte  accurate  osservazioni  è  venuto  a  concludere  che 
«  la  luce  esercita  una  influenza  rimarchevole  sul  fenomeno  della  maturazione  delle 
uve  »  Annales  Agronomiques  (1881). 


206 


CAPITOLO  IV 


l'umido,  per  portare  gli  acini  a  quel  grado  di  ricchezza  zuccherina 
che  caratterizza  le  uve  delle  annate  ottime.  L'estate  adunque  deve 
trascorrere  non  solamente  calda,  ma  con  un  cielo  abitualmente 
scoperto.  La  luce,  quando  proprio  sia  intensa,  come  nelle  belle 
giornate  di  luglio,  di  agosto  e  di  settembre,  forza  per  così  dire  il 
vitigno  ad  assorbire  dal  suolo  tutta  quanta  l'umidità  che  esso  con- 
tiene; ma  allora  la  stessa  luce  provoca  altresì  una  attiva  evapora- 
zione di  questo  umido  dalle  foglie;  or  siccome  l'evaporazione  è  una 
fra  le  principali  cause  determinanti  il  movimento  dei  principii  imme- 
diati necessarii  alla  maturazione,  ne  consegue  che  più  è  attiva  quella, 
più  completa  è  questa;  e  quindi  infine  le  uve  riescono  più  ricche  in 
zucchero; 

b)  In  quanto  al  calore  esso  agisce  come  agisce  la  luce,  e  tutti 
sanno  che  è  indispensabile;  ma  è  altresì  comprovato  che  se  si  pon- 
gono due  piante,  una  all'  ombra  e  1'  altra  al  sole  sullo  stesso  ter- 
reno, la  prima  (anche  ad  una  maggior  temperatura)  evapora  assai 
meno  che  la  seconda.  Dehérain  fece  di  più  ancora:  mise  tre  piante 
una  al  sole,  l'altra  alla  luce  diffusa  e  la  terza  nella  oscurità  compietà, 
tutte  e  tre  a  20°  C.  Egli  ebbe  ad  osservare  che  mentre  la  prima 
evaporò  gr.  88  circa  d'acqua  per  ogni  100  di  foglie,  la  seconda  non 
ne  evaporò  che  17  e  la  terza  un  solo  gramma.  Il  dottor  Macagno, 
nelle  accennate  esperienze  fatte  a  Gattinara,  ha  trovato  che  le 
viti  tenute  sotto  una  tela  nera  (le  quali  perciò  ricevettero  dall'aprile 
a  tutto  luglio  pochissima  luce  solare)  ma  ebbero  a  godere  di  una 
maggior  temperatura,  vegetarono  malissimo,  e  nelle  loro  foglie  non 
trovò  traccia  di  glucosio.  Riassumeremo  in  una  tabella  i  principali 
risultati  ottenuti  dal  Dr.  Macagno  su  viti  di  Nebiolo. 


Temperatura   media  dal  20   aprile   a 

tutto  luglio 

Quantità  di  tralci 

Glucosio  (nei  tralci  con  foglie)  .     .     . 

Acido  tartarico 

Acido  carbonico  nella  cenere      .     .     . 

Cenere  pura 

Calce 

Potassa  totale 

Acido  fosforico 


All'aria 
libera 


21°.13C. 

100 

126,01 

90,15 

30,71 

154,12 

21,81 

31,91 

2,15 


Sotto  tela 
bianca 


27°.53  C. 

80 

69,29 

53,52 

20,83 

102,53 

15,34 

20,02 

1,47 


Sotto  tela 
nera 


33°.90  C. 
10 
nulla 
1,36 
0,44 
8,22 
0,87 
1,34 
0,07 


BOTANICA  DELLA  VITE  207 


Questi  dati  son  disposti  in  modo  che  stanno  fra  loro  come  100 
ad  80  a  10,  ponendo  eguale  a  100  la  quantità  di  tralci  prodotti 
dalle  viti  poste  in  condizioni  naturali.  Essi  dimostrano  in  modo  evi- 
dente: 1°  che  il  calore  non  basta;  2°  che  un  maggior  calore  non 
giova  affatto  a  supplire  alla  deficienza  della  luce.  Infatti  noi  ab- 
biamo osservato  che  nel  1874,  nonostante  che  la  vite,  in  Monferrato, 
avesse  avuto  circa  2600  gradi  di  calore,  il  mosto  era  poco  zucche- 
rino e  ricco  di  acidi  liberi,  e  ciò  perchè  il  cielo,  dal  maggio  al  set- 
tembre, era  stato  abitualmente  coperto,  e  s'  avevano  avuto  soli  39 
giorni  di  perfetta  serenità  e  di  viva  luce  solare.  (Vedi  pei  molti  det- 
tagli il  nostro  Giornale   Vinicolo,  1875,  pag.  355,  voi.  L); 

e)  Infine,  per  quanto  riguarda  Yacqua,  è  noto  che  se  essa  scar- 
seggia le  uve  tardano  anche  fino  al  novembre  a  maturare,  e  spesso 
maturano  male  assai,  facendosi  allora  lentissimi  ed  incompleti  quei 
processi  chimici  per  cui  il  frutto  da  acerbo  si  fa  maturo  (1);  ciò  ac- 
cade in  varie  delle  nostre  plaghe  del  Mezzodì,  quantunque  le  viti 
abbiano  colà  luce  e  calore  ad  esuberanza.  A  tal  riguardo  citeremo 
una  esperienza  fatta  nelle  nostre  viti  di  Ajaccio  (in  Corsica):  certe 
uve  non  maturavano  se  non  nel  novembre  e  sempre  con  grande 
stento  ed  imperfettamente:  un  anno  si  deliberò  di  annacquare  al  piede 
le  ceppaie  due  volte  per  settimana;  però  non  si  riuscì  con  questo 
espediente  a  far  maturare  i  grappoli  (2).  Allora  supponendo  che 
V  acqua  potesse  direttamente  entrare  nei  frutti  per  endosmosi, 
fecero  aspergere  i  grappoli  e  le  foglie;  or  bene  la  cosa  si  avverò 
appunto  in  questo  senso,  perchè  l'uva  maturò  prontamente  ed  assai 
bene.  Altri  nel  nostro  Mezzodì  praticarono  con  uguale  successo  l'a- 
spersione dell'acqua  sui  frutti  restii  a  maturare,  per  cui  è  questo  un 
fatto  oramai  acquisito  per  la  fisiologia  vegetale.  Infatti  si  può  facil- 
mente dimostrare  che  vi  ha  endosmosi  tra  l'acqua  che  sta  sugli  a- 
cini  ed  il  liquido  racchiuso  nell'acino  stesso:  a  tal  uopo  si  immergano 
nell'acqua  degli  acini  d'uva  dopo  averli  esattamente  pesati;  si  lascino 
nell'acqua  alcuni  giorni,  e  dopo  si  ripesino.  Si  troverà  una  differenza 
molto  sensibile  nel  loro  peso.  Continuando  poi  a  lasciarli  nell'acqua, 


(1)  Il  contadino  siciliano  dice  ben  a  ragione  che  «  la  pioggia  nei  primi  di  a- 
gosto  riempie  il  tino  di  mosto  ».  E  noi,  dell'Alta  Italia,  diciamo:  «  chi  zappa  la 
vigna  in  agosto,  la  cantina  riempie  di  mosto  »  perchè  la  zappatura  vale  almeno 
una  innaffiatura,  come  dimostreremo  a  suo  .luogo. 

(2)  La  stagione  essendo  troppo  avanzata,  verosimilmente  non  vi  era  più  assor- 
bimento per  mezzo  delle  radici. 


208  CAPITOLO  IV 


finiranno  per  iscrepolarsi  dopo  cinque,  sei  o  più  giorni  a  seconda 
dell'elasticità  del  tessuto  epidermico,  precisamente  come  talvolta  ac- 
cade degli  acini  sulla  pianta.  —  J.  Boussingault  trovò  che  due  granelli 
di  tokai,  i  quali  pesavano  prima  dell'immersione  grammi  7,66,  cinque 
giorni  dopo  pesavano  grammi  8,07:  per  cui  in  questo  frattempo  s'e- 
rano introdotti  dentro  grammi  0,41  di  acqua,  cioè  gr.  0,082  per 
giorno.  Nell'acqua  poi  trovò  dello  zucchero,  segno  che  la  fiocine 
(volg.  la  pelle)  aveva  agito  come  una  membrana  interposta  fra  due 
liquidi  mescolabili  e  di  diversa  natura. 

Concludendo  adunque,  gli  è  col  concorso  in  solido  degli  agenti 
luce,  calore  ed  umido,  cui  converrebbe  aggiungere  altresì  la  elet- 
tricità (1),  che  V  acino  si  arricchisce  in  zucchero  e  si  fa  più 
voluminoso.  Sull'importanza  dello  zucchero  nel  mosto  è  assoluta- 
mente superfluo  di  insistere;  ma  in  quanto  al  volume  maggiore  o 
minore  degli  acini  stessi,  diremo  qualche  cosa  forse  non  osservata 
da  tutti  i  viticoltori,  ed  è  che  la  quantità  del  mosto  aumenta 
assai  di  più  coli 'aumentare  del  volume  degli  acini,  che  non  col- 
V accrescersi  entro  certi  limiti  $el  numero  dei  grappoli.  Diciamo 
a  bello  studio  «  entro  certi  limiti  »  e  ognuno  intende  il  perchè  di 
questa  riserva:  ma  è  un  fatto  che,  ad  esempio  nell'anno  1878  le 
piante  di  viti  (alberelli)  aventi  18  grappoli  per  ciascheduna,  diedero 
in  complesso  una  quantità  di  mosto  sensibilmente  minore  che  non  le 
piante  di  viti  (pure  alberelli)  aventi  nell'anno  successivo  soli  12  grap- 
poli. Ciò  dipese  dal  fatto  che  questi  ultimi  grappoli  avevano  gli  acini 
più  grossi  (perchè  dopo  i  calori  estivi  caddero  alcune  benefiche  piogge); 
ora  noi  sappiamo  come  per  legge  matematica,  per  poco  che  aumenti 
il  diametro  degli  acini,  aumenta  d'assai  e  si  raddoppia  o  triplica  la 
quantità  del  mosto  che  essi  possono  contenere.  Ecco  le  prove  dirette 
da  noi  fatte  nel  1879  al  nostro  podere  Cardello,  dove  per  la  prima 
volta  si  studiò  questo  fatto: 

40  acini  di  barbera  del  diametro  medio  ognuno  di  millim.  18,5, 
pesarono  gr.  99,91: 

40  acini  di  bonarda  del  diametro  di  mill.  16  pesarono  gr.  76,31: 

40  acini  di  grignolino  del    diametro,  ancor    minore,  di  mill.  14 

pesarono  soli    gr.  53,32.  Adunque    gli  acini  di  barbera    benché  non 

avessero  che  circa  4  millim.  di    più  di  diametro,    pure  contenevano 

quasi  il  doppio   di  mosto.    Il  viticoltore    deve  pertanto  procurare 


(1)  Di  ciò  ci  occuperemo  al  capitolo   Carpoprognosia. 


BOTANICA  DELLA  VITE  209 


di  fare  aumentare,  fosse  pure  di  soli  due  o  tre  millimetri,  il  dia- 
metro degli  acini,  perchè  ne  avrebbe  in  compenso  il  doppio  di 
prodotto.  Ciò  potrà  ottenerlo  mettendo  in  pratica  i  buoni  precetti  della 
viticoltura,  e  principalmente;  1°  tenendo,  colle  zappature,  fresco  il 
suolo  in  luglio,  agosto  e  settembre;  2°  se  possibile  spruzzando  acqua 
in  autunno  sugli  acini  che  stanno  maturando;  3°  evitando  che  sui  tralci 
deboli,  specialmente  se  la  regione  è  calda  ed  arida,  vi  sia  un  nu- 
mero soverchio  di  grappoli,  locchè  si  fa  nel  nostro  Mezzodì  da  qualche 
esperto  viticultore,  staccando  un  certo  numero  di  grappoli  in  maggio; 
4°  scacchiando,  cioè  sopprimendo  i  getti  inutili;  5°  non  coltivando 
nulla  negli  interfìlari  per  impedire  una  soverchia  sottrazione  di  umido 
dal  suolo;  6°  concimando  opportunamente  i  proprii  vigneti;  7°  infine 
adottando,  salve  le  riserve  che  già  facemmo  a  suo  luogo,  la  pota- 
tura corta,  quella  cioè  con  cui  si  lasciano  al  capo  frutticoso  quattro, 
cinque  o  sei  gemme  al  più,  e  ciò  perchè  il  succo  nutritore,  appena 
uscito  dal  suolo,  trovi  subito  i  grappoli,  senza  dover  percorrere  lungo 
tratto  di  legno,  inquantochè  in  questo  lungo  percorso  perderebbe 
molta  acqua. 

Oltre  a  questi  mezzi,  che  sono  i  più  potenti,  ve  n'hanno  altri  i 
quali  giovano  essenzialmente  a  far  più  ricco  di  zucchero  il  mosto. 
Essi  sono:  1°  il  taglio  dei  tralci  carichi  d'uva,  otto  o  dieci  giorni 
prima  della  vendemmia,  troncando  la  loro  comunicazione  colla  pianta. 
Ma  ciò  non  si  può  fare  se  non  quando  la  vite  è  educata  con  sistemi 
mercè  cui  i  tralci  sono  sostenuti  da  canne  o  fili  di  ferro;  2°  La  sfo- 
gliatura autunnale;  3°  Il  conservare  le  foglie  in  estate;  4°  L'offen- 
dere il  tralcio  a  frutto  o  il  peduncolo  del  grappolo;  5°  Il  vendem- 
miare nelle  ore  calde  ed  in  più  tempi;  6°  Il  pulire  e  lo  spuntare  i 
grappoli. 

8°.  Longevità  della  vite.  Ora  che  abbiamo  studiato  come  nasca 
la  vite  dal  vinacciuolo,  come  viva,  quali  tendenze  naturali  abbia,  come 
si  nutra  e  come  fruttifichi,  dobbiamo  dire  come  deperisca  e  muoia» 
dobbiamo  in  altri  termini  studiare  le  cause  che  influiscono  sulla  sua 
longevità. 

Queste  cause  sono  varie,  ma  si  debbono  principalmente  considerare  le 
seguenti:  1°)  la  fertilità  del  terreno  e  la  maniera  di  concimazione;  2°)  la 
distanza  delle  viti  le  une  dalle  altre;  3°)  il  sistema  di  potatura.  Riguardo 
alla  fertilità  del  terreno  diremo  come  in  un  terreno  magro  e  scarsamente 
ingrassato,  la  vite  deperisce  prontamente;  nel  Basso  Monferrato,  colà 
0.    Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura.  15 


210  CAPITOLO  IV 


dove  si  concima  il  vigneto  ogni  biennio,  le  viti  che  hanno  sessanta 
o  settantanni  sono  tuttavia  cariche  di  molti  grappoli,  cioè  non  sono 
né  vecchie  né  spossate.  In  quanto  alla  distanza  dei  ceppi  gli  uni 
dagli  altri,  ed  alla  distanza  fra  i  filari,  risulta  dall'  osservazione  di 
quanto  accade  in  Italia  ed  in  Francia,  che  la  vite  deperisce  assai 
presto  quando  queste  distanze  sono  piccole  ed  il  terreno  è  magro; 
invece,  dato  pure  cosifatto  terreno,  se  le  viti  sono  distanti,  durano 
all'incirca  il  doppio.  In  Toscana,  per  esempio,  le  viti  fìtte  non  vi  du- 
rano oltre  i  18  o  20  anni,  e  danno  in  questo  frattempo  uno  scarso 
reddito;  lo  stesso  può  dirsi  delle  Marche.  Nella  Liguria  ogni  15  anni 
circa  conviene  svellere  le  ceppaie,  già  vecchie  e  sfinite,  perchè  in 
un  suolo  che  è  per  natura  arido  si  contano  circa  9000  ceppi  ad  et- 
tare,  cioè  su  10,000  metri  quadrati,  locchè  è  assolutamente  troppo; 
in  Corsica  si  contano  10,000  piante  ad  ettare,  su  suolo  arido,  e  la 
vite  è  vecchia  a  12  anni;  invece  in  Sicilia,  generalmente  parlando, 
non  si  contano  che  4500  piante  ad  ettare  (a  Cefalù  5000  a  5500) 
e  la  vite  non  invecchia  che  oltre  i  trent'  anni;  nel  Basso  Monferrato 
poi  con  sole  3000  piante  ad  ettare,  all'  ingrosso,  la  vigna  può  toc- 
care i  100  anni  se  aiutata  dal  concime;  e  nel  Salernitano  con  piante 
a  1,60  circa  di  distanza,  e  con  buon  terreno  e  buona  cultura,  vi 
sono  viti  che  toccano  pure  i  100  anni.  Uscendo  poi  dall'  Italia,  ve- 
diamo che  nel  rinomato  Hérault  (Francia)  il  viticultore  invecchia 
prima  della  sua  vigna;  costì  prima  della  fillossera  si  contavano  4500 
piante  ad  ettare  con  concimazione  triennale;  il  prodotto  toccava  i  200 
ettolitri  ad  ettare,  ma  la  pianta  nonostante  non  si  esauriva.  Dunque, 
quanto  più  il  terreno  è  magro  ed  arido,  massime  nei  paesi  molto 
caldi,  e  quanto  più  sono  grandi,  entro  ragionevoli  limiti,  le  di- 
stanze,  tanto  più  longeva  è  la  vite. 

Ci  rimane  a  considerare  il  «  sistema  di  potatura.  »  Già  sappiamo 
che  potando  energicamente,  e  cimando  e  ricimando  senza  criterii,  si 
inceppa  lo  sviluppo  aereo  della  vite,  e  si  influisce  sinistramente  sul 
suo  sistema  sotterraneo;  ciò  fa  invecchiare  precocemente  la  vite. 
In  quel  di  Siena  è  stata  fatta  questa  bella  esperienza  (1):  certe  viti 
potate  ad  un  solo  sperone  (con  2  gemme)  s'  eran  fatte  vecchie  e 
sfinite  in  poco  tempo;  si  provò  allora  a  potarle  a  sei  speroni  eon 
due  gemme  caduno,  ed  ecco  che  il  tronco  ingrossò,  la  pianta  riprese 
novello  vigore  e  si  serba  così   da  18   anni  a    questa  parte,   perchè 


(1)  Presso  il  sig.  Severiano  Ardinghi  di  Siena. 


BOTANICA  DELLA  VITE  211 

si  concima  il  vigneto  ogni  due  anni  con  terricciati.  Adunque  quando 
si  vuole  stabilire  con  una  certa  approssimazione  la  durata  di  un  vi- 
gneto, si  deve  tener  calcolo  dei  tre  suddetti  coefficienti. 

Ma  se  1'  uomo  non  fosse  costretto  a  moderare  la  tendenza  natu- 
rale della  vite  colla  potatura,  e  se  la  preziosa  ampelidea  non  fosse 
bersagliata  da  tanti  parassiti,  si  potrebbe  dire  che  la  sua  durata  può 
raggiungere  i  secoli,  e  forse  non  esagerò  colui  che  disse  «  la  Vite 
non  muore  mai  !  » 


CAPITOLO  V 


Chimica  della  "Vite. 


§  1.  Composizione  del  legno  della  vite  —  §  2.  Composizione  delle  foglie  — 
§  3.  Composizione  dell'uva  e  dei  semi  —  §  4.  Composizione  del  mosto  e  delle 
vinaccie  —  §  5.  Componenti  principali  della  vite  —  §  6.  Relazioni  fra  la  com- 
posizione del  terreno  e  quella  della  vite  —  §  7.  Relazioni  fra  i  concimi  e  la 
composizione  dell'uva. 

§  1.  Composizione  del  legno  della  vite.  —  Lo  studio  della 
composizione  chimica  delle  varie  parti  ond'è  costituita  essenzialmente 
la  pianta  di  vite,  ha  una  importanza  non  piccola,  inquantochè  può 
fornirci  utili  ammaestramenti  riguardo  agli  alimenti  che  il  viticultore 
deve  di  preferenza  porre  a  sua  disposizione,  tenuto  calcolo  della  com- 
posizione del  terreno.  E  siccome  questi  alimenti  (concimi)  esercitano 
una  notevole  influenza  sulla  quantità  e  sulla  qualità  dell'  uva,  così 
è  evidente  che  la  chimica  della  vite  può  rendere  importanti  servizii 
al  viticultore. 

La  composizione  della  cenere  del  legno  della  vite,  secondo  la  media 
di  otto  analisi  fatte  da   Wolff  ad  Hohenheim,  sarebbe  la  seguente: 

Percento  di  cenere 2,75 

Potassa 29,80 

Soda 6,7 

Magnesia 6,8 

Calce , 37,3 

Acido  fosforico  anidro 12,9 

Acido  solforico  anidro 2,8 

Silice 0,8 

Cloro 0,8 


CHIMICA  DELLA  VITE 


213 


Il  percento  di  cenere  rappresenta  la  parte  fissa  (pag.  160)  della 
pianta,  la  quale  è  sempre  minore  della  parte  volatile;  infatti  gene- 
ralmente non  supera  il  cinque  per  cento. 

Nel  caso  speciale  della  vite  su  100  parti  di  sostanza  secca  solo  circa 
2,75  sono  costituite  da  materie  fìsse,  cioè  che  rimangono  allo  stato 
di  cenere  quando  si  sottopone  il  legno  all'abbruciamento.  Fra  i  varii 
legni  la  vite  è  tuttavia  dei  più  ricchi  in  cenere;  ecco  ad  esempio 
alcuni  dati  di  confronto  dello  stesso  Wolff: 

Melo    percento  in  cenere  1,3     Faggio    percento  in  cenere  1,0 


Abete        » 

» 

2,0 

Larice          » 

» 

0,3 

Pino  rosso 

» 

0,3 

Pino  bianco  » 

» 

0,3 

Giunco      » 

» 

0,3 

Gelso            » 

» 

1,6 

B  e  tuia       » 

» 

0,3 

Vite              » 

» 

2,75 

Ora,  essendo  gli  elementi  della  cenere  indispensabili  alla  vita  ed 
allo  sviluppo  di  tutte  le  piante,  e  la  pianta  di  vite  contenendone  re- 
lativamente una  forte  proporzione,  è  facile  dedurre  quanta  impor- 
tanza abbiano  per  essa  i  principii  minerali  del  suolo,  e  specialmente 
la  potassa,  la  calce  e  l'acido  fosforico. 

Infatti,  dall'analisi  sovra  riferita  emerge  che  questi  tre  elementi 
sono  i  più  abbondanti  nel  legno  di  vite.  Lo  stesso  dicasi  della  com- 
posizione dei  tralci  dell'annata;  ecco  una  analisi  del  Dottor  Ro- 
tondi: 


Barbera 

Grignolino 

Pinot 

Ossido  di  Calcio            36,83 

35,18 

32,76 

»       di  Potassio         34,54 

33,47 

32,84 

»       di  Magnesio           6,64 

6,50 

5,38 

»       di  Sodio                0,88 

1,77 

1,78 

»       di  Manganese          — 

— 

— 

»       d'Alluminio          traccie 

traccie 

0,13 

»       di  ferro                  2,34 

1,90 

2,47 

Cloro                                 0,74 

0,91 

1,26 

Silice                                  6,36 

6,01 

8,60 

Acido  fosforico  (anidro)    7,69 

10,01 

10,56 

»      solforico         »         3,42 

4,67 

4,07 

A  conferma  di  queste  analisi  del  Rotondi,  citeremo  anche  le  se- 
guenti determinazioni  fatte  presso  la  Scuola  viticola  di  Klosterneu- 
òurg  (Vienna): 


214  CAPITOLO  V 


Cenere  di  nuovi  tralci 

di  Riesling 

Potassa 33,876  0[q 

Calce 30,411  » 

Soda 0,708  » 

Magnesia 7,195  » 

Ferro 7,720  » 

Manganato  di  manganese    ....  0,092  » 

Cloro 0,699  » 

Acido  fosforico 13,175  » 

Acido  solforico 3,153  » 

»      silicico 3,129  » 

L'esame  delle  ceneri  del  pianto  di  vite  concorda  con  quanto  di- 
cevamo or  ora:  Neubauer  trovò  infatti  quanto  segue: 

Potassa 16,20  0\q 

Calce 63,73  » 

Magnesia 8,54  » 

Acido  solforico 2,22  » 

»      fosforico 4,35  » 

Cloro 4,41  » 

Silice 1,25  » 

Ossido  di  ferro 0,29  » 

Per  altri  dettagli  sulla  composizione  del  pianto  di  vite,  rimandiamo 
il  lettore  alle  pag.  174:  qui  ricorderemo  solo  che  esso  è  essenzial- 
mente costituito  da  acqua,  come  si  può  vedere  in  questa  analisi  del 
Dott.  Nessler: 

Pinot  nero 
Quantità  complessiva  delle  sostanze  secche  1,99  per  mille 

Sostanze  organiche .0,81       » 

Azoto 0,17       » 

Ceneri 0,84       » 

Acido  carbonico      .     .     , 0,35      » 

Neubauer  avrebbe  trovato  i  seguenti  massimi,  esaminando  il 
pianto  di  diversi  vitigni: 

Sostanze  secche 2,91  per  mille 

»         organiche 2,03        » 

Ceneri 0,94        » 


0 

CHIMICA  DELLA  VITE  215 

Infine  Rotondi  studiando  il  pianto  di  viti  a  uve  bianche  e  rosse 
trovò  quanto  segue: 

Rosse  Bianche 

Sostanze  secche    .     .     .  0,20  0,11  per  mille 

»         organiche   .     .  0,14  0,06         » 

Azoto 0,00  1,55         » 

Ceneri     .-...,  0,06  0,04         » 

Nelle  annate  molto  piovose  aumenta  la  quantità  dell'acqua;  inoltre 
progredendo  la  primavera  aumenta  la  quantità  della  cenere  e  dimi- 
nuiscono le  sostanze  organiche.  Ciò  può  spiegare  le  contraddizioni  delle 
precedenti  analisi. 

Le  sostanze  organiche  che  entrano  a  far  parte  del  legno  di  vite 
sono  la  cellulosa,  l'amido,  l'acido  tannico,  l'ossalato  di  calcio,  il  tar- 
trato  di  potassio  ed  infine  le  sostanze  azotate.  Queste  ultime  nella 
sostanza  secca  trovansi  nella  proporzione  di  circa  l'uno  per  cento. 
Però  lo  studio  di  tutte  queste  sostanze  organiche  in  quanto  alle  pro- 
porzioni in  cui  si  trovano  nel  legno  della  vite,  è  oggi  assai  defi- 
ciente: solo  si  sa,  dalle  analisi  fatte  a  S.  Michele  (Tirolo),  che  i  getti 
erbacei  della  vite  contengono  da  20  a  30  per  cento  di  sostanze  a- 
zotate,  nella  sostanza  secca;  corrispondenti  dal  4  al  5  0[0  nei  getti 
allo  stato  fresco,  cioè  col  70-77  0[q  di  acqua.  Ciò  spiega  come  i 
concimi  azotati    favoriscano  tanto  la  produzione  erbacea  nella  vite. 

§  2.  Composizione  delle  foglie.  —  Già  sappiamo  che  nelle 
foglie  riscontransi  principalmente  la  clorofilla  (pag.  135  e  158)  l'a- 
mido (pag.  162)  Vossalato  di  calcio  (pag.  136)  oltre  allo  zucchero 
(1  0[Q  secondo  Neubauer  nelle  foglie  fresche),  le  sostanze  albumi- 
noidi,  (da  2  a  3  0[q  nella  sostanza  secca  secondo  Rotondi  e  Kur- 
manrì),  le  sostanze  coloranti  ed  altre  enumerate  a  pag.  161.  Ve- 
diamo ora  la  composizione  delle  ceneri:  dietro  le  suaccennate  analisi 
del  D.r  Rotondi  si  avrebbe  il  seguente  per  cento; 

Barbera  Grignolino  Pinot 

Silice 34,22  39,44  33,11 

Acido  solforico  (anidro)  2,82  1,41  1,41 

Acido  fosforico    id.  0,92  0,66  0,90 

Ossido  di  ferro     ...  1,04  0,74  1,28 

»      d'alluminio     .     .  traccie  traccie  — 

»      di  manganese     .  —  —  — 


216                                                  CAPITOLO  V 

Barbera 

Grignolino 

Pinot 

Ossido   DI    CALCIO  . 

.     .     45,06 

41,61 

46,32 

»      di  magnesia 

.     .       8,04 

8,36 

8,78 

»        DI   POTASSIO 

.     .       6,53 

6,36 

6,05 

»      di  sodio     . 

.     .       0,64 

0,64 

0,58 

Cloro      .... 

.     .       0,62 

0,50 

0,46 

La  quantità   di  cenere  lasciata  dalle   foglie   è  maggiore   di  quella 
del  legno  (pag.  213):  infatti  Rotondi  trovò  quanto  segue: 

Ceneri  pure  (private  del-               Barbera  Grignolino  Pinot 

l'anidride,  carbonica)  .  0[Q  gr.  8,34  9,52  8,30 

Invece  nei  tralci  aveva 

trovato »      2,66  2,41  2,91 

E  nel  mosto   (per  ogni 

litro)  ......       »      3,98  8,07  3,71 

Blankenhorn   e  Rósler  hanno  trovato  la  seguente  composizione 
media  delle  ceneri  di  foglie  di  viti: 


Potassa  .  . 
Soda  .... 
Calce  .  .  . 
Magnesia  .  . 
Ossido  di  ferro 

»       di  manganese 
Acido  solforico 
Acido  fosforico  . 

Cloro  

Acido  silicico    .     . 


Foglie 

per  cento  13,02 

»  1,07 

»  55,19 

»  11,13 

»  1,26 

»  0,86 

»  4,92 

»  3,63 

»  1,57 

»  7.51 


Legno  di  vite 

32,20 

0,49 

41,77 

10,88 

0,53 

0,49 

4,18 

6,32 

2,14 

1,48 


Da  tutte  queste  analisi  risulta  che  la  cenere  delle  foglie  è  più  ricca 
in  silice,  calce  e  magnesia  di  quella  del  legno;  mentre  quest'  ultima 
è  più  ricca  in  potassa  ed  acido  fosforico.  La  rilevante  quantità  di 
silice  trovata  dal  Dr.  Rotondi  nelle  foglie  di  viti  può  forse  spiegarsi 
supponendo  che  egli  abbia  esperimentato  su  foglie  vecchie,  cioè  nel 
tardo  estate  od  in  autunno,  avendo  Arendt  trovato  che  in  queste 
stagioni  la  silice  si  accumula  nelle  parti  più  vecchie  della  pianta, 
mentre  è  relativamente  poca  nelle  parti  più  giovani  ed  ancora  in 
isviluppo.  Sin' ora  non  è  stato  bene  spiegato  quale  ufficio  compia 
questa  sostanza  nel  vegetale,  e  tanto  meno  nella  vite. 


CHIMICA  DELLA  VITE  217 


Nelle  foglie  di  alcune  varietà  di  viti,  quali  la  tintoria,  il  barbera 
e  lo  zag arese  abbiamo  trovato,  sin  dal  1882,  una  materia  colo- 
rante rossa  della  quale  diremo  qui  brevemente. 

Nel  settembre  del  detto  anno,  raccolte  varie  foglie  di  tintoria 
fteinturier  dei  Francesi)  che  appaiono  rossastre  in  autunno,  le  po- 
nemmo in  infusione  nell'alcool  a  92°  G.  L.  in  guisa  che  l'alcool  gal- 
leggiasse sulle  foglie  stesse.  Dopo  8  giorni  il  liquido  mostrava  un 
incipiente  colore  rossastro,  ed  al  14°  giorno  aveva  un  bellissimo  co- 
lore di  vino  vecchio.  Degustato  ci  accusò  un  sapore  speciale  che  ri- 
cordava lontanamente  quello  del  the. 

Sul  finire  dello  stesso  settembre  facemmo  un'esperienza  in  grande: 
preso  un  recipiente  della  capacità  di  un  ettolitro,  lo  riempimmo  di 
foglie  di  Tintoria,  comprimendole  alquanto;  su  di  esse  versammo 
30  litri  di  alcool  a  92°  G.  L.  Per  facilitare  però  la  dissoluzione  della 
materia  colorante  e  darle  un  colore  più  vivace,  aggiungemmo  all'al- 
cool 15  grammi  di  acido  tartarico  per  litro. 

Dopo  48  ore  lo  spirito  era  colorato  intensamente  in  un  bel  rosso 
cupo;  il  liquido  era  denso  ed  esalava  l'odore  delle  foglie  di  viti.  Il 
sapore  sui  generis  della  prima  esperienza  era  qui  assai  più  pronun- 
ciato, causa  la  grande  quantità  di  foglie  adoperate. 

Abbiamo  ora  in  corso  altre  prove  sulle  foglie  di  varii  vitigni  per 
sperimentare  questa  materia  colorante  su  vini  chiari,  intanto  cre- 
diamo di  poter  dedurre  quanto  segue: 

1)  Nelle  foglie  di  alcune  varietà  di  viti  si  forma  una  materia 
colorante  solubilissima  nell'alcool. 

2)  Tale  formazione  progredisce  di  pari  passo  colla  maturazione 
dell'uva;  infatti  le  foglie  raccolte  dopo  la  prima  metà  di  settembre 
ne  sono  assai  più  ricche  che  non  quelle  raccolte  sul  finir  dell'agosto. 

3)  L'acido  tartarico  aggiunto  all'alcool  favorisce  la  dissoluzione 
di  tale  pigmento  colorante  e  lo  rende  più  rosso. 

4)  La  materia  colorante  delle  foglie  delle  varietà  Tintoria  e 
Barbera  ha  un  sapore  speciale  che  converrebbe  eliminare  prima  di 
adoperare  quella  sostanza  per  colorare  i  vini. 

In  seguito  alla  pubblicazione  di  queste  notizie  il  signor  Antonio 
Anelli  di  Grottamare  nelle  Marche  fece  esprimenti  sulle  foglie  dello 
Zagarese,  uva  la  quale  dà  vini  di  bel  colore:  queste  esperienze  sono 
molto  interessanti,  onde  vogliamo  farne  cenno  brevemente. 

Il  signor  Anelli  fece  adunque  pigiare  della  malvasia  bianca  cosi 
da  ricavare  tre  litri   di   liquido,  che  mise  in  una  pentola  di  coccio; 


218  CAPITOLO  V 


immediatamente  sopra  cotale  mosto,  egli  stratificò  le  foglie  dello  za- 
garese  (200  grammi)  senza  punto  ammaccarle,  e  sopra  di  esse  stra- 
tificò tutte  le  vinaccie  della  suddetta  malvasia.  Lo  scopo  prefissosi 
dall'  esperimentatore  nel  collocare  queste  vinaccie  sul  mosto  fu  solo 
quello  di  costringere  le  foglie  stesse  a  stare  immerse  nel  liquido  fer- 
mentante, onde  ottenere  una  copiosa  dissoluzione  di  materia  colorante 
mercè  l'alcool  prodotto  dalla  fermentazione.  Le  foglie  non  erano 
dunque  mescolate  al  mosto  ma  solo  poste  sopra  di  esso,  e  non  ri- 
piegate bensì  aperte,  perchè  nelle  foglie  ripiegate  rimane  una  maggior 
quantità  di  colore  non  disciolto  dal  liquido  alcoolico.  Questo  fu  ab- 
bandonato a  sé  durante  8  giorni,  trascorsi  i  quali  il  mosto,  che  era, 
come  dicemmo,  di  malvasia  bianca,  si  trasformò  in  un  liquido  vinoso 
di'  un  colore  rosso  assai  bello,  come  noi  stessi  ebbimo  a  constatare  sul 
campione  che  il  signor  Anelli  ci  inviava.  Questo  mosto  vino  non  a- 
veva  nessun  sapore  disgustoso  o  sui  generis,  come  nel  nostro  espe- 
rimento sopra  descritto:  ma  certo  ciò  dipese  da  che  noi  adoperammo 
alcool  puro  e  forte,  che  disciolse  non  solo  il  colore  ma  anche  i  suc- 
chi delle  foglie  stesse,  mentre  il  signor  Anelli  adoperò  il  semplice 
mosto. 

Da  questo  esperimento  del  distinto  enofilo  di  Grottamare  si  deduce 
che  è  possibile,  mediante  le  foglie  di  certe  uve  ricche  di  colore,  tra- 
sformare durante  la  fermentazione  un  mosto  d'uva  bianca  in  un  vino 
rosso.  Invitiamo  intanto  gli  studiosi  ad  occuparsi  essi  pure  di  questo 
interessante  argomento. 

§  3.  Composizione  dell'uva  e  dei  semi.  —  a)  Uva  sana.  Il 
suo  componente  più  importante  è  lo  zucchero  :  V  uva  è  fra  i  frutti 
più  ricchi  in  principio  dolce,  come  risulta  dalle  seguenti  medie  di 
Fresenius: 

per  cento 

Pesche 1,6 

Albicocche 1,8 

Susine        2,1 

Susine  (green  gages)        3,1 

Susine  gialle        3,6 

Lamponi  4,0 

More  di  rovo 4,4 

Fragole 5,7 


CHIMICA  DELLA  VITE  219 


per  cento 

Mirtillo  di  macchia 5,8 

Ribes 6,1 

Prune 6,3 

Uva  spina 7,2 

Pere  rosse 7,5 

Mele 8,4 

Ciliege  morelle 8,8 

More  del  gelso 9,2 

Ciliege  dolci 10,8 

Uva 14,9 


È  noto  però  che  nei  paesi  meridionali  il  percento  di  zucchero  del- 
l'uva è  molto  superiore  al  14  e  s'aggira  intorno  al  20,  oltrepassan- 
dolo non  di  rado. 

Secondo  le  analisi  di  Berthier  le  ceneri  dell'uva  avrebbero  la  se- 
guente composizione  media: 

Potassa per  cento  56,00 

Calce »  28,06 

Magnesia »  2,97 

Acido  fosforico »  12,97 

La  cenere  delle  pellicole  o  fiocine,  secondo  Crasso  avrebbe  la 
seguente  composizione: 

Potassa per  cento  41,66 

Soda »  2,13 

Calce      ........            »  20,32 

Magnesia »  6,02 

Ossido  di  ferro per  cento  2,11 

»        di  manganese     ...            »  0,76 

Acido  silicico »  3,46 

»      solforico »  3,48 

»      fosforico »  19,58 

»      cloridrico   .....            »  0,51 

Le  ceneri  dei  vinacciuoli,  pure  secondo  Crasso,  sarebbero  così 
composte: 

Potassa per  cento    27,87 

Soda »  — 


220  CAPITOLO  V 


Calce per  cento     32,18 

Magnèsia     .......  »  8,53 

Ossido  di  ferro »  0,46 

»        di  manganese     ...  »  0,35 

Acido  silicico »  0,95 

»      solforico     .....  »  2,40 

»      fosforico »  27,01 

»      cloridrico    ......  »  0,28 

Come  si  vede  i  componenti  principali  delle  ceneri  dell'uva,  come 
quelli  del  legno,  sono  sempre  la  potassa,  la  calce  e  l'acido  fosforico; 
quest'ultimo  abbonda  specialmente  nei  semi,  come  diremo  fra  poco. 
b)  Uve  ammalate.  Blankenhorn  e  Rósler  alcuni  anni  or  sono 
fecero  interessanti  ricerche  di  confronto  sulla  composizione  delle  uve 
sane  ed  ammalate  di  crittogama  (oidio):  crediamo  riescirà  utile 
farne  qui  cenno. 

Uva  Silvaner 

molto  ammalata      poco  ammalata  sana 

Soda 0,45  2,74  0,31 

Potassa 46,42  42,52  48,46 

Calce 7,33    '  8,74  6,95 

Magnesia 3,75  3,50  3,86 

Ossido  di  ferro 0,10  0,19  0,05 

Manganese —  0,08  — 

Alluminio 0,46  0,53  0,02 

Acido  carbonico 24,38  23,46  23,24 

»      fosforico  ........  7,36  11,68  8,00 

»      solforico  .......  4,89  2,97  4,31 

»      cloridrico      ......  0,96  0,33  0,78 

»      silicico 1,71  3,26  3,92 

Da  questo  quadro  risulta  che  Y oidio  non  induce  grandi  differenze 
nella  composizione  dell'uva  per  quanto  riguarda  gli  elementi  mine- 
rali; diminuisce  solo  di  poco  la  potassa.  È  noto  però  che  nelle  uve 
ammalate  è  lo  zucchero  che  si  riduce  di  molto,  quando  la  detta  crit- 
togama riprende  ad  attaccare  le  uve  in  via  di  maturazione. 

e)  Semi  d'uva.  I  vinacciuoli  non  contengono  amido,  bensì  tan- 
nino (5  0[o)  e  olio  fìsso  (15  Ojo),  del  che  abbiamo  già  parlato  a  pa- 
gina 152.  Essi  contengono  pure  oltre  al  2  0[q  di  azoto.  La  quantità 


CHIMICA  DELLA  VITE 


221 


di  tannino  varia  però  secondo  la  varietà  delle  viti  e  secondo  il  grado 
di  maturanza  degli  acini. 

Nelle  ceneri  dei  vinacciuoli  il  Prof.  Bechi  trovò: 

Potassa per  cento     34,4 

Soda ,  »  6,36 

Calce »  6,48 

Magnesia ,  »  1,81 

Acido  fosforico    .....  »  44,42 

Acido  solforico »  5,44 

Acido  silicico       »  0,90 

Cloro »  0,18 

Questa  analisi  differisce  solo  sensibilmente  riguardo  alla  calce  da 
quelle  di  altri  esperimentatori;  ad  esempio  Crasso  ne  aveva  trovato 
ora  il  32  ora  il  35  0[q.  Ad  ogni  modo  l' acido  fosforico,  la  potassa 
e  la  calce  sono,  anche  nella  cenere  dei  vinacciuoli,  i  principali  com- 
ponenti. 

§  4.  Composizione  del  mosto  e  delle  vinaccie.  —  Le  ana- 
lisi fatte  dal  prefato  Dott.  Rotondi  ad  Asti  su  mosti  di  Barbera,  Gri- 
gnolino e  Pinot  (vitigni  dei  quali  già  abbiamo  dato  analisi  nei  tre 
precedenti  paragrafi)  diedero  i  seguenti  risultati,  su  1000  parti  di 
mosto  : 


ELEMENTI  DETERMINATI 


Acidità  totale 

Bitartrato  di  potassio  (cremore)    .     . 

Acido  tartarico  libero 

Acidi  diversi 

Glucosio 

Materie  estrattive,  sottratte  le  ceneri 
Grado  all'areometro  di  Guyot .  .  . 
Densità  a  •*-  15° 


Qualità  del  Vitigno 


Barbera 


.    11,75 

7,40 

2,52 

6,49 

183,24 

241,10 

23,0 

1,099 


Grignolino 


l\    10,65 

7,15 

2,86 

4,94 

171,10 

209,21 

19,25 

1,089 


Pinot 


'.     6,30 

7,25 

0,62 

2,80 

201,61 

247,80 

22,50 

1,096 


Dall'  esame  di  questo  quadro  risulta,  cosa  notoria  d'  altronde,  che 
il  componente  più  importante,  se  non  il  più  abbondante,  è  lo  zuc- 
chero (glucosio). 

Ma  il  mosto  dà  dal  3  al  4  0[q  di  ceneri  :  or  ecco  la  composizione  di 
queste  comparata  con  quella  dei  tralci  e  delle  foglie,  su  100  parti: 


222 


CAPITOLO  Y 


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di   sodio  . 

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CHIMICA  DELLA  VITE  223 


L'  esame  delle  ceneri  del  mosto  ci  dice  che  in  esse  il  principale 
componente  è  la  potassa:  in  seconda  linea  vengono  la  calce  e  l'a- 
cido fosforico,  analogamente  a  quanto  dicemmo  del  legno  nei  prece- 
denti paragrafi.  E  questo  prova  sempre  più  1'  importanza  di  questi 
tre  elementi  per  la  Vite. 

La  composizione  del  mosto  varia  però  secondo  lo  stato  di  mag- 
giore o  minore  maturità  delle  uve,  e  questo  non  solo  riguardo  allo 
zucchero,  ma  anche  riguardo  al  cremortartaro:  già  Neubauer  (1) 
aveva  trovato  che  la  potassa,  in  un  colle  sostanze  minerali,  au- 
menta negli  acini  durante  il  periodo  della  maturazione.  Ma  nel 
1875  il  Doti.  Macagno  dietro  analisi  accurate  trovò  non  solo  la 
conferma  di  quanto  aveva  detto  Neubauer,  ma  altresì  che  il  tar- 
trato  acido  di  potassio  è  meno  abbondante  nel  mosto  della  parte 
inferiore  del  grappolo,  cioè  in  quella  meno  matura;  onde  si  può 
ritenere  che  la  formazione  del  cremortartaro  procede  di  pari  passo 
colla  maturazione  dell'uva;  cosa  evidente  del  resto,  se  si  riflette  che 
infatti  le  vinaccie  dei  paesi  meridionali  danno  più  tartaro  che  non 
quelle  dei  paesi  settentrionali. 

Ecco  riunite  in  una  interessante  tabella  le  ricerche  del  Dott.  Ma- 
cagno,  il  quale  fece  i  suoi  saggi  operando  su  25  a  30  chilogr. 
d'uva;  (la  parte  inferiore  corrisponde  alla  punta  del  grappolo): 


(1)  Chemische   Untersuchungen   iiber  das  Reifen  der    Trauben  negli   Annalen 
der  Oenologìe  (V,  358). 


.224 


CAPITOLO  V 


NOME  DELL'UVA 


o 

-«<  +- 
Èj   § 

W  ~ 
^3 

IN  UN  LITRO  DI  MOSTO 

Glucosio 

Acidi 

Cremor- 
tartaro 

EPOCA 

della  vendemmia 


1 

Barbera      .     .     . 

2 

Uvaggio      .     .     . 

3 

Grignolino  verde 

4 

Barbera      .     .     . 

5 

Uvaggio      .     .     . 

6 

Grignolino.     .     . 

7 

Uvaggio  verde     . 

8 

Moscato      .     .     . 

9 

Malvasia     .     .     . 

10 

Nebbiolo     .     .     . 

11 

Bordeaux    .     .     . 

12 

Pinot      .     .     .     . 

13 

Barbera  appassita 

14 

Balsamina  . 

15 

Tokai     .     .     .     . 

16 

Fresia    .     .     .     . 

17 

Grignolino .     .     . 

18 

Barbera      .     .     . 

19 

Fresia    .     .     .     . 

20 

Grignolino      .     . 

21 

Moscato      .     .     . 

22 

Malvasia     .     .     . 

23 

Montepulciano     . 

24 

Barbera      .     .     . 

25 

Dolcetto      .     .     . 

26 

Grignolino.     .     . 

27 

Nebbiolo     .     .     . 

parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 
parte  sup. 
parte  inf. 


1,097 

193 

10,9 

9,7 

1,094 

188 

10,8 

9,2 

1,080 

160 

7,0 

9,2 

1,078 

155 

8,3 

7,5 

1,071 

142 

10,4 

6,0 

1,059 

119 

10,2 

3,2 

1,101 

202 

9,1 

10,4 

1,100 

200 

9,1 

10,3 

1,039 

178 

8,9 

8,4 

1,086 

172 

7,9 

7,9 

1,086 

171 

8,4 

9,8 

1,083 

166 

8,3 

9,1 

1,073 

144 

9,8 

8,8 

1,066 

129 

10,0 

8,0 

1,108 

216 

9,2 

9,8 

1,107 

214 

9,3 

9,8 

1,094 

188 

9,7 

8,9 

1,089 

182 

9,2 

8,8 

0,087 

176 

9,9 

8,4 

1,079 

159 

10,2 

7.2 

1,117 

235 

10,1 

9,4 

1,118 

234 

10,3 

9,2 

1,103 

204 

8,4 

10,4 

1,102 

202 

8,8 

10,4 

1,115 

232 

10,5 

9,1 

1,106 

214 

10,8 

9,0 

1,096 

193 

8,2 

7,4 

1,088 

178 

8,4 

6,3 

1,095 

189 

8,8 

7,8 

1,078 

158 

8,7 

5,2 

1,087 

175 

8,8 

7,1 

1,080 

161 

9,4 

6,1 

1,093 

184 

10,1 

9,8 

1,076 

152 

11,9 

8,7 

1,094 

189 

9,8 

10,1 

1,091 

184 

9,7 

10,4 

1,088 

179 

8,5 

6,9 

1,078 

154 

9,1 

5,4 

1,085 

172 

9,7 

9,9 

1,071 

143 

9,9 

7,4 

1,093 

184 

7,8 

8,1 

1,091 

182 

7,7 

7,9 

1,083 

164 

8,8 

6,4 

1.078 

159 

9,9 

4,1 

1,084 

169 

9,2 

6,1 

1,066 

132 

10,4 

4,1 

1,088 

178 

9,3 

8,8 

1,079 

168 

9,9 

7,9 

1,082 

164 

8,1 

6,2 

1,061 

122 

8,7 

4,3 

1,088 

178 

9,2 

8,8 

1,079 

158 

10,0 

7,2 

1,083 

169 

8,9 

8,1 

1,070 

134 

10,1 

6,1 

6  Ottobre 


id. 

id. 

id. 

id. 

id. 

id. 

29  Settembre 
11  Ottobre 
29  Settembre 
2  Ottobre 

2  id. 

28  Settembre 

27  id. 
24      id. 

7      id. 

24  id. 

4  Ottobre 

3  id. 

29  Settembre 

25  id. 

28  id. 
28      id. 

4  Ottobre 
28  Settembre 

4  Ottobre 
25  Settembre 


CHIMICA  DELLA  VITE  225 


Vediamo  ora  la  composizione  delle  vinaccie.  In  alcune  interes- 
santi ricerche  fatte  a  Klosterneuburg  dal  Prof.  S.  Meneghini,  la 
cenere  delle  vinaccie  abbruciate  accusò  la  seguente  composizione: 

Su  100  grammi  di  cenere 

Potassa 44,09 

Soda 0,48 

Calce 7,18 

Magnesia 5,38 

Ferro    . 8,56 

Manganese 0,22 

Cloro 0,37 

Acido  solforico 2,33 

»      fosforico    .     ...     .     .     .     10,59 

»      silicico 20,83 

Come  vedesi  anche  nella  cenere  delle  vinaccie  la  potassa  è  l'ele- 
mento principale;  vengono  dopo  la  silice,  e  poi  Y  acido  fosforico,  la 
calce  ed  il  ferro  (a  cui  si  deve  la  colorazione  verde  dei  tralci,  come 
dicemmo  a  pag.  136). 

Su  1000  parti  di  vinaccia  umida  sì  trovano  in  generale: 

Graspi  ....  parti  280 
B  uccie  ....  »  520 
Vinacciuoli    ...       »     200 

1000 
Secondo  il  Prof.  De  Grully  le  vinaccie  umide  contengono  in  media: 

Acqua 70 

Materia  secca  totale  .  30 

Materie  azotate      .     .  3,25  (corr.  azoto  0,535) 

Materie  grasse       .     .  2,36 

Estrattive  non  azotate  17,45 

Cellulosa  o  legnosa    .  4,06 

Materie  minerali    .     .  2,93 

Invece  quando  sono  secche  contengono  in  media: 

Materie  azotate  .  .  11,25  (corr.  azoto  1,784) 
Materie  grasse  .  .  .  7,86 
Estrattive  non  azotate  58,17 
Cellulosa  ....  13,53 
Ceneri  .'  .  .  .  .  9,78 
O.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura  16 


226  CAPITOLO  V 


§  5.  Componenti  principali  della  vite.  —  Dall'  esame  delle 
numerose  analisi  sovra  riportate  si  deduce  che  i  principali  compo- 
nenti della  vite,  volendosi  riunire  in  una  sola  le  varie  composizioni 
del  legno  vecchio  e  giovine,  delle  foglie,  dell'uva  e  del  mosto,  sono 
i  seguenti:  la  potassa,  Y  acido  fosforico,  la  calce,  l' acido  silicico 
ed  il  ferro  fra  le  sostanze  minerali,  Y amido,  lo  zucchero,  la  mate- 
ria colorante  ed  il  tannino,  fra  le  sostanze  organiche.  Accenne- 
remo fra  i  componenti  anche  Y acqua,  che  è  assai  abbondante;  in- 
fatti nel  legno  verde  ne  troviamo  circa  il  50  per  cento:  in  quello 
essiccato  all'  aria  il  14  0[q  e  nelle  foglie  oltre  all'80  0[q,  massime 
se  fresche.  Nei  grappoli  circa  60  al  66  0[Q,  nei  semi  circa  il  25  Ojq, 
neh'  uva  matura  il  75  e  più  per  cento,  infine  nel  capellamento  delle 
radici  dal  60  al  63  per  0[q  ed  il  47  Ojo  circa  nelle  radici  grosse. 
L'  acqua  è  adunque  senza  dubbio  il  più  abbondante  componente  della 
vite.  Ma  esaminiamo  gli  altri  componenti  sovra  accennati. 

a)  Potassa.  Moltissime  sono  le  ricerche  chimiche  e  le  espe- 
rienze nei  vigneti,  dalle  quali  risulta  che  la  potassa  ha  grande  in- 
fluenza sulla  vite  e  massimamente  sulla  maggiore  ricchezza  dell'uva 
in  zucchero.  Onde  non  si  riesce  ad  intendere  come  Boussingault  abbia 
potuto  dedurre,  dalle  sue  ricerche,  che  «  la  coltura  della  vigna 
non  esige  una  maggior  quantità  di  potassa  che  le  altre  col- 
ture »  (1).  Sta  però  che  i  concimi  potassici  giovano  molto  alla  vite 
massimamente  il  nitrato  di  potassa,  il  cloruro,  il  carbonato  ed 
il  solfato.  Il  prof.  Andognand  (2)  ha  potuto  constatare  con  ricerche 
dirette:  1.  Che  la  potassa  deve  essere  mescolata  con  altre  sostanze 
concimanti,  perchè  essa  ne  aiuta  V  assorbimento  da  parte  della  vite; 
2.  Che  la  quantità  complessiva  di  potassa  non  vien  concentrata  to- 
talmente nel  frutto,  ma  in  parte  resta  in  serbo  nel  legno  vecchio 
e  nei  tralci  annuali;  cosa  che  noi  pure  constatammo  e  ne  riparleremo 
tra  breve. 

Il  Prof.  Rotondi  dalle  sue  ricerche  in  proposito  dedusse  poi  che 
i  concimi  potassici  sotto  forma  di  cloruro  sembrano  essere  quelli 
che  danno  il  maggiore  aumento  in  materia  zuccherina;  la  qual  cosa 
abbiamo  noi  pure  constatato  ripetutamente  nei  nostri  vigneti  ove 
usiamo  appunto  concimi  chimici  a  base  di  cloruro  potassico  al  50 
per  cento  di  ossido  (cioè  di  potassa    assimilabile).    Il   prof.    Rotondi 


(1)  Agronomie,  Chimìe  Agricole  et  Physiologie.  Tom.  V,  pag.  421. 

(2)  Biedermann's  Centralblatt  fur  Agricultur  Chemie.  1878. 


CHIMICA  DELLA  VITE  227 


ha  pure  trovato  che  la  potassa  somministrata  sotto  questa  forma  è, 
fra  le  sostanze  concimanti,  quella  che  dà  un  maggior  aumento  in 
sostanze  minerali.  Il  Prof.  Bechi  giunse  a  conclusioni  quasi  uguali  (1). 

Il  Prof.  Saint-Pierre,  dopo  molte  esperienze  accurate  fatte  nei 
vigneti  stessi,  è  venuto  alle  seguenti  conclusioni:  1.)  La  potassa  è 
1'  elemento  fertilizzante  più  necessario  alla  vite;  2.)  i  fosfati  solubili 
da  soli  non  giovano  molto;  3.)  Il  miglior  ingrasso  è  quello  che  con- 
tiene potassa  e  fosfati  uniti  assieme.  Queste  esperienze  del  Saint-Pierre 
concordano  pienamente  colle  nostre. 

In  quanto  alla  soda  abbiamo  constatato  con  certezza  che  non  è 
di  alcun  giovamento  alla  vite,  non  ostante  la  sua  analogia  con  la 
potassa;  e  trovammo  pure  differenze  notevoli  fra  il  nitrato  di  po- 
tassa e  quello  di  soda  considerati  come  concimi. 

b)  Acido  fosforico.  Il  celebre  chimico  G.  Liebig  credeva  che  l'e- 
saurimento del  terreno,  specialmente  riguardo  ai  fosfati  ed  alla  potassa, 
fosse  la  causa  della  facile  diffusione  della  crittogama  oidio  ;  ciò  ci  pare 
assai  discutibile ,  perchè  anche  le  vigne  di  terreni  ubertosi  e  concimati 
razionalmente  sono  fieramente  attaccate  dalla  malattia;  ad  ogni  modo 
è  dimostrato  che  anche  Y acido  fosforico  ha  una  grande  importanza 
per  le  viti,  e  si  può  facilmente  desumerlo  dalle  analisi  sovra  riportate. 
Un  prodotto  di  30  ettolitri  di  vino  sottrae  da  un  ettare  di  terreno 
(10  mila  m.  q.)  circa  chilog.  7  a  8  di  acido  fosforico;  ciò  non  è  molto, 
ma  conviene  riflettere  che  l'acido  fosforico  è  l'elemento  che  più  scar- 
seggia nel  terreno,  ond'è  che  quasi  sempre  la  vite  non  trova  a  di- 
sposizione neppur  quella  piccola  dose.  Le  ricerche  del  Professore 
Joulie  hanno  dimostrato  che  una  più  abbondante  alimentazione  della 
vite  con  acido  fosforico,  come  avviene  per  tutte  le  piante  saccarifere, 
accresce  la  proporzione  dello  zucchero  nell'uva.  Il  sig.  Joulie  ri- 
tiene pure  che  la  presenza  di  questo  acido  nel  terreno  faciliti  l'as- 
sorbimento dell'azoto,  e  quindi  indirettamente  giovi  anche  alla  forma- 
zione d'  un  copioso  sistema  radicale  e  d'una  ricca  vegetazione;  altri 
esperimentatori  sono  giunti  alle  stesse  conclusioni. 

Noi,  che  usiamo  sempre  unire  ai  concimi  potassici,  fosfati  di  calce 
allo  stato  di  perfosfato  commerciale,  possiamo  accertare  che  la  vite 
se  ne  avvantaggia  notevolmente  sia  nel  vigore  vegetativo  sia  nella 
qualità  dell'uva. 

Ma  oltre  la  vite  ne  avvantaggia  anche  notevolmente   la  qualità 


(1)  Così  il  Prof.  Comboni  —  op.  cit.  pag.  24. 


228  CAPITOLO  V 


del  vino:  infatti  il  fosfato  di  calce  è  un  componente  costante  del 
vino  buono,  rosso  o  nero  (1).  Un  litro  ne  può  contenere  circa  grammi 
0,8  ed  allora  riesce  molto  nutriente  perchè  il  fosfato,  elemento  pre- 
cipuo delle  nostre  ossa,  viene  agevolmente  trasportato  dal  vino  stesso 
nei  liquidi  del  corpo  umano,  e  va  cosi  a  supplire  alle  perdite  gior- 
naliere che  le  nostre  ossa  fanno  del  fosfato  medesimo. 

e)  La  calce.  Anche  questa  sostanza  ha  una  non  piccola  impor- 
tanza per  la  vite,  e  lo  dimostrano  le  analisi  sovra  riportate  del  legno 
e  delle  foglie.  Benché  nel  mosto  essa  quasi  scompaia,  pure  è  dimo- 
strato da  numerose  osservazioni  che  nei  terreni  calcari  V  uva  si  fa 
più  ricca  di  principio  dolce  che  non  negli  altri  terreni:  il  vino  quindi 
risulta  più  alcoolico  e  più  tardi  si  arricchisce  di  eteri.  La  calce  quindi 
indirettamente  contribuisce  alla  finezza  ed  alla  fragranza  del  vino. 
Clanj  trovò,  ad  esempio,  per  la  stessa  varietà  d'uva  il  seguente  per 
cento  di  alcool  nel  vino: 

Terreno  calcare    .     .     .     .  11,30  per  100  in  volumi 
Terreno  argilloso      .     .     .       9,60  »  » 

ed  in  altri  esperimenti  trovò: 

Terreno  calcare    ....  11,00  »  » 

Terreno  argilloso      .     .     .       9,00  »  » 

Tuttavia  non  è  men  vero  che  speciali  condizioni  non  ancora  bene 
studiate,  possono  supplire  anche  alla  totale  assenza  del  calcare:  veggasi 
per  esempio  qui  appresso  l'analisi  della  terra  di  Chdteau  de  La  fitte, 
famosissimo  vigneto  di  78  ettari  situato  nel  Bordolese,  al  Nord  del 
Comune  di  Pauillac: 

Ciottoli  levigati  silicei     ....  630  per  mille 

Sabbia  minuta 344         » 

Sostanze  organiche  (1,3  0[q)  .     .  13         » 

Allumina 7         » 

Calce  (1[2  0[q) 5         » 

Ossido  di  ferro 1          » 

1000 
In  Italia  abbiamo  pure  ottimi  vigneti  il  cui  suolo  non  contiene  as- 


(1)  Secondo  Midder  i  fosfati  accompagnano  sempre  la  enocianina  (principio  co- 
lorante dell'uva)  ed  è  forse  anche  per  questo  che  i  vini  rossi  sono  più  nutrienti 
dei  vini  bianchi. 


CHIMICA  DELLA  VITE  229 


solutamente  calcare:  il  Dott.  Angelo  Mona  nei  suoi  Studi  di  eno- 
logia scrive  d'aver  fatto  alcune  analisi  su  diversi  campioni  di  terra 
dei  migliori  vigneti  di  Brindisi,  analisi  le  quali  gli  diedero  per  ri- 
sultato la  quasi  assoluta  mancanza  di  calce:  alcuni  campioni  bolliti 
coll'acido  dorico  e  tentati  poi  coll'acido  ossalico  e  coll'ossalato  d'am- 
moniaca non  accusarono  che  una  debole  traccia  di  calce:  eppure  le 
viti  di  quelle  terre  danno  eccellenti  vini. 

Si  vede  quindi  che  se  la  presenza  del  calcare  è  giovevole,  non  è 
però  indispensabile;  e  questo  valga  a  tranquillare  varii  fra  i  nostri 
viticultori  che  sogliono  attribuire  la  meno  buona  qualità  dei  loro  vini 
al  terreno,  laddove  dovrebbero  incolparne  o  il  metodo  di  fabbrica- 
zione o  le  scadenti  varietà  d'uva  coltivate. 

Dell'  ossalato  di  calcio  abbiamo  già  parlato  a  pag.  118  e  136;  è 
una  combinazione  di  calce  ed  acido  ossalico,  acido  che  si  trova  in 
abbondanza  ad  esempio  nell'acetosella.  L'ossalato  di  calcio  benché  in- 
solubile nell'acqua  pura  si  trova  però  disciolto,  come  già  sappiamo, 
nel  liquido  delle  cellule  mentre  la  pianta  è  in  sviluppo.  Più  tardi,  se- 
condo Schmidt  ed  altri,  esso  si  accumula  in  cristalli  dei  quali  ab- 
biamo dato  varii  disegni  a  pag.  136.  Quale  sia  la  funzione  di  que- 
sto sale  nella  pianta  di  vite,  non  è  ancora  stato  detto;  ma  è  a  spe- 
rarsi che  gli  studiosi,  coll'aiuto  della  micro-chimica,  riescano  presto 
a  formulare  qualche  conclusione  soddisfacente  sul  delicato  soggetto. 

d)  La  silice.  Abbiamo  già  detto  a  pag.  216  che  è  sovratutto 
nelle  foglie  della  vite  che  abbonda  la  silice  (dal  7  al  35  0\q  secondo 
l'età  della  foglia):  nei  tralci  invece  se  ne  trova  soltanto  dell'  1  al  9  0[0 
secondo  l'età  ed  il  vitigno,  e  nel  mosto  meno  ancora,  cioè  circa  il 
5  Ofo  (il  3  0[o  nella  cenere  delle  buccie  dell'uva  e  solo  l'I  0\q  in 
quella  dei  vinacciuoli).  È  singolare  il  fatto  che  la  silice  pare  dimi- 
nuisca nelle  uve  affette  da  crittogama  (oidio);  infatti  nelle  esperienze 
citate  a  pag.  220  si  vede  che  nelle  uve  sane  la  silice  rappresenta 
quasi  il  4  0[q  delle  ceneri  mentre  nelle  uve  poco  ammalate  abbiamo 
solo  il  3,26  ed  in  quelle  molto  ammalate  l'I, 71  0[q;  la  diminuzione 
è  rilevante.  Nulla  possiamo  però  dire  dell'ufficio  che  la  silice  compie 
nei  varii  organi  della  vite. 

e)  Il  ferro  ha  una  grande  importanza  nella  vite,  non  solo  per- 
chè senza  ferro  non  si  forma  clorofilla  (pag.  136)  ma  perchè  esso 
contribuisce  alla  robustezza  della  pianta  ed  alla  salubrità  del  vino. 
Contribuisce  alla  robustezza  della  vite  perchè  le  foglie  colorate  d'un 
bel  verde,  lavorano  più  attivamente  a  benefizio  del  legno,  delle  gemme 


230  CAPITOLO  V 


e  dell'uva,  come  abbiamo  lungamente  detto  studiando  la  fisiologia 
della  vite.  Contribuisce  poi  alla  salubrità  del  vino  perchè  è  fuori  di 
dubbio  che  i  sali  di  ferro,  e  specialmente  il  tartrato,  sono  impor- 
tanti fattori  di  quelle  proprietà  ristoratrici  che  posseggono  certi  vini 
fra  cui  il  Barbera  ed  il  Bordeaux,  se  fabbricati  con  mosto  e  vi- 
naccìe  (1).  Il  Dr.  Rotondi  in  alcune  sue  ricerche  trovò  quanto  segue: 

Ossido  ferroso 
Barbera  fatto  con  puro  mosto  per  litro  gr.  0,0067 
»  »         8  0[o  di  vinaccie        »  0,0095 

»  »         50  0[Q        »  »  0,0114 

Le  esperienze  dei  Dottori  Pasqualina  Pasqua  Perier  e  Faurè 
provano  esse  pure  che  i  sali  di  ferro  conferiscono  proprietà  risto- 
ratrici a  taluni  vini  rossi:  Faurè  dice  che  il  Bordeaux  contiene  sino 
a  0,25  per  mille  di  tartrato  di  perossido  di  ferro,  cioè  un  quarto  di 
gramma  per  litro;  i  vini  bordolesi  bianchi  ne  contengono  meno. 

Vino  rosso  Vino  bianco 

Minimo  Massimo  Minimo  Massimo 

gr.     0,1632        0,24S4         gr.     0,0642        0,1870 

Il  solo  Prof.  Nessler  non  ammette  tanta  ricchezza  in  ferro  nei 
vini  bordolesi;  egli  avrebbe  trovato  infatti  soltanto  6  decimilligrammi 
di  ferro  per  ogni  litro.  Senonchè  le  numerose  ricerche  di  parecchi 
altri  analizzatori,  fanno  supporre  che  il  Nessler  abbia  esperimentato 
su  vini  bordolesi  di  qualità  mediocre. 

Ma  il  ferro  è  anche  un  costituente  della  materia  colorante  del- 
l' uva.  Le  interessanti  ricerche  del  sig.  Glenard  e  sovratutto  del 
Prof.  Comboni  sulla  enocianina  hanno  dimostrato  che  il  principio 
violetto  del  colore  d'uva  è  un  sale  di  ferro  (2),  e  questo  spiega 
perchè  i  vini  rossi  siano  più  ricchi  in  ferro  dei  bianchi. 

Infine  da  quanto  dicemmo  risulta  pienamente  giustificata  la  pra- 
tica consigliata  dal  Do  IL  Guyot,  e  seguita  da  parecchi  fra  cui  noi 
stessi,  di  spargere  il  solfato  di  ferro  al  piede  delle  ceppaie  di  viti 
alla  dose  di  circa  20  chilog.  per  ettare,  cioè  circa  2  grammi  per 
pianta  di  vite  di  vigneto  specializzato. 

f)  Materie  organiche.  Dell'  amido  abbiamo  già  parlato  lunga- 


(1)  Fabbricandoli  con  solo  mosto  la  quantità  di  ossido  di  ferro  diminuisce  sen~ 
sibilmente. 

(2)  E.  Comboni  —  Trattato  di  Enochimica,  voi.  2°,  pag.  26. 


CHIMICA  DELLA  VITE  231 

mente,  ed  abbiamo  anche  visto  quale  sia  la  sua  importantissima  fun- 
zione nella  vite;  rimandiamo  perciò  il  lettore  alle  pag.  118,  135,  144, 
149,  156  e  162. 

Abbiamo  pure  parlato  dello  zucchero  studiando  a  pag.  202  la 
maturazione  dell'  uva;  qui  dobbiamo  soggiungere  che  lo  zucchero 
d'uva  risulta  dalla  mescolanza  di  due  sostanze  dolci,  dette  glucosio 
e  levulosio.  Il  glucosio  ha  la  seguente  composizione  centesimale: 

Carbonio 40,00 

Idrogeno 6,67 

Ossigeno 59,33 


100,00 


Il  levulosio  (o  chilarioso)  ha  la  stessa  composizione  del  glucosio,  di 
cui  può  considerarsi  siccome  un  isomero  (1).  Allorquando  l'uva  si  es- 
sica,  una  parte  dello  zucchero  trasuda  e  cristallizza  alla  superfìcie  della 
buccia,  e  costituisce  il  glucosio;  la  parte  liquida  o  sciropposa,  non 
cristallizzabile,  che  rimane  nell'interno  dell'acino  è  il  levulosio.  Gli  è 
certo  perchè  il  principio  dolce  dell'uva  è  così  composto,  che  non  è 
possibile  imitare  perfettamente  il  vino  con  nessun'  altra  sostanza 
zuccherina. 

La  materia  colorante  dell'uva  fu  studiata  molto  accuratamente 
in  questi  ultimi  anni  dai  Prof.i  Comboni  e  Carpenè  di  Conegliano,  i 
quali  riuscirono  a  prepararla  industrialmente  con  un  processo  noto 
soltanto  in  parte:  solo  si  sa  che  le  vinaccie  d'uve  molto  colorate 
sono  tenute  in  infusione  durante  20  giorni  nell'alcool  a  85°,  acidu- 
lato  con  acido  tartarico,  e  che  poscia  si  distilla  il  liquido  di  infusione 
in  apparecchi  speciali.  Colla  decantazione  si  ottiene  quindi  la  eno- 
cianina  commerciale  la  quale  ha  la  seguente  composizione: 

Densità  a  +  15°  =  1,0200 

Acqua gr.  95,006  0I0 

Glicerina »      0,320    » 

Materie  grasse »      0,049    » 

Enocianina »      1,840    » 

Quercetina traccie 


(1)  Diconsi  isomeri  quei  corpi  che  hanno  bensì  la  stessa  composizione   cente- 
simale  ma  differiscono  per  le  loro  proprietà  fisiche  o  chimiche. 


232 


CAPITOLO  V 


Tannino 

Acido  pectico  e  gumme    .     .     . 
Acidi  tartarico,  succinico,  malico 
Acidi  minerali  combinati  .     .     . 
Cremore 


»      0,850    » 

traccie 
»      1,190    » 

traccie 
»      0,657    » 

99,912 
gr.     1,0920  0|o 


Ceneri       

La  composizione  di  queste  ceneri  è  in  media  la  seguente 


Calce 

Acido  fosforico  (anidro) 

Magnesia 

Potassio    . 

Acido  solforico  (anidro) 

Ferro 

Cloro 

Silice 

Sodio,  litio,  rubidio    . 


Gr.  10,1  0[0 
»    23,6    » 
30,2    » 
14,0    » 
7,0    » 

9.0  » 

2.1  » 
3,0    » 

traccie 

99,0 


Il  Dr.  Comboni  (1)  conclude  che  l'enocianina  commerciale  si  può 
quasi  considerare  siccome  vino  privato  del  suo  alcoole  e  della  maggior 
parte  dei  sali. 

L'enocianina  ricavata  coll'accennato  processo,  è  solubile  nell'acqua 
senza  intorbidamento  di  sorta  e  senza  aggiunte  di  alcoole;  è  pure 
solubilissima  nel  vino,  siccome  noi  abbiamo  ripetutamente  esperimen- 
tato: sin  qui  invece  si  era  sempre  ritenuto  che  V  enocianina  fosse 
insolubile  nell'acqua,  il  che  dipende  dal  metodo  di  preparazione. 

Dagli  studii  fatti  a  Conegliano  risulterebbe  che  nell'uva  esistono  varii 
principii  coloranti;  l'uno  violetto,  l'altro  rosso  ed  un  terzo  che  diventa 
rosso  dietro  trasformazioni  chimiche:  ad  essi  va  sempre  unita  clo- 
rofilla. Il  violetto,  che  è  instabile  e  precipita,  contiene  più  ferro  che 
non  il  rosso,  che  è  la  materia  colorante  la  quale  rimane  in  soluzione 
quando  si  prepara  la  enocianina.  Lo  studioso  che  desiderasse  cono- 
scere tutte  le  esperienze  del  Prof.  Comboni,  dovrebbe  ricorrere  al 
suo  pregevole  Trattato  di  enochimica. 


(1)  Op.  cit.  voi.  II  pag.  265. 


CHIMICA  DELLA  VITE  233 


Il  tannino  devesi  pure  annoverare  fra  i  principali  componenti 
della  vite;  infatti  contengono  tannino  le  cellule  dei  raggi  midollari 
(pag.  124),  gli  strati  corticali,  il  libro,  il  legno  giovine  ed  il  legno 
vecchio  (pag.  128),  i  viticci  (pag.  131),  i  picciuoli  (pag.  132),  i  fila- 
menti degli  stami  (pag.  144),  la  rachide  il  peduncolo  ed  i  sub-pe- 
duncoli (pag.  108)  infine  la  fiocine  ed  i  vinacciuoli. 

L'acido  tannico  ha  la  seguente  composizione  centesimale: 

Carbonio 52,42 

Idrogeno 3,56 

Ossigeno 44,02 

100,00 

Il  Dr.  Wagner,  distinguendo  i  varii  tannini,  chiama  quello  del- 
l'uva enotannino  e  lo  dice  tannino  fisiologico  poiché  è  un  prodotto 
di  elaborazione  della  pianta.  Gli  altri  tannini  enumerati  dal  prof. 
Gauthier  sono  quello  della  noce  di  galla,  del  caffè  (caffetannico) 
della  china  (chinotannico)  del  cauciù  (caschutannico)  ed  altri.  Ab- 
biamo già  detto  come  varii  chimici  ritengano  che  il  tannino  sia  un 
glucoside  capace  di  sdoppiarsi  per  fermentazione  in  acido  gallico  e 
glucosio;  recentemente  invece,  dopo  le  esperienze  del  Dr.  Schiff,  ciò 
è  contraddetto.  Crediamo  però  che  sia  ancora  a  studiarsi  qual1 
trasformazioni  subisca  il  tannino  dei  vini  ruvidi,  i  quali,  invec- 
chiando, si  fanno  più  morbidi  perdendo  una  grande  parte  del  tannino 
stesso. 

Dell'  acido  tartarico  e  dei  molti  altri  acidi  dell'  uva  non  diciamo 
nulla,  non  volendo  invadere  maggiormente  il  campo  della  enologia; 
per  cui  rimandiamo  il  lettore  all'altra  nostra  pubblicazione  Enologia 
teorico -pratica  (1). 

§  6.  Relazioni  fra  la  composizione  del  terreno  e  quella 
della  vite.  —  È  facile  supporre  che  la  composizione  chimica,  e  per 
certi  rapporti  anche  la  struttura,  del  terreno  sul  quale  vegeta  la  vite, 
debbono  esercitare  una  rimarchevole  influenza  sulla  composizione  di 
quest'ultima.  Anzitutto  il  terreno  influisce  sulla  quantità  delle  ce- 
neri  di  tutte  le  piante,  e  così  anche  della  vite;  ma,  dato  lo  stesso 
terreno,  le  diverse  varietà  di  vitigni  assimilano  quantità  approssima- 


(1)  Un  voi.  di  pag.  726  —  presso  il  Tip.  C.  Cassone  —  Casal monferrato. 


234  CAPITOLO  V 


tivamente  uguali  di  materie  minerali.  Però  le  piante  più  robuste  e 
più  ricche  di  fogliame  contengono  quantità  notevolmente  maggiori 
di  cenere. 

Riguardo  all'influenza  del  terreno  sui  componenti  organici  della 
vite,,  e  specialmente  dell'uva  che  è  il  nostro  obbiettivo  principale, 
abbiamo  creduto  opportuno  di  radunare  nella  seguente  tabella  i  ri- 
sultati delle  nostre  osservazioni  al  riguardo: 

Sostanze  la  cui  formazione 
Natura  del  terreno  viene  favorita 

Calcare  sciolto   ciottoloso  (1)        Zucchero   (  alcool  abbondante   nel 

vino)  (2) 
Calcare  sabbioso  leggero     .     .     Zucchero  id. 


Marnoso- calcare     .     . 
Ferruginoso  rossastro 
Argillo-calcare  compatto 
Argilloso  umifero,  fertile 


Id.  id. 

Zucchero,  colore         id. 
Tannino,  colore,  tartrati  (vini  ruvidi) 
Sostanze  azotate  (vini  poco  serbevoli) 
Argillo-calcare  di  media  fertilità    Zucchero,  tannino,  colore,  sostanze 

azotate  (vini  usuali) 
Asciutto  arido  vulcanico      ,     .      Zucchero  (vino  scelto) 

Umido Sostanze  azotate,  acqua   (vino  sca- 

dentissimo) 

Osserveremo  che  la  quantità  di  principio  dolce  varia  poi,  a  parità 
di  terreno,  a  seconda  del  clima,  del  vitigno  e  del  sistema  di  potatura; 
diciamo  questo  acciò  non  si  attribuisca  alla  tabella  che  precede  un 
valore  affatto  assoluto. 

Supponendo  un  ettare  di  vigneto  specializzato,  colla  raccolta  del- 
l'uva si  esporteranno  in  media  (Bonssing ault): 

Potassa    ....  chilogrammi  16,42 

Acido  fosforico          .         .  »             7,23 

Calce        ....  »           12,49 

Acido  solforico  (3)   .         .  »             1,93 


(1)  Il  Bordeaux  di  prima  qualità  (es.  Chdteau  La  fitte)  viene  da  terreni  simili;, 
è  vero  che  l'alcool  in  esso  non  si  può  dire  che  abbondi,  ma  vi  abbondano  gli  eteri 
perchè  l'uva  contiene  una  dose  conveniente  di  acidi  ed  è  povera  di  sostanze  a- 
zotate. 

(2)  Nei  climi  caldi,  vini  alcoolici  o  liquorosi;  nei  climi  temperati  vini  meno 
alcoolici  ma  ricchi  di  eteri  invecchiando. 

(3)  Ricorderemo  che  l'acido  solforico  si  trova  nel  terreno  sotto  forma  di  gesso 
(solfato  di  calcio). 


CHIMICA  DELLA  VITE 


235 


Secondo  le  accurate  ricerche  fatte  dal  Prof.  Meneghini  a  Klo- 
sterneuburg  2400  viti  di  Riesling  tolsero  in  un  anno  al  terreno 
quanto  segue: 


Legno  nuovo  (1) 
Parti  erbacee  . 
Vinacce  .  .  . 
Feccia  .... 
Vino      .... 


Totale  in  chilogr. 


Potassa 

Calce 

Magnes. 

4.579 
9.122 
6.686 
0.853 
2.190 

4.092 
5.821 
1.085 
0.103 
0.270 

0.969 
2.334 
0.819 
0.010 
0.100 

23,  430 

11.371 

4.232 

Ac.  fos£ 


1.773 

2,  661 
1.602 
0.093 
0.660 


789 


Questi  dati  del  Prof.  Meneghini  si  riferiscono  ad  un  vigneto  di 
circa  mezzo  ettare:  supponendo  un  vigneto  di  un  ettare  con  5000 
piante  di  viti,  avremo  con  approssimazione  una  doppia  esportazione 
annuale  ài  potassa,  acido  fosforico,  calce  e  magnesia  dal  terreno.  Ora 
giustamente  egli  osserva  che  concimando  i  vigneti  collo  stallatico  ogni 
biennio  od  ogni  triennio  come  si  usa  usualmente,  si  restituiscono  al 
terreno  quantità  assai  minori  di  detti  elementi  minerali,  ond'  è  che, 
volendo  fare  una  coltura  razionale  ed  avere  vigneti  longevi  e  robusti 
ed  il  terreno  non  spossato,  converrebbe  ricorrere  ai  concimi  chimici;  e 
jioi  aggiungiamo  altresì  alla  cenere,  alla  terra  vergine  ed  alle  vi- 
naccie  debitamente  preparate.  Ma  di  questo  dovremo  occuparci  stu- 
diando la  concimazione  del  vigneto. 


§  7.  Relazioni  fra  i  concimi  e  la  composizione  dell'  uva. 

—  I  concimi  esercitano  una  marcata  influenza  sulla  composizione  del- 
l'uva; sono  principalmente  lo  zucchero,  il  tartaro  e  le  sostanze  azo- 
tate che  subiscono  le  variazioni  più  notevoli.  È  provato  che  i  concimi 
potassici  (ceneri,  cloruro  di  potassa  ecc.)  provocano  la  formazione 
d'una  maggior  quantità  di  glucosio  e  di  tartaro;  ed  è  pure  certo  che 
i  concimi  azotati  (solfato  d'ammoniaca,  letami,  guano,  polverina 
ecc.)  provocano  una  copiosa  formazione  di  sostanze  albuminoidi,  d'onde 
un  mosto  meno  zuccherino,  ed  un  vino  di  più  difficile  conservazione. 


(1)  Degli  altri  elementi  minerali  non  si  tien  conto,  perchè  parte  non  sono  in- 
dispensabili alla  vite,  ovvero  in  ogni  terreno  se  ne  ha  a  sufficienza. 


236  CAPITOLO  V 


Il  Prof.  Cer letti  fece  nel  1882  varie  interessanti  ricerche,  all'I- 
stituto di  Conegliano,  sovra  questo  argomento;  ecco  le  sue  conclusioni: 

1)  Le  viti  in  qualsiasi  modo  concimate  entrano  in  fruttificazione 
più  prontamente,  o  a  parità  di  tempo  in  maggior  numero  che  quelle 
non  concimate; 

2)  Non  si  può  ancora  stabilire  nettamente  se  colla  concimazione 
aumenta  il  coefficiente  di  allegazione  del  frutto; 

3)  La  quantità  di  prodotto  in  uva  è  sempre  considerevolmente 
maggiore  per  le  viti  concimate  in  confronto  di  quelle  non  concimate. 

4)  I  concimi  complessi  a  base  di  azoto,  potassa  ed  acido  fosfo- 
rico inducono  una  maggiore  produzione  dei  concimi  isolati  e  ciò  anche 
quando  vengono  abbinati  due  di  essi,  ovvero  anche  raddoppiata  la 
quantità  di  uno. 

5)  La  formazione  del  glucosio  nell'uva  è  notevolmente  più  ab- 
bondante nelle  viti  in  qualunque  modo  concimate  che  non  in  quelle 
non  concimate;  per  le  applicazioni  sotto  i  diversi  climi  occorre  de- 
terminare anche  se  questo  aumento  deve  ritenersi  in  senso  assoluto, 
ovvero  come  una  maggior  rapidità  di  maturazione  procurata  dal 
concime. 

6)  Fra  i  diversi  concimi  quelli  a  base  di  potassa  fanno  aumen- 
tare la  quantità  di  glucosio  in  proporzione  maggiore  che  non  i  con- 
cimi a  base  di  acido  fosforico  o  d'azoto. 

7)  Colla  concimazione  ha  sempre  luogo  un  aumento  assoluto  di 
glucosio,  ma  esso  è  meno  appariscente  là  dove  il  quantitativo  d'uva 
non  crebbe  assai,  che  ove  questo  aumento  risultò  considerevole. 

8)  Circa  all'acidità  complessiva  dell'uva  quattro  risultati  direb- 
bero che  colla  concimazione  essa  diminuisce,  due  invece  accennereb- 
bero ad  un  aumento.  » 

Da  alcuni  fatti  si  sarebbe  poi  indotti  a  concludere  che  i  concimi 
puzzolenti,  se  adoperati  tali  e  quali  anziché  mescolati  con  terra  nei 
composti  o  terricciati,  comunicano  disgustosi  aromi  all'uva;  su  di  ciò 
mancano  però  esatte  osservazioni,  perchè  la  cosa  appare  dubbia  se 
si  riflette  che  i  vigneti  del  Reno  sono  spesso  concimati  cogli  escre- 
menti umani. 

Taluno  infine  pretende  che  concimando  i  vigneti  con  sostanze  ricche 
di  tannino  (cuojacci  ecc.)  l'uva  si  faccia  molto  aspra  e  tanninica;  ma 
anche  questa  affermazione  merita  conferma. 


CAPITOLO  VI 


Meteorologia  viticola. 

§  1.  La  luce  e  la  vite  —  §  2.  Il  calore  e  la  vite  —  §  3.  L'umido  e  la  vite  — 
§  4.  L'elettricità  e  la  vite  —  §  5.  La  grandine  e  la  vite  —  §  6.  La  brina  e 
la  vite  —  §  7.  Il  gelo,  la  neve  e  le  viti  —  §  8.  I  venti  e  la  vite  —  §  9.  La- 
titudine, altitudine  ed  esposizione  —  §  10.  Linee  isotermiche  e  punti  clime- 
nologici. 

§  1.  La  luce  e  la  vite.  —  L'influenza  che  le  condizioni  me- 
teorologiche a  cui  va  soggetto  l'ambiente  nel  quale  vegeta  la  vite 
esercitano  sulla  fruttificazione,  è  marcatissima;  e  se  è  vero  in  gene- 
rale, come  scrisse  Arturo  Young,  che  il  clima  è  altrettanto  essen- 
ziale quanto  il  suolo,  nel  caso  speciale  della  vite  si  può  affermare 
che  l'influenza  di  quello  è  assai  maggiore;  poiché  la  nostra  ampeli- 
dea,  quale  pianta  rusticana,  quasi  si  adatta  ad  ogni  maniera  di  ter- 
reno, laddove,  se  le  condizioni  metereologiche  le  sono  avverse,  ve- 
geta mediocremente  e  fruttifica  male  o  non  fruttifica  del  tutto.  È 
adunque  grande  l'importanza  dello  studio  che  stiamo  per  fare  in 
questo  capitolo,  onde  vi  richiamiamo  sopra  la  maggior  attenzione 
del  lettore. 

Allorquando   Galileo  chiamava  il  vino  «  un  composto  di  umore 
e  di  luce  »  sintetizzava  il  prodotto  della  vite  assai  meglio  di  Dante, 
il  quale  aveva  cantato  «  il  calor  del  sole  »  che  si  fa  vino 
Misto  all'umor  che  dalla  vite  cola. 

Infatti  gli  ultimi  studii  riguardo  all'influenza  della  luce  sulla  frut- 
tificazione della  vite  hanno  dimostrato  in  modo  non  dubbio  che  essa 
è  l'agente  che  esercita  la  massima  influenza  sulla  formazione  del 
principio  dolce  nell'uva;  e  che  a  parità  di  temperatura,  l'uva  è  tanto 
più  zuccherina  e  povera  di  acidi,  quanto  più  intensa  è  l'azione  della 
luce  solare. 


238  CAPITOLO  VI 


Abbiamo  già  accennato  a  questo  fatto  a  pag.  205  e  207;  ma  qui 
dobbiamo  scendere  a  varii  utili  dettagli.  Già  da  alcuni  anni  qual- 
che studioso  di  viticultura  aveva  osservato  che  ad  annate  ugual- 
mente calde  non  corrispondevano  uve  ugualmente  zuccherine;  anzi 
si  notavano  talvolta  differenze  così  rimarchevoli  da  non  potersi 
assolutamente  spiegare  attribuendole  alle  cause  minori  che  possono 
influire  sulla  maturazione  dell'uva.  Così,  gli  anni  1865  e  1866  die- 
dero in  Francia,  e  più  precisamente  in  Borgogna,  vini  molto  di- 
versi nel  titolo  alcoolico:  —  quelli  del  1865  riescirono  eccellenti  e 
quelli  del  1866  scadenti  o  poco  meno.  Tuttavia  le  osservazioni  me- 
tereologiche  attestarono  che  nei  due  anni  la  quantità  di  calore  che 
il  suolo  aveva  ricevuto  era  stata  la  stessa:  senonchè  dalle  stesse 
osservazioni  risultava  che  nel  1865  il  cielo  era  stato  abitualmente 
chiaro  e  la  luce  viva,  piena,  intensa,  mentre  nel  1866  quello  era 
stato  coperto  molte  volte.  Negli  anni  1873  e  1874  noi  facemmo 
una  uguale  osservazione  nell'Italia  superiore  e  specialmente  in  Mon- 
ferrato, e  d'allora  in  poi  raccogliemmo  ogni  anno  osservazioni  non 
solo  a  Casalmonferrato,  di  dove  scriviamo,  ma  in  altri  punti  (Asti, 
Moncalieri ,  Bra,  Firenze)  sempre  allo  scopo  di  constatare  se  re- 
almente la  luce  esercitasse,  a  parità  di  temperatura,  una  così  grande 
influenza  sulla  formazione  del  principio  dolce  nelle  foglie  ed  indiret- 
tamente nell'uva. 

Ecco  radunate  nei  seguenti  quadri,  parecchie  fra  le  osservazioni 
da  noi  fatte  (1). 

Incominciamo  da  un  parallelo  fra  gli  anni  1874  e  1875;  avvertiremo 
anzitutto  che  le  osservazioni  meteorologiche  non  vanno  oltre  la  2a 
decade  di  agosto  così  nei  due  anni  accennati  come  nei  successivi, 
perchè  noi  volevamo  essenzialmente  studiare  l'influenza  della  luce, 
prima  che  l'uva  incominciasse  a  colorarsi,  sulla  formazione  del 
glucosio  nelle  foglie.  Citeremo  poscia  altre  esperienze  le  quali  ab- 
bracciano anche  il  periodo  della  maturazione  dell'uva,  cioè  dal  set- 
tembre all'ottobre.  Abbiamo  chiamato  nelle  seguenti  tabelle  giorni 
sereni  quelli  che  ebbero  realmente  una  serenità  perfetta;  perciò  fra 
i  giorni  misti  ve  ne  sono  parecchi  che  ad  intervalli  ebbero  ore  di 
sole  vivo  e  molto  proficue  per  la  maturità  delle  uve. 


(1)  Ringraziamo  qui  nuovamente  gli  egregi  professori  Bonza  (Moncalieri)  Cra- 
veri  (Bra)  Ravizza  (Asti)  e  Meucci  (Firenze)  che  ci  fornirono  i  dati  raccolti 
dai  loro  reputati  Osservatomi  meteorologici. 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


239 


Anno   1875. 
ASTI  —  Osservazioni  fatte  per  cura  della  R.  Stazione  Enologica. 


Giorni  sereni 

Misti 

ID. 

Coperti 

ID. 

Temperatura  media  (1) 

dal  1  giugno  al  10  agosto 

Maggio 

Giugno 

Luglio 

Agosto 
l.a  decade 

31 

33 

7 

— 

25  C 

25  C 

33  C 

CASALE  —  Osservazioni  fatte  per  cura  del  Giornale  Vinicolo. 


13 


74 

15 

19  C 

22  C 

23  C 

21 


BRA  —  Osservazioni  fatte  dal  Prof  F.  Craveri 
all'  Osservatorio  metereologico. 


9 


80 


13 


18.90  C 


19.96  C 


20.90  C 


20.39  C 


MONCALIERI    —    Osservazioni  fatto   dal   Rev.    P.    Denza 
all'Osservatorio  del  Collegio  Carlo  Alberto. 


6 


82 


14 


18.57  C 


20.01  C 


21.37  C 


20.88  C 


FIRENZE  —   Osservazioni  fatte  dal  Prof  F.  Meucci 
presso  V  Archivio  metereologico. 


91 

6 

21.4  C 

23  C 

24.9  C 

23.6  C 


Riguardo  all'anno  1874  riferiremo  solo  i  dati  che  si  riferiscono  a 
Casalmonferrato;  ed  ecco  quindi  un  breve  parallelo  col  1875. 

CASALMONFERRATO 
1874  (2)  1875 


g.  sereni       misti        coperti 

39        58        15 


g.  sereni        misti        coperti 

13        74        15 


Il  1874  che  ebbe  sino  alla  metà  circa  di  agosto  maggior  numero 
di  giorni  sereni,  quantunque  la  temperatura  non  sia  stata  molto  su- 
periore a  quella  del  1875  dal  giugno  al  settembre,  produsse  uve  sen- 


(1)  Per  Asti  le  osservazioni  furono  fatte  con  termometri  posti  a  0,50  dal  suolo 
a  Mezzodì. 

(1)  Qui  vi  sono  10  giorni  di  più  che  nel  1875  e  cioè  dal  1  maggio  al  20 
agosto:  ma  il  confronto  può  farsi  egualmente. 


402 


CAPITOLO  VI 


sibilmente  più  ricche  in  principio  dolce,  e  questo  non  solo  nel  Mon- 
ferrato, ma  altresì  nei  paesi  delle  suddette  stazioni  meteorologiche: 
tuttavia  il  1874  non  fu  una  grande  annata,  quantunque  il  calore  a- 
vesse  raggiunto  quel  numero  di  gradi  che  abbisognano  all'uva  per 
farsi  molto  ricca  di  zucchero;  e  questo  perchè  i  giorni  perfettamente 
sereni  non  furono  che  39  sa  112;  in  detto  anno  le  buone  uve  del 
Monferrato  non  accusarono  in  media  che  19  0[q  di  zucchero  ed  i  vini 
in  media  1 1  0[Q  di  alcool.  L'  acidità  dei  mosti  toccò  1'  11  per  mille 
(acidità  complessiva,  calcolata  come  acido  tartarico).  Vedremo  che 
in  annate  più  ricche  di  giorni  sereni,  i  mosti  riuscirono  più  zucche- 
rini e  meno  acidi. 

Veniamo  ora  al  1876. 

CASALMONFERRATO.  —  Osservazioni  del  Giornale  Vinicolo. 


Mesi 


Maggio  .... 
Giugno  .... 
Luglio  .... 
Agosto  (due  decadi) 


Totali 


Giorni 

Sereni 

Misti 

Coperti 

5 

12 

14 

7 

13 

10 

14 

16 

1 

9 

10 

1 

35 

51 

26 

Temperatura 
media 


14°80C 
21.47 
24.93 
25.46 


ASTI  —  Osservazioni  della  R.  Stazione  Enologica.  (1) 


Maggio     .... 
Giugno     .... 

Luglio 

Agosto  (due  decadi) 


Totali 


5 

13 

13 

13 

15 

2 

23 

2 

6 

12 

4 

4 

53 

34 

25 

18°27C 
26.66 
32.36 
33.  01 


BRA  —  Osservatorio  diretto  dal  Prof.  Craverl 


Maggio     .... 
Giugno     .... 

Luglio 

Agosto  (due  decadi) 


Totali 


17 

14 

4 

23 

3 

4 

27 

— 

5 

14 

1 

13 

81 

18 

13°64C 
19.76 

23.  59 
23.65 


(1)  La  temperatura  fu  misurata  a  0,50  dal  suolo. 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


241 


FIRENZE  —  R.  Museo  di  fisica  e  storia  naturale. 


Giorni 

Temperatura 
media 

Mesi 

Sereni 

Misti 

Coperti 

Maggio 

4 

2 

25 

28 
26 
18 

6 

2 
1 

17°      C 
22.3 
25.1 
26.9 

Giugno 

Luglio 

Agosto  (due  decadi)  .     .     . 

Totali 

6 

97 

9 

Riassumendo  abbiamo: 

1876  Casale  Asti 

Giorni  sereni  35  53 

Id.     coperti  e  misti  77  59 


Bra 

Firenze 

13 

6 

99 

106 

Totali      112 


112 


112 


112 


Facciamo  ora  un  parallelo  col  1875. 

1875  Casale  Asti 

Giorni  sereni  13  31 

Id.     coperti  e  misti         89  40 


Bra 

Firenze 

9 

5 

93 

97 

Totali      102 


71 


102 


102 


Disgraziatamente  le  osservazioni  del  1875  non  datano  tutte  dal 
1°  maggio  e  non  si  protrassero  fino  ai  20  agosto  come  è  di  quelle 
del  1876  sopra  stampate;  così  è  bene  facciamo  notare  che  per 
Casale  le  osservazioni  del  1875  partirono  dal  1°  maggio  e  si  arre- 
starono al  10  agosto;  quelle  di  Asti  si  protrassero  dal  1°  giugno 
al  10  agosto,  infine  quelle  di  Bra  e  di  Firenze  similmente  alle  casalesi. 

Però  è  facile  scorgere  che,  eccezione  fatta  per  Firenze,  a  Casale 
ad  Asti  ed  a  Bra  le  uve  hanno  potuto  godere  nel  1876  di 
un  maggior  numero  di  giorni  sereni  che  non  nel  1875,  e  questo  ci 
spiega  come  il  vino  sia  riescito  migliore  di  quello  dell'anno  prece- 
dente. Asti  fu  in  special  modo  favorita,  come  la  era  stata,  a  petto 
delle  altre  stazioni,  nel  precedente  anno;  infatti  i  vini  del  75  riusci- 
rono nell'astigiano  molto  migliori  che  altrove. 

La  temperatura  non  fu  nel  1876  sensibilmente  differente  dal  1875; 
le  uve  ricevettero  cioè  una  somma  di  gradi  di  calore  di  poco  supe- 
riore a  quella  ricevuta  nell'anno  precedente:  —  pure  riescirono  più  ric- 
che di  zucchero  (in  media  22  0[q  nel  Monferrato)  e  meno  acido  (8  per 
O.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura  17 


242 


CAPITOLO  VI 


mille  in  media,  compreso  il  tartrato  acido  di  potassa,  che  già  sappiamo 
aumentare  coll'accrescersi  dello    zucchero  e  che  perciò    converrebbe 
eliminare  nel  determinare   le   variazioni   dell'acidità  complessiva  dei 
mosti  delle  diverse  annate:  ritorneremo  fra  breve  su  di  ciò). 
Ecco  ora  i  dati  che  si  riferiscono  al  1877. 

CASALMONFERRATO  —  Osservazioni  del  Giornale  Vinicolo. 


Mesi 

Giorni 

Temperatura 
media 

Sereni 

Misti 

Coperti 

Maggio 

2 

11 

6 

4 

18 
18 
25 
14 

11 
1 

2 

16°  14  C 

Giugno 
Luglio .     . 
Agosto  (due 

decadi) 

Totali 

23. 96 
23.92 
25.31 

(aN.) 

23 

75 

14 

BRÀ  —  Osservatorio  diretto  dal  Prof.  Craveri. 


Maggio     .... 
Giugno     .... 

Luglio 

Agosto  (due  decadi) 


2 

24 

5 

4 

25 

1 

2 

29 

— 

2 

18 

— 

10 

96 

6 

FIRENZE 


Totali 


R.  Musco  di  fisica  e  storia  naturale. 


Maggio     .... 
Giugno      .... 

Luglio 

Agosto  (due  decadi) 


Totali 


ASTI  —  Osservazioni  della  R.  Stazione  Enologica. 


14°       C 

22.17 

22.64 

23.39 


28 

3 

— 

30 

— 

3 

28 

— 

3 

17 

— 

6 

103 

3 

17°  1 
24,3 
25,1 
25,6 


Giorni 

Temperat.  media 
a  m.  0,50  dal  suolo 

Mesi 

piovosi 

non  piovosi 

Giugno     

6 
7 
4 

24 
21 
16 

25° 38  C 

Luglio 

Agosto  (due  decadi)  .     .     . 

Totali 

25.48 
26.01 

17 

61 

METEOROLOGIA  VITICOLA 


243 


Nel  1877  i  giorni  perfettamente  sereni  furono  bensì  inferiori  in 
numero  a  quelli  del  1876;  ma  in  compenso  si  ebbero  pochissimi 
giorni  coperti  e  molti  misti,  fra  cui  parecchi  con  ad  intervalli  varie 
ore  di  sole  splendido.  Per  questo  le  uve  del  1877  riescirono  assai 
ricche  di  principio  dolce  e  povere  di  acidi,  al  che  contribuì  anche 
l'elevata  temperatura  estiva.  Intanto  è  facile  intendere  che,  per  fare 
più  accurate  osservazioni  non  basta  la  suddivisione  dei  giorni  nelle 
tre  categorie  sereni  misti  e  coperti,  ma  è  indispensabile  misurare 
giornalmente  l'intensità  luminosa:  di  questo   ci   occuperemo  tra  poco. 

Le  osservazioni  fatte  negli  anni  1878  e  1879  non  possiamo  qui 
riferirle,  essendo  incomplete  per  quanto  consone  in  massima  alle  pre- 
cedenti: passiamo  quindi  al  1880. 

Ecco  i  dati  meteorologici  che  vi  si  riferiscono: 

CASALMONFERRATO.  —  Osservazioni  del  Giornale  Vinicolo. 


Giorni 

Temperatura 
media 

Mesi 

Sereni 

Misti 

Coperti 

Mastio          

8 

6 

15 

5 

11 

16 
14 
20 

12 

8 
2 
6 

15°37C 

Giugno 

14. 60 

Luglio 

23.67 

Agosto      .          

20  91 

Totali 

34 

61 

28 

Maggio 
Giugno 
Luglio . 
Agosto. 


ASTI  —  Osservazioni  della  R.  Staz.  Enologica  (Dr.  F.  Konig). 

(Altezza  degli  strumenti  —  m.  0,50) 


(1)  Media  delle  osservazioni  fatte  alle  ore  11  ed  alle  ore  3  p. 

BRA  —  Osservatorio  diretto  dal  Prof.  Craveri. 
(Altezza  degli  strumenti  —  m.  15) 


Maggio 
Giugno 
Luglio . 
Agosto 


(1) 
20°50C 

23.  20 
29.— 
26.  20 


Totali 


5 

20 

6 

3 

25 

2 

11 

20 

— 

8 

21 

2 

27 

86 

10 

20°  31  C 

23.85 

31.19 


9" 


03 


244 


CAPITOLO  VI 


FIRENZE  —  Osservatorio  del  R.  Museo  di  fisica  {Prof.  F.  Meucci) 


Giorni 

Temperatura 
media 

Mesi 

Sereni 

Misti 

Coperti 

Maggio 

7 

4 

28 

5 

7 
18 

3 
19 

17 
8 

7 

16.  8  C 

Giugno     

Luglio 

20.  2 
26.  8 

Agosto 

23.  1 

Totali 

44 

47 

32 

Come  si  vede  nel  1880  furono  assai  scarsi  i  giorni  sereni  dell'a- 
gosto, e  quantunque  l'annata  fosse  trascorsa  assai  calda,  si  ven- 
demmiarono uve  povere  di  zucchero  e  ricche  di  acidi. 

Per  far  rilevare  come  l'Italia  Meridionale  siasi  trovata  nel  1880 
in  condizioni  assai  migliori  dell'Italia  Settentrionale  riguardo  alla 
luce  solare,  ed  abbia  quindi  vendemmiato  uve  molto  pregiate  per 
ricchezza  zuccherina,  riferiremo  qui  i  dati  fornitici  da  Palermo  dal 
compianto  Dr.  Macagno: 

PALERMO  —  R  Stazione  Agraria  -  1880  - 


Giorni 

Media  mensile  dei  term. 
ad  1  m.  dal  terreno 

Data 

Sereni 

Coperti 

all'ombra 

al  sole 

Maggio 

30 
29 
30 
19 

1 

1 
1 

12 

19.52 
24.73 
30.43 
30.20 

22  12 

Giugno 

Luglio 

27.60 
33.42 

31  58 

Agosto 

Totali 

108 

15 

Sono  quindi  108  giorni  sereni,  mentre  nello  stesso  periodo  se  ne 
ebbero  soli  34  in  Monferrato. 

Infine,  da  tutte  queste  osservazioni,  proseguite  sino  al  1883  con 
risultanze  simili  alle  precedenti,  risulta  che  la  viva  luce  solare  fa- 
vorisce dal  maggio  all'agosto  la  formazione  del  glucosio  nelle  foglie, 
il  quale  vi  si  immagazzina  per  poscia  emigrare  in  copia  nell'uva. 

Ma  è  molto  maggiore  la  quantità  di  glucosio  che  vi  si  forma  nel 
periodo  della  maturazione  (da  metà  agosto  a  metà  ottobre  circa),  e 
questo  vedremo  ora,  riferendo  le  ricerche  del  Dr.  A.  Levi  e  del 
Prof.  F.  Craveri. 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


245 


Il  Dr.  Levi  intraprese  sin  dal  1877  accuratissime  esperienze  a 
Villanova  di  Farra;  partendo  dal  principio  che  per  conoscere  l'influenza 
d'un  agente  metereologico  qualsiasi  sovra  un  fenomeno  di  fisiologia 
vegetale,  conviene  nelle  esperienze  comparative  eliminare  quest'agente, 
senza  modificare  però  le  altre  condizioni  fra  cui  il  fenomeno  si  com- 
pie naturalmente,  il  Dott.  Levi  costrusse  un  apparecchio  che  serve 
ad  isolare  completamente  dalla  luce  i  grappoli  d'uva  destinati  alle 
esperienze,  lasciandoli  esposti  alle  stesse  condizioni  di  temperatura  e 
di  umidità  dell'atmosfera. 


Fig.  61. 

Ecco  la  descrizione  di  questo  apparecchio  (fig.  61): 
Esso  è  composto  di  una  specie  di  botticella  a  in  latta  racchiusa  in 
altra  botticella  più  grande  b  in  legno  di  castagno  o  di  rovere,  per  modo 
che  tra  di  esse  vi  sia  in  tutti  i  punti  un  vuoto  d'un  15  mm.;  l'aria, 
che  in  questo  vuoto  si  racchiude,  serve  ad  isolare  la  botticella  di  latta 
dagli  agenti  esterni  che  influiscono  sulla  botticella  esterna;  inoltre 
per  rendere  completo  questo  isolamento  si  produce,  a  mezzo  d'un  tubo 
aspiratore  A  D,  una  corrente  continua  d'aria  nello  spazio  vuoto;  così 
la  temperatura  dell'aria  racchiusa  tra  le  due  botticelle  non  differisce 
dalla  temperatura  dell'aria  esterna. 

Un  altro  aspiratore  B  C  in  comunicazione  coli'  interno  della  bot- 
ticella di  latta  vi  produce  una  corrente  d'  aria  dall'  esterno  e  serve 
così  ad  eguagliare  la  temperatura  ed  il  grado  igrometrico  tra  l'aria 
esterna  e  l'aria  interna,  in  mezzo  alla  quale  si  troverà  il  grappolo. 


246  CAPITOLO  VI 


Ciascuno  di  questi  aspiratori  è  costituito  di  due  tubi  colle  pareti 
interne  annerite,  ed  esternamente  invece  tinte  a  biacca;  l'uno  supe- 
riore A  e  B  ripiegato  più  volte  ad  angolo  retto  finisce  in  una  grossa 
palla  g  di  rame  annerita  al  nero  fumo,  che  porta  superiormente  un 
tubo  piegato  orizzontalmente  e  rimpicciolito  alla  sua  estremità:  la 
palla  internamente  é  munita  ai  suoi  due  punti  di  congiuzione  coi  tubi 
di  due  piccoli  diaframmi  i  tenuti  a  distanza  conveniente  da  supporti 
in  filo  di  ferro;  l'altro  inferiore  C  e  D,  esso  pure  piegato  più  volte 
ad  angolo  retto,  termina  ad  imbuto,  di  cui  l'apertura  è  difesa  da  una 
specie  di  coperchio  l  che  l'avvolge  co'  suoi  bordi  senza  chiuderlo, 
cosicché  lascia  passar  l'aria  e  non  la  luce.  La  corrente  d'aria  vi  è 
prodotta  dal  riscaldamento  delle  palle  di  rame  annerite  e  battute  dai 
raggi  del  sole. 

Sulla  parete  superiore  della  botticella  in  legno  sono  aperti  due  pic- 
coli fori  chiusi  con  un  turacciolo  di  cautchouc,  pel  quale  passano  due  ter- 
mometri n,  nr  destinati  a  misurare  le  temperature  interne;  allo  stesso 
tempo  un  terzo  termometro  si  trova^sospeso  tra  i  rami  della  vite 
all'altezza  dei  grappoli  d'uva  esposti  all'aria  aperta  e  che  dovranno 
poi  servire  nelle  esperienze  come  termine  di  confronto. 

Nella  parte  più  bassa  della  botticella  in  latta  vi  è  un  piccolo  tubo 
o,  che  traversata  la  botticella  in  legno  finisce  in  punta  sottilissima 
e  serve  a  far  scolare  l'acqua  di  condensazione  che  un  rapido  abbas- 
samento di  temperatura  avesse  condensato  sulle  pareti  interne  della 
botticella  di  latta. 

Infine  nella  parte  superiore  della  botticella  vi  ha  una  apertura, 
per  cui  si  introduce  il  grappolo,  che  deve  sottrarsi  alla  luce;  questa 
apertura  viene  poi  chiusa  da  un  turacciolo  e  e  in  cautchouc ,  ta- 
gliato in  due  nel  senso  della  lunghezza  e  traversato  in  questo  senso 
da  un  piccolo  canale  destinato  a  ricevere  il  peduncolo  del  grappolo; 
un  po'  di  cotone  vegetale  cosparso  d'un  mastice,  preparato  con  una 
soluzione  alcoolica  di  cera  e  di  colofonia,  serve  a  chiudere  ogni  in- 
terstizio attorno  al  peduncolo,  acciocché  non  possa  entrare  nell'in- 
terno dell'apparecchio  né  aria  né  acqua. 

In  tal  modo  un  grappolo  che  sia  chiuso  nella  botticella  trovasi  com- 
pletamente privo  di  luce,  mentre  per  riguardo  alla  temperatura  ed 
alla  umidità  dell'aria  si  troverà  nelle  stesse  condizioni  dei  grappoli 
che  trovansi  all'aria  aperta. 

E  così  analizzando  i  gradi  di  zuccaro  e  di  acidità  dei  grappoli 
posti  nel!'  apparecchio  ed  i   gradi   di   zucchero  e   di  acidità  di  altri 


METEOROLOGIA  VITICOLA  247 

grappoli  lasciati  in  piena  luce,  ma,  tranne  ciò,  posti  nelle  stesse  con- 
dizioni, e  paragonandoli  tra  loro  si  avranno  dati  sufficienti  per  mi- 
surare l'influenza  della  luce  sulla  maturazione,  la  quale  appunto  si 
manifesta  con  1'  aumento  dello  zuccaro  e  con  la  diminuzione  degli 
acidi. 

Il  Dott.  Levi  aveva  incominciato  i  suoi  esperimenti  nel  1879  con 
17  degli  apparecchi  suddetti;  ma  nel  1880  ripetè  gli  stessi  esperi- 
menti più  in  grande  ossia  usando  di  40  apparecchi,  e  quindi  isolando 
dalla  luce  40  grappoli.  Il  vitigno,  sul  quale  fu  fatto  1'  esperimento, 
era  il  Pinot  nero.  I  40  grappoli  furono  chiusi  negli  apparecchi  al  7 
luglio,  qualche  giorno  dopo  la  seconda  solforazione.  Le  analisi  di  con- 
fronto cominciarono  al  26  agosto,  e  continuarono  giornalmente  fino 
al  22  settembre,  tempo  della  vendemmia. 

Nessuna  differenza  apprezzabile  si  rimarcò  all'aspetto  esterno  tra 
i  grappoli  maturati  all'oscuro  e  quelli  maturati  in  piena  luce,  tranne 
pel  colore  degli  acini,  i  quali  erano  d'un  rosso  più  pallido  nei  primi, 
e  tranne  per  l'aspetto  dei  peduncoli,  i  quali  avevano  in  questi  la  loro 
corteccia  più  legnosa,  mentre  che  essa  era  ancora  verde  ed  erbacea 
al  tempo  dell'ultima  analisi,  nei  peduncoli  sottratti  alla  luce. 

Ma  analizzando  i  grappoli  per  rispetto  all'acidità  ed  allo  zuccaro, 
si  trovò  sempre  una  maggior  quantità  di  sostanza  zuccherina  e  quasi 
sempre  una  minor  quantità  di  acidi  nei  grappoli  esposti  alla  luce  in 
confronto  dei  grappoli  sottratti  completamente  alla  luce  stessa;  in  me- 
dia l'aumento  della  sostanza  zuccherina,  fu  del  3,59  per  cento  e  la 
diminuzione  degli  acidi  di  1,23  per  cento;  risultati  che  si  erano  anche 
ottenuti  quasi  colle  stesse  cifre  nelle  esperienze  del  1879. 

Da  ciò  il  Dott.  Levi,  e  giustamente,  potè  trarre  la  conseguenza 
che  «  i  grappoli  conservati  dopo  la  fioritura  in  una  profonda  oscu- 
rità, benché  nelle  stesse  condizioni  termometriche  ed  igrometriche  di 
quelli  dello  stesso  ceppo,  della  stessa  branca  e  dello  stesso  pampino 
esposti  alla  luce,  contengono  in  ogni  tempo  della  loro  maturanza, 
meno  di  zuccaro  e  quasi  sempre  più  di  acidi  di  quest'ultimi;  che  la 
luce  la  quale  manca  a  quelli  ed  illumina  questi  è  la  vera  causa 
di  tali  differenze;  che  la  luce  esercita  per  conseguenza  una  in- 
fluenza rimarchevole  sul  fenomeno  della  maturazione  dell'uva  ». 

Osserveremo  riguardo  all'  acidità,  come  già  dicemmo  brevemente 
a  pag.  242,  che  è  indispensabile  allorquando  se  ne  studia  l'accresci- 
mento o  la  diminuzione  nell'uva  a  seconda  della  maturità  di  quest'ul- 
tima,  distinguere   gli  acidi  liberi    (tartrico,   malico,  citrico   ecc.)  dal 


248  CAPITOLO  VI 


tartrato  acido  di  potassio.  Quest'ultimo  aumenta  col  progredire  della 
maturazione;  e  siccome  dosando  l'acidità  complessiva  non  si  distingue 
generalmente  questo  sale  acido  dai  detti  acidi  liberi,  ne  viene  che 
si  può  trovare  un  aumento  nell'acidità  in  uve  bene  mature,  come  è 
accaduto  a  qualche  esperimentatore.  Conviene  quindi,  in  simili  ri- 
cerche, dosare  anzitutto  ed  eliminare  il  bitartrato  di  potassio;  le  va- 
riazioni nella  rimanente  acidità  potranno  allora  porgere  un  sicuro 
indizio  del  progresso  della  maturazione. 

Il  Prof.  Federico  Cr averi  di  Bra,  ideava  sino  dal  1873  un  istru- 
mento  per  misurare  e  registrare  approssimativamente  la  quantità,  in 
durata,  dell'intensità  dei  raggi  che  il  sole  manda  nel  luogo  dove  si  fa 
l'esperienza.  Questo  istrumento,  che  il  Craveri  chiamò  elio  fotometro, 
permette  di  fare  osservazioni  abbastanza  esatte  sull'  influenza  della 
luce  nella  maturazione  dell'uva.  Descriviamolo  colle  parole  stesse  del- 
l'inventore : 

«  L'idea  di  possedere  una  qualche  misura  della  luce  solare  ger- 
mogliò in  me  da  più  anni,  allorquando  provai  che  non  è  impossibile, 
addizionando  certi  dati  forniti  dai  termometri  nei  mesi  dell'accresci- 
mento dell'uva,  il  poter  predire  con  qualche  probabilità  le  qualità  del 
raccolto  che  si  dovrà  ottenere.  Ognuno  si  persuaderà  che,  se  la  tem- 
peratura è  uno  dei  fattori  principali  della  vegetazione,  questa  tut- 
tavia dipende  assolutamente  dalla  energia  solare;  e  di  più  F  effetto 
della  luce,  che  non  ponno  registrare  i  termometri,  ha  talvolta  mag- 
giore importanza  pei  vegetali  che  non  i  dati  consueti  della  tempe- 
ratura. 

Credevo  in  allora  essere  necessario  per  la  riescita  dell'osservazione 
sulla  luce  solare,  di  possedere  un  Eliostato,  apparato  troppo  delicato 
e  costoso;  epperò  ne  abbandonai  l'idea.  Non  fu  che  all'incominciare 
dell'anno  1873  che  mi  determinai  ad  intraprendere  delle  prove  molto 
facili  ad  eseguirsi.  Racchiusi  cioè  delle  cartoline  fotografiche  entro 
una  cassa,  combinando  in  modo  F  imperfetto  apparecchio,  che  pochi 
raggi  solari  percuotessero  le  cartoline,  mentre  queste  obbligavo  a 
camminare  dando  loro  moto  colla  mano.  Visto  il  buon  esito  dei  primi 
tentativi,  mi  decisi  a  far  eseguire  l'Eliofotometro  quale  passo  a  de- 
scrivere. 

Una  cassa  di  legno  forte  fig.  62  (1),  lunga  mm.  280,  larga  mm.  145, 
alta  mm.  200  colle  pareti  spesse  mm.  30,  costituisce  un  parallelepipedo 


(1)  Le  dimensioni  dei  due  disegni  (fig.  62  e  63)  sono  ì\6  dell'originale. 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


249 


collocato  su  di  un  sostegno  all'aperto,  ove  niente  impedisce  l'azione 
diretta  del  sole. 

Non  può  però  la  faccia  superiore  dell'apparato  conservar  sempre 
ne'  dodici  mesi  dell'anno  la  posizione  orizzontale,  perchè  spostandosi 
il  sole  durante  l'inverno  troppo  al  di  sotto  dell'equatore,  i  suoi  raggi 
cadrebbero  su  di  essa  troppo  obliqui.  È  necessario  perciò  inclinarla 
in  modo  da  seguire  in  questo  tempo,  se  non  esattamente,  almeno 
con  approssimazione  il  movimento  del  sole.  Ciò  si  ottiene  inclinando 
poco  a  poco  l'Eliofotometro  verso  il  Sud,  incominciando  dal  mese  di 
settembre  sino  al  dicembre;  poi  si  va  diminuendo  V  inclinazione  in 
senso  inverso  sino  al  marzo,  epoca  nella  quale  ricomincia  la  posizione 
orizzontale. 


Fisr.  62. 


A  tal  uopo  la  cassa  si  appoggia  su  di  un  sostegno  o  zoccolo  di 
legno:  e  per  mezzo  di  una  vite  di  pressione  che  questo  attraversa, 
se  ne  alza  od  abbassa  la  parte  posteriore.  Un  arco  graduato  in  ot- 
tone, fìsso  lateralmente  allo  zoccolo,  fa  conoscere  l'angolo  d'inclina- 
zione. 

Lo  specchio  che  segue  aiuta  la  memoria  per  eseguire  le  indicate 
inclinazioni. 


250 


CAPITOLO  VI 


Periodo 

dell'  innalzamento 

Periodo 

dell'abbassamento 

Settenib. 

Ottobre 

Novemb. 

Dicemb. 

Gennaio 

Febbraio 

Marzo 

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no 

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4 

15 

2 

22 

2 

22 

2 

16 

2 

6 

28 

2 

6 

5 

6 

16 

11 

23 

11 

21 

6 

15 

5 

5 

30 

3 

8 

6 

9 

17 

17 

20 

9 

14 

8 

4 

11 

7 

13 

18 

21 

19 

12 

13 

10 

3 

14 

8 

17 

19 

26 

18 

15 

12 

13 

2 

16 

9 

21 

20 

30 

17 

18 

11 

15 

1 

19 

10 

26 

21 

21 

10 

18 

0 

22 

11 

23 

9 

25 

12 

26 

8 

28 

13 

29 

7 

31 

14 

Una  delle  facce  principali  del  parallelepipedo  trovasi  in  posizione 
normale  alla  suddetta  faccia  superiore;  ed  è  l'apertura  o  porta,  fis- 
sata con  cerniere  in  modo,  che,  aprendo  la  cassa,  si  ha  libera  en- 
trata a  tutta  la  cavità  interna,  come  vedesi  nella  figura  63. 

Alla  parete  opposta  alla  porta,  ed  al  di  dentro,  vi  si  attaccò  un 
orologio  a  molla  ed  a  spirale;  ed  aprendo  un  foro  nel  legno,  si  fece 
presentare  al  lato  esterno  della  cassa  il  suo  quadrante  Q  (fig.  62) 
munito  d'un  buon  vetro,  onde  preservare  il  meccanismo  dalle  ingiurie 
dell'atmosfera. 

A  quest'  orologio  si  adattò  una  ruota  dentata  B  (fig.  63),  che 
prende  movimento  da  quella  del  suo  tamburo  O  racchiudente  la  molla. 
Questa  ruota  compie  una  sola  rivoluzione  nelle  24  ore.  Al  suo  perno 
vi  si  adatta,  mediante  una  vite  mobile,  un  grande  cerchio  d'ottone 
C,  la  cui  circonferenza  è  di  520  mm.  ed  il  diametro  è  di  16  mm. 
Sul  contorno  di  questo  cerchio  si  colloca  una  striscia  di  carta,  come 
si  usa  nel  telegrafo  Morse  del  nostro  paese.  I  due  suoi  capi  si  fis- 
sano in  una  fessura  posta  in  M,  per  mezzo  d'una  molla  scorrevole, 
nel  modo  che  si  dirà  appresso. 

Mettendo  il  cerchio  entro  la  cassa  al  suo  posto,  si  trova  in  posi- 
zione normale  alla  parete  superiore,  occupando  la  linea  media  della 
cavità  interna  e  la  parte  superiore  del  cerchio  rimane  pressoché 
tangente  alla  suddetta  parete  interna,  alla  distanza  d'  una  frazione 
di  millimetro,  da  un  diaframma  F  (fig.  62  e  63)  di  platino,  avente 
un  intaglio   rettangolare,  lungo  mm.  3    e  largo  mm.    1,    fissato  sul 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


251 


lato  superiore  della  cassa;  di  guisa  che  la  striscia  di  carta  rimane 
allo  scoperto  pel  tratto  libero  lasciato  dalla  fessura,  ed  immediata- 
mente sotto  la  medesima.  Questo  diaframma  è  difeso  contro  le  in- 
temperie da  un  vetro  da  orologio.  I  raggi  solari,  penetrando  nella 
fessura,  percuotono  la  striscia  della  carta  sensibile  che  avvolge  il 
cerchio,  anche  quando  l'astro  si  trova  vicino  all'orizzonte  sensibile. 
Un  bottone  esterno  D  (fìg.  62)  serve  a  far  muovere  una  vite  V 
(fig.  63),  la  quale  fa  innalzare  od  abbassare  il  cerchio  C,  per  ren- 
derlo tangente  alla  fessura. 


Fig.  63. 


L'apparecchio  deve  avere  dimora  stabile  sopra  un  terrazzo,  un 
balcone,  ecc.;  esposto  al  Sud  in  sito  tale,  che  i  primi  raggi  del  sole 
nascente  e  gli  ultimi  del  tramonto,  non  vengano  mai  disturbati  dal 
loro  contatto  coll'apparecchio,  durante  i  dodici  mesi  dell'anno. 

Attiguo  a  questo  luogo  esposto  al  cielo  aperto,  deve  trovarsi  una 
stanza,  un  ambiente  qualunque,  chiuso  da  imposte,  il  quale  servirà 
da  laboratorio  per  eseguire  tutte  le  sere  le  brevi  operazioni  del  cam- 
biamento e  della  fissazione  delle  strisele;  per  le  quali  operazioni  si 
trasporta  la  cassa,  separandola  dal  suo  zoccolo  e  collocandola  sopra 
una  tavola  nel  laboratorio. 

Sul  terrazzo  vi  sarà  un  sostegno  massiccio,  solido,  capace  di  ri- 
cevere la  tavola  di  legno  forte,  ben  connessa  dal  falegname;  e,  per 


252  CAPITOLO  VI 


maggior  precauzione,  munita  di  due  lastre  di  ferro  invitate  sugli  orli 
proclivi  al  torcimento,  per  le  ingiurie  atmosferiche.  Il  tutto  è  rico- 
perto con  denso  strato  di  biacca  all'olio  cotto. 

Questa  tavola  porta  nel  suo  mezzo  la  chiocciola,  nella  quale  pe- 
netra la  vite  che  serve  pel  rialzamento  dello  zoccolo.  È  dunque  ne- 
cessario che,  mentre  la  tavola  posa  sul  sostegno,  esista  un  vuoto  al 
disotto,  affinchè  si  possa  con  una  mano  far  muovere  la  vite. 

La  tavola  vien  collocata  sul  sostegno  in  perfetta  posizione  orizzon- 
tale, valendosi  del  livello  a  bolla  d'aria. 

Il  modo  di  fissare  questa  tavola  può  variare  a  seconda  della  na- 
tura del  sostegno  (muratura,  pietra,  ferro,)  in  qualunque  caso,  devesi 
curare  alla  sua  immobilità,  non  dimenticando  l'apertura  al  disotto  pel 
maneggio  della  vite. 

Disposta  la  tavola,  vi  si  traccia  nella  sua  metà  una  linea  meri- 
diana. Non  credo  necessario  dare  le  indicazioni  per  eseguire  questa 
operazione,  troppo  ovvia  ai  cultori  della  meteorologia. 

È  utile  fissare  in  lontananza  un  punto  di  mira,  per  verificare,  se 
fia  duopo,  l'immobilità  della  tavola  rispetto  alla  linea  meridiana  trac- 
ciata. 

Lo  zoccolo  porta  una  cerniera  al  suo  lato  anteriore.  Si  colloca 
questo  zoccolo  in  modo  che  coincida  nella  sua  metà  colla  linea  me- 
ridiana tracciata  sulla  tavola.  Fissando  colle  viti  la  cerniera  alla  ta- 
vola, si  ha  lo  zoccolo  movibile  in  un  solo  senso;  si  può  cioè  incli- 
narlo dal  di  dietro  in  avanti  (facendo  agire  la  sottostante  vite),  senza 
che  in  questo  movimento  cambi  il  parallelismo  col  meridiano. 

Collocando  finalmente  sullo  zoccolo  la  cassa  dell'apparecchio,  que- 
sta si  troverà  perfettamente  orizzontale,  ciò  che  si  verificherà  col 
livello.  La  linea  meridiana  coinciderà  colla  metà  della  fessura,  dove 
penetrano  i  raggi  della  luce.  Movendo  la  vite  sottostante  l'apparec- 
chio s'inclinerà  a  volontà  dell'operatore. 

Da  pochi  anni,  venne  introdotto  nell'arte  grafica  un  ausiliare  utile 
assai,  quando  si  abbisogna  di  ripetere  varie  copie  dei  disegni  fatti 
sulla  carta  non  totalmente  opaca.  Questo  ausiliare  è  il  sale  cono- 
sciuto nei  laboratori  di  chimica  col  nome  di  prussiato  giallo  di  ferro; 
il  quale,  convenientemente  disteso  sopra  una  delle  superficie  dei  fo- 
gli di  carta,  riesce  un  agente  inalterabile  finché  lo  si  conserva  fuori 
dal  contatto  della  luce  solare;  ma  appena  i  raggi  luminosi,  anche 
diffusi,  lo  percuotono  per  lo  spazio  di  pochi  secondi  di  tempo,  il  prus- 
siato cambia  il  suo  stato  chimico,  acquista  un  bel  colore  azzurro  e 


METEOROLOGIA  VITICOLA  253 

perde  la  sua  primitiva  solubilità  nell'acqua.  Questa  alterazione  chi- 
mica permette  di  poterlo  adoperare  alla  stessa  guisa  come  nell'arte 
fotografica  si  adopera  la  carta  albuminata  intrisa  nel  sale  di  argento; 
il  quale,  se  toccato  dai  raggi  della  luce  del  sole,  s'imbrunisce  e  rie- 
riesce  insolubile  nell'iposolfito  di  sodio;  per  cui,  immergendo  il  foglio, 
che  fu  esposto  alla  luce  dietro  alla  prova  negativa,  nella  soluzione 
dell'iposolfito,  quest'ultimo  esporta  il  sale  d'argento  non  alterato  e 
rimane  quello  oscuro:  si  ha  in  tal  modo  la  prova  positiva. 

Colla  carta  spalmata  di  prussiato  di  ferro  si  consegue  il  medesimo 
risultato,  risparmiando  l'iposolfito  di  sodio;  giacché  basta  mettere  in 
un  bagno  di  acqua  tiepida  a  30  gradi  la  carta,  sulla  quale  agirono 
i  raggi  luminosi,  perchè  l'acqua  disciolga  il  prussiato  inalterato,  la- 
sciando intatte  quelle  porzioni,  sulle  quali  il  sole  non  ebbe  influenza. 

La  carta  al  prussiato  ci  viene  da  Londra.  Si  potrebbe  talvolta 
tentare  la  sua  preparazione  presso  di  noi;  ma  non  credo  che  valga 
la  pena  intraprenderne  l'esperimento,  almeno  per  l'uso  dell'Eliofoto- 
metro. 

Da  Londra  si  spedisce  in  rotoli,  i  quali  sviluppati  misurano  circa 
10  metri  per  60  centim.  di  larghezza. 

Tagliando  coll'aiuto  del  tornio  questi  rotoli  in  tante  porzioni  larghe 
7  mm.,  si  hanno  altrettanti  anelli  CI). 

Da  ogni  anello  sviluppato  si  ottengono  17  strisce  utili  per  collo- 
carle sul  cerchio  dell'apparecchio,  cioè  della  lunghezza  di  59  centim. 
ciascheduna. 

Non  è  prudente  servirsi  di  queste  strisce  dopo  un  anno  dalla  loro 
preparazione;  imperocché  ho  notato  che  invecchiando  perdono  al- 
quanto della  loro  sensibilità.  Inutile  l'avvertire  che  queste  strisce  si 
devono  conservare  nella  completa  oscurità  ed  in  luogo  secco. 

Per  l'uso  giornaliero  è  comodo  tenerne  una  piccola  provvista  nella 
cassettina  a  compartimenti.  Quando  si  deve  riempire  la  cassetta,  si 
opera  colla  luce  artificiale,  dividendo  gli  anelli  sopra  notati  in  tante 
porzioni  colla  esatta  misura  voluta  dal  cerchio  dell'apparecchio. 

Scala  dell'intensità  e  dei  toni  della  tinta.  —  Affine  di  apprez- 
zare la  diversa  intensità  della  tinta,  corrispondente  alla  diversa  e- 
nergia  dell'azione  della  luce  solare,  si  è  formata  una  scala  di   sette 


(1)  Presso  il  sig.  Duroni,  meccanico  dell'Associazione  Meteorologica  Italiana  in 
Torino,  si  trovano  questi  anelli  preparati  e  scrupolosamente  conservati  fuori  dal 
contatto  della  luce  solare  anche  diffusa. 


254  CAPITOLO  VI 


gradazioni  di  tinte,  dal  bianco,  che  corrisponde  a  mancanza  di  luce, 
alla  tinta  più  intensa,  che  indica  il  massimo  dell'intensità  luminosa. 
Le  sette  gradazioni,  o  toni,  si  rappresentano  coi  numeri  1,  2,  3,...  7. 

Ogni  sera  dopo  le  ore  8,  l'incaricato  delle  osservazioni  meteorolo- 
giche, solleva  l'apparecchio  eliofotometrico  dal  suo  zoccolo,  dove  ri- 
mase nel  corso  della  giornata,  e  lo  trasporta  nella  stanza  attigua 
che  serve  quale  laboratorio.  Rischiarato  da  una  lampada,  apre  l'ap- 
parecchio, stacca  il  cerchio  dal  suo  perno,  svitando  la  chiocciola  che 
lo  tien  fermo;  quindi  facendo  scorrere  la  molla,  toglie  via  la  striscia 
che  ha  lavorato  nella  giornata,  la  quale  ravvolge  a  grandi  giri  sopra 
se  stessa,  e  l'immerge  nella  cassula  dove  aveva  preventivamente  scal- 
dato all'incirca  80  cent,  cubici  di  acqua  sino  ai  30  gradi;  tenendo  a 
tal  uopo  un  termometro  immerso  nell'acqua. 

Nel  momento  in  cui  la  striscia  entra  nel  bagno,  è  prudunte  sepa- 
rare la  fiamma  della  lampada  dalla  cassula,  per  evitare  il  riscalda- 
mento esagerato. 

La  striscia  deve  rimanere  nel  bagno  quel  tempo  che  basta  perchè 
il  fondo  si  presenti  senza  colore,  cioè  come  la  carta  bianca:  mentre 
l'azzurro  dove  operò  il  sole,  appare  più  o  meno  intenso,  a  seconda 
della  quantità  della  luce  ricevuta. 

Colla  carta  sensibile  recente,  un  minuto  primo  è  bastevole  per  la 
bagnatura;  colla  carta  preparata  da  dodici  mesi  prima,  abbisognano 
circa  3  minuti. 

Questa  manipolazione  la  deve  eseguire  colui  che  fece  alcune  prove 
per  impratichirsi  a  conoscere  il  momento  preciso,  nel  quale  deve  so- 
spendere l'azione  dell'acqua  tiepida  sulla  striscia. 

In  certe  giornate  eccessivamente  umide,  si  trova  la  striscia  come 
bagnata.  Si  deve  in  questi  casi  rari  far  essicare  al  fuoco  la  striscia 
prima  d'immergerla  nel  bagno  tiepido.  Senza  questa  precauzione,  si 
ottiene  la  prova  col  fondo  giallognolo,  di  brutto  aspetto  e  con  poco 
rilievo  nelle  tinte  azzurre  deboli. 

Quando  l'operatore  considera  giunto  l'istante  di  sospendere  l'azione 
del  bagno,  afferra  colle  dita  l'orlo  della  cassula,  versa  l'acqua  in  un 
recipiente,  mentre  coli'  aiuto  del  termometro  agitatore  impedisce  lo 
scivolamento  della  striscia.  Rimette  acqua  fresca  nella  cassula,  ed 
agitando,  risciacqua.  Rigetta  quest'acqua,  e  ripete  la  medesima  ope- 
razione con  nuova  acqua.  Dopo  la  seconda  lavatura  sospende  la  stri- 
scia, accavalcandola  su  d'un  filo  teso  orizzontalmente,  affinchè  s'  a- 
sciughi. 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


zoo 


È  ovvio  l'aggiungere  che,  dopo  questo  trattamento,  la  striscia  può 
venire  esposta  alla  luce  anche  diretta  del  sole,  senza  tema  che  si 
alterino  le  tinte. 

Avrei  forse  dovuto  far  precedere  questa  descrizione  all'  antece- 
dente; ma  si  ha  V  abitudine  nella  pratica  di  eseguire  questa  opera- 
zione dopo  la  già  descritta,  ed  io,  fedele  narratore,  mi  vi  adatto. 

Liberato  il  cerchio  dalla  striscia  che  funzionò  nella  giornata,  fa 
d'uopo  rivestirlo  con  altra  ancor  vergine. 

L'operatore  prende  dalla  cassettina  a  compartimenti  una  delle  due 
striscie  rotolata,  la  sviluppa,  e  ritaglia  colle  forbici  i  due  capi,  re- 
stringendoli a  pochi  millimetri  nella  larghezza,  per  una  lunghezza 
all'incirca  di  due  centimetri  in  isbieco. 

Questo  si  fa  perchè  la  fenditura,  dove  devono  introdursi  i  due 
capi,  è  un  po'  più  stretta  della  larghezza  totale  della  striscia. 

Introdotto  uno  dei  capi  nella  fenditura,  adatta  la  striscia  sul  cer- 
chio, ed  introduce  il  secondo  capo  nella  medesima,  in  guisa  che  la 
superficie  sensibile  della  carta  rimanga  all'esterno.  Tenendo  colle  dita 
i  due  capi  alla  parte  dissotto,  fa  scorrere  lo  molla,  la  quale  compri- 
mendo questi  capi,  impedisce  ogni  movimento  alla  carta. 

Con  una  matita  si  segna  la  carta  sui  due  spigoli  della  fessura  dove 
venne  piegata.  Questo  segno  deve  essere  visibile,  e  servirà  per  ciò 
che  in  seguito  vedremo. 

Si  scrive  pure  colla  matita  la  data  del  giorno  seguente  (quello 
cioè  nel  quale  la  striscia  riceverà  la  luce  solare),  nonché  l'ora  ed  i 
minuti,  calcolando  in  previsione  i  pochi  minuti  che  passeranno  prima 
di  fissare  il  cerchio  entro  l'apparecchio.  Questi  segni  fatti  colla  ma- 
tita non  sono  alterati  dalle  lavature,  alle  quali  si  sottopone  la  striscia. 

Rimesso  il  cerchio  sul  suo  perno,  s'invita  la  chiocciola,  ma  non  la 
si  serra.  Si  fa  girare  il  cerchio  lentamente,  onde  portare  la  fendi- 
tura al  punto  dove  esiste  1'  occhio  dell'  apparecchio.  Il  lume  della 
lucerna  permette  all'  operatore  lo  scoprire  questa  coincidenza,  ed  i 
segni  della  matita  ne  facilitano  lo  scoprimento.  Tenendo  fermo  il 
cerchio  con  una  mano  in  tale  postura,  si  guarderà  l' orologio;  e 
quando  la  lancetta  segnerà  l'ora  ed  i  minuti  stati  scritti  sulla  striscia, 
si  fa  girare  la  chiocciola,  e  si  fissa  il  cerchio  in  modo  che  più  non 
si  muova  attorno  al  perno. 

L'apparecchio  può  venir  subito  ricollocato  al  suo  posto,  dove  al- 
l'indomani deve  operare,  ovvero  lo  si  può  lasciare  nel  laboratorio. 
Io  ho  1'  abitudine  di  rimetterlo  in  sito  nei  mesi   quando  non   nevica 


256  CAPITOLO  VI 


e  non  gela,  per  evitare  di  alzarsi  troppo  presto  al  mattino;  e  lo 
lascio  nel  laboratorio  nelle  notti  d' inverno,  bastando  rimetterlo  in 
sito  prima  del  levar  del  sole. 

La  striscia  che  nella  giornata  antecedente  ha  ricevuto  la  luce  so- 
lare, ebbe  tempo  ad  essicare  durante  le  ore  notturne. 

Questa  striscia  si  stende  sul  regolo  che  porta  disegnato  lo  sviluppo 
del  cerchio,  diviso  in  ore,  ed  ogni  ora  in  dodici  parti  di  cinque  mi- 
nuti ciascheduna. 

Il  segno  della  matita  che  trovasi  sulla  striscia  verso  il  lato  sinistro, 
corrispondeva  alla  sera,  all'  ora  notata  dall'  operatore  ;  adesso  si  fa 
coincidere  questo  segno  colla  corrispondente  ora  segnata  sul  regolo; 
e  si  fissa  con  uno  spillo,  del  pari  che  l'altro  capo  opposto,  in  modo 
che  la  striscia  rimanga  ben  tesa  sul  regolo. 

Consultando  le  effemeridi  del  luogo  dove  si  fa  Y  osservazione,  si 
trova  l'ora  ed  i  minuti  in  cui  si  levò  il  sole  che  lavorò  la  striscia. 
Si  fa  un  segno  colla  matita,  dove  il  regolo  indica  tale  momento, 
avvertendo  che  pei  minuti  è  bastevole  tener  conto  da  cinque  in  cin- 
que. Ad  esempio,  1'  effemeride  segna:  levar  del  sole  ore  7  min.  58, 
io  noto  ore  8  min.  0;  l'effemeride  segna  7,56,  io  noto  7,55;  e  così 
pel  tramonto. 

Notati  i  due  estremi  della  giornata  solare,  si  vedrà  che  la  striscia 
in  queste  due  regioni  non  ha  colore  azzurro  sensibile;  il  che  vuol 
dire  che  al  levar  del  sole  ed  al  suo  tramontare  i  raggi  luminosi  non 
furon  tali  da  lasciare  traccia  visibile. 

Continuando  1'  esame  verso  la  destra,  là  dove  principia  ad  appa- 
rire una  lieve  sfumatura  azzurra,  si  fa  una  riga  colla  matita;  e  qui 
comincia  il  n.  2  della  scala,  il  quale  va  man  mano  acquistando  forza 
ed  arriva  al  n.  3;  in  questo  luogo  si  fa  un  altro  segno  colla  matita. 
Proseguendo  con  questo  criterio  si  formano  i  sette  toni,  se  esistono. 

Tengasi  per  regola,  che  vale  assai  meglio  il  determinare  prima  di 
tutto  quale  è  stata  la  tinta  più  forte  che  si  ebbe  nella  giornata,  li- 
mitando questa  regione  con  duo  segni  di  matita,  Y  uno  a  destra  e 
l'altro  a  sinistra;  e  quindi  proseguire  in  appresso  alle  altre  divisioni. 

Sul  margine  bianco  della  striscia  che  trovasi  in  alto  si  segnano  i 
numeri  corrispondenti  ai  toni  coloriti;  e  sul  margine  inferiore  si  se- 
gnano i  tempi,  cioè  le  ore  ed  i  minuti  che  occupa  ciaschedun  tono 
nel  suo  spazio. 

Questi  numeri,  cioè  i  tempi  ed  i  toni,  si  registrano  a  volontà  del- 
l'operatore, a  norma  dei  dati  che  pretende  ricavare  dalle  osserva- 
zioni eliofotometriche. 


METEOROLOGIA  VITICOLA  257 

Per  suggerimento  dell'  egregio  P.  Denza,  io  seguii  finora  due  si- 
stemi; nel  primo  addiziono  i  tempi  corrispondenti  ai  toni,  e  dico,  ad 
esempio:  2  ore  al  mattino  del  tono  n.  2,  più  1 ,30  alla  sera,  uguale  ad 
ore  3,30  del  tono  n.  2. 

Nel  secondo  sistema  dico,  ad  esempio:  dalle  ore  8  alle  9  mattina 
tono  2,  dalle  9  alle  10  tono  3,  dalle  10  alle  11  tono  3,  dalle  11 
alle  12  tono  3,  dalle  12  all'I  tono  2;  e  così  di  seguito. 

Questi  due  esempi  di  registrazione  non  sono  i  soli  che  potrebbero 
adottarsi,  come  ora  vedremo;  ed  è  per  tal  ragione  che  io  conservo 
le  striscie,  per  soddisfare  alle  ulteriori  domande  che  potrebbero  fare 
i  posteri  su  questo  soggetto. 

Fisso  i  due  capi  delle  striscie  con  una  goccia  di  gomma  sopra  un 
cartone  bristol.  Questi  fogli  di  cartone,  lunghi  50  centim.  e  larghi 
centim.  33  e  1{2,  contengono  31  striscie. 

Le  striscie  corrispondenti  alle  giornate  più  lunghe  in  ore  solari, 
le  ripiego  alquanto  ai  due  estremi,  per  economizzare  la  larghezza 
dei  cartoni;  i  quali  dovrebbero  misurare  36  centimetri,  e  si  spreche- 
rebbero i  fogli  commerciali,  non  potendoli  più  dividere  nella  loro 
metà  ».  — 

Questa  è  adunque  la  descrizione  che  lo  stesso  Prof.  Cr averi  ci 
dà  del  suo  elio  fotometro.  Ora  soggiungeremo  che  le  indicazioni  e- 
liofotometriche  dal  1875  in  qua  concordano  con  quelle,  benché  meno 
precise,  da  noi  fatte  e  più  sopra  riferite.  Ad  esempio  nel  1875  l'in- 
tensità luminosa  fu  quasi  la  metà  di  quella  che  era  stata  nel  1874 
e  perciò  le  uve  riuscirono  ancor  meno  ricche  di  principio  dolce. 
(V.  pag.  239). 

Lo  stesso  dicasi  degli  anni  1879  e  1880  di  cui  ecco  un  breve 
confronto: 

1879  1880 

vi.  VII.  VI.  Vii. 

Maggio  —  1.04  —  0.49  —  1.02  —  0.15 

Giugno  —  2.46  —  2.31  —  1.58  —  0.25 

Luglio  —  2,07  —  1.38  —  2.17  —  0.50 

Agosto  —  2.43  —  0.50  —  1.13  —  0.40 

Settembre  —  1.18  —  0.18  —  1.02  -   0.11 

I  numeri  romani  corrispondono  alle  due  tinte  di  maggior  forza 
solare. 

I  numeri  arabici  indicano  in  media  la  quantità  di  luce   solare,  in 

0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura  18 


258 


CAPITOLO   VI 


ore  e  minuti,  per  ogni  giornata  del  mese  che  ciascheduna  ebbe.  Cosi 
nel  giugno  1879  ogni  giornata  ebbe  in  media  2  ore  e  31  minuti  di 
sole  splendido;  mentre  nel  1880  le  corrispondenti  giornate  di  giugno, 
ebbero  appena  25  minuti  della  medesima  luce. 

Ora,  le  uve  del  1879  riuscirono  ottime  per  maturazione  perfetta, 
vale  a  dire  molto  ricche  di  zucchero,  mentre  quelle  del  1880  lascia- 
rono molto  a  desiderare. 

Similmente,  ecco  i  dati  termometrici  ed  eliofotometrici  che  si  ri- 
feriscono agli  anni  1883  e  1884. 


Osservat07"io  meteorologico  di  Brà.  (Prof.  Craveri). 


1883 

Maggio 

Giugno 

Luglio 

Agosto 

Settembre 
Ottobre.... 

1884, 

Maggio 

Giugno 

Luglio 

Agosto 

Settembre 
Ottobre.... 


Temp. 
media 


16.98 
19.67 
23.04 
23.03 
18.09 
12.19 


18.20 
17.87 
24.17 
23.35 
17.79 
11.48 


Giorni 


Sereni 


4 
2 
4 
10 
4 
3 


Misti 


23 
25 
26 
21 
21 
26 


20 
27 
24 
26 
24 
19 


Coperti 


Eliofotometro 

Intensità  della  luce  solare  in  ore  —  Medie  di  oqni  mese 


1.51 
2.06 
1.39 
1.22 
1.26 
1,25 


1.49 
2.12 
1.37 
1.43 
1.43 
1.27 


3.27 
3.43 
2.57 
2.33 
3.11 
2.25 


3.22 
3.14 
2.34 
2.36 
2.54 
1.57 


HI 


4.04 
3.41 
3.43 
3.20 
4.17 
4.33 


4.31 
4.40 
3.56 
3.48 
4.52 
4.10 


IV 


2.01 
1.24 
1.39 
1.50 
1.44 
1.31 


2.03 
2.01 
2.00 
2.04 
1.25 
2.27 


1.31 
1.21 
1.38 
1.42 
1.23 
0.59 


2.09 
1.37 
1.58 
1.44 
0.44 
0.48 


vi 


1.34 
1.35 
2.14 

2.05 
0.26 
0.03 


0.49 
1.46 
2.28 
1.34 
0.40 
0.04 


VII 


0.19 
1.39 
1.21 
1.09 
0.01 


0.06 
0.11 
0.35 
0.29 
0.09 


Decimi  di 
cielo  coper. 


4.52 
4.41 
2.87 
2.20 
5.18 
4.13 


3.69 
4.33 

2.30 
2.74 
5.58 
3.52 


Facendo  un  parallelo  fra  i  toni  VI    e    VII   dell' 83    e    dell' 84    si 
notano  gravi  differenze  a  danno  dell'  84,  infatti: 


1883 
1884 


vi 

7.57 
7.21 


VII 

4.29 
1.30 


—  0.36      —  2.99 

E  nel  1884  i  vini  riuscirono  meno  che  mediocri,  certo  inferiori  a 
quelli  del  1883,  che  pure  erano  riesciti  al  disotto  dei  precedenti  del 


METEOROLOGIA  VITICOLA  259 

1882.  I  dati  dell' eliof otometro  spiegano  molto  bene  cotali  differenze 
e  confermano  vieppiù  i  principii  sovra  esposti. 

Per  dare  infine  un'  ultima  prova  della  importanza  grande  della 
luce  nella  produzione  dello  zucchero,  diremo  che  la  luce  stessa  può 
entro  certi  limiti  supplire  alla  deficienza  di  calore.  Abbiamo 
osservato  molte  volte  che  le  giornate  completamente  serene  della 
seconda  quindicina  del  settembre,  anche  se  poco  calde,  sono  assai 
favorevoli  alla  formazione  del  principio  dolce;  anzi  in  alcuni  casi 
potendosi  ritardare  la  vendemmia  sino  alla  prima  decade  di  ottobre, 
se  è  molta  l'intensità  luminosa  le  uve  si  arricchiscono  di  zucchero  così 
da  produrre  vini  contenenti  circa  l'uno  per  cento  di  più  d'alcool  che 
non  vendemmiando  nella  terza  decade  del  settembre,  e  questo  anche 
se  è  relativamente  deficiente  il  calore.  Secondo  una  comunicazione 
fatta  all'Accademia  delle  scienze  di  Vienna  (1)  dal  Dott.  Richter,  si  po- 
trebbe ritenere  che  la  luce  diretta  si  trasformi  in  calore;  e  già  Hum- 
boldt nel  suo  Cosmo s  aveva  richiamato  l'attenzione  dei  fisiologi  sul 
calore  che  la  luce  diretta  sviluppa  nelle  cellule  della  pianta. 
Fatto  è  che  il  principio  dolce  può  aumentare  nell'uva  mentre  dimi- 
nuisce la  temperatura  ma  si  mantiene  elevata  la  intensità  luminosa: 
•ecco  alcuni  dati  al  riguardo  raccolti  nel  1877. 

Moscatellone  di  Alessandria  (2). 

Zucchero  Cielo         Temp.  a  1,50 

p.  Ojo  dal  suolo 

media  della  decade 

1  Agosto —  —  23,°7  C. 

20       »  ......—  —  23,4 

30       »          12,31  —  25,4 

10  Settembre 17,30  —  18, 4 

20         »            17,91  —  20,9 

30          »            19,62     serenissimo     15,  0 

10  Ottobre 22,81  id.  13,  6 

Sul  finire  del  settembre  e  per  tutta  la  prima  decade  di  ottobre  il 
cielo,  nel  1877,  si  mantenne  neh"  alto   Novarese,  dove  furono  fatte 


(1)  Addì  19  giugno  1879. 

(2)  Stazione  Enologica  di  Gattinara  (I.  Macagno). 


260  CAPITOLO    VI 


queste  osservazioni,  perfettamente  sereno,  per  cui  la  intensità  lumi- 
nosa fu  vivissima  (1).  Ora,  è  oramai  dimostrato  che  la  produzione 
della  materia  organica  (amido,  zucchero,  ecc.)  è  tanto  più  abbondante 
quanto  è  maggiore  l'intensità  luminosa:  più  questa  cresce  e  più  cresce 
eziandio  l'emissione  dell'ossigeno  e  contemporaneamente  e  propor- 
zionatamente la  produzione  di  materia  organica:  ciò  fu  dimostrato 
con  interessanti  esperienze  prima  da  Saussure  poi  dal  fisiologo 
Wollkoff. 

Riassumendo  quanto  dicemmo  sin  qui  relativamente  alla  luce,  cre- 
diamo di  poter  formulare  le  seguenti  conclusioni:  1°)  La  luce  solare 
intensa  e  viva  influisce  notevolmente  sulla  produzione  del  prin- 
cipio dolce  nelle  foglie,  d'onde  emigra  nei  grappoli;  2°)  A  pa- 
rità di  temperatura  la  quantità  di  principio  dolce  cresce  col 
crescere  dell'  intensità  luminosa;  3°)  L  influenza  benefica  della 
luce  non  si  esercita  soltanto  nel  periodo  di  maturanza  dell'uva, 
ma  incomincia  dal  momento  in  cui  la  vite  si  copre  di  foglie, 
per  la  qual  cosa  se  il  cielo  si  mantiene  abitualmente  sereno 
dal  giugno  all'agosto,  si  può  pronosticare  che  le  uve  saranno 
ricche  di  glucosio;  più  o  meno  secondochè  il  sereno  si  sarà  o  non 
mantenuto  predominante  in  settembre  ed  ottobre;  4°)  Entro  certi 
limiti  la  luce  intensa  può  supplire  alla  deficienza  di  calore, 
laddove  un  maggior  calore  non  può  supplire  alla  deficienza 
della  luce.  (Veggasi  la  pag.  207). 

§  2.  Il  calore  e  la  vite.  —  Gli  è  solo  entro  certi  limiti,  come 
or'ora  dicevamo,  che  la  luce  può  supplire  al  calore;  poiché  questo 
fluido  è  indispensabile  alla  vite  se  deve  produrci  quei  frutti  zuccherini 
che  da  essa  vogliamo. 

L' importantissimo  lavoro  chimico-fisiologico  della  clorofilla,  senza 
del  quale  non  si  formerebbe  il  principio  dolce  dell'uva,  non  può  ef- 
fettuarsi quando  manca  un  certo  grado  di  calore;  e  ciò  anche  se 
la  luce  è  intensa.  Il  Dr.  Cuboni  ha  potuto  osservare  che  quando  il 
termometro,  posto  vicino  alle  foglie  stesse,  segna  17°  C  si  forma  an- 
cora amido,  che  convertito  poscia  in  zucchero  emigra  dalle  foglie  ai 
grappoli;  mentre  se.  il  termometro  segna  circa  13°  o  meno  di  13°, 
non  si  forma  più  amido,  anche  se  il  cielo  è  sereno,  cioè  se  vi  ha 
molta  energia  di  raggi  luminosi.  Ma  questi  sono  i  limiti  minimi,  presso 


(1)  Yeggansi  altri  dettagli  nel  mio  Giornale   Vinicolo  1878  p.  40. 


METEOROLOGIA  VITICOLA  261 

i  quali  si  forma  bensì  amido,  ma  in  quantità  troppo  piccole;  onde 
sotto  tali  condizioni  di  temperatura  l'uva  riescirebbe  tanto  povera  di 
zucchero  da  non  poter  servire  agli  usi  enologici.  Il  lavoro  della  clo- 
rofilla si  fa  invece  attivissimo  a  più  elevate  temperature,  special- 
mente se  l'intensità  luminosa  è  molta;  è  massimo  a  35°  (pag.  158) 
e  poscia  incomincia  a  scemare  sinché  si  arriva  ad  una  temperatura 
così  alta  che  non  può  più  formarsi  la  clorofilla  medesima. 

Alla  vite  è  però  assai  più  confacente  un  moderato  calore,  il  quale 
cresca  per  gradi  sino  ad  un  dato  punto,  che  or' ora  determineremo, 
che  non  una  temperatura  subitaneamente  elevata  e  di  durata  breve: 
vale  a  dire  che  la  somma  di  gradi  di  calore  i  quali  occorrono  alla  vite 
per  vegetare  normalmente  e  portare  a  perfetta  maturazione  i  suoi 
frutti,  deve  esserle  somministrata  nello  spazio  di  parecchi  mesi,  partendo 
da  9°  o  10°  C.  al  momento  della  germogliazione,  salendo  a  17°,  18°  o 
20°  C.  al  momento  della  fioritura  (a  seconda  delle  varietà)  e  poscia 
gradatamente  a  30°  o  35°  nel  periodo  più  caldo  dell'agosto  ed  a  0m,50 
dal  suolo  (1).  Questo  calore  crescente  per  gradi  è  favorevolissimo 
alla  produzione  di  molta  uva  di  buona  qualità,  laddove  un  calore 
elevato  subitaneo,  specie  se  favorito  dall'umido,  provoca  un  eccesso 
di  vegetazione  erbacea,  rende  la  pianta  rigogliosa  bensì  ma  non  fe- 
conda, e  più  ricca  di  legno  che  non  di  grappoli. 

Havvi  però  un  limite  in  questo  periodo,  poiché  influisce  molto  sulla 
qualità  dell'uva  e  sulla  sua  ricchezza  in  principio  dolce,  il  vario  modo 
con  cui  possono  essere  ripartiti  i  gradi  di  calore  (in  media  4000)  occor- 
renti alla  vite  dall'uscita  dei  germogli  uviferi  alla  maturazione  per- 
fetta dell'uva.  Cotale  periodo  infatti  può  durare  soli  110  giorni  ma  può 
protrarsi  ai  170  circa,  e  si  può  ritenere  che  allorquando  la  somma 
dei  gradi  di  calore  di  cui  la  vite  abbisogna  è  distribuita  in  un 
troppo  lungo  periodo  di  giorni,  le  uve  riescono  meno  ricche  di 
zucchero  che  non  quando  il  periodo  della  fruttificazione  e  ma- 
turazione è  relativamente  più  breve.  In  questo  caso  però,  cioè 
quando  il  calore  è  molto  elevato,  la  quantità  del  raccolto  dimi- 
nuisce, perchè  il  succo  delle  uve  si  fa  più  denso,  più  sciropposo,  e 
però  meno  acquoso,  onde  spesso  occorrono  più  di  16  miriagrammi 
d'uva  per  ottenere  un  ettolitro  di  mosto. 

Abbiamo  accennato  ai  4000°  di  calore  occorrenti  in  media  alla  vite, 


(1)  Questi  dati  si   riferiscono  specialmente   al  Monferrato   ed  all'Alta  Italia  in 
genere:  nell'Italia  meridionale  il  periodo  dell'agosto  tocca  temperature  più  elevate. 


262  CAPITOLO   VI 


dallo  spuntare  dei  germogli  uviferi  (sbucciamento  delle  gemme)  alla 
maturazione  perfetta  dell'uva:  se  consideriamo  invece  il  periodo  dalla 
fioritura  alla  vendemmia  troviamo  in  media  soli  3000°  circa  per  l'Eu- 
ropa meridionale.  Questi  dati  sono  ottenuti  col  metodo  di  Gasparin, 
moltiplicando  cioè  la  temperatura  media  per  il  numero  dei  giorni 
che  trascorrono  nei  detti  periodi;  il  metodo  è  lungi  dal  potersi 
dire  rigoroso,  ma  tuttavia  è  quello  seguito  generalmente,  potendo 
avere  un  certo  valore  per  la  pratica.  D'altronde  i  suddetti  dati  non 
possono  avere  nulla  di  assoluto,  perchè  la  somma  dei  gradi  di  ca- 
lore varia  eziandio,  e  di  molto,  da  vitigno  a  vitigno  e  converrebbe 
perciò  istituire  numerosissime  osservazioni  tenendo  calcolo  anche  di 
questo  importante  elemento. 

Alla  Stazione  Enologica  di  Asti,  ad  esempio,  studiando  la  matura- 
zione delle  uve  barbera,  grignolino  e  fresia  neh"  anno  1878,  nello 
stesso  vigneto,  sr  trovarono  le  seguenti  differenze: 


Barbera 

Grignolino 

Fresia 

Dalla  germogliazione'(22  aprile)  alla 

fioritura;  giorni. 

43 

45 

46 

Temperatura  a  0,50  dal  suolo  (1) 

816°  C. 

861°  C. 

884°  C 

»            a  0,25  nel  suolo 

771°  C. 

817°  C. 

839°  C 

Dalla  fioritura  alla  maturazione  per- 

fetta; giorni        .... 

125 

123 

122 

Temperatura  a  0,50  dal  suolo 

2793°  C. 

2725°  C. 

2751°  C 

»            a  0,25  nel  suolo 

3024°  C. 

2954°  C. 

2981°  C 

Presso  l'Istituto  Agrario  Castelnuovo  (Palermo)  seguendo  il  me- 
todo di  Gasparin  si  trovarono  nel  1879  i  seguenti  dati: 

Fioritura:  22  maggio         (       :  d     di  ffiorni  n6 
Vendemmia:  IG^settembre^10™  dl  Sl0rni  lib 

Temperatura  massima  all'aria  libera  nel  detto  periodo  31,9°  C. 

»            minima                  »                     »  24,6°  C. 

»            media                     »                     »  28,2°  C. 

Che  moltiplicata  per  116  dà  3271°  C. 

Gasparin,  per  la  vigna  coltivata  presso  il  limite  della  viticoltura 
nel  Nord  della  Francia  (Parigi),  trovò  gradi  2676.  Fra  Parigi,  Asti 


(1)  Diamo  qui  la  somma  dei  gradi,  come  di  consueto. 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


263 


e  Palermo  vi  ha  quindi  una  notevolissima  differenza  nella  quantità 
di  calore  occorrente  alla  vite  nel  periodo  dalla  fioritura  alla  ven- 
demmia. A  Palermo  le  viti  vogliono  circa  600°  di  più;  è  vero  però 
che  le  uve  riescono  notevolmente  meno  acide  e  più  ricche  di  prin- 
cipio dolce,  onde  la  maturità  di  cui  parla  Gasparin  deve  intendersi 
in  senso  relativo. 

Per  dare  un'idea  più  precisa  dei  rapporti  che  esistono  fra  la  tem- 
peratura e  la  produzione  della  vite,  riporteremo  qui  una  tabella  di 
Humboldt: 


Latitudine 

Temperature  medie  (centigrade) 

Luoghi 

<D 

<D    O 

Osservazioni 

dell' 

dell' 

della 

dell' 

dall' 

2  -b'o 

82 
23 

anno 

invern. 

prima- 

estate 

autun- 

Z  ^S 

vera 

a)      Vi 

■S'S, 

Bordeaux... 

44°  50' 

13.9 

6.1 

13.4 

21,7 

14.4 

5.0 

22.8 

Clima  molto  fa- 

Francoforte 

vorev.  alla  vite. 

sul  M 

50°  r 

9.8 

1.2 

9.9 

18.3 

10.0 

-0.4 

10.8 

Parisi 

48°  50' 
46°  31' 

10.8 
9.5 

3.3 

0.5 

10.3 
9.2 

18.1 
18.4 

11.2 
9.9 

1.8 
-1.0 

18.9 
18.7 

Vino  mediocre. 

Losanna 

Ginevra 

46°  12' 

9.7 

1.2 

9.5 

17.9 

10.2 

-0.4 

18.6 

Berlino 

52°  31' 

8.6 

-0.7 

8.0 

17.3 

8.8 

-2.4 

18.0 

Vino  appena  be- 
vibile. 

Cherbourg.. 

49°  39' 

11.2 

5.2 

10.4 

16.5 

12.5 

3.2 

17.3 

Senza  viti. 

Londra 

51°31' 

10.4 

4.2 

9.5 

17.1 

10.7 

3.0 

17.8 

Id. 

Dublino 

53°  23' 

9.5 

4.6 

8.4 

15.3 

9.8 

4.3 

16.0 

Id. 

Come  vedesi  nel  clima  di  Bordeaux  si  verificano  appunto  le  con- 
dizioni di  temperatura  che  dicemmo  essere  cotanto  favorevoli  alla 
fruttificazione  della  vite.  Quasi  tutta  l'Alta  Italia  si  trova  in  condi- 
zioni uguali  se  non  migliori;  ma  si  trova  certo  in  condizioni  migliori  il 
rimanente  d'Italia,  d'onde  uve  più  zuccherine  e  vini  più  alcoolici. 
Senonchè  nel  misurare  la  temperatura  converrebbe  eziandio  tenere  cal- 
colo dell'  altezza  dei  termometri  dal  livello  del  suolo,  cosa  che 
non  si  fa  sempre,  dal  che  derivano  i  molti  dati  contraclditorii  che  si  ri- 
scontrano nei  differenti  autori:  nell'anno  1876  la  Stazione  Enologica 
d'Asti  volle  misurare  le  variazioni  termometriche  a  seconda  dell'al- 
tezza degli  istrumenti  d'  osservazione,  ed  ecco  i  dati  che  si  riferi- 
scono all'estate: 


>64 

CAPITOLO   VI 

Altezza  dal  suolo 

Media 

Media  delle  due 

e  ; 

profondità  in  un  vigneto 

di  luglio 

prime  decadi 

di  agosto 

Termometro  Cent. 

al  sole  a  lm,50 

30,60  C. 

31,13  C. 

» 

»            0m,50 

32,36 

33,01 

» 

nel  suolo     0m,10 

29,89 

29,27 

» 

»            0m,20 

28,74 

28,99 

» 

»            0m,30 

26,52 

27,65 

» 

»            0m,40 

25,31 

26,67 

È  notevole  la  differenza  fra  la  temperatura  a  0m,50  e  quella  ad 
lm,50;  ed  è  pure  notevole  che  nel  terreno,  se  duro  o  poco  smosso  come 
era  quello  dell'esperimento,  anche  a  0,40  di  profondità  la  tempera- 
tura può  innalzarsi  da  25°  a  quasi  27°,  quando  si  innalza  pure  la 
la  temperatura  dell'aria,  per  la  qual  cosa  in  terreni  non  scassati  le 
radici  sono  più  esposte  ai  danni  della  siccità,  come  del  resto  è  notorio. 

Crediamo  però  opportuno  di  far  notare  che  non  in  tutte  le  sta- 
gioni si  ha  a  0,50  di  altezza  dal  suolo  una  temperatura  maggiore 
che  a  lm,50;  nei  mesi  più  freddi,  specialmente  ai  crepuscoli  ed  a 
ciel  sereno,  la  temperatura  può  farsi  più  bassa  a  0m,50  come  ha 
constatato  il  Prof.  Gaetano  Cantoni.  Le  viti  allevate  basse  nei 
paesi  ove  V  inverno  ed  il  principio  della  primavera  sono  freddi, 
sono  infatti  più  danneggiate  dalle  brine  che  non  le  viti  alte,  perchè 
basta  qualche  grado  di  meno  di  temperatura  per  determinare  la  for- 
mazione della  brina;  diremo  a  suo  luogo  come  possa  evitarsi  questo 
grave  inconveniente  (1). 

Ma  se  alla  vite  è  indispensabile  un  adeguato  calore,  una  tempe- 
ratura la  quale  ecceda  certi  limiti  può  riescirle  molto  dannosa:  fa- 
cendo la  somma  dei  gradi  di  calore  solare  che  si  hanno  ora  per  ora 
nei  mesi  di  maggio,  giugno,  luglio,  agosto  e  settembre  si  trova  che 
il  numero  63.000  rappresenta  il  limite  estremo,  ed  il  numero  55.000 
rappresenta  la  media  più  favorevole  alla  vegetazione  ed  alla  frutti- 
ficazione della  vite. 

I  seguenti  dati  possono  permettere  al  lettore  di  fare  un  parallelo 
fra  alcuni  paesi  viticoli: 


Vienna 

Mompellieri 

Palermo 

Guibar-Bou-Aoun  (Algeria  limite  estremo) 


49.900 
55.900 
56  500 
63.000 


(1)  Vedi  Viti  a  piramidi  —  ed  il  capitolo  ove  si  parla  delle  brine. 


METEOROLOGIA  VITICOLA  265 

Sotto  i  50.000  gradi  orarii  bisogna  proteggere  la  vite  contro  i  geli, 
sopra  i  60.000  la  vegetazione  e  la  fruttificazione  sono  irregolari.  Ac- 
cade allora  che  l'uva  si  essica  anziché  maturare,  e  questo  special- 
mente nei  vigneti  esposti  a  mezzogiorno  ed  in  terreni  pietrosi.  I  raggi 
calorifici  che  cadono  sulla  loro  superficie  sono  allora  riflessi,  come 
si  vede  nella  fìg.  64,  e  vanno  a  colpire  l'uva  senza  nulla  aver  per- 


Fig.  64. 

eluto  della  loro  potenza;  vale  a  dire  che  i  raggi  diretti  a  hanno  u- 
guale  potenza  calorifica  dei  raggi  riflessi  b,  onde  l'uva  c>  se  non  è 
protetta  da  foglie,  riceve  per  riflessione  i  raggi  solari  che  giungono 
alla  superfìcie  dei  ciottoli,  oltre  a  quelli  che  possono  venirle  diretta- 
mente dalla  parte  superiore.  In  queste  condizioni  se  il  calore  non  ec- 
cede i  suaccennati  limiti,  l'uva  matura  completamente;  anzi  in  alcuni 
paesi  ove  il  clima  non  è  troppo  favorevole  alla  vigna,  si  coadiuva 
la  maturazione  dell'uva  appunto  circondando  le  ceppaie  di  grosse 
pietre,  che  si  riscaldano  al  sole  e  ne  riflettono  i  raggi  sui  grappoli  (1). 
Ma,  oltre  quei  limiti,  si  verifica  la  così  detta  scottatura  dei  grap- 
poli, che  i  Francesi  chiamano  échaudage,  fenomeno  ben  noto  nel- 
l'Italia e  nella  Francia  meridionali.  Si  può  ritenere  che  allorquando 
il  termometro  centigrado  segna  intorno  ai  40°  all'ombra  ed  a  nord, 
gli  acini  si  essicano,  e  ciò  perchè  essi  vengono  a  trovarsi  sotto  Fin- 
fluenza  di  una  temperatura  assai  maggiore,  appunto  pel  calore  ri- 
flesso dal  suolo.  Non  si  erra  stabilendo  che   se  il  termometro  nei- 


CI)  De  Candolle.  Pliysiologie  vegetale,  p.  1254. 


266  CAPITOLO   VI 


l'aria  segna  35°  a  40°,  l'uva  può  scaldarsi  sino  a  60°-65°,  special- 
mente se  i  grappoli  sono  poco  distanti  dalla  superfìcie  del  suolo.  Nel- 
l'interno degli  acini  dei  nostri  vitigni  coltivati  ad  alberello  sui  colli 
di  Casalmonferrato,  abbiamo  sempre  riscontrato  in  giornate  serene 
di  settembre  35°  a  40°  C.;  ma  questo  in  condizioni  normali  di  calore. 
Al  capitolo  Malattie  della  vite,  studieremo  in  disteso  quanto  si  rife- 
risce alla  scottatura. 

Qui  soggiungeremo  soltanto  che  i  perniciosi  effetti  della  tempera- 
tura soverchiamente  elevata,  sono  temperati  alquanto  dall'umido  e 
dal  vento,  o  per  meglio  dire  dallo  stato  di  movimento  in  cui  può  tro- 
varsi l'aria;  in  altri  termini  se  il  tempo  è  molto  secco  e  calmo  non 
è  necessario  un  innalzamento  di  temperatura  uguale  a  quello  che  si 
richiede  durante  un  tempo  umido  perchè  l'uva  abbia  a  soffrirne;  la. 
scottatura  potrà  allora  verificarsi  anche  a  2  o  3  gradi  al  disotto  del- 
l'accennato limite. 

§  3.  L'umido  e  la  vite.  —  Le  pioggie  moderate  sono  senza 
dubbio  di  giovamento  alla  vite,  la  quale  non  potrebbe  vegetare,  e 
peggio  poi  fruttificare  convenientemente,  senza  un  adeguato  umidore 
nel  suolo;  ma  a  bello  studio  abbiamo  parlato  di  pioggie  moderate, 
perchè  poche  piante  risentono  tanto  quanto  la  vite  gli  effetti  perni- 
ciosi del  soverchio  umido. 

Come  ed  in  quale  misura  l'acqua  giovi  alla  vite  ed  all'uva  l'ab- 
biamo già  studiato  a  pag.  207,  accennando  alle  nostre  osservazioni 
sulla  grossezza  degli  acini  a  seconda  della  quantità  d'acqua  caduta 
sul  suolo.  Senz'acqua  non  può  esservi  vino;  né  ciò  deve  parere  un 
paradosso  per  chi  conosce  solo  gli  elementi  della  fisiologia  della  vite 
e  la  composizione  del  mosto. 

Le  piogge  moderate  nei  mesi  di  agosto  e  di  settembre  giovano 
eziandio  a  far  aumentare  la  quantità  del  mosto,  e  sin  dal  1846  il 
sig.  Vergnette  Lamotte  (1)  asseriva  di  aver  constatato  con  esperi- 
menti esatti  che  «  il  giorno  dopo  una  pioggia  vi  era  néìYuva  matura 
un  assorbimento  d'acqua  tanto  meccanico  che  organico,  il  quale  po- 
teva elevarsi  sino  al  5  °/0  del  peso  primitivo.  » 

Una  adeguata  quantità  d'umido  è  poi  indispensabile  per  la  matu- 
razione dell'uva;  senza  l'acqua  o  con  quantità  troppo  piccole  d'acqua 
non  avverrebbero  quelle  trasformazioni  dei  componenti  dell'acino  che 


(1)  Congrès  des  vignerons,  Dijon,  p.  431, 


METEOROLOGIA  VITICOLA  267 

da  acerbo  lo  fanno  maturo;  e  questo  perchè  l'acqua  essendo  uno  fra 
i  più  importanti  solventi,  specialmente  considerata  nei  fenomeni  ve- 
getali, permette  un  più  intimo  contatto  fra  i  suddetti  componenti, 
d'onde  traggono  origine  nuovi  composti.  E  di  ciò  pure  abbiamo  lun- 
gamente detto  studiando  la  maturazione  dell'uva. 

Ma  è  però  vero  di  dire  che  la  vite  ama  piuttosto  la  siccità  che  non 
l'umido,  e  basterebbe  a  dimostrarlo  il  fatto  a  tutti  notorio,  che  nei 
paesi  ove  il  cielo  è  abitualmente  sereno  da  aprile  a  ottobre,  con  un 
persistente  alidore,  le  uve  riescono  esuberantemente  ricche  di  zuc- 
chero cioè  perfette  per  dolcezza  e  profumo. 

Abbiamo  però  altri  fatti  che  ci  provano  come  la  vite  si  appaghi 
di  una  limitata  quantità  d'umido,  e  sia  allora  più  sana,  oltre  a  produrre 
frutto  migliore.  Anzitutto  ogni  viticultore  ha  osservato  di  certo  che  negli 
anni  secchi  il  vino  è  migliore,  e  che  per  contro  negli  anni  umidi  la  vite 
è  facilmente  infestata  da  crittogame,  onde  l'uva  riesce  mediocre  e  ciò 
quand'anche  si  vincano  questi  parassiti.  In  simili  condizioni,  cioè  se 
le  piogge  sono  abbondanti,  si  ha  anzitutto  un  notevole  abbassamento 
di  temperatura,  per  la  qual  cosa  tutte  le  funzioni  vitali  della  pianta 
restano  se  non  paralizzate  di  certo  inceppate  per  deficienza  di  luce 
e  di  calore. 

Inoltre  nelle  annate  umide  il  succo  entra  nei  frutti  troppo  abbon- 
dante e  troppo  acquoso,  e  le  cellule  destinate  ad  elaborarlo  non  pos- 
sono farlo  che  in  modo  incompleto;  il  frutto  diventa  grosso,  ma  ac- 
quoso ed  insipido  (1). 

Quando  poi  le  piogge  sopraggiungono  alla  vigilia,  se  così  possiamo 
dire,  della  vendemmia,  oltre  al  guasto  ed  al  marcimento  di  molti  grap- 
poli, si  hanno  mosti  che  fermentano  lentamente  ed  incompletamente,  e 
vini  di  poca  stabilità.  Accade  allora  che  gli  acini  si  gonfiano  oltre 
misura  in  un  tempo  relativamente  breve,  e  le  fiocine  si  screpolano; 
di  qui  ha  principio  il  marciume,  e  quindi  sviluppasi  la  muffa  speciale 
di  cui  ci  occuperemo  studiando  le  crittogame  degli  acini. 

È  pure  noto  ai  viticultori  che  se  le  pioggie  abbondano  durante 
l'attecchimento  degli  acini,  vale  a  dire  dopo  la  fioritura,  gli  acini 
cadono  e  si  ha  la  cosidetta  càscola  di  cui  diremo  studiando  le  ma- 
lattie della  vite.  Qui  ci  limiteremo  a  notare  che  la  càscola  arreca 
spesso  danni  assai  gravi,  specialmente  se  le  piogge  soverchie  cadono 


(1)  De  Candolle  loc.  cit.  pag.  577. 


268  CAPITOLO   VI 


nel  mese  di  giugno  e  se,  come  accade  quasi  sempre,  all'azione  no- 
civa dell'umido,  associasi  quella  nocivissima  del  freddo. 

Infine  è  pure  noto  che  l'umido  soverchio  durante  il  periodo  della 
fioritura,  cagiona  1'  aborto  dei  fiori,  di  cui  abbiamo  già  parlato  stu- 
diando la  formazione  dei  viticci,  e  di  cui  diremo  a  lungo  più  in- 
nanzi. 

Un  altro  inconveniente  delle  piogge  è  l' abrasione  delle  foglie 
dei  tralci  e  dell'uva  causata  dalla  subitanea  comparsa  del  sole  co- 
cente: allora  le  goccioline  d'acqua  che  stanno  sulla  pianta  fanno  l'uf- 
ficio come  d'una  lente  ustoria,  concentrando  sovra  un  solo  punto  i 
raggi  solari  e  causando  una  alterazione  nei  tessuti  che  si  palesa  poi 
come  una  piccola  macchia  rosso-  nerastra  (1). 

Infine  il  grande  calore  dopo  un  tempo  umido  prolungato,  provoca 
una  soverchia  evaporazione  dalle  foglie  della  vite,  specialmente  se 
il  vigneto  è  situato  in  esposizione  calda  e  protetta  dai  venti;  in  queste 
condizioni  se  perdura  l'elevata  temperatura  le  foglie  ingialliscono  a 
poco  a  poco  e  finiscono  col  cadere. 

Sono  quindi  parecchi  e  gravi  gli  inconvenienti  causati  da  un  ec- 
cesso di  umido:  per  precisare  meglio  la  sinistra  influenza  delle 
pioggie  sulla  qualità  dell'uva,  riferiremo  i  saggi  comparativi  fatti  dal 
Dr.  F.  Ravizza  alla  Stazione  Enologica  di  Asti  sui  mosti  di  due  anni, 
l'uno  secco,  l'altro  umido. 

Questi  due  anni  furono  il  1877  ed  il  1878:  i  vitigni  sui  quali  si 
esperimentò  furono  il  Barbera,  il  Grignolino  e  la  Fresia.  Ecco  le 
quantità  di  pioggia  cadute: 

1877  .     .     .  millimetri  di  pioggia     62 

1878  ..     .  »  309 

Adunque  il  1877  fu  molto  asciutto  ed  il  1878  molto  umido.  Ad 
onta  di  ciò  i  giorni  passati  dalla  fioritura  alla  completa  maturanza 
non  variarono  di  molto: 

Barbera       Grignolino        Fresia 

1877  .     .     .     giorni  123  117  118 

1878  ...        »      125  123  122 

Variò  però  sensibilmente  la  quantità  di  zucchero,  sostanze  estrat- 


(1)  Ne  riparleremo  al  Cap.  XXVIII  studiando  la  melata  o  manna. 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


269 


tive  e   tartrato  potassico,    che  fu    notevolmente  maggiore  nelF  anno 
asciutto,  cioè  nel  1877: 


Densità 

Grado  Guyot 

Zucchero 

Tartrato 

Acidi 

Sostanze 

estrattive 

Barbera    . 

1877 

1.101 

23 

200.0 

8.52 

6.38 

242.7 

» 

1878 

1.096 

22.5 

190.8 

6,95 

8.59 

235.7 

Grignolino 

1877 

1.101 

24 

208.3 

8.12 

7.37 

242.6 

» 

1878 

1.083 

19 

168.0 

6.21 

9.90 

202.1 

Fresia    .  . 

1877 

1.104 

24 

192.3 

8.38 

7.47  ' 

235.8 

»        .  .  1878       1.086       19.5       172.4       6.10     10.00       209.3 

Da  questo  specchietto  si  desume  eziandio  che  negli  anni  piovos_ 
aumenta  il  per  mille  di  acidi,  la  qual  cosa  è  un  indizio  che  la  ma 
turità  dell'uva  è  imperfetta.  Il  tartrato  di  potassio  aumenta  invece 
coll'aumentare  dello  zucchero,  come  già  dicemmo  a  pag.  223. 

Le  pioggie  abbondanti  indussero  nel  1878  una  notevole  diminuzione 
nella  temperatura  misurata  entro  terra: 


Totale  dei  gradi 
dalla  fioritura  alla  completa  maturazione 

Termometri  nel  suolo 

a  metri 
0,25 

a  metri 
0,45 

a  metri 
0,65 

Barbera 

. 

1877 

3024 

2910 

2841 

» 

.     .     . 

1878 

2841 

2875 

2729 

Grignolino 

,     . 

1877 

2954 

2826 

2749 

» 

.     •     • 

1878 

2791 

2719 

2682 

Fresia 

.     . 

1877 

2981 

2850 

2772 

» 

# 

.     1878 

2766 

2700 

2658 

La  temperatura  totale  (dalla  fioritura  alla  completa  maturanza) 
misurata  a  25  centimetri  di  profondità  fu  notevolmente  maggiore 
nell'anno  asciutto  (1877)  in  cui  ad  esempio  il  barbera  ebbe  un  to- 
tale di  3024  gradi,  cioè  circa  200  di  più  che  non  nell'  anno  umido 
(1878).  È  facile  però  intendere  come  queste  differenze  vadano  di- 
minuendo col  crescere  della  profondità,  perchè  negli  strati  inferiori 
è  minore  la  evaporazione  che  è  causa  del  raffreddamento  del  terreno: 
nel  1878  ad  ogni  modo  il  terreno  si  raffreddò  assai  più  che  non  nel 
precedente  anno,  causa  le  molte  piogge.  Tutti  questi  fatti  giovano 
a  dimostrare  viemeglio  quanto  l'umido  soverchio  sia  dannevole  alla 
vite. 


270  CAPITOLO    VI 


§  4.  L'elettricità  e  la  vite.  —  L'influenza  grande  che  l'elet- 
tricità esercita  sulla  vegetazione,  ci  induce  a  svolgere  questo  pa- 
ragrafo con  alquanti  dettagli,  tanto  più  che  gli  studii  che  hanno 
tratto  all'elettricità  ne'  suoi  rapporti  colla  vite,  sono  abbastanza  re- 
centi e  poco  conosciuti. 

L'illustre  J.  Sachs  premesso  che  «  colle  radici  nel  suolo  la  pianta 
terrestre  svolge  nell'atmosfera  i  suoi  rami  e  le  sue  foglie  e  presenta 
all'aria  un'ampia  superfìcie,  e  che  il  tessuto  della  pianta  è  imbevuto 
intieramente  di  liquidi  elettrolitici  »,  ritiene  che  la  pianta  sia  capace 
di  eguagliare  le  differenze  elettriche  che  possono  esistere  tra  il  suolo 
e  l'atmosfera,  a  mezzo  delle  correnti  che  traversano  dall'alto  al  basso 
tutto  il  tessuto  vegetale.  Ora  siccome  Y  atmosfera  possiede  d'  or- 
dinario una  tensione  elettrica  differente  dalla  tensione  elettrica  del 
terreno,  e  siccome  questa  differenza  di  tensione  cambia  secondo  il 
tempo  che  fa,  si  è  tratti  a  credere  che  si  operino  continuamente  at- 
traverso alle  piante  degli  scambi  di  elettricità.  «  Queste  correnti  con- 
tinue esercitano  esse  un'azione  favorevole  sui  fenomeni  della  vege- 
tazione? Le  improvvise  e  potenti  scariche  elettriche  che  hanno  luogo 
in  occasione  della  caduta  del  fulmine  attraverso  gli  alberi  dimostrano 
per  lo  meno  che  delle  deboli  differenze  di  tensione  elettrica  possono 
egualmente  neutralizzarsi  con  lentezza  attraverso  al  corpo  della 
pianta  ». 

Nollet  in  Francia,  Jallabert  a  Ginevra,  Mambray  ad  Edimburgo 
fecero  fin  dal  secolo  scorso  esperienze  in  proposito  su  piante  ed  a- 
nimali,  caricando  di  elettricità  con  macchine  a  sfregamento  V  am- 
biente in  cui  racchiudevano  le  une  o  gli  altri,  oppure  in  cui  pone- 
vano semi  a  germogliare;  e  ne  dedussero  che  un  aumento  di  ten- 
sione elettrica  accelerava  le  funzioni  vitali. 

Il  prof.  G.  A.  Ottavi  mio  padre  scriveva  nel  suo  Coltivatore  (voi.  19, 
pag.  160):  «  Le  cose  più  meravigliose  della  natura,  come  la  riso- 
luzione dei  problemi  più  diffìcili,  pare  siano  inerenti  a  questo  potente 
fluido  (l'elettricità).  Ad  esso  perciò,  se  pure  non  mi  illudo,  si  do- 
vranno le  maggiori  scoperte  dei  secoli  avvenire.  » 

Duhamel  de  Monceau  nella  sua  Fisica  delle  piante  insiste  sul  ra- 
pido sviluppo  delle  piante  stesse  durante  i  tempi  procellosi  e  sull'azione 
benefica  delle  piogge,  anche  sulle  piante  acquatiche,  «  S'incominciano 
a  vedere  nella  natura,  egli  aggiunge,  altri  agenti  potentissimi  che 
possono  produrre  questi  effetti;  la  virtù  magnetica  e  quella  dell'e- 
lettricità possono  esser  portate  ad   esempio:   chi  sa  che  non  ve   ne 


METEOROLOGIA  VITICOLA  271 

sia  una  infinità  d'altre?  L'abate  Nollet,  il  signor  Le  Mosnier  il 
medico  e  vari  altri  fisici,  ci  hanno  fatto  intravedere  che  l'elettricità 
può  influire  sulla  vegetazione.  » 

L'abate  Bertolon  è  più  reciso;  «  l'elettricità  dell'atmosfera  ha  sulle 
piante,  come  sopra  tutti  gli  animali  e  particolarmente  sull'uomo,  una 
influenza  ben  marcata.  »  E  le  sue  esperienze  provarono  che  codesta 
influenza  era  delle  più  benefiche  per  la  vegetazione. 

Ma  il  merito  di  avere  in  questi  ultimi  tempi  con  esperimenti 
esatti  tratto  conclusioni  più  precise,  spetta  al  signor  Grandeau  in 
Francia  ed  in  Italia  ai  compianti  nostri  scienziati  dott.  Celi  e  dottor 
Macagno. 

Per  constatare  con  un'esperienza  diretta  se  l'elettricità  atmosferica 
esercita  o  no  una  influenza  sulla  vegetazione,  il  sig.  Grandeau  u- 
sando  di  terreni  più  o  meno  differenti  per  origine,  per  ricchezza  va- 
riabile in  principii  nutritivi,  per  profondità  diverse  ecc.,  ma  pren- 
dendone sempre  due  identici  per  natura  e  condizioni  esterne  in  cia- 
scuna esperienza,  in  questi  poneva  due  piante  della  stessa  specie  e 
tanto  eguali  tra  loro  da  potersi  paragonare  senza  errore.  Così  queste 
due  piante  si  trovavano  in  condizioni  assolutamente  simili  sotto  ogni 
riguardo:  terreno,  umidità,  luce,  ecc.  Soltanto  che  una  delle  due 
piante  la  lasciava  crescere  liberamente  nell'aria  a  contatto  di  tutta 
l'elettricità  atmosferica;  per  l'altra  invece  l'aria  circostante  veniva 
privata  dell'elettricità  atmosferica  ed  ecco  come: 

Due  casse  metalliche,  munite  di  fori  nella  parte  inferiore,  conte- 
nenti ciascuna  19  chilogr.  della  medesima  terra,  venivano  infossate 
nel  terreno  di  un  giardino  ai  ò\6  circa  della  loro  altezza.  Una  delle 
casse  era  posta  all'aria  libera;  l'altra  era  superiormente  coperta  da 
una  leggiera  gabbia  in  ferro  alta  metri  1,50  e  larga  lateralmente 
metri  0,40,  come  si  vede  nella  figura  65.  Questa  gabbia  era 
formata  da  quattro  montanti  in  ferro  di  m.  0,01  di  diametro,  uniti 
tra  loro  da  una  rete  in  filo  di  ferro  fino  (m.  0,0005)  a  maglie  di 
m.  0,15  su  m.  0,10;  questa  gabbia  lascia  libero  accesso  all'aria,  alla 
luce,  al  calore,  all'acqua,  ecc.;  essa  non  ha  altro  effetto  che  quello 
di  sopprimere  intieramente  per  la  pianta  che  vi  sta  dentro,  l'azione 
dell'elettricità  atmosferica. 

Le  due  casse  erano  poste  a  poca  distanza  l'una  dall'altra;  esse 
ricevevano  egualmente  e  durante  lo  stesso  tempo,  i  raggi  del  sole, 
la  pioggia,  ecc.  In  un  angolo  di  ciascuna  delle  due  casse,  il  Gran- 
deau pose,  al  principio  della  esperienza,  due  scatole  metalliche  con- 


272 


CAPITOLO    VI 


tenenti  lo  stesso  terreno  delle  casse;  esse  erano  destinate  a  servir 
di  confronto  per  le  variazioni  che  la  terra  senza  piante  subisce  nella 
sua  composizione  pel  contatto  prolungato  con  l'atmosfera  ed  a  stu- 
diare così  la  nitrificazione  naturale  del  suolo  nudo,  sottratto  o  non 
all'azione  dell'elettricità. 


Le  esperienze  furono  fatte  sul  tabacco,  sul  mais  caragua,  e  sul 
frumento  Chiddam. 

Esperienze  sul  tabacco.  —  Il  7  aprile  1877  in  ciascuna  delle 
due  casse  fu  posto  un  piede  di  tabacco,  proveniente  dalla  stessa 
aiuola,  pesante  gr.  3,5  ed  avente  quattro  foglie  primordiali.  Queste 
piante  affatto  identiche  avevano  completamente  attechito  al  14  aprile. 
A  partire  dal  20  dello  stesso  mese  fino  al  giorno  del  raccolto  (7  a- 
gosto)  si  constatarono  differenze  assai  notevoli  nello  sviluppo  dei 
due  tabacchi:  quello  che  vegetava  all'aria  libera  si  comportava  come 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


273 


le  altre  piante  vegetanti  vicino  a  lui  in  piena  terra;  quello  invece 
che  era  posto  sotto  la  gabbia  cresceva  assai  meno  rapidamente  in 
altezza  ed  in  diametro.  Tutti  e  due  erano  vigorosi;  le  loro  foglie, 
assai  verdi,  dinotavano  una  regolare  funzione,  benché  sensibilmente 
differente  in  intensità,  della  cellula  clorofilliana.  Al  7  agosto  la  pianta 
fuori  gabbia  aveva  fiorito  ed  i  grani  incominciavano  a  formarsi, 
mentre  la  pianta  sotto  gabbia  assai  in  ritardo  relativamente  all'altra, 
presentava  appena  qualche  bottone,  ma  neanche  un  fiore. 
Eccone  i  dati  dei  pesaggi  e  dell'analisi: 


TABACCO 


Altezza  totale      

Numero  delle  foglie  .  .  . 
Peso  delle  foglie  fresche 
Peso  medio  di  una  foglia  . 
Peso  dei  fusti  e  delle  radici 
Peso  totale  della  raccolta 
Peso  della  so-  l  foglie  .  . 
stanza  secca  \  fusti  e  radici 

Acqua    

Materie  azotate 

Materie  idrocarbonate       .     . 
Ceneri  (materie  minerali) 


fuori 
m. 

gr. 


gabbia 

1,05 

14 

107 

7,64 

106 

273 

13 

17 

243,000 

2,269 

24,629 

3,102 


sotto 


m. 


gr 


30 


gabbia 

0,69 

10 

70 

7 

70 

140 

8,5 

9,0 

122,500 

1,325 

13,755 

2,420 


17,5 


Per  potere  fare  un  paragone,  supponendo  eguale  a  100  la  quan- 
tità delle  sostanze  della  pianta  in  piena  elettricità,  avremo  i  seguenti 
dati: 

fuori  gabbia  sotto  gabbia 

Materia  vivente  totale 100  51,28 

Materia  azotata »  58,39 

Materie  idrocarbonate  (cellulosa,  amidacee)  »  55,85 

Ceneri »  98,02 


Esperienze  sul  mais  cavagna.  —  All'  8  agosto  alle  due  piante 
di  tabacco  furono  sostituite  due  piante  di  mais  in  tutto  paragona- 
bili; misuravano  m.  0,18  di  altezza  e  pesavano  ciascuna  gr.  2,8;  il 
terreno  fu  concimato  egualmente  in  tutte  e  due  le  casse;  al  13  agosto 
le  piante  avevano  attecchito;  al  21  dello  stesso  mese  la  differenza 
nello  sviluppo  dei  due  mais  era  assai  sensibile,  poiché  la  pianta  tolta  all'e- 
lettricità cresceva  assai  meno  della  pianta  all'aria  libera.  All'8  ottobre 
per  tema  delle  brinate  fu  fatto  il  raccolto:  la    differenza  apparente 

O.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura  19 


274  CAPITOLO    VI 


tra  le  due  raccolte  si  accentuò  piuttosto  nello  sviluppo  del  diametro 
del  fusto  e  delle  foglie,  che  sull'  altezza  delle  piante. 
Ecco  i  dati  dell'analisi 

MAIS 

fuori  gabbia  sotto  gabbia 

Altezza  totale m.         1,10  0,98 

Numero  delle  foglie »            7  7 

Peso  dei  fusti  e  foglie gr.         86  50 

Circonf.  del  fusto  ad  1  decim.  dal  colletto 

delle  radici ..*...     cm.        5,3  4,1 

Peso  della  raccolta  secca gr.          7,922  5,428 

Acqua »        78,078  44,572 

Materie  azotate »           1,084  0,673 

Materie  idrocarbonate »           5,696  3,693 

Ceneri ,     .     .     .     .       »           1,142  1,062 

Supponendo  anche  qui  eguale  a  100  la  quantità  delle  sostanze 
delle  piante  in  piena  elettricità,  avremo  i  dati  seguenti: 

fuori  gabbia     sotto  gabbia 

Materia  vivente  totale 100  58,14 

Materie  azotate »  62,08 

Materie  idrocarbonate »  64,45 

Materie  minerali »  92,99 

Esperienza  sul  frumento  Chiddam.  —  Al  6  novembre  1877 
dopo  aver  ben  lavorato  la  terra  delle  due  casse,  vi  fu  seminato  il 
frumento;  la  nascita  fu  regolare  e  le  piante  si  comportarono  sensi- 
bilmente nello  stesso  modo  dal  novembre  alla  fine  di  marzo.  Al  primo 
aprile  1878  i  frumenti  delle  due  casse  non  presentavano  alcuna  dif- 
ferenza marcata  per  l'altezza  ed  il  vigore.  Al  25  maggio  i  fusti  del 
frumento  misuravano  in  ambo  le  casse  da  m.  0,38  a  0,40  di  altezza, 
ma  il  volume  apparente  dei  fusti  era  assai  differente;  il  frumento 
cresciuto  all'aria  libera  aveva  maggior  grossezza,  mentre  i  fusti  del 
frumento  sotto  gabbia  erano  assai  meschini. 

Tolti  sei  gambi,  tagliati  rasente  terra  in  ambedue  le  casse,  si  trovò  : 

Peso  dei  6  fusti  fuori  gabbia gr/    6,570 

»  sotto  gabbia »      4,950 

Un  accidente  impedì  di  proseguire  1'  esperimento  fino  alla  matu- 
rarla ;  ma  il  frumento  rimasto  sotto  gabbia  rimase  intristito,   fiori 


METEOROLOGIA  VITICOLA  275 

difficimente,  molti  fiori  abortirono  e  la  raccolta  in  grano  fu  poco  ab- 
bondante. 

Da  queste  sperienze  il  Grandeau  trasse  le  seguenti  conclusioni: 

1°  I  vegetali  sottoposti  all'  esperienza  furono  notevolmente  in- 
fluenzati nel  loro  accrescimento  della  soppressione  della  tensione  e- 
lettrica  dell'atmosfera  che  li  circondava.  La  proporzione  dei  tessuti 
viventi  formati  in  assenza  dell'  azione  dell'  elettricità  atmosferica  fu 
inferiore  del  27,09  per  cento  alla  produzione  normale. 

2°  Il  tasso  di  materia  secca  elaborata  dalla  pianta  si  è  abbas- 
sato sotto  la  gabbia  del  29,71  per  cento;  quello  della  materia  azo- 
tata del  20,28  per  cento;  il  tasso  delle  materie  amilacee  (zuccaro, 
amido,  ecc.)  fu  specialmente  influenzato  dalla  soppressione  dello  stato 
elettrico  dell'aria;  si  abbassò  del  31,75  per  cento  sotto  la  gabbia. 

3°  Le  piante  vegetanti  all'aria  libera  assorbirono  un  po'  più  di 
azoto  (0,06  per  cento)  ed  assai  meno  di  sostanze  minerali. 

Il  compianto  Dott.  Celi  fece  esperienze  consimili  alle  precedenti, 
seminando  alcuni  semi  di  mais  in  ambienti  elettrizzati,  ed  altri  in 
ambienti  non  eletrizzati.  Germinati  i  semi,  le  piante  si  svolsero  in 
proporzioni  assai  differenti;  al  10  agosto  misurate  le  piante  si  eb- 
bero le  seguenti  dimensioni: 

Piante  nell'aria  elettrizzata,  altezza  metri  0,17 
Id.       non  elettrizzata        »         »       0,08 

Ma  veniamo  infine  alla  Vite,  che  fu  essa  pure  sottoposta  ad  eguali 
esperienze  per  cura  del  compianto  nostro  collega  Dott.  Macagno.  Egli, 
all'Istituto  Agrario  di  Castelnuovo  (Palermo)  applicò  a  16  viti  l'ap- 
parecchio indicato  nella  figura  66. 

Un  filo  di  rame  M  N,  innestato  mediante  punta  di  platino  nella 
estremità  superiore  del  tralcio  frutticoso,  era  spinto  verticalmente 
nell'  aria  ad  un'  altezza  di  80  centimetri  circa  sopra  la  linea  A  B, 
che  indica  l'altezza  cui  arrivano  le  foglie  e  le  punte  dei  tralci  della 
vite  durante  la  sua  vegetazione. 

Questo  filo  fu  fissato  con  sostegni  isolatori  al  palo  stesso,  ove  si 
vengono  ad  attorcigliare  e  legare  i  tralci  più  lunghi,  secondo  il  si- 
stema del  luogo.  Alla  base  del  tralcio  frutticoso  venne  pure  innestato 
con  punta  di  platino  un  altro  filo  di  rame  O  P  che  andava  nel  suolo. 

In  tal  modo  le  16  viti  si  trovavano  nella  condizione  di  ricevere 
più  facilmente  delle  altre  F  influsso  dell'elettricità  atmosferica.  L' ap- 


276 


CAPITOLO   VI 


parecchio  venne  applicato  al  15  aprile  e  lo  si  lasciò  fino  al  20  set- 
tembre,   giorno  della  vendemmia.  Raccolti  allora  i  tralci  frutticosi 


Fip-.  06. 


tanto  di  queste  come  di  altre  viti  vicine  lasciate  in  condizioni  ordi- 
narie per  confronto,  vennero  analizzati,  ed  eccone  i  risultati: 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


277 


Quantità  per  cento 


Nel  legno  secco  a  110° 

Materie  minerali 

Potassa 

Calce 

Acido  fosforico 

Nelle  foglie  secche  a  110° 

Materie  minerali        

Potassa  sotto  forma  di  bitartrato 
Potassa  sotto  altra  forma        .     . 

Calce         

Acido  fosforico 

Bitartrato  potassico 

Acido  malico 

Acido  tannico    ....... 

Acido  tartarico  libero     .     .     .     . 

Amido  e  destr 

Glucosio ,     .     . 

Negli  acini  freschi 

Mosto  per  cento 

Acqua        

Glucosio 

Acido  tartarico  libero    .     .     .     . 

Bitartrato  di  potassa       .     .     .     . 

Acido  tannico    ....... 

Acido  malico 


Viti 

Viti 

aturali 

con  apparecchio 

3,684 

3,115 

0,642 

0,541 

1,184 

1,192 

0,182 

0,128 

13,415 

14,415 

0,795  ) 
0,429  j 

22!     0.871J 

'~~X     0,390)  V° 

5,211 

5,321 

0,428 

0,665 

3,180 

3,491 

2.480 

2,515 

12,760 

11,911 

2,051 

3,221 

9,730 

10,415 

3,444 

3,528 

78,21 

79,84 

75,80 

74,23 

16,86 

18,41 

0,112 

tracce 

0,880 

0,791 

0,180 

0,186 

0,064 

0,058 

Considerando  le  sole  materie  minerali  troviamo,  siccome  conchiude 
il  Macagno,  che  esse  abbondano  di  preferenza  nelle  viti  naturali 
quando  si  consideri  soltanto  il  loro  peso  totale.  Nelle  foglie  invece 
succede  il  rovescio,  essendo  maggiore  la  loro  quantità  nelle  viti 
che  hanno  subito  maggiore  influsso  elettrico.  Ciò  indicherebbe  una 
certa  accelerazione  di  forza  vegetativa  prodotta  dall'elettricità,  giac- 
ché dove  essa  scarseggia  sembra  che  le  materie  minerali  stentino  a 
diffondersi  per  tutta  la  pianta. 

Altro  indizio  di  questa  speciale  tendenza  indotta  dall'  elettricità  è 
la  distribuzione  della  potassa.  Nei  tralci  è  maggiore  per  quelle  viti 
che  rimasero  in  condizione  naturale,  per  un  ritardo  forse  di  vege- 
tazione, ma  nelle  foglie  delle  viti  munite  d'apparecchio  metallico,  non 
solo  essa  è  un  po'  maggiore,  ma  osservasi  molto  più  pronunciata  la 


278  CAPITOLO   VI 


quantità  combinata  con  acido  tartarico.  Il  bitartrato  di  potassa  è  più 
abbondante  là  dove  è  più  facile  l'accesso  dell'elettricità  ;  ed  oltre  ciò 
rispettivamente  alla  quantità  totale  della  potassa  è  maggiore  quella 
trasformata  in  bitartrato,  prodotto  caratteristico  dell'  attività  delle 
foglie.  Sopra  100  parti  di  potassa  65  nelle  foglie  delle  viti  naturali 
stanno  combinate  coll'acido  tartrico,  mentre  nelle  altre  ve  ne  sono  69. 

Nessun'  altra  differenza  rimarchevole  si  rileva  nella  composizione 
delle  foglie,  tranne  una  certa  tendenza  a  produrre  maggiormente 
amido  e  glucosio  per  quelle  munite  del  suddetto  apparecchio. 

Ma  dove  le  risultanze  dell'esperimento  danno  una  più  chiara  idea 
dell'  influenza  che  l'armatura  metallica  applicata  alle  viti  può  avervi 
esercitato,  è  nell'esame  dell'analisi  degli  acini  freschi. 

Quelli  lasciati  nelle  condizioni  naturali  presentano  un  carattere  di 
maturanza  ritardata  rispetto  agli  altri  che  meglio  poterono  ricevere 
elettricità  dall'aria.  Cioè-,  troviamo  nei  primi  meno  mosto,  meno  glu- 
cosio e  maggior  dose  di  acidi. 

Le  differenze  sono  molto  sensibili,  per  cui  se  ne  deve  conchiudere 
che  l'elettricità  facilita  ed  accelera  lo  sviluppo  degli  elementi 
del  grappolo,  nel  tempo  stesso  che  porta  maggior  attività  nelle 
foglie  della  vite. 

Di  questi  interessanti  studii  non  venne  fatta  sin'ora  veruna  pratica  ap- 
plicazione; ma  noi  crediamo  che  in  un  avvenire  non  lontano  si  penserà 
a  trarre  partito  dell'influenza  elettrica  anche  nella  coltura  della  vite. 

§  5.  La  grandine  e  la  vite.  —  Questa  idrometeora  è  senza 
dubbio  uno  fra  i  più  terribili  flagelli  delle  viti.  Da  osservazioni  fatte 
sino  dal  precedente  secolo  risulterebbe  che  gli  è  specialmente  nel  qua- 
drimestre maggio-agosto  che  le  grandinate  sono  più  funeste,  benché 
si  diano  talvolta  eccezioni. 

La  grandine  reca  danni  diretti  ed  indiretti.  I  danni  diretti  sono 
la  percossa  e  le  abrasioni  dei  tessuti,  la  rottura  dei  tralci,  la  scortec- 
ciatura, infine  la  acciaccatura  e  lo  sgranellamento  dei  grappoli,  I 
danni  indiretti  provengono  dal  notevole  abbassamento  di  temperatura 
che  segue  sempre  la  caduta  della  gragnuola. 

I  danni  diretti  sono  più  o  meno  gravi  secondochè  la  grandine  cade 
accompagnata  o  non  da  acqua;  tutti  i  viticultori  sanno  che  la  cosi 
detta  tempesta  secca  o  asciutta  è  la  più  temibile,  mentre  se  la  gra- 
gnuola è  accompagnata  dalla  pioggia  può  anche  arrecare  danni  in- 
significanti. 


METEOROLOGIA  VITICOLA  279 

Il  guasto  è  poi  maggiore  se  spira  un  forte  vento,  perchè  in  questo 
caso  i  diacciuoli  della  grandine  colpiscono,  cadendo  obbliquamente, 
anche  quelle  parti  della  vite  che  probabilmente  sarebbero  rimaste  il- 
lese. Anche  la  grossezza  dei  diacciuoli  influisce,  come  è  naturale,  a  ren- 
dere la  percossa  più  o  meno  dannosa:  il  loro  peso  può  raggiungere 
proporzioni  incredibili;  si  narra  di  palle  di  gragnuola  che  pesavano 
oltre  i  cinque  chilogrammi  (1)  e  che  formarono  sul  terreno  uno  strato 
alto  25  centimetri.  Certo  queste  sono  rarissime  eccezioni;  ma  diac- 
cioli  del  peso  di  varii  ettogrammi  sono  frequenti,  e  ne  facemmo  una 
dolorosa  esperienza  nel  1884,  specialmente  alla  funesta  grandinata  del 
6  giugno.  La  grossezza  dei  diacciuoli  dipende  dalla  violenta  agita- 
zione che  sempre  ha  luogo  nelle  nubi  temporalesche,  per  la  quale  i 
granelli  di  grandine  vengono  sbattuti  gli  uni  contro  gli  altri,  e  quasi 
diremmo  saldati,  per  modo  che  il  loro  volume  si  va  mano  mano  ac- 
crescendo; alcuni  osservatori  hanno  potuto  udire  il  rumore  prodotto 
dal  cozzo  dei  diacciuoli  fra  di  loro,  come  ci  narra  Marié-Davy  (2) 
accennando  alle  trombe  che  accompagnano  sempre  la  formazione 
della  grandine  nelle  nubi. 

Infine  i  danni  della  grandine  sono  gravissimi  e  senza  rimedio  se 
essa  cade  quando  la  vite  ha  appena  messo  fuori  i  grappolini,  perchè 
allora  una  grandinata  anche  minuta  può  compromettere  tutto  il  rac- 
colto d'un  vigneto.  È  noto  infatti  che  molte  Compagnie  di  assicura- 
zione non  accettano  rischi  anteriori  al  15  di  giugno. 

Indirettamente  la  grandine  arreca  danno  alle  viti,  come  già  di- 
cemmo, per  l'abbassamento  notevole  di  temperatura  che  trae  seco. 
Dalle  medie  termometriche  da  noi  raccolte  prima  e  dopo  le  quattro 
funestissime  grandinate  che  nell'estate  del  decorso  1884  distrussero 
i  nove  decimi  del  raccolto  dell'uva  nel  basso  Monferrato  (circon- 
dario di  Casale)  ci  è  risultato  quanto  segue: 

Temperatura  media  Termom.  sul  suolo  del  vigneto  (Esp.  Sud.) 

—  in  luogo  soleggiato 

Prima  della  grandine  (a  mezzodì)         .  40°  C. 

Poche  ore  dopo  la  grandine         .         .  20°  C. 

La  mattina  successiva  (ore  6)      .         .  16°  C. 

Il  giorno  dopo  (a  mezzodì)  .         .  25°  C. 

Due  giorni  dopo 35°  C. 


(1)  Van  Meeske.  Grèle  tombée  à  Koewacht  (Fiandre  Zélandaise)  il  25  agosta 
1853.  (Citato  da  Berti-Pichat:  Istituzioni:  lib.  II.  Cap.  I.) 

(2)  Meteorologie  et  Physique  agricoles  —  171. 


280  CAPITOLO   VI 


Come  vedesi  il  raffreddamento  durò  per  molto  tempo,  recando  senza 
dubbio  grave  danno  alle  viti,  le  quali  dopo  le  grandinate  hanno  invece 
d'uopo  di  molto  calore.  Il  compianto  Dr.  Macagno  fece  analoghe  osser- 
zioni  a  Gattinara  (alto  Novarese)  nell'anno  1877  in  cui  ebbero  luogo 
colà  tre  grandinate  addì  9,  18  e  22  maggio.  Eccone  i  resultati: 

Terni,  nell'aria  Termometro  nel  suolo 

ci  £L  £b  <X  <X 

50  centim.  10  e.         20  e.         30  e.         40  e. 

Media  delle  temperature 
osservate  per  cinque 
giorni  innanzi  il  tem- 
porale del  22  maggio     20°  C.         21°  C.     18°  C.     17°  C.     17°  C. 

Media  delle  temperature 
osservate  per  sette 
giorni  dopo  il  tempo- 
rale del  22       .     .     .     16°  C.         15°  C.     16°  C.     10°  C.     16°  C. 

Da  questi  dati  risulta  che  non  bastarono  sette  giorni  per  rimet- 
tere il  terreno  nelle  primitive  condizioni  di  temperatura:  inoltre,  l'ab- 
bassamento di  temperatura  subito  fu  più  marcato  negli  strati  super- 
ficiali e  specialmente  a  10  centim.  di  profondità,  ove  si  ebbe  un  ab- 
bassamento maggiore  di  quello  che  ebbe  luogo  nell'aria. 

La  grandine  tuttavia  sarebbe  assai  meno  nociva  di  per  sé  stessa, 
se  discendesse  placidamente  dalle  nubi  come  la  neve;  anzi  come  que- 
st'ultima idrometeora,  recherebbe  un  po'  d'ammoniaca  nel  terreno, 
siccome  ha  constatato  il  sig.  Mene,  analizzando  i  diacciuoli  caduti 
presso  Parigi  il  5  maggio  1851. 

Diremo  al  capitolo  XXVIII  come  sia  possibile  porre  rimedio  en- 
tro certi  limiti  ai  danni  che  cagiona  la  percossa  della  grandine.  Qui 
ci  rimane  solo  a  dire  che  la  sua  caduta  è  preannunciata  da  un 
crepitìo  speciale  dovuto  all'urto  dei  diacciuoli  gli  uni  contro  gli  al- 
tri, come  già  accennavamo  or' ora.  Inoltre  le  nubi  assumono  un  a- 
spetto  rigonfio  ed  una  tinta  giallo -grigia;  sono  i  così  detti  nembi  dei 
meteorologisti,  situati  a  grandi  altezze  ove  la  temperatura  è  molto 
bassa  (sotto  Io  zero),  d'onde  la  formazione  della  grandine,  che  poi 
scende  dagli  alti  strati  delle  nubi  e  si  ingrossa  vieppiù.  Il  nembo 
temporalesco  suole  però    terminare  inferiormente   assai  basso,   cioè 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


281 


all'altezza  di  un  miglia  o  poco  più  (1).  «  Se  il  nembo  ha.  piede,  cioè 
se  insiste  per  lunga  base  sull'orizzonte  e  rapido  se  ne  solleva,  ma- 
nifestando come  un  fremito  nei  nuvoli  congregantisi,  e  manda  fre- 
quentissimi lampi  e  un  continuo  ma  cupo  rumore,  a  ragione  temesi 
allora  il  temporale  con  rovescii  di  pioggia  e  di  gragnuola,  tanto  più 
orrenda  quanto  più  la  stagione  sarà  stata  calda  ed  asciutta.  »  Così 
si  esprime,  e  giustamente,  il  rinomato  Nipote  del  Vestaverde,  ac- 
cennato dal  Prof.  Gaetano  Cantoni  nella  sua  Enciclopedia  agraria. 
La  regione  d'Italia  ove  sono  più  frequenti  i  temporali,  e  quindi 
anche  le  grandinate,  è  la  Valle  del  Po,  come  risulta  dal  seguente 
specchio: 


Giorni 

TEMPORALESCHI 

STAZIONI 

o 

ci 

CD 

> 

o 

0 

u 

c3 

c3 

0 

CD 

> 

a 

2 
3 

< 

£ 

* 

San  Gottardo 

0,4 

1,6 

0,8 

2,8 

Biella       .     . 



4,4 

9,8 

0,4 

14,6 

Torino     . 



4,6 

5,2 

0,6 

10,4 

Moncalieri 



8,6 

14,2 

2,0 

24,8 

Mondovì 



4,0 

10,4 

2,2 

16,2 

Alessandria 



4,8 

10,8 

2,8 

18,4 

Lugano    . 



3,0 

9,2 

2,8 

15,0 

Milano     . 



4,0 

13,2 

2  2 

19,4 

Pavia 

0,2 

3,2 

10,6 

2',  8 

16,8 

Guastalla 

0,2 

4,8 

13,2 

2,8 

21,0 

Modena    . 

— 

3,6 

8,8 

2,2 

14,6 

Bologna  . 

— 

2,4 

12,6 

3,4 

18,4 

Forlì   .     . 



2,0 

6,2 

3,0 

11,2 

Firenze    . 

0,2 

4,6 

6,0 

3,0 

13,8 

Siena  .     . 

1,4 

3,8 

5,4 

2,8 

13,4 

Urbino     . 

0,4 

1,2 

7,0 

2,0 

10,6 

Perugia  . 

0,4 

1,6 

7,6 

1,8 

11,4 

Roma 

0,8 

2,8 

6,4 

2,6 

12,6 

Napoli  (S.  R.) 

2,0 

3,6 

5,4 

5,2 

16,2 

Locorotondo 

0,4 

3,0 

5,4 

9  9 

11,0 

San  Remo    .     . 

0,4 

1,8 

2,9 

1,8 

6,9 

Genova    .     . 

1,6 

4,8 

10,0 

3,2 

19,6 

Livorno   .     .     . 

0,2 

3,0 

5,8 

2,4 

11,4 

Ancona    .     . 

0,2 

1.4 

6.2 

2,0 

9,8 

Napoli  (0.  U.) 

1,6 

3,2 

7,6 

4,6 

17,0 

Reggio  (Calabi 

iaj     . 

0.4 

1,4 

2,8 

2,8 

7,4 

Palermo        .... 

2,0 

3,0 

3   9 

3,0 

11,2 

(1)  Enciclopedìa  agraria.  —  Climatologia  italica.  Dott.  Paolo  Cantoni,  p.  254. 


282  CAPITOLO   VI 


§  6.  La  brina  e  la  vite.  —  La  brina  è  pure  una  funesta  i- 
drometeora  per  la  vite,  benché  possa  tornare  di  giovamento  all'uva, 
come  diremo  tra  poco:  distingueremo  intanto  le  brine  primaverili 
da  quelle  autunnali,  essendo  assai  differenti  i  loro  effetti  sulla  nostra 
ampelidea. 

Vediamo  anzitutto  come  si  formi  la  brina  sulle  viti  e  sui  vege- 
tali in  genere.  Man  mano  che  il  calore  diminuisce  per  il  tramonto 
del  sole,  F  atmosfera,  specialmente  ne'  suoi  strati  inferiori,  cioè 
più  caldi,  va  via  deponendo  del  vapore  allo  stato  acquoso,  perchè 
scemando  la  temperatura  scema  anche  la  quantità  di  vapore  che  l'a- 
ria può  tenere  mescolata.  Da  accurate  esperienze  in  proposito  risultò 
infatti,  che  ove  la  temperatura  atmosferica  durante  la  notte  scendesse 
da  25  a  20  gradi,  ogni  metro  cubo  di  aria  depositerebbe  584  cen- 
tigrammi  di  vapore  acqueo:  che  se  da  20  scendesse  a  15  gradi,  cotale 
deposito  sarebbe  di  centigrammi  460  e  cosi  via  via.  Ma  questa  non 
è  la  sola  causa  della  produzione,  durante  la  notte,  del  vapore  acqueo: 
ve  n'  ha  un'  altra,  ed  è  l'irradiazione  notturna  della  terra.  Anche  il 
terreno,  perdendo  calore,  produce  vapor  acqueo,  benché  in  minor 
proporzione  di  quanto  ne  producano  i  succitati  strati  atmosferici;  il 
dott.  Wells  lo  dimostrò  chiaramente  a  mezzo  di  due  fiocchi  di  lana 
di  dieci  grammi  caduno  collocati,  durante  quattro  notti  di  seguito, 
l'uno  sopra  un'asse  lunga  lm  ,50,  larga  0m,75  e  spessa  0m,02  tenuta 
con  quattro  sostegni  ad  un  metro  dal  suolo,  e  l'altro  subito  al  di- 
sotto dell'asse  istessa.  Come  si  vede  il  fiocco  di  sopra  era  solo  in 
grado  di  ricevere  il  vapor  acqueo  condensato  degli  strati  atmosferici, 
mentre  quello  di  sotto  era  esposto  all'influenza  dell'evaporazione  del 
suolo:  ora,  il  dottor  Wells  ebbe  a  constatare  ripetutamente  che  il 
vapor  acqueo  del  primo  fiocco  era  il  triplo  e  talvolta  anche  il  quin- 
tuplo di  quello   assorbito  dal  secondo. 

Oltre  alla  terra  vi  sono  pure  i  vegetali,  nelle  loro  parti  verdi,  che 
si  coprono  da  loro  stessi  di  una  certa  quantità  di  umido,  il  quale  si 
condensa  tosto  sulle  foglie  venendo  in  contatto  con  l'aria  fredda  dopo 
il  tramonto  del  sole.  Ciò  avviene  per  causa  della  traspirazione,  la 
quale  non  cessa  subitamente  col  repentino  mutarsi  della  temperatura 
dell'aria  quando  fa  notte,  ma  diminuisce  invece  grado  a  grado.  E 
naturale  che  se  l'atmosfera  è  molto  fredda  quell'umidore  assuma  lo 
stato  di  brina. 

Ma  ritornando  al  vapor  acqueo  che  può  trovarsi  in  più  nell'at- 
mosfera quando  il  sole  è  tramontato,  diremo  come,  secondo  la  teoria 


METEOROLOGIA  VITICOLA  283 

di  Wells,  esso  vada  a  depositarsi  e  condensarsi  sui  corpi  che  hanno 
la  temperatura  del  gelo;  e  si  deposita  in  tanto  maggior  copia  quanto 
più  freddo  è  il  corpo  stesso:  —  infatti  noi  possiamo  di  leggieri  per- 
suadercene osservando  che  la  brina  non  è  egualmente  intensa  sopra 
tutto  che  venga  di  notte  tempo  esposto  all'aria  libera.  Come  un  ve- 
getale possa  venir  coperto  di  brina  si  spiega  facilmente  riflettendo  che 
esso  perde  di  notte  tempo,  per  irradiazione,  il  calorico  che  ebbe  dal 
sole  durante  il  giorno  (1)  e  tende  insomma  ad  equilibrare  la  sua  tem- 
peratura con  «quella  degli  strati  superiori  atmosferici  verso  cui  va  ir- 
radiando calore  (fig.  67).  La  temperatura  del  suolo,  nonché  quella  degli 
strati  dell'atmosfera  ambiente,  può  essere  anche  superiore  allo  zero. 


Fig.  67. 

ma  ciò  non  costituendo  un  ostacolo  per  l'irradiazione  notturna,  le 
gemme  delle  viti,  ad  esempio,  possono  benissimo  gelare,  appunto  per 
aver  perduto  tanto  calore  da  scendere  sotto  lo  zero. 

Da  ciò  è  ovvio  il  dedurre  che  se  —  stando  sempre  nel  caso  nostro 
speciale  delle  viti  —  si  venisse  a  porre  un  ostacolo  qualsiasi,  come 
un  tetto,  una  larga  stuoia  di  paglia,  insomma  un  tramezzo  purchessia 
fra  le  gemme  ed  il  cielo,  esse  non  si  raffredderebbero  al  segno  da 
condensarvisi  e  congelarvisi  sopra  del  vapor  atmosferico,  vale  a  dire 
da  rimaner  brinate.  E  questo  è  tanto  vero  che  quando  il  cielo  non 
è  completamente  sereno  non  si  hanno  notti  brinatose:  le  nubi  interpo- 


(1)  A  parte  questo,  è  noto  che  il  calore  proprio  delle  piante  nel  verno  è  sem- 
pre superiore  all'atmosferico.  Ha  quindi  luogo  un'irradiazione  forte  nelle  notti 
serene   e  tranquille. 


284  CAPITOLO    VI 


nendosi  allora  fra  glispazii  plaaetarii  e  la  superfìcie  della  terra  (fig.  68) 
sono  un  potente  ostacolo  all'irradiazione,  trattenendo  il  calore  per- 
duto dalla  terra,  dalle  piante,  ecc.,  fra  esse  ed  il  suolo  stesso;  però 
notisi  anche  che  le  nubi  hanno  di  per  sé  stesse  una  temperatura  di 
molto  superiore  a  quella  del  firmamento. 


mm. 


Fig.  63. 


Acciò  possa  formarsi  la  brina  è  poi  altresì  necessario  che  non  vi 
siano,  di  notte  tempo,  dei  venti;  i  quali,  oltreché  diminuiscono  l'umi- 
dità dell'aria,  inceppano  altresì  la  suddetta  irradiazione.  Ma  si  badi 
che  parliamo  qui  di  venti,  poiché  ognuno  sa  come  nelle  notti  d'aprile 
o  di  maggio  si  formino  forti  brinate  anche  in  presenza  di  leggere 
correnti  d'aria,  le  quali  costituiscono  appunto  uno  fra  i  più  serii  o- 
stacoli  all'uso  delle  nubi  artificiali  contro  le  brine. 

Conosciute  così  le  cause  che  facilitano  la  formazione  di  questa  i- 
drometeora,  è  necessario  che  entriamo  a  discutere  sulle  osservazioni 
termometriche  che  il  viticultore  deve  sapere  fare,  per  non  essere 
colto  alla  sprovvista.  In  generale  si  commette  un  grave  errore,  ed  è 
quello  di  collocare  il  termometro  sotto  una  pianta,  oppure  appeso  al 
tronco  o  ad  un  muro  o  sulla  finestra:  ma  lo  strumento  viene  così  ad 
indicarci  un  grado  che  non  è  quello  che  noi  abbiamo  interesse  di  co- 
noscere. Noi  vogliamo  avere  la  misura  della  irradiazione,  per  cono- 
scere sino  a  qual  segno  la  terra  si  vada  raffreddando,  mentre  ci 
importa  poco  della  temperatura  dell'aria;  poiché  abbiamo  già  detto 
che  l'ambiente  può  essere  a  4,  5  e  più  gradi  sopra  lo  zero,  e  tut- 
tavia le  gemme  delle  viti  e  la  superficie  del  suolo  ricoprirsi  di  brina. 


METEOROLOGIA  VITICOLA  285 

Il  termometro  adunque  si  deve  collocare  alla  superficie  del  suolo, 
all'aria  libera,  in  guisa  che  possa  segnare  un  grado  che  sia  in  re- 
lazione colla  potenza  dell'irradiazione  notturna.  Collocando  allora  al- 
tro termometro  contro  un  muro  sarà  facile  accorgersi  che  in  certe 
notti  mentre  il  primo  segna  1-2  gradi  sotto  lo  zero,  il  secondo  può 
indicarne  4°-5°  sopra:  senza  dubbio  allora,  se  si  verificano  le  citate 
condizioni,  v'ha  formazione  di  brina. 

In  Francia  dove  le  viti  hanno  a  soffrire,  quasi  annualmente,  gravi 
danni  dalle  brine,  si  sono  costrutti  speciali  termometri  con  suoneria 
elettrica  che,  collocati  nella  vigna,  avvisano  in  tempo  utile  il  vigna- 
iuolo acciò  dia  mano  ad  accendere  quei  fuochi  che  producono  le  nubi 
artificiali.  Si  dovette  ricorrere  a  questi  congegni  perchè,  quantunque 
le  brinate  avvengano  in  un  periodo  di  giorni  abbastanza  bene  defi- 
nito, pure  spesse  volte  i  viticultori  si  trovavano  presi  così  all'improv- 
visa, che  più  non  era  loro  dato  di  porre  un  freno  alla  idrometeora 
devastatrice  (1). 

Ed  ora  che  sappiamo  come  si  formi  la  brina,  vediamo  in  qual 
modo  si  renda  cotanto  dannosa  alle  gemme  od  alle  teneri  messe 
della  vite.  Secondo  l'opinione  generale,  i  primi  raggi  del  sole  che 
si  leva,  cagionano  un  disgelo  precipitato  che  disorganizza  i  tessuti 
vegetali;  inoltre  le  goccioline  di  brina  agiscono  come  lenti  ustorie, 
di  cui  già  parlammo  a  pag.  268.  Ma  si  è  osservato  che,  anche  te- 
nendo all'ombra,  sino  dall'alba,  le  viti  brinate,  esse  soffrono  ugual- 
mente come  se  fossero  state  colpite  dai  raggi  del  sole.  Conviene 
dunque  ammettere  che  la  brina  sia  tanto  pregiudicievole  per  la 
grande  perdita  di  calore  che  i  vegetali  subiscono  allorquando  essa 
si  va  formando:  il  calore  è  vita,  e  sottrarlo  alle  cellule  vegetali  vuol 
dire  ucciderle.  Inoltre  sotto  l'influenza  di  temperature  assai  basse,  il 
succo  della  vite  abbandona  la  sua  aria  (2)  d'onde  un  disordine  nei 
tessuti.  La  morte  delle  parti  colpite  dalla  brina  e  dal  gelo  è  da  at- 
tribuirsi, secondo  l'illustre  Sachs,  al  disgelo  repentino,  il  quale  senza 
dubbio  è  più  a  temersi  del  gelo  stesso:  secondo  l'illustre  fisiologo  te- 
desco le  cellule  delie  piante  gelate  sono  in  uno  stato  particolare  che 
le  rende  molto  più  permeabili  ai  liquidi;  le  materie  albuminoidi  di 
cui  sono  tapezzate  e  la  cellulosa,  di  cui  è  formata  la  loro  membrana, 


(1)  Si  possono  avere  simili  termometri  dall'officina  Galileo  di  Firenze. 

(2)  Allorquando  l'acqua  si  congela,  essa    abbandona  V  aria  che  teneva  disciolta. 
Così  J.  Girardin. 


286  CAPITOLO    VI 


si  concretano  per  l'azione  del  freddo,  e  l'acqua  di  costituzione  se  ne 
separa:  esse  hanno  allora  una  grande  tendenza  a  vuotarsi.  La  mag- 
gior parte  perdono  questo  stato  anormale  allorquando  il  disgelo  è 
assai  lento;  ma  se  la  temperatura  si  rialza  al  punto  da  ristabilire 
il  movimento  vitale  innanzi  a  che  le  cellule  abbiano  ripreso  il  loro 
stato  normale,-  esse  si  vuotano  e  muoiono. 

La  brina  si  forma  più  facilmente  e  più  copiosa  nei  vigneti  situati 
presso  le  acque  stagnanti,  ove  l'aria  è  assai  tranquilla;  oppure  nelle 
valli  umide,  o  presso  grandi  masse  di  alberi  che  traspirano  molto 
vapor  acqueo.  La  presenza  delle  piante  erbacee  e  delle  cereali  nei 
vigneti  è  pure  una  causa  che  facilita  le  brinate;  conviene  dunque 
tenere  mondo  e  lavorato  il  vigneto:  ma  in  ciò  non  convengono 
tutti  i  viticultori,  come  diremo  più  ampiamente  al  cap.  XXVIII. 

È  invece  difficile  si  forni  la  brina  nei  vigneti  situati  in  luoghi 
elevati,  scoperti,  ove  l'aria  circola  liberamente  e  asciuga  facilmente 
il  terreno,  nonché  presso  i  grandi  corsi  d'  acqua  soggetti  al  flusso 
e  riflusso,  o  meglio  ancora  presso  al  mare,  appunto  •  perchè  quivi 
l'aria  si  può  dire  che  è  in  movimento  continuo. 

Si  sono  fatte  osservazioni  tendenti  a  pronosticare  nell'inverno  se 
la  primavera  sarà  o  non  molto  brinatosa;  stimiamo  utile  di  qui  ri- 
assumerle. Le  condizioni  meteorologiche  dei  mesi  di  gennaio  e  di 
febbraio  hanno  senza  dubbio  una  certa  influenza:  1°)  sull'andamento 
della  successiva  primavera,  nulla  essendovi  di  più  logico  che  di  applicare 
al  caso  nostro  il  detto  del  Laplace  nel  suo  «  Saggio  sulla  probabi- 
lità »,  essere  cioè  lo  stato  presente  dell'universo  l'effetto  del  suo  stato 
anteriore,  e  la  causa  di  quello  che  andrà  a  seguire;  2°)  sui  maggiori 
o  minori  pericoli  cui  può  andar  esposta  la  vegetazione  durante  le 
notti  fredde  di  aprile  o  di  maggio. 

Hanno  influenza  sull'andamento  dei  mesi  primaverili,  perchè  allor- 
quando l'inverno  trascorre  molto  nevoso,  si  hanno  —  parlandosi  special- 
mente della  nostra  Italia  del  nord  e  del  centro  —  venti  freddi  dai  monti, 
e  quindi  notevoli  abbassamenti  di  temperatura  durante  la  notte.  E 
dove  si  è  vicini  a  montagne  coperte  di  neve,  non  c'è  bisogno  di  venti 
perchè  s'abbia  nelle  notti  d'aprile  e  maggio  un  sensibile  abbassamento 
al  termometro.  Siccome  poi  per  la  molta  neve  il  suolo  assorbe  mag- 
gior copia  di  umidore,  così  avviene  che  in  seguito  ne  cede  anche 
molto  all'aria  durante  l'irradiazione  notturna:  il  suolo  infatti  si  ri- 
scalda al  sole  di  aprile  e  maggio,  ma  dopo  il  tramonto  irradia  il  ca- 
lore ricevuto  durante  il   giorno;   ora  perdendo   calore  perde  anche 


METEOROLOGIA  VITICOLA  287 

una  parte  della  sua  umidità,  ed  ecco  che  questo  vapore  acquoso  si  con- 
densa in  goccioline  a  cagione  del  raffreddarsi  dell'atmosfera,  e  spesso, 
a  contatto  di  corpi  freddi,  passa  allo  stato  di  brina,  che  —  nel  caso 
delle  viti  —  trovasi  poi  tanto  più  abbondante  quanto  più  le  gemme 
od  i  teneri  germogli  sonosi  raffreddati  di  notte  tempo.  Può  quindi 
ritenersi  che  cadendo  molta  neve  durante  gennaio  e  febbraio,  si  hanno 
facili  brinate  in  primavera,  tanto  più  quando  non  mancano  nevicate 
in  marzo.  Questa  neve  liquefacendosi,  andrà  infatti  ad  accrescere  l'u- 
midità del  terreno.  E  qui  noteremo  di  passaggio  che  i  fossi  di  scolo 
numerosi  e  ben  nettigioverebbero  a  grand'uopo  per  smaltire  più  pron- 
tamente ed  in  maggior  copia  cotale  eccesso  di  acqua;  si  sappia  quindi 
trarne  profitto. 

I  predetti  mesi  del  verno  hanno  poi  anche  una  certa  influenza  sull'entità 
del  danno  che  può  dalle  brinate  derivarne  alla  vegetazione;  infatti 
quantunque  si  vada  erroneamente  dicendo  che  la  vita  vegetale  tace 
e  riposa  in  gennaio  e  febbraio,  deve  invece  ritenersi  che  essa  prose  - 
gue,  bene  inteso  più  o  meno  attiva  a  seconda  dell'andamento  della 
stagione  j emale.  Ora,  se  le  brinate  di  primavera  trovano  una  vege- 
tazione che  abbia  già  un  certo  sviluppo,  ma  che  sia  costituita  da  tes- 
suti floscii,  poco  consistenti,  diremmo  quasi  pletorici,  recano  serii 
danni:  se  invece  quella  ha  una  costituzione  meglio  assodata,  le  con- 
seguenze sono  assai  meno  gravi. 

Poiché  parliamo  di  pronostici,  accenneremo  anche  alle  osservazioni 
fatte  sull'argomento  da  un  antico  ispettore  forestale  francese,  il  si- 
gnor Millet,  il  quale  da  lunghi  anni  si  è  dedicato  a  studii  molto  serii 
di  meteorologia  applicata.  Siccome  il  signor  Millet  gode  molta  stima 
in  seno  alla  Società  degli  Agricoltori  di  Francia,  così  ci  parve  di  dover 
prendere  atto  dei  suoi  pronostici,  per  quanto  curiosi  e,  almeno  per 
noi,  inesplicabili. 

Brevemente;  egli  aprì  una  inchiesta  in  tutta  la  Francia  per  con- 
statare se  veramente,  secondo  egli  credeva,  le  nebbie  che  si  produ- 
cono in  marzo  sono  generalmente  seguite  da  brine  alle  date  corrispon- 
denti di  maggio.  A  quanto  pare  sarebbe  riuscito  ne'  suoi  intenti,  e  solo 
notò  che  le  date  non  possono  ritenersi  come  assolute,  poiché  in  qual- 
che località  e  per  eccezione  le  brinate  ebbero  luogo  un  giorno  prima 
od  un  giorno  dopo,  e  che  se  vi  fu  qualche  previsione  sbagliata  di 
pianta,  dipese  da  ciò  che  si  designarono  col  nome  di  nebbie  gli  ac- 
cumulamenti di  vapor  acqueo  che  spesso  osservansi  presso  i  corsi 
d'acqua  o  nelle  vallate. 


288  CAPITOLO    VI 


Sin  qui  abbiamo  parlato  più  propriamente  delle  brine  primaverili: 
vediamo  ora  quanto  si  riferisce  alle  brine  autunnali.  La  loro  for- 
mazione è  determinata  e  favorita  dalle  stesse  cause,  ma  i  loro  ef- 
fetti sulla  vite  sono  ben  differenti.  —  Esse  colgono  le  uve  per  così  dire 
alla  vigilia  della  vendemmia  e  non  recano  loro  verun  nocumento; 
anzi  ne  favoriscono  vieppiù  la  maturazione.  In  alcune  regioni  viticole 
dell'Italia  superiore  i  viticultori  desiderano  infatti  che  le  brinate  col- 
gano le  uve  prima  della  vendemmia,  perchè  allora  il  vino  risulta  più 
amabile  e  più  generoso,  siccome  essi  asseriscono. 

Già  Columella  aveva  scritto  che  «  l'uva  si  addolcisce  col  gelo 
e  colle  brine  »,  onde  è  antichissima  questa  credenza  fra  i  coltivatori. 
Ma  anche  gli  studiosi  sono  oggidì  dello  stesso  avviso,  perchè  le  a- 
nalisi  comparative  fra  uve  brinate  e  uve  non  brinate  hanno  accusato 
per  le  prime  una  maggiore  ricchezza  in  principio  dolce.  Il  Prof.  Gae- 
tano Cantoni  nelle  sue  Conferenze  sul  vino  (pag.  23)  dice  che  una 
temperatura  la  quale  anche  per  poco  si  abbassi  sotto  lo  0°,  basta 
ad  indurre,  per  un  diverso  processo,  la  trasformazione  dell'amido 
e  della  fecola  in  destrina  e  glucosio.  Ecco  la  media  di  tre  prove  in 
proposito: 

Glucosio 
Mosto  d'uva  non  gelata      .         .         .         12.70  per  cento 
»  gelata      .         .         .         14.12         » 

Alcool 
Vino  d'uva  non  gelata        .         .         .         11.68  per  cento 
»  gelata        .         .         .         12.03         » 

Lo  stesso  fenomeno  avviene  esponendo  al  gelo  delle  pere,  dei  pomi 
di  terra  ed  altri  frutti  consimili:  all'azione  del  gelo  la  loro  polpa 
interna  perde  in  totalità  od  in  parte  la  proprietà  di  farsi  violetta  col- 
l'iodio,  ed  acquista  un  sapore  dolciastro,  maggiore  anche  di  quello 
che  aveva  prima.  La  pratica  di  esporre  alle  brine  i  graticci  sui  quali 
sta  l'uva  destinata  a  fare  il  così  detto  vin  santo,  è  una  applicazione 
del  suesposto  principio. 

Accurate  esperienze  su  questo  soggetto  furono  fatte  dal  Dr. 
A.  Carpenè  e  dal  suo  allievo  Dr.  TI,  Benettì  a  Conegliano.  In  un 
vigneto  della  Società  Enotecnica  Trivigiana  si  segnarono  parecchie 
viti  di  Raboso,  tutte  in  vicinanza  Y  una  all'  altra  e  fra  quelle  che 
avevano  l'uva  maturata  più  uniformemente  ed  i  grappoli  più  regolari. 
Alla  vigilia  della  vendemmia,  verso  il  22  d'ottobre,  quando  l'uva  era 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


289 


considerata  matura,  si  staccarono  alcuni  tralci  con  le  rispettive  foglie 
e  grappoli,  in  modo  da  permettere  all'uva  di  continuare  per  qualche 
po'  di  tempo  ancora  le  sue  funzioni  fisiologiche,  sebbene  separata 
dalla  vite.  Tolti  alcuni  grappoli  dal  tralcio  con  tutte  le  cautele, 
perchè  questi  presentassero  la  stessa  uniformità  di  maturazione  di 
quelli  che  rimasero  sul  tralcetto,  si  pigiarono  con  torchio  a  mano; 
con  la  maggiore  diligenza  si  determinò  del  mosto  il  quantitativo  di 
glucosio  e  l'acidità  complessiva. 

I  grappoli  rimasti  sul  tralcetto,  aventi  maturità  uguale  agli  altri 
pigiati,  si  immersero  in  un  recipiente  che  a  sua  volta  stava  circon- 
dato da  una  miscela  frigorifera.  D'intorno  al  grappolo  si  mantenne 
per  6  ore  una  temperatura  media  di  gradi  6  sotto  lo  zero  e  il  re- 
cipiente si  riempì  di  vapor  acqueo  fino  a  che  tutti  i  grappoli  si  co- 
persero d'un  velo  d'acqua  gelata  rassomigliante  alla  brina. 

Dopo  6  ore  si  tolsero  dall'azione  della  bassa  temperatura;  i  grap- 
poli vennero  asciugati  diligentemente  esponendoli  per  poco  ad  una 
atmosfera  d'  aria  secca  e  calda.  Essi  si  mantennero  intatti;  le  buc- 
cie,  essendo  resistenti,  non  subirono  lesione  alcuna.  Gli  acini  erano 
morbidi  e  si  staccavano  più  facilmente  dal  pedicello.  Pigiati  ugual- 
mente agli  altri  simili  non  sottoposti  all'  azione  del  freddo,  diedero 
un  mosto  più  carico  di  colore,  che  lasciò  depositare  con  somma 
prestezza,  a  differenza  del  mosto  d'uva  non  agghiacciata,  abbondanti 
cristallini  di  tartrato  di  calcio.  Ecco  i  risultati  dell'analisi: 


Glicosio  per  100  (col  reattivo 
di  Fehling) 

Acidità  per  1000  (coll'acqua  di 
calce)      

Glicosio  per  100  (col  reattivo 
di  Fehling) 

Acidità  per  1000  (coll'acqua  di 
calce) 

Glicosio  per  100  (col  reattivo 
di  Fehling) 

Acidità  per  1000  (coll'acqua  di 
calce)      


Uva 

Uva 

non 

agghiacc. 

agghiacc. 
la  prova 

12,230 

13,870 

16,800 

15,900 

12,850 

14,100 

17,850 

16,320 

12,960 

14,600 

17,930 

Uva 

agghiacc. 
2a  prova 

13,960 
15,580 

13,850 
15,660 

14,520 
17,150 


O,  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura 


20 


290 


CAPITOLO    VI 


Gli  esperimentatori  dubitando  che  la  differenza  potesse  dipendere 
da  ineguaglianza  di  maturazione  dei  grappoli,  quantunque  i  tre  saggi 
fatti  fossero  concordi,  eseguirono  un  secondo  esperimento. 

Presero  chilogr.  10  di  uva  ben  scelta  ed  uniforme  nella  matura- 
zione. Metà  di  quest'uva  la  collocarono  in  un  mezzo  frigorifero  e  la 
sottoposero  per  12  ore  ad  una  temperatura  media  di  gradi  5  sotto 
zero. 

Pigiarono  in  seguito  nello  stesso  grado  e  condizioni,  ma  sepa- 
ratamente, le  due  partitelle  d'uva;  i  due  mosti,  senza  graspi  e  buccie, 
dopo  analizzati  li  collocarono  in  due  recipienti,  la  cui  bocca  si 
chiuse  con  apparecchio  di  sicurezza.  Ecco  l'analisi  dei  due  mosti: 


Mosto  d'uva  non  agghiacciata 
Mosto  d'uva  agghiacciata    .     . 


G  licosio 

p.  100 

col  reattivo 

Fehling 

Acidità 

p.  1000 

con   F  acqua 

di  calce 

13,860 
15,500 

18.020 
16.660 

Il  sapore  dei  due  mosti  non  offriva  differenze  marcate,  soltanto 
il  colorito  era  più  carico  nel  mosto  d'uva  sottoposta  al  freddo. 

Si  abbandonarono  i  due  mosti  alla  fermentazione,  che  si  completò 
in  12  giorni  circa  sotto  una  temperatura  di  gradi  12  a  16  cent. 
La  fermentazione  proseguì  ugualmente  regolare  in  ambedue  i  mosti. 
Dopo  sei  giorni  di  riposo,  i  vini  si  fecero  sufficientemente  limpidi  e 
vennero  assaggiati.  Nel  sapore  e  nel  profumo  dei  due  vini  non  si 
marcarono  differenze,  soltanto  si  sentiva  meno  austero  e  più  ama- 
bile quello  d'uva  agghiacciata,  il  quale  era  anche  un  po'  più  carico 
di  colore.  Ecco  l'analisi  dei  due  vini: 


Alcool 

per  100  in 

volume 

Acidità 

complessiva 

per  litro 

Glicosio 
indecomposto 

Vino    d'  uva    non    agghiac- 
ciata   

Vino  d'uva  agghiacciata  .     . 

9.500 
10.600 

15.910 
15.300 

traccie 

traccie  appe- 
na sensibili 

METEOROLOGIA  VITICOLA  291 

La  conclusione  dei  signori  Carpenè  e  Benetti  fu  questa:  V  uva, 
per  Vozione  delle  brine  e  del  gelo,  s  arricchisce  in  materia  zuc- 
cherina e  si  spoglia  leggermente  della  sua  acidità. 

Al  capitolo  XXVIII  studieremo  poi  i  varii  modi  di  impedire  la  for- 
mazione delle  brine  e  di  ovviare  ai  loro  danni:  qui  dobbiamo  limi- 
tarci a  pure  considerazioni  meteorologiche. 

§  7.  Il  gelo,  la  neve,  la  nebbia,  la  rugiada  e  le  viti.  — 

Il  gelo  invernale  può  arrecare  gravi  danni  alla  vite;  è  però  vero 
che  questa  pianta  sopporta  anche  temperature  assai  basse,  ed  in 
speciali  circostanze  non  perisce  neppure  se  il  termometro  scende  a 
20°  sotto  lo  zero.  Ma  a  bello  studio  diciamo  in  speciali  circostanze, 
perchè  talvolta  anche  a  freddi  meno  intensi  le  ceppaie  muoiono;  ciò 
accade  nelle  pianure,  ove  infatti  si  ha  f  abitudine  di  sotterrare  le 
viti  nell'inverno.  La  ragione  di  ciò  può  trovarsi  nel  fatto  che  ivi  i 
tessuti  delle  viti  sono  più  ricchi  di  succhi,  ed  il  disgelo  repentino 
è  assai  più  funesto. 

Dalle  numerose  osservazioni  e  notizie  da  noi  raccolte  nel  1880, 
dopo  quel  rigidissimo  inverno,  ci  risultò  che  soffrono  meno  le  viti 
dei  colli  che  non  quelle  delle  pianure;  a  Stradella  i  vigneti  della 
pianura  avevano  sofferto  a  —  12°,  mentre  quelli  del  colle  avevano  re- 
sistito a  —  15°;  inoltre  soffrono  molto  le  ceppaie  vecchie,  in  vigneti 
a  tramontana,  male  tenuti  ed  in  terreni  leggieri  nei  quali  possono  pe- 
rire anche  giovani  piante.  Vi  sono  poi  talune  varietà  che  resistono 
meglio  delle  altre,  ed  in  generale  può  ritenersi  che  i  vitigni  del  Nord 
(Germania,  Austria  Sett.)  resistono  meglio  di  quelli  del  Sud  (Italia, 
Francia  ecc.)  alle  basse  temperature,  la  qual  cosa  è  utile  a  sapersi 
per  chi  possiede  vigneti  in   pianure  soggette  a  forti  geli. 

Il  gelo  può  danneggiare  le  sole  gemme  senza  uccidere  la  pianta. 
Le  gemme  morte  si  riconoscono  dal  loro  pronto  distaccarsi  e  cadere 
non  appena  si  toccano  col  dito;  tagliando  poi  una  piccola  porzione 
dei  serbatoi  su  cui  esse  stanno,  non  si  vede  il  colore  verde  che 
caratterizza  i  bottoni  sani;  —  collo  stesso  mezzo  si  può  ricono- 
scere se,  oltre  agli  occhi,  hanno  sofferto  anche  i  sott'  occhi.  Se  il 
gelo  sopraggiunge  dopo  un  tempo  umido,  le  gemme  possono  rima- 
nere come  ricoperte  da  uno  strato  di  ghiaccio,  massime  nelle  basse 
piane;  allora  è  diffìcile  non  periscano. 

Il  gelo  può  far  perire  i  soli  tralci  pur  rispettando  le  ceppaie:  essi 
allora  appariscono  come   bruciati  o  arsicci,    e  le  loro   gemme  sono 


292  CAPITOLO    VI 


tutte  quante    male  aderenti;  nel    1880  abbiamo    avuto   occasione  di 
esaminare  molti  di  questi  casi. 

Infine  quando  il  gelo  è  molto  intenso  e  di  lunga  durata,  penetra 
le  parti  legnose  e  vecchie  della  vite,  e  l'intera  pianta  può  perire, 
venendo  allora  a  gelare  anche  le  radici. 

Si  narra  di  freddi  intensissimi  avvenuti  in  Italia  nel  1608,  che 
fecero  perire  viti  e  olivi;  si  narra  pure  dei  danni  gravi  arrecati  dal 
gelo  nel  1829.  Questi  freddi  intensi  si  verificano  sempre  nel  mese 
di  Gennaio  che  in  Italia,  eccezione  fatta  per  la  Sicilia  (ove  esso  è 
quasi  simile  al  Febbraio)  è  il  mese  più  freddo  dell'anno.  Neil' Italia 
Centrale,  ed  eziandio  nella  Meridionale,  sensibili  abbassamenti  di 
temperatura  sotto  lo  zero  sono  pure  possibili,  benché  non  nella  stessa 
misura  dell'  Italia  superiore;  ecco  le  minime  assolute  occorse  dal- 
l'anno 1865  al  1870. 

Italia  settentrionale  —  17,°  7  (Alessandria,  12  gennaio  1868). 
»      centrale  —  10,°  8  (Urbino,  23  gennaio  1869). 

»      meridionale      —  12,°  8  (Camerino,  23  gennaio  1869). 

Al  capitolo  XXVIII  tratteremo  del  sotterramento  delle  viti  per 
evitarne  il  gelo,  siccome  praticasi  in  varie  regioni  d' Italia  e  d' altri 
paesi  vitiferi. 

La  neve  non  esercita  veruna  marcata  influenza  sulla  pianta  della 
vite,  e  solo  può  nuocere  quando  liquefacendosi  prontamente  la  poca 
quantità  rimasta  sui  rami,  li  inumidisce:  quest'umido  congelandosi  du- 
rante la  notte,  può  danneggiare  le  gemme.  Ma  un  po'  di  vento  che  agiti 
i  tralci,  impedisce  quasi  sempre  la  formazione  di  questi  piccoli  strati 
di  ghiaccio.  Del  resto  una  neve  copiosissima  che  copra  totalmente 
le  viti  basse  nelle  pianure  e  rimanga  non  squagliata  dalle  piogge, 
agisce  quale  efficace  copertura  di  terra.  D'altra  parte  la  neve  reca 
nel  terreno  sali  ammoniacali  e  nitrati:  Boussingaitlt  trovò  4  milli- 
grammi di  acido  nitrico  per  litro  d'acqua  di  neve,  e  Marié-Davy 
da  1  a  6  milligrammi  di  ammoniaca.  Anche  i  signori  Barrai  e 
Bence  Jones  trovarono  acido  nitrico  nelle  nevi,  ed  oramai  non  vi 
ha  più  dubbio  che  questa  idrometeora  contiene  più  ammoniaca  e 
più  acido  nitrico  che  non  la  pioggia,  anche  perchè  condensa,  come 
refrigerante,  certe  sostanze  volatili  (carbonato  ammonico)  che  ema- 
nano dal  suolo.  Però,  se  alla  neve  segue  la  pioggia,  il  terreno  si 
inzuppa  d'acqua,  che  può  nuocere  molto  alle  viti  ove  non  abbia  un 
pronto  scolo:  il  danno  sarà  anche  più  grave  in  caso  di  gelo  e  di- 
sgelo repentino. 


METEOROLOGIA  VITICOLA  293 

La  nebbia  può  arrecare  danni  gravissimi  alle  viti;  ciò  accade 
quando  le  coglie  al  momento  della  fioritura.  Il  freddo  umido  da  cui 
vengono  ad  essere  allora  circondati  i  fiori  può  farli  abortire;  lo 
stesso  accade  quando  la  nebbia  si  dirada  d'  un  tratto  ed  un  sole 
cocente  viene  a  colpire  co'  suoi  raggi  le  infiorescenze  :  lo  sbalzo 
di  temperatura  che  ne  segue  è  dannosissimo  ai  fiori,  che  pronta- 
mente cadono  come  essicati.  Molti  viticoltori  attribuiscono  alle  nebbie 
lo  sviluppo  di  talune  crittogame  che  infestano  la  vite,  ma  ciò  è  vero 
soltanto  sino  ad  un  certo  punto  :  Y oidio,  ad  esempio,  si  sviluppa 
prontamente  se  l'atmosfera  oltre  ad  essere  calda  è  eziandio  alquanto 
umida,  ed  ecco  come  dopo  una  nebbia  può  vedersi  la  malattia  in- 
fierire con  maggiore  energia.  Può  dirsi  lo  stesso  della  peronospora. 
In  un  vigneto  sano  però  la  nebbia  non  può  mai  essere  la  causa 
prima  dello  sviluppo  di  crittogame;  essa  anzi  può  essere  giovevole 
nel  senso  che  riesce  giovevole  la  rugiada. 

La  rugiada  infatti,  per  quanto  rappresenti  solo  una  tenue  quan- 
tità d'acqua  (1),  esercita  pure  una  salutare  influenza  sulle  parti  verdi 
della  vite,  specialmente  allorquando  queste  sono  esposte  a  forti  sic- 
cità: non  tutti  ammettono  che  le  foglie  possano  approfittare  diret- 
tamente dell'  acqua  che  si  depone  sovra  di  esse;  ma  noi  abbiamo 
provato  varie  volte,  durante  le  arsure  dell'  agosto,  a  spruzzare  di- 
rettamente acqua  sul  fogliame  delle  viti  che  si  mostravano  come 
sofferenti  per  difetto  d'  umido,  e  in  breve  d' ora  le  abbiamo  sempre 
viste  farsi  più  rigogliose  quasi  si  fossero  dissetate.  Conviene  inoltre 
tenere  calcolo  della  rugiada  che  si  forma  sul  suolo  stesso,  e  che  si 
cangia  poi  in  acqua  utile  alle  radici,  anche  per  le  sostanze  nutrienti 
che  tiene  in  dissoluzione.  Certo  però  non  si  deve  esagerare  la  in- 
fluenza della  rugiada  tanto  sulle  viti  quanto  sulle  altre  piante. 

§  8.  I  venti  e  la  vite.  —  Chaptal,  studiando  l'influenza  dei 
venti  sulla  vite,  concludeva  col  dirli  costantemente  nocivi:  «  essi  dis- 
seccano i  fusti,  le  uve  ed  il  suolo;  essi  producono,  sovratutto  nelle 
terre  forti,  uno  strato  duro  e  compatto  che  si  oppone  al  libero  pas- 
saggio dell'aria  e  dell'acqua,  e  mantiene  con  ciò,  attorno  alla  radice, 
una  umidità  putrida  che  tende  a  corromperla  »  (L'art  de  faire  le 
vin,  41).  Ciò  è  vero  solo  nel   caso  di   venti   continui,  come  è  pure 


(1)  Racldi  e  Nacca  trovarono,  pel   clima  di  Firenze,   che  87  rugiade  formatesi 
in  media  nell'anno,  corrispondevano  a  poco  più  di  6  millimetri  d'acqua  in  media. 


294  CAPITOLO    VI 


vero  che  là  dove  soffiano  venti  impetuosi  a  primavera,  è  quasi  im- 
possibile coltivare  la  vigna,  le  cui  cacciate  sono  facilmente  spezzate: 
in  questo  caso  conviene  proteggere  i  vigneti  con  opportuni  pianta- 
menti  di  alberi,  come  pini  e  simili,  ed  è  quanto  si  fa  in  alcuni 
paesi. 

Non  sapremmo  tuttavia  disconoscere  che  i  venti  moderati  possono 
giovare  alle  viti  in  vario  modo:  anzitutto  abbiamo  già  detto  che  se 
l'aria  è  agitata  è  impossibile  la  formazione  della  brina,  e  questo  è 
già  un  notevole  vantaggio  indiretto;  inoltre  il  vento  agitando  i  tralci 
inumiditi  dalle  pioggie  o  dalle  nebbie,  li  asciuga  prontamente  ed  il  gelo 
e  disgelo  sono  allora  quasi  innocui  del  tutto:  questo  stesso  movimento 
dei  tralci  li  fortifica,  siccome  ammetteva  Gasparin  (1):  i  venti  in- 
fine facilitano  rincrociamento  del  polline,  come  dicevamo  a  pag.  191. 

Tuttavia  i  venti  possono  portare  abbassamenti  di  temperatura  sfa- 
vorevoli alla  fioritura  normale  delle  viti,  (v.  pag.  44);  ed  inoltre 
sono  spesso  veicolo  di  insetti  e  crittogame;  così  il  valente  micro- 
grafo A.  F.  Negri  ritiene,  per  accurate  osservazioni,  che  il  vento 
di  sud-ovest  sia  quello  che  dissemina  la  peronospora  nel  Basso  Mon- 
ferrato, su  di  che  diremo  meglio  studiando  questo  fungo  microsco- 
pico. 

I  venti  infine  possono  portare  seco  loro  principii  deleterii  per  la 
vite:  quelli  così  detti  salati  vengono  dal  mare  e  portano  cloruro  di 
sodio  (sale),  cloruro  di  potassio,  magnesia,  ecc.  come  dice  Liebig 
nella  sua  Chimica  organica,  danneggiando  spesso  le  viti  in  primavera, 
perchè  abbruciano  le  giovani  cacciate  o  danneggiano  la  fioritura.  Il 
sig.  De  Las  Cases  (2)  accenna  ad  un  vento  africano  caldissimo  e 
come  carico  di  sabbia  finissima,  che  addì  22  agosto  1815  distrusse 
completamente  il  raccolto  dell'uva  a  Madera:  aveva  però  durato 
circa  due  giorni   consecutivi. 

Questi  fatti  possono  spiegare  forse  sino  ad  un  certo  punto  l' opi- 
nione dei  pratici,  i  quali  attribuiscono  taluni  malanni  che  incolgono 
subitamente  le  viti,  ai  «  colpi  di  vento  ». 

§  9.  Latitudine,  altitudine  ed  esposizione.  —  Abbiamo  già 
accennato,  alle  pag.  28  e  39,  all'influenza  della  latitudine,  dell'altitu- 


(1)  Cours  (VAyriculture,  torn.  second,  192.  La  stessa  canapa  coltivata  in  luoghi 
ventosi  <Jà  una  fibra  più  grossolana. 

(2)  Mémorial  de  Sainte-Hélène. 


METEOROLOGIA  VITICOLA  295 

dine,  dell'esposizione,  ecc.  sui  limiti  della  stazione  della  vite:  ora  vo- 
gliamo esaminare  cotale  influenza  relativamente  alla  durata  del  periodo 
vegetativo,  dalla  fioritura  alla  maturità  dell'  uva.  Già  sappiamo  che 
la  zona  della  vite  si  estende  in  Europa  fra  il  30°  ed  il  50°  di  la- 
titudine settentrionale;  sarebbe  però  un  errore  di  credere  che  do- 
vunque, in  questa  zona,  possa  coltivarsi  la  vite;  sono  troppe  le  cause 
che,  a  parte  la  latitudine,  modificano  il  clima  d'una  data  località,  e 
già  ne  enumerammo  parecchie  a  pag.  39  e  41,  ond'è  che  il  viticul- 
tore  quando  voglia  studiare  se  un  dato  locale  sia  più  o  meno  adat- 
tato all'impianto  d'un  vigneto,  deve  esaminarne  colla  latitudine  e  l'al- 
titudine, eziandio  l'esposizione,  l'inclinazione,  la  vicinanza  delle  acque, 
la  vicinanza  delle  masse  di  alberi,  le  pioggie,  i  venti  dominanti,  e  via 
via:  rimandiamo  intanto  il  lettore  alle  accennate  pagine,  non  volendo 
qui  ripetere  il  già  detto. 

U  altitudine  influisce  notevolmente  sulla  maturità  delle  uve,  ed 
anche  a  latitudini  uguali  le  differenze  sul  periodo  di  vegetazione  e 
fruttificazione  della  vite  possono  essere  ragguardevoli:  citeremo  un 
esempio:  —  il  piano  di  Renda  trovasi  a  soli  15  chilometri  (in  pla- 
nimetria) dalla  piana  di  Palermo;  però  mentre  quest'  ultima  sta  fra 
i  15  ed  i  25  metri  sul  livello  del  mare,  Renda  invece  è  collocato  a 
550  metri  circa;  or  bene,  basta  questa  differenza  di  altitudine  perchè 
il  clima  della  Conca  d'Oro  e  delle  terre  dell'Agro  Palermitano  poste 
a  pochi  metri  sul  livello  del  mare  differisca  notevolmente  dalle  terre 
elevate,  anche  a  pochi  chilometri  di  distanza.  E  così  a  Palermo  verso 
la  metà  dell'agosto  1880  si  stava  vendemmiando  lo  zibibbo  (che  è  di 
natura  precoce)  mentre  al  piano  di  Renda  la  maturità  era  in  ritardo 
di  due  mesi  circa:  il  Dott.  Macagno  parlò  coi  coloni  di  Renda,  e  tutti 
gli  attestarono  che  ivi  la  vendemmia  non  si  può  mai  fare  prima  del 
15  ottobre,  e  che  d'altra  parte  tanto  lo  zibibbo  quanto  gli  altri  vi- 
tigni siciliani  colà  non  arrivano  mai  a  maturanza  completa.  In  simili 
regioni  conviene  introdurre  vitigni  precoci  del  settentrione.  —  Ver- 
g  nette -Lamotte  (1)  studiando  l'influenza  dell'altitudine  sui  vini  della 
Borgogna  trovò  che  i  migliori  si  producono  fra  15  e  78  metri  sul 
livello  della  pianura;  più  in  basso  si  raccolgono  vini  meno  delicati 
e  più  deboli;  più  in  alto  vini  duri,  aspri  e  da  collocarsi  fra  quelli  di 
seconda  e  terza  qualità.  Ciò  può  spiegarsi  riflettendo  che  nelle  parti 
basse  il  terreno  è  sempre  più  fertile   e  più    ricco  di    acqua  (prove- 


(1)  Conyrès  des  vignerons  de  Dijon  pag.  342, 


296  CAPITOLO    VI 


niente  dalla  parte  alta),  quindi  il  vino  riesce  più  acquoso  laddove 
nelle  parti  molto  elevate  vi  ha  relativamente  deficienza  di  calore 
solare,  d'onde  vini  più  ricchi  di  acidi. 

U esposizione  esercita  essa  pure  una  certa  influenza  sulla  fioritura 
e  la  fruttificazione  della  vite:  si  ritiene  in  generale  che  la  migliore  sia 
quella  di  Sud,  e  poscia  rispettivamente  quelle  di  Ovest,  d'Est  e  di  Nord. 
Però  non  si  deve  ritenere  ciò  come  assoluto,  perchè  vi  sono  parecchie 
cause  che  possono  modificare  sensibilmente  la  influenza  della  espo- 
sizione. Già  nelle  Geoponiche  greche  si  consigliava  di  scegliere  pei 
vigneti  1'  esposizione  nord  nei  climi  caldi,  e  quella  sud  nei  climi 
freddi;  e  certamente  là  dove  il  calore  è  tale  che  le  viti  soffrono  per 
il  soverchio  ardore  dei  raggi  solari  è  a  preferirsi  l'esposizione  di 
nord  come  accennano  anche  il  conte  Odart  (nel  suo  Manuel  du 
Vigneron)  e  assai  prima  ancora  Olivier  de  Serres  e  Columella  che 
ben  conoscevano  l' influenza  del  clima  meridionale.  Odart  ritiene 
pure  che  1'  esposizione  nord  è  di  poco  inferiore  alle  altre  ogni 
qualvolta  il  suo  angolo  d'inclinazione  non  oltrepassa  20°;  infatti  più 
quest'angolo  si  avvicina  all'angolo  retto  e  più  il  terreno  può  riscal- 
darsi sotto  l'azione  del  sole,  come  già  accennammo  a  pag.  42.  Tutti 
poi  sanno  che  vi  sono  vigneti  rinomati  sia  all'esposizione  nord  che 
aìVest  ed  aWovest,  ond'è  che  alcuni  autorevoli  scrittori  attribuiscono 
all'esposizione  stessa  una  mediocre  importanza;  Enrico  Marès,  distin- 
tissimo agronomo  francese,  sostiene  con  validi  argomenti  che  cotale 
influenza  è  ben  minore  di  quella  del  terreno  e  della  situazione  (1),  e 
noi  pensiamo  che  sino  ad  un  certo  punto  egli  abbia  ragione.  Infatti 
anche  le  pianure,  se  sono  abbastanza  elevate  per  non  essere  sog- 
gette alle  acque  stagnanti,  producono  vini  squisiti  purché  il  terreno 
lo  permetta. 

U inclinazione  ed  in  genere  la  situazione  influiscono  molto  sulla 
produzione  della  vite:  già  Virgilio  disse  che  Bacchus  amai  colles, 
cioè  i  dolci  declivii  e  le  colline  ove  T  aria  circola  liberamente  ed  i 
raggi  solari  giungono  efficacissimi;  i  luoghi  troppo  elevati  e  ripidi 
non  sono  però  troppo  confacenti  alla  vite,  in  generale  perchè  so- 
verchiamente esposti  ai  venti  e  ad  un'  aria  sempre  troppo  cruda. 

Abbiamo  già  detto  che  una  pianura  elevata  e  da  cui  le  acque  ab- 
biano facile  e  pronto  scolo  è  assai  adattata  alla  vite.  Riguardo  alla 
temperatura  anche   una    piccola  prominenza    può  influire    favorevol- 


(1)  Des  vignes  du  midi  de  la  Franco  p.  278. 


METEOROLOGIA  VITICOLA  297 

mente  sul  prodotto  della  vite;  infatti  un  osservatore  inglese,  il  signor 
Danieli,  studiando  la  differenza  di  temperatura  fra  una  valle  ed  un 
leggero  promontorio,  trovò  sensibili  differenze,  le  quali  durante  la 
notte  raggiungevano  varii  gradi. 

In  queste  situazioni  leggermente  elevate  e  che  si  potrebbero  dire 
esposte  contemporaneamente  ai  quattro  punti  cardinali,  la  vite  sbuccia, 
fiorisce  e  fruttifica  regolarmente;  invece  nei  luoghi  troppo  bassi  è 
soggetta  alle  brine  primaverili,  al  gelo  ed  al  soverchio  umido.  In- 
fine le  viti  dei  pendìi  danno  uve  più  ricche  di  principio  dolce,  come 
già  avvertivamo  a  pag.  42. 

§  10.  Linee  isotermiche  e  punti  climenologici.  —  Quanto 
dicemmo  a  pag.  34  sulle  isotermiche  nei  loro  rapporti  colla  stazione 
della  vite,  si  attaglia  pure  alla  vegetazione  della  vite  stessa,  ed  alla 
maturazione  dell'uva;  ripeteremo  che  le  località  tagliate  da  isochi- 
mene  di  circa  4°  a  8°  e  da  isotere  di  20°  a  25°  sono  le  più  adatte 
per  la  produzione  di  uva  zuccherina,  date  però  una  altitudine  ed 
una  situazione  favorevoli,  secondo  quanto  dicemmo  or'ora.  Come  si 
vede  tutto  si  collega;  ed  errerebbe  a  partito  chi  volesse  dettare 
massime  assolute  riguardo  a  ciascuno  dei  numerosi  fattori  che  concor- 
rono alla  regolare  vegetazione  e  dalla  buona  fruttificazione  della  vite. 
Ci  rimane  ora  a  parlare  dei  punti  climenologici.  Il  compianto 
Dr.  Giulio  Guyot  (1)  studiando  nei  vigneti  francesi  la  influenza  del- 
l'altitudine e  della  latitudine,  riconobbe  che  60  metri  d'altezza  sul 
livello  del  mare  compensavano  un  grado  di  latitudine  verso  nord,  e 
questo  più  precisamente  fra  il  41°  ed  il  50°;  in  altri  termini,  la  latitu- 
dine di  ogni  luogo,  espressa  in  minuti,  a  partire  dal  41°  preso  come 
zero,  aggiunta  all'  altitudine  espressa  in  metri,  dà  numeri  paragonabili 
ed  abbastanza  vicini  al  vero  per  stabilire  i  rapporti  climatologici  fra 
i  diversi  vigneti  e  per  determinare  i  differenti  vitigni  più  o  meno 
precoci  che  possona  coltivarvisi.  Ma,  soggiunge  giustamente  il  Dr. 
Guyot,  colla  condizione  espressa  che  si  tenga  calcolo  di  tutti  gli  altri 
elementi  del  clima,  cioè  esposizione,  inclinazione,  ripari,  natura  del 
suolo,  vicinanza  delle  acque,  ecc.  Il  Dottor    G.    B.    Belletti  (2)   ri- 


fi)  Ètude  des  vignobles  de  France,  2a  edizione  1876,  Tomo  III,  pag.  595. 

(2)  Il  Belletti  è  il  simpatico  e  valente  scrittore  del  Nane  Castaldo,  prezioso 
libro  popolare  di  viticultura.  —  Veggasi  la  3a  edizione,  pag-,  243  e  seguenti.  (Feti 
tre  1884.) 


298  CAPITOLO    VI 


chiamò  pel  primo  l'attenzione  dei  viticultori  italiani  su  queste  osserva- 
zioni del  Dr.  Guyot  e  denominò  punti  climenologici  quelli  appunto 
che  esprimono  l'influenza  combinata  della  latitudine  coll'altitudine:  il 
Prof.  G.  Caruso  (1)  rilevando  però  che  questi  punti  non  esprimono 
esattamente  il  clima  locale,  crede  che  in  loro  vece  potrebbero  con- 
sultarsi le  linee  isotermiche,  isochimeniche  ed  isoteriche,  di  cui  ab- 
biamo parlato  a  lungo  a  pag.  34.  Ma  a  noi  pare  che  neanche  il  semplice 
esame  delle  isotermiche  potrebbe  consigliarsi,  perchè  non  si  terrebbe 
calcolo  di  fattori  importantissimi,  quali  la  natura  del  suolo  ed  il  suo 
stato.  Perciò  bene  osserva  il  Dr.  Guyot,  che  il  viticultore  il  quale  voglia 
impiantare  un  vigneto  in  una  determinata  località,  prima  di  scegliere 
i  vitigni  più  o  meno  precoci  e  più  o  meno  confacienti,  deve  anzi- 
tutto determinare  i  punti  climenologici  e  poscia  tener  calcolo  degli 
altri  fattori  (esposizione,  inclinazione,  terreno,  ecc.,  ecc.)  cosa  che 
gli  riescirà  abbastanza  facile;  questo  precetto  è  senza  dubbio  saggio, 
e  può  giovare  molto  al  viticultore. 

Ma  veniamo  a  qualche  applicazione  ai  vigneti  italiani. 

«  Potrebbe  essere  interessante,  dice  il  Dr.  Belletti,  conoscere  i 
punti  climenologici  dei  paesi  da  cui  ci  vengono  i  vini  più  celebri 
del  mondo,  come  eziandio  potrebbe  essere  utile  rilevare  che  certe 
località,  quantunque  poste  in  punti  climenologici  molto  elevati,  pure 
producono  vini  eccellenti.  Ma  l'utilità  maggiore  l'otterremo  quando 
avremo  il  mezzo  di  sapere  a  quali  paesi  italiani  corrispondano  questi 
medesimi  punti  climenologici;  in  allora  chi  sa  che  molti  vignaiuoli  di 
quei  luoghi,  incoraggiati  da  un  tale  confronto,  mirino  a  risultati  ben 
più  felici  di  quelli  ottenuti  fin  qui. 

Per  esempio,  vari  luoghi  della  provincia  di  Treviso  si  avvicinano 
coi  loro  punti  climenologici  a  quelli  della  Gironda  (Bordeaux) 
ed  i  paesi  a  vini  famosi,  come  il  Borgogna,  il  Reno  e  lo  Sciampagna, 
hanno  i  loro  punti  climenologici,  chi  lo  crederebbe?  compresi  fra  il 
500  ed  il  700  come  lo  sono  appunto  quelli  della  maggior  parte  dei 
nostri  paesi  viticoli  posti  nelle  vallate  alpine. 

Tali  riflessi  mi  determinarono  a  segnare  le  prime  traccie  (quan- 
tunque incomplete  e  non  esatte  quanto  avrei  desiderato,  d'uno  studio 
simile  a  quello  del  Guyot,  per  la  regione  della  media  e  dell'  alta 
Italia  (2). 


(\)  Questioni  urgenti  di  viticultura,   1871,  pag.   14. 

(2)  ]aì  altezze  di  livello  che  servirono  di  base  ai  calcoli  delle  unite  tabelle  mi 


METEOROLOGIA  VITICOLA  299 


Il  Guyot  abbraccia  nel  suo  lavoro  circa  l'estensione  di  9  'gradi 
di  latitudine  (540  miglia),  vale  a  dire,  quasi  l' intera  Francia.  Egli 
parte  dal  Capo  Bonifacio  in  Corsica  al  gr.  41,  dove  fissa  lo  zero 
della  sua  scala,  ed  arriva  fino  all'or  troppo  celebre  Sédan  (49°  52'), 
estremo  limite  settentrionale  della  coltura  della  vite  (in  Francia). 
Colà  adunque  dove  il  Capo  Bonifacio  si  bagna  nell'onda  del  Medi- 
terraneo, cioè  dov'è  nulla  l'elevazione  sul  livello  del  mare,  colà  se 
vi  fosse  un  paese,  avrebbe  zero  per  punto  climenologico.  Un  altro 
paese  situato  parimenti  come  il  Capo  Bonifacio  41°  lat.,  ma  che  si 
elevasse  100  metri  sul  livello  del  mare,  avrebbe  100  per  punto  cli- 
menologico: come  avrebbe  cento  del  pari  quell'altro  paese,  bagnato 
dal  mare,  che  si  allontanasse  cento  miglia  verso  settentrione  dal 
41°,  ossia  dal  Capo  Bonifacio:  e  100  infine  sarebbe  il  punto  clime- 
nologico di  un'altra  località  che  si  discostasse  50  miglia  (ossia  50 
minuti)  dal  41°  latitudine,  e  che  si  elevasse  50  metri  sul  livello  del 
mare. 

Esposta  così  la  semplicissima  teoria,  vediamo  di  farne  un'applica- 
zione. Immaginiamo  adunque  una  città  di  Francia  posta  al  44°  30' 
lat.,  ed  a  85  metri  sul  livello  del  mare;  quale  sarebbe  il  suo  punto 
climenologico? 

A  partire  dallo  zero  della  scala,  ossia  dal  41°  lat,  per  arrivare 
all'indicato  paese  bisognerebbe  percorrere  3  gradi  e  30  minuti. 

Ora  i  tre  gradi  equivalgono  a  180'  (minuti)  ossia  a    180   miglia, 

e  quindi  a  punti  climenologici 180 

ed  i  trenta  minuti  corrispondono  a  trenta  miglia,  e  perciò  a 

punti 30 

Sommano  punti     .     .     210 
Se  quel  paese  fosse  a  livello  del  mare,  il  suo  punto  climenologico 


furono  in  parte  gentilmente  forniti  dall'Osservatorio  di  Padova  a  mezzo  del  pro- 
fessore cav.  Legnazzi,  dal  dott.  Locatelli  ingegnere  municipale  di  Udine  e  da  altri 
amici,  ed  in  parte  furono  tratti  dal  Trinker  (mis.  delle  Alt.  della  Prov.  di  Bel. 
luno),  dall'Ambrosi  (Flora  Tir.  Aus)  dal  Mariani  (Trìg.  Vermessj,  dal  Monte- 
rumici  (Annali  statistici  della  Provincia  di  Treviso  pel  1870),  dagli  Annali  pel 
1870  (Bur.  de  Long.)  ecc.  ecc. 

In  alcuna  di  tali  altezze  di  livello  è  indicato  il  punto  preciso  dove  furono  prese, 
in  altre  no;  per  cui  resta  il  dubbio  se  per  qualche  città  situata  in  colle,  l'altezza 
data  si  riferisca  al  piede  od  alla  cima  del  medesimo. 


300  CAPITOLO    VI 


sarebbe  semplicemente  210;  ma  siccome  si  eleva  metri  85   sopra   il 
medesimo,  così  bisognerà  aggiungervi 85 

E  allora  il  vero  punto  climenologico  dell'indicato  paese  sarà    .     295 

Quindi  si  può  stabilire  che: 

«  Il  punto  climenologico  d'un  paese  è  un  numero  composto  della 
somma  di  due  altri  numeri,  il  primo  dei  quali  esprima  i  minuti  di 
sua  latitudine  settentrionale  a  partire  da  quel  grado  che  rappresenta 
lo  zero  della  scala  previamente  stabilita;  ed  il  secondo  numero  la  sua 
elevazione  sul  livello  del  mare,  espressa  naturalmente  in  metri.  » 

Tale  è  la  formola  che,  secondo  gli  studi  del  Guyot,  serve  per  de- 
terminare i  punti  climenologici  in  Francia. 

Se  ora  si  volesse  trovare  una  formola  analoga  da  applicarsi  alla 
intera  Italia,  che  è  compresa  fra  il  36°  ed  il  46°  di  latitudine,  si 
incontrerebbe  una  seria  difficoltà  per  istabilire  il  punto  di  partenza, 
ossia  lo  zero  della  scala. 

Mentre  il  grado  41°,  estremo  limite  sud  della  Francia,  è  per  la 
stessa  una  linea  all'  uopo  opportunissima,  perchè  in  quel  punto  la 
temperatura  è  calda  bensì,  ma  non  eccessivamente;  non  si  potrebbe 
dire  altrettanto  riguardo  al  grado  36,  estremo  limite  sud  dell'Italia, 
il  quale  e  lì  lì  per  uscire  dalla  zona  vinifera,  che,  come  abbiamo 
veduto,  si  estende  dal  35°  al  50°  ;  in  conseguenza  di  che  retroce- 
dendo dal  41°  al  36°  la  condizione  climenologica  dei  paesi  che  vi 
sono  compresi  peggiorerebbe  anziché  migliorare;  e  se  adottassimo  il 
37°  per  lo  zero  di  nostra  scala,  avremmo  risultati  confusi  e  fallaci. 

All'incontro,  riflettendo  che  lo  stesso  41°  latitudine  rasenta  in  Ita- 
lia il  paese  che  produsse  un  dì  il  celebrato  Falerno,  e  che  ci  dà  in 
oggi  quell'altro  vino,  il  cui  nome  ne  indica  l'eccellenza,  il  Lamina 
Cristi;  e  riflettendo  altresì  che  il  grado  41°  passa  fra  Roma  e  Na- 
poli, ossia  percorre  in  Italia  una  linea  centrale  ed  importante,  ei  par- 
rebbe che  quel  grado  medesimo  potesse  essere  opportuno  anche  per 
rappresentare  una  linea  centrale  enologica,  una  linea  insomma  che 
costituisse  lo  zero  della  nostra  scala,  donde  partissero  i  punti  clime- 
nologici riferibili  almeno  ai  paesi  della  media  e  dell'alta   Italia. 

Una  tal  linea  passa  per  Monopoli,  città  che  per  essere  posta  in 
riva  al  mare  (Adriatico)  avrebbe  in  conseguenza  zero  per  punto  cli- 
menologico. 

Stabilito  in  questa  guisa  il  nostro  punto  di  partenza  identico  a 
quello  della  Francia,  ne  verrà  di  necessaria   conseguenza   che   i  no- 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


301 


stri  punti  climenologici  corrisponderanno  perfettamente  a  quelli  esposti 
nella  Tabella  del  Guyot  per  la  Francia  medesima. 

Data  quindi  la  latitudine  e  1'  altezza  di  livello  di  ogni  paese  della 
media  e  dell'alta  Italia,  mediante  la  stessa  formola  e  le  identiche  re- 
gole testé  indicate  per  la  Francia,  sarà  a  noi  facile  trovarne  il  ri- 
spettivo punto  climenologico  sempre  riferibilmente  al  grado  41°  lai, 
ossia  al  grado  che  passa  per  Monopoli. 

Dopo  tali  premesse,  passiamo  a  tracciare  i  punti  climenologici  dei 
paesi,  di  cui  potemmo  procurarci  le  altezze  di  livello,  e  che  per  mag- 
gior chiarezza  abbiamo  divisi  nelle  seguenti  tre  tabelle  ;  in  fine  delle 
quali  ne  collochiamo  una  quarta  tratta  dal  Guyot  che  riporta  i  punti 
climenologici  di  alcune  principali  località  della  Francia,  coi  quali 
potrete  a  vostr'agio  confrontare  i  punti  climenologici  de'  paesi  ita- 
liani. » 

TABELLA    I. 

Punti    climenologici    di   alcuni   fra   i   paesi    italiani 

posti  al  nord  del  grado  41  di  latitudine 


,  -        ^ 

7Z~~ 

._    1    o 

._    i  'o 

._  i  '« 

Nomi  dei  Paesi 

il'! 

Nomi  dei  Paesi 

3  S'5b 

3  C  O 

Nomi  dei  Paesi 

il* 

£'■5  § 

^'-8  § 

0*  og 

Monopoli   .... 

0 

Venezia    .... 

286 

Rieti 

495 

Civitavecchia 

67 

Mantova  .... 

289 

Moncalieri 

498 

Foggia  .     .     . 

69 

Bologna  .... 

294 

Pallanza  . 

513 

Roma    .     . 

103 

Cremona  .... 

297 

Torino     . 

514 

Portoferraio 

119 

Alessandria  . 

331 

Amelia     . 

525 

Grosseto     . 

127 

Verona     .... 

332 

Assisi .     . 

534 

Ancona .     . 

183 

Magliano      .     .     . 

334 

Todi    .     . 

562 

Livorno 

185 

Vicenza    .... 

336 

Lugano    . 

575 

San  Remo 

188 

Foligno    .... 

346 

Bergamo. 

581 

Pisa .     .     . 

192 

Pavia 

348 

Pinerolo  . 

618 

Firenze .     . 

239 

Casal  Monferrato  . 

380 

Città  della  l 

^eve 

623 

Forlì     .     . 

239 

Velletri    .... 

392 

Perugia   . 

656 

Rimini  .     . 

242 

Urbino     .... 

414 

Biella .     . 

658 

Ferrara 

245 

Milano     .... 

415 

Belluno    . 

691 

Gubbio 

245 

Udine 

419 

Nocera     . 

701 

Ravenna    . 

247 

Chieti 

429 

Norcia 

709 

Genova .     . 

253 

Brescia     .... 

437 

Varallo    . 

729 

Guastalla  . 

265 

Narni 

446 

Montepulcia 

LIO  . 

754 

Jesi  .     .     . 

268 

Trento     .... 

454 

Mondovì  . 

758 

Temi    .     . 

272 

Orvieto    .... 

459 

Camerino 

77<S 

Padova .     . 

278 

Città  di  Castello  . 

475 

Aquila 

822 

Reggio  (Emilia) 

283 

Siena 

486 

Aosta  .     . 

884 

Modena      .     . 

283 

Spoleto    .... 

487 

302 


CAPITOLO    VI 


TABELLA   II. 
Punti  climenologici  di  alcuni  paesi  del  Veneto,  dell'Istria  e  del  Trentino 


._ 

._ 

— 

Nomi  dei  Paesi 

Nomi  dei  Paesi 

Ili 

Nomi  dei  Paesi 

a  5.2 

Oh-o  o 

Q->  o  2 

0-1  o  2 

Pola 

240 

Sacile 

324 

San    Pietro   degli 

Legnago    . 

257 

San  Vito 

324 

Schiavi      .     .     . 

478 

Dignano     . 

262 

Pordenone    . 

326 

Asolo 

500 

Chioggia    . 

263 

Verona     .     . 

332 

Rovereto  .... 

509 

Parenzo 

269 

Vicenza    .     . 

336 

Valdobbiadene  .     . 

527 

Fiume  .     . 

275 

Codroipo .     . 

337 

San  Daniele      .     . 

528 

Padova 

278 

Montebelluna 

Chiavenna    .     .     . 

534 

Pirano  .     . 

284 

Conegliano   . 

353 

Moggio    .... 

543 

Venezia 

286 

Riva  di  Trento 

358 

Morbegno     .     .     . 

565 

Capo  d'Istria 

286 

Gorizia    .     . 

367 

Feltre 

568 

Treviso 

289 
292 

297 

Arco    . 

370 
419 
428 

Fonzaso    .... 
Sondrio   .... 
Borgo  di  Valsugana 

630 

Buie 

Udine  . 

657 

Muggia 

Bassano    . 

664 

Mon  falcone 

300 

Vittorio    .     . 

431 

Belluno    .... 

691 

Montona    . 

305 

Spilimbergo 

441 

Tirano     .... 

771 

Palmanova 

321 

Nabresina     . 

445 

Levico      .... 

797 

Castelfranco  (Ven.) 

322 

Trento     .     . 

454 

TABELLA    III. 
Punti  Climenologici  di  alcuni  paesi  e  località  della  Provincia  di  Belluno. 


Nomi  dei  Paesi 


Fener  . 
Sanzan  . 
C esana  . 
Villapaiera 
Vas  .  . 
Rocca  . 
Lentiai . 
Feltre  . 
Busche  . 
Quero  . 
Alano  . 
Bribano 
Limana. 
Arten    . 


-p  Co 

o 


509 
522 
548 
549 
550 
564 
566 
568 
569 
588 
590 
596 
614 
615 


Nomi  dei  Paesi 


Santa  Lucia. 

Sedico. 

Arsiè  . 

Pat      . 

Marsiai 

Fonzaso 

Zermen 

Visome 

T  richiana     . 

Villa  di  Villa 

Mei      .     .     . 

Dussoi      .     . 

Incin   .     .     . 

Pedavena 


&■„, 


619 
623 
626 
628 
629 
630 
631 
639 
641 
649 
651 
658 
668 
669 


NoMirDEi  Paesi 


Vi  11  ab  runa  . 
Seren  .  .  . 
Porcen  .  . 
Belluno  .  . 
Menin  .  . 
Cart  .  .  . 
Cesio  .  .  . 
San  Diberal  (B 

luno)    .     . 
San  Gregorio 
Lamen     .     , 
Sorriva    .     . 
Lamon     .     . 


el- 


3  s  SP 

a<~.2 


669 
685 
688 
691 
704 
759 
780 

850 
852 
905 
DOS 
973 


METEOROLOGIA  VITICOLA 


303 


TABELLA   IV. 
Punti  climenologici  di  alcuni  paesi  di  Francia 

estratti  dalla  Tabella  del  Guyot,  Elude  cles  Vign.  de  France,  t.  Ili,  p.  597. 


Nomi  dei  Paesi 

_  o 
+3  CTS 

a  a  àc 
o 

Nomi  dei  Paesi 

-,  o  _ 

a  a  6o 
o 

Nomi  dei  Paes^i 

o 
a  §  àn 

Ajaccio  

95 

Paris 

532 

Chàtillon-sur-Seine 

Bastia  .     . 

131 

Troyes      .... 

548 

(Borgogna)    .     . 

644 

Marsiglia  . 

167 

Chambery  (Savoia) 

549 

Wissembourg  (Bas- 

Montpellier 

201 

Chalons-sur-Marne 

so  Reno    .     .     . 

646 

Avignone  . 

232 

(Sciampagna)     . 

559 

Nancy      .... 

662 

Bordeaux  . 

240 

Chàteau-Thierry  id. 

560 

Metz 

664 

La  Réole  (Bordeaux) 

259 

Epernay  (id.)    .     . 

564 

S averne  (Bass.  Reno) 

670 

Lespare         id. 

264 

Vitri  -  le  -  Francois 

Sedan  

680 

Bazas            id. 

285 

(id.) 

565 

Bar-le-Duc  (Vino  u- 

Cognac       .... 

313 

Beaune  (Borgogna) 

580 

so  Sciampagna) 

705 

La  Rochelle 

320 

Versailles      .     .     . 

591 

Commercy    .     .     . 

709 

Tolosa  .     . 

345 

Strasburgo  (Basso 

Annecy  (Savoia)    . 

748 

Brignoles  . 

377 

Reno)  .... 

599 

S.t-Claude  (Jura) . 

760 

Nantes  .     . 

392 

Chartres  .... 

605 

Epinal  (Vosgi) .     . 

771 

Tours    .     . 

439 

Schelestadt  (Basso 

S.t-Jean-de-Mau- 

Poitiers 

453 

Reno)   .... 

614 

rienne  (Savoia) . 

830 

Saint-Pons 

465 

Colmar  (Alto  Reno) 

620 

Gap  (estremo  limite 

Mazon  .     . 

508 

Saint  -Menehould 

della  vite)      .     . 

964 

Saint- Denis 

509 

(Sciampagna)     . 

623 

Gex  (estremo  limite 

Fontainebleau 

523 

Dijon  (Borgogna) . 

625 

della  vite) 

967 

Con  queste  tabelle  del  Dr.  Belletti  crediamo  di  aver  dato  al  let- 
tore un  concetto  esatto  dei  punti  climenologici  e  dell'  utilità  che  da 
essi  può  venirne  al  viticoltore. 


CAPITOLO  VII 

Pronostico  della  fruttificazione  della  vite. 

(Carpoprognosia). 

LT  état  présent  de  l'univers  est 
l'effet  de  son  état  antérieur  et  la 
cause  de  celui  qui  va  suivre. 

(Laplace  -  Essai  sur  les  pro- 
babilitès). 

§  1  Generalità  sulla  carpoprognosia  —  §  2.  Carpoprognosia  e  meteorognosia  — 
§  3.  Applicazioni  generiche  —  §4.  Applicazione  speciale  alle  viti  —  §  5.  In- 
fluenza della  primavera  sulla  formazione  delle  gemme  frutticose  —  §6.  In- 
fluenza delle  altre  stagioni  —  §  7.  Osservazioni  e  pronostici  nel  periodo  1855- 
1883  —  §  8.  Deduzioni  utili  per  la  pratica. 

§  1.  Generalità  sulla  carpoprognosia.  —  Sul  finire  del  1875 
presentavamo  al  Congresso  Enologico  Italiano  radunatosi  in  Verona 
una  nostra  memoria,  intitolata  «  Primi  studii  di  Carpoprognosia 
applicata  alla  viticoltura.  »  Detta  memoria  fu  bene  accolta  dai 
congregati  ed  ebbe  1'  onore  di  essere  stampata  negli  Atti  del  Con- 
gresso: fu  poi  riprodotta  da  varii  giornali  agrarii,  e  però  stimiamo 
utile  di  qui  ritornare  sull'argomonto,  con  nuovi  fatti  e  nuove  osser- 
vazioni. 

La  Carpoprognosia  (parola  che  abbiamo  formato  dal  greco  carpós 
frutto,  e  prógnosis  prescienza,  prognostico)  dovrebbe  essere,  a  no- 
stro avviso,  quella  parte  della  meteorologia  agricola  che  cercasse  di 
dedurre  il  valore,  per  rapporto  alla  quantità,  della  fruttificazione  fu- 
tura d'un  vegetale,  dall'osservazione  dei  fenomeni  meteorologici  pas- 
sati e  presenti  di  cui  ebbe  a  subire  l'influenza.  Questa  prescienza  a- 
dunque  si  riferisce  unicamente  alla  quantità  dei  frutti;  quanto  ri- 
guarda la  loro  qualità  fu  oggetto  degli  studii  accennati  nel  capitolo 
precedente. 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  305 

Noi  già  sappiamo  che  la  meteorognosia  cerca  precisamente  di 
pronosticare  i  fenomeni  atmosferici  futuri,  dietro  1'  osservazione  dei 
fenomeni  passati  e  presenti:  or  bene,  la  carpoprognosia  sarebbe  al* 
cunchè  di  simile,  inquantochè  essa  pure  tenderebbe  a  leggere  nel  fu- 
turo: se  non  che,  invece  di  predire  fatti  meteorologici,  predirebbe 
fatti  fisiologici.  Così  laddove  la  prima  tenta  ora  di  stabilire  le  pro- 
babilità del  tempo  futuro,  la  seconda  vorrebbe  stabilire  le  probabilità 
delle  raccolte. 

Naturalmente  tanto  1'  una  che  1'  altra  non  rappresentano  che  un 
processo  di  induzione,  per  il  quale  studiate  le  svariate  condizioni  me- 
teorologiche di  una  serie  di  anni  ed  esaminati  attentamente  i  loro 
differenti  effetti  negli  anni  susseguenti,  coordinando  cotali  cause  e 
cotali  effetti  si  viene  ad  indurre  che  ogni  qualvolta  si  riprodurranno 
quelle  date  condizioni  si  potranno  attendere,  con  molta  probabilità, 
determinati  fenomeni  meteorologici  o  fisiologici. 

Diciamo  a  bello  studio  «  con  molta  probabilità  »  e  non  «  con  cer- 
tezza »  perchè  (a  parte  le  cause  non  prevedibili  e  delle  quali  non 
si  può  quindi  tener  calcolo)  ciò  non  è  umanamente  possibile,  essendo 
infinite  le  forze  che  animano  la  natura  in  questi  fenomeni,  e  nessuna 
mente  potendo  abbracciarle  tutte,  analizzandole  prima,  coordinandole 
poscia  e  comprendendole  infine  in  una  sola  formola.  Se  ci  fosse  dato 
giungere  a  codesto,  l'avvenire  ci  sarebbe  tanto  noto  quanto  il  pre- 
sente; l'astronomia  ci  porge  al  proposito  alcuni  esempii. 

Un  processo  affatto  opposto  a  quello  della  meteorognosia  e  della 
carpoprognosia  ce  l'offre  la  geologia;  poiché  quantunque  essa  pure 
si  attenga  alla  non  mai  interrotta  catena  delle  cause  e  degli  effetti, 
invece  di  andare  come  quelle  dal  presente  al  futuro,  rifa  la  strada 
e  rimonta  dal  presente  verso  il  passato.  Così  come  la  geologia  non 
è  altro  che  la  fisica,  la  chimica,  la  geografìa,  la  zoologia,  la  bota- 
nica del  passato,  la  carpoprognosia  dovrebbe  essere,  per  una  data 
pianta,  la  fisiologia  del  futuro. 

§  2.  Carpoprognosia  e  meteorognosia.  —  La  carpoprognosia 
costituisce  una  novità,  volendosi  farne  un  complesso  di  cognizioni  a 
pane  per  cercare  poscia  di  desumere  alcune  leggi  sull'influenza  delle 
condizioni  meteorologiche  del  ieri  e  dell'oggi  sulla  fruttificazione  del 
domani.  Però  i  prognostici  sull'abbondanza  o  non  dei  singoli  raccolti 
datano  dai  tempi  i  più  remoti,  precisamente  come  sono  remotissimi 
i  prognostici  sul  tempo. 

<è.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura  21 


306  CAPITOLO    VII 


Ed  a  quest'  ultimo  proposito  diremo  non  essere  molto  che  queste 
sparse  cognizioni  di  meteorognosia  si  vennero  raggruppando  e  coor- 
dinando fra  di  loro:  il  Gasparin  se  ne  occupò  con  amore;  ma  questo 
illustre  agronomo  non  potè  addentrarsi  molto  in  simili  studii,  es- 
sendo ancor  troppo  bambina  questa  parte  della  meteorologia.  Si  po- 
trebbe invero  affermare  che  al  proposito  noi  non  siamo  ora  molto  più 
innanzi  di  quel  che  lo  fossero  Virgilio  {Georgiche)  e  Plinio  {Storia 
naturale). 

Il  Gasparin  si  limitò  quindi  a  fare  una  scelta  fra  tutti  i  progno- 
stici tramandati  fino  a  noi,  riassumendoli  poscia,  dopo  aver  sceve- 
rato i  più  attendibili. 

Invece  gli  studii  sulla  carpoprognosia  sono  ancora  quasi  tutti  da 
farsi;  e  nessuno  poi  tentò  fin'  ora  di  raccogliere  le  poche  nozioni 
che  sono  sparse  qua  e  là  nei  libri  agrarii,  nonché  i  pronostici  che 
si  ripetono  da  padre  in  figlio  fra  i  contadini,  per  rapporto  alla  frut- 
tificazione delle  principali  piante  coltivate. 

Eppure  a  noi  pare  che  tali  studii  abbiano  una  grandissima  impor- 
tanza economico -agricola,  poiché  potrebbero  servir  di  guida  al  col- 
tinatore  non  solo  nel  governo  delle  proprie  colture,  ma  altresì  e 
sopratutto  nell'  esitare  col  maggior  lucro  possibile  i  suoi  prodotti; 
diremo  anzi  che  noi  ce  ne  gioviamo  appunto  in  questo  senso  da 
varii  anni.  (v.  §  8) 

Oltre  a  ciò  ci  pare  che,  senza  di  essi,  la  stessa  meteorognosia  ri- 
marrebbe sempre  incompleta.  Si  dice,  per  esempio,  che  colla  scorta 
di  quest'ultima  potendosi  (forse  in  un  giorno  non  lontano)  prevedere 
il  carattere  generale  d'  un  anno  prossimo  venturo,  si  potranno  mo- 
dificare le  colture  od  il  loro  governo  a  seconda  di  cotesta  prescienza. 
Ciò  è  per  certo  di  incontestabile  utilità;  ma  potrebbe  benissimo  darsi 
che,  ad  onta  delle  modificazioni  introdotte  nelle  colture,  le  piante  des- 
sero meschini  frutti  a  cagione  delle  poco  favorevoli  condizioni  di  ca- 
lore, luce,  umidità,  ecc.  in  cui  si  vennero  formando  ed  organizzando 
i  loro  semi.  Di  ciò  non  tiene  calcolo  la  meteorognosia,  la  quale  sup- 
pone che  tutte  le  piante  coltivate  nascano  da  ottimi  semi,  tutti  i 
frutti  da  ottime  gemme  e  nelle  migliori  condizioni,  e  si  accrescano 
senza  alcun  vizio  di  costituzione  congenito,  contratto  cioè  colla  na- 
scita, dal  seme,  dalla  gemma,  ecc. 

La  carpoprognosia  invece  tiene  calcolo  grandissimo  di  ciò  (è  questo 
anzi  il  suo  scopo  precipuo)  e  tenta  così  pronosticare  che  i  frutti  sa- 
ranno copiosi,  poco  abbondanti  o  quasi  nulli,  alquanto  tempo  innanzi 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  307 

la  loro  raccolta  :  naturalmente  poi  la  meteorognosia  viene  in  suo 
aiuto,  potendo  soggiungere  che  codesti  frutti  saranno  veramente  co- 
piosi perchè  le  stagioni  trascorreranno  favorevoli  alla  fruttificazione; 
oppure  che  saranno  meno  copiosi  di  quello  che  le  nozioni  di  carpo- 
prognosia  danno  a  sperare,  perchè  le  condizioni  climatologiche  li  con- 
trareranno alquanto  in  determinate  stagioni  e  via  dicendo. 

Come  si  vede  questi  due  ordini  di  nozioni  si  completano  a  vicenda, 
mentre  presi  isolatamente  sarebbero  insufficienti  a  conferire  alle  con- 
ghietture  quella  utilità  pratica  che  noi  ci  ripromettiamo  da  questi 
calcoli  di  probabilità 

§  3.  Applicazioni  generiche.  —  Senonchè  è  facile  prevedere 
come  gli  studii  sulla  carpoprognosia  non  siano  applicabili  che  ad  un 
dato  ordine  di  piante  coltivate;  quelle  cioè  che  per  produrre  frutti 
debbono  percorrere  un  ciclo  vegetativo  molto  lungo,  o  per  dir  meglio 
abbastanza  prolungato  da  risentire  l' influenza  di  varie  stagioni  a 
partire  dalla  formazione  del  seme  o  della  gemma  fruttificatrice,  ve- 
nendo insino  alla  costituzione  dei  frutti  stessi.  La  vite,  l'ulivo  e  tutte 
le  piante  così  dette  vivaci;  la  barbabietola,  la  carota  e  molte  altre 
piante  dette  biennali;  infine  quelle  fra  le  annuali  che,  come  il  fru- 
mento, si  rendono  biennali  ad  arte  seminandole  nell'autunno  anziché 
in  primavera;  tutte  queste  piante  possono  dar  oggetto  a  studii  più 
o  meno  importanti  di  carpoprognosia. 

I  problemi  che  questa  deve  risolvere  potrebbero,  per  ragion  d'e- 
sempio, così  formularsi: 

«  Date  delle  gemme  di  viti  formatesi  prima  e  sviluppatesi  poi  sotto 
«  determinate  condizioni  climatologiche  e  sopra  una  pianta  più  o 
«  meno  rigogliosa,  quale  sarà  il  loro  prodotto  in  uva  nell'anno  sus- 
«  seguente?  » 

Oppure: 

«  Dati  dei  semi  di  frumento  provenienti  da  piante  cresciute  in 
«  determinate  condizioni  climatologiche  e  telluriche,  e  seminati  sotto 
«  altre  determinate  condizioni  che  favorirono  o  contrariarono  il  tal- 
«  limento  delle  giovani  piantine,  quale  prodotto  in  granelle  sarà  le- 
«  cito  sperare  per  l'anno  successivo?  » 

In  questo  caso  del  frumento  così  detto  autunnale,  si  tratterebbe, 
per  causa  di  esempio, 

1°  Di  tener  calcolo  (come  già  fanno  i  più  accorti  agricoltori) 
della  costituzione  fisiologica  delle  sementi  adoperate; 


308  CAPITOLO    VII 


2°  Di  tener  calcolo  se  i  semi  in  terra  già  sviluppati  furono  sor- 
presi dal  gelo,  e  se  questo  si  approfondì  nel  suolo  tanto  da  farne 
perire  un  certo  numero; 

3°  Di  tener  calcolo  se  dopo  la  seminagione  i  semi  ebbero  a  su- 
bire alternative  di  leggera  umidità  e  di  secchezza,  perchè  il  dissec- 
camento, se  si  ripete  varie  volte,  nuoce  ai  germi  sviluppantisi  e  rende 
problematica  una  messe  copiosa; 

4°  Di  tener  calcolo  se  in  primavera  (aprile)  i  grani  sono  tristi 

0  no;  perchè  nel  primo  caso,  anche  se  la  stagione  si  mettesse  al 
bello,  anche  se  la  vegetazione  apparisse  in  seguito  rigogliosa,  anche 
se  si  concimasse  il  suolo,  le  spighe  sono  già  formate,  la  loro  lun- 
ghezza ed  il  numero  delle  loro  spighette  sono  già  determinati,  e 
nessuno  potrà  mai  accrescerne  il  numero,  fosse  pure  d'  una  sola  di 
esse; 

5°  Di  tener  calcolo,  in  conseguenza  di  quanto  si  è  detto  testé, 
dell'andamento  del  mese  di  marzo,  perchè,  come  dice  l'adagio,  «  marzo 
asciutto,  gran  per  tutto.  » 

Ben  ponderate  queste  condizioni  di  successo,  ed  altre  che  per  bre- 
vità ommettiamo,  si  potranno  predire,  con  grande  probabilità  di  co- 
gliere nel  segno,  una  copiosa  raccolta  od  una  meschina  messe;  ed 
in  caso  di  cattivi  prognostici  il  coltivatore  potrà  regolarsi  non  solo  per 
favorire  in  tempo  utile  la  fruttificazione,  ma  altresì  nella  vendita  dei 
frumenti  in  magazzeno,  per  attendere  forse  un  quasi  certo  rialzo, 
e  via  dicendo.  (Trattandosi  di  frumento  marzuolo  la  carpoprognosia 
non  può   venire  diremmo  quasi  in  nessun  aiuto  all'agricoltore). 

Altri  quesiti  si  potrebbero  formulare  per  altre  piante  coltivate;  ma 

1  due  qui  sopra  dettati  bastano  a  nostro  avviso  per  dare  una  idea 
esatta  dello  scopo  di  questa  nuova  parte  della  meteorologia  appli- 
cata, la  quale  in  conclusione  dovrebbe  prendere  come  elementi  es- 
senziali de'  suoi  calcoli  di  probabilità: 

1°  Le  influenze  climatologiche  sotto  le  quali  si  andarono  costi- 
tuendo i  semi  o  le  gemme; 

2°  Quelle  altre  che  ebbero  influenza  sul  loro  germogliamento  e  sul 
primo  periodo  di  accrescimento  della  nuova  pianta  o  del  germoglio 
fruttifero,  dalla  fioritura  alla  pubertà,  e  da  questa  alla  costituzione 
del  frutto. 

Supponendo  (tanto  per  concretizzare  meglio  la  cosa)  che  in  nn 
numero  e  di  casi  nei  quali  si  verificarono  certe  speciali  condizioni 
s' abbia  avuto  un  numero  b  di  prodotti  abbondanti,  la  probabilità  del  ri- 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  309 

torno  di  questo  prodotto,  quando  si  ripresentano  le  suddette  condi- 
zioni, ci  sarà  dato  dalla  forinola: 

_b_ 
e 

Così  se  in  100  casi  di  cotali  condizioni  si  ebbe  90  volte  un  co- 
pioso prodotto,  la  probabilità  che  si  abbia  in  quest'anno  un  analago 
prodotto,  essendosi  verificate  quelle  stesse  condizioni,  ci  è  dato  da 

cioè  una  grande  probabilità,  la  quale  sta  alla  certezza  come  0,90 
sta  ad  1. 

Riassumendo:  la  fruttificazione  presente  ha  la  sua  ragione  di  es- 
sere nel  passato  della  pianta  e  del  seme,  oppure  della  pianta  e  della 
gemma;  risalendo  dal  presente  al  passato  l'agricoltore  potrebbe  ren- 
dersi ragione  —  sino  nei  più  minuti  particolari  —  del  perchè  la 
pianta  fruttificò  male  in  quest'  anno,  bene  invece  neh'  anno  prece- 
dente, e  via  dicendo. 

Infatti,  quello  che  è  oggi  una  pianta,  non  è  altro  che  la  conse- 
guenza di  quello  che  fu  ieri;  e  quello  che  fu  ieri  è  1'  effetto  di  ciò 
che  fu  ieri  1'  altro,  e  così  di  seguito.  È  una  catena  non  mai  inter- 
rotta, senza  soluzioni  di  continuità;  una  serie  di  anelli  che  rappre- 
sentano tanti  effetti.  Potendosi  studiarli  a  fondo  uno  ad  uno  e  per 
lunga  serie  d'anni,  si  potrebbero  fissare  con  grande  esattezza  gli  in- 
timi rapporti  che  esistono  fra  il  progresso  delle  stagioni  e  quello 
della  vegetazione. 

§  4.  Applicazione  speciale  alle  viti.  —  Eccoci  ora  a  fare 
noti  i  nostri  studii  speciali  applicati  alle  viti. 

Già  sappiamo  che  i  fiori  della  vite  si  presentano  quasi  sempre  su 
germogli  spuntati  in  primavera  da  gemme  di  tralci  che  hanno  un 
anno  di  vita,  di  tralci  cioè  dell'anno  avanti. 

A  questa  regola  si  danno,  per  quello  che  ci  fu  dato  constatare, 
due  eccezioni:  1°  talvolta  portano  qualche  raro  grappolo  quei  pol- 
loni che  nascono  sul  ceppo  o  vecchio  tronco  della  vite,  specialmente 
nei  nostri   paesi   meridionali  od  in   qualche  vite  a  pergolato;  2°  tal 


310  CAPITOLO    VII 


altra  vedonsi  grappolini  sui  getti  estivi  (sulle  femminelle)  che  spun- 
tano all'ascella  delle  foglie  dei  getti  primaverili. 

Ma  in  rarissimi  casi  si  è  potuto  trarre  reale  partito  da  queste 
fruttificazioni  che  chiameremo  anormali;  per  cui  non  ne  diremo  al- 
tro, e  ci  occuperemo  solo  dei  veri  frutti  dei  getti  primaverili 
spuntati  su  rami  di  un  anno. 

Abbiamo  detto  che  questi  nascono  da  gemme;  vuol  dire  dunque 
che  il  loro  vigore,  la  loro  potenza  fruttificatrice,  sarà  anzitutto  in 
relazione  diretta  colla  fecondità  delle  singole  gemme  madri. 

Infatti  qui  siamo  neh'  identico  caso,  ad  esempio,  del  frumento,  il 
quale  cresce  tanto  più  sano,  è  tanto  più  fecondo  e  dà  granelle  tanto 
più  pregevoli,  quanto  più  robusto  e  turgido  e  di  buona  provenienza 
era  il  seme  da  cui  nacque. 

Ma  ciò  non  basta.  Il  frumento  potrebbe  fallire  se  il  suolo  sul  quale 
vegeta  non  lo  coadiuvasse  durante  il  periodo  della  sua  vegetazione: 
or  bene,  lo  stesso  dobbiamo  dire  della  gemma  della  vite,  la  quale 
se  non  troverà  nel  legno  del  tralcio  (alburno)  e  nel  succo  ascendente 
quella  copia  di  elementi  che  le  tornano  indispensabili,  specialmente 
durante  i  primi  momenti  del  suo  sviluppo  e  della  cresciuta  del  pro- 
prio germoglio,  darà  un  getto  meschinello  e  poco  fruttifero. 

Dunque,  quello  che  è  il  suolo  per  il  seme  di  frumento,  è  il  tralcio 
di  un  anno  per  la  gemma. 

Qui  però  si  chiederà  se  noi  non  teniamo  conto  delle  radici:  ri- 
sponderemo che  non  crediamo  abbiano  grande  influenza  nei  primi 
momenti  della  germogliazione  e  della  cresciuta  dei  teneri  germogli. 
La  mancanza  di  foglie  ci  fa  persuasi  che  la  gemma  debba  germo- 
gliare, e  debba  altresì  svilupparsi  il  nuovo  getto,  senza  il  concorso 
delle  radici.  Ma  meglio  delle  congetture,  ci  persuadono  i  seguenti 
fatti: 

Se  si  pone  in  terra  un  pezzetto  di  tralcio  munito  di  alcune  gemme, 
queste  danno  piccoli  germogli  anche  prima  d'aver  cacciato  radici  le 
quali  possano  elaborare  materiali  del  terreno;  —  se  una  ceppaia 
muore  nel  verno,  può  talora  dare  getti  in  primavera  da'  suoi  tralci 
a  frutto,  getti  però  che  giunti  ad  un  certo  punto  del  loro  sviluppo, 
muoiono  perchè  le  radici  non  vengono  in  loro  soccorso;  —  se  in 
primavera  si  sradica  una  pianta,  un  gelso  ad  esempio,  prima  che 
siansi  dischiuse  le  gemme,  queste  daranno  tuttavia  brevi  germogli 
quantunque  le  radici  dell'albero  più  non  sieno  entro  il  suolo  ;  —  se 
gli  alberi  muoiono  in  piedi,  cioè  sul  posto,  portano  ciò  non  ostante 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  311 

germogli,  che  vivono  a  spese  del  loro  legno  e  li  rendono  meno  ap- 
prezzati dai  commercianti  di  legnami;  —  se  le  talee  di  pioppi  e  di 
ontano  si  tagliano  verdi  e  si  abbandonano  a  sé  in  lungo  fresco, 
danno  germogli. 

Dunque  il  tralcio  frutticoso  di  un  anno  è  proprio,  per  così  dire, 
il  terreno  nel  quale  deve  nascere  e  indi  vegetare  per  un  poco  di 
tempo  il  tenero  germoglio  spuntato  dalle  gemme  del  tralcio  mede- 
simo. A  suo  tempo  poi,  e  col  comparire  delle  foglie,  le  radici  inco- 
mincieranno  la  loro  opera  alimentatrice,  perchè  allora  le  fibre  radicali 
della  gemma  stessa  si  saranno  già  intrecciate,  o  diremo  meglio  ana- 
stomizzate,  colle  fibre  corticali  del  libro  preesistente.  Da  questo  punto 
il  germoglio  cessa  di  essere  un  parassita,  un  vero  succhione  svilup- 
patosi a  spese  del  tralcio  a  frutto,  ma  fa  parte  attiva  del  vegeta- 
bile, perchè  le  sue  parti  verdi  incominciano  ad  assorbire  acido  car- 
bonico e  fors'anche  ossigeno.  Come  si  vede,  havvi  un  periodo  ab- 
bastanza lungo  durante  il  quale  la  pianta  madre  deve  alimentare  del 
proprio  non  pochi  parassiti:  sono  dessi  i  bottoni  (veri  svernatoj  di 
Linneo)  che  spuntano  all'ascella  delle  foglie  in  primavera  sui  rametti 
dell'annata.  Essi  vivono  a  spese  della  madre  tutto  l'estate,  l'autunno 
ed  il  verno  successivi,  nonché  una  parte  della  primavera,  benché  già 
sviluppatisi  in  teneri  germogli;  e  non  cessano  dal  loro  parassitismo 
che  allorquando  questi  ultimi,  per  la  loro  corteccia  recente  (che  è 
verde)  e  poi  per  le  prime  foglioline,  incominciano  ad  assorbire  acido 
carbonico  e  fors'anche  ossigeno  in  presenza  della  luce. 

Durante  tutto  questo  periodo  si  forma  pertanto  la  fruttifica- 
zione delVanno  agrario  successivo,  fruttificazione  che  sarà  più  o 
meno  abbondante  a  seconda  delle  condizioni  meteorologiche  alle  quali 
sarà  stata  soggetta  la  pianta  madre  nell'anno  agrario  precedente. 

Le  gemme  infatti  avranno  risentito  esse  pure  V  influenza  di  queste 
condizioni  atmosferiche,  e  se  la  madre  sarà  stata  contrariata  nella 
sua  vegetazione,  anche  le  gemme  dovranno  crescere  mal  costituite 
e  dare  l'anno  dopo  germogli  o  poco  o  punto  fruttiferi. 

E  tutto  ciò  perchè  ogni  influenza  meteorologica  alquanto  costante 
si  traduce  in  un  fatto  fisiologico  più  o  meno  importante.  La  frutti- 
ficazione futura  non  sarà  quindi  altro  che  la  risultante  delle  varie 
influenze  meteorologiche  dell'anno  anteriore,  tenendo  ben'  inteso  cal- 
colo della  cooperazione  del  suolo  e  dei  concimi  che  noi  possiamo  già 
valutare  in  anticipazione  con  grande  certezza.  Anzi  ci  preme  di  in- 
sistere su  quest'ultimo  punto,   acciò   non  si  creda    che   siamo  ciechi 


312  CAPITOLO   VÌI 


seguaci  dell'antica  massima  annus  fructifìcat,  non  tellus,  che  pecca 
alquanto  d'assolutismo,  tuttoché  sia  in  parte  giustissima. 

In  conclusione,  e  ritornando  al  nostro  assunto,  la  fruttificazione 
che  in  maggio  vediamo  sulle  nostre  viti  è  il  frutto  d'un  lavorìo  in- 
terno della  pianta  madre,  il  quale  ebbe  a  durare  12  mesi,  o  poco 
meno. 

Queste  gemme  spuntate  su  tralci  dell'annata,  che  più  propriamente 
si  debbono  dire  germogli,  e  che  mettono  quasi  un  anno  a  costi- 
tuirsi, possono  dare  al  loro  schiudersi  getti  molto,  poco  o  punto  frut- 
icosi: —  le  gemme  invece  che  sorgono  sul  legno  di  soli  2,  di  3, 
di  4  e  più  anni,  non  possono  (tolte  rarissime  eccezioni)  dare  getti 
fruttiferi  per  quanto  siano  bene  costituite  sino  dalla  loro  origine. 

Queste  ultime  pertanto  non  ci  interessano  affatto. 

Le  prime  invece,  che  sono  anche  le  più  numerose,  debbono  atti- 
rare tutta  la  nostra  attenzione  in  questi  tentativi  di  carpoprognosia, 
poiché  se  noi  arriveremo  a  studiare  bene  come  si  vadano  costituendo, 
sapremo  anche  predire,  già  prima  che  si  schiudano,  se  i  frutti  sa- 
ranno copiosi  o  no. 

Siccome  questa  prescienza  potremo  acquistarla  tra  la  fine  dell'in- 
verno ed  il  principio  della  primavera  (circa  nel  dodicesimo  mese  di 
vita  delle  gemme  in  questione),  ne  segue  che  da  sette  ad  otto  mesi  prima 
della  vendemmia  noi  saremo  in  grado  di  accertare  che  i  frutti  sa- 
ranno, per  ragion  d'  esempio,  abbondanti.  Aggiungeremo  che  le 
cause  (meteore-parassiti)  che  possono  influire  sulle  pigne  già  formate, 
rare  volte  sono  tali  da  modificare  V  entità  della  vendemmia  in  una 
intera  plaga  vitifera  ;  l'influenza  loro  è  grave  relativamente  a  piccoli 
predii,  ma  il  prodotto  medio  generale  d'  un  dato  paese  non  subisce 
per  esse  che  in  rari  casi  marcate  diminuzioni  (1). 

E  ritornando  alla  suddetta  prescienza  non  solo  noi  possiamo  ac- 
quistarla da  7  ad  8  mesi  prima  della  vendemmia,  ma  anche  molto 
tempo  prima  e  così  alla  fine  dell'  estate  (almeno  12  mesi  innanzi)  ; 
perchè  la  influenza  di  questa  stagione  e  della  primavera  che  la  pre- 
cede può  essere  spesso  rilevantissima,  come  vedremo. 

Intanto  incomincieremo  a  premettere  che  (come  già  dicemmo  di 
passsggio  pel  frumento),  giunti  ad  un  certo  punto  nel  ciclo  vegeta- 


(1)  Uno  di  questi  rari  casi  si  è  verificato  nel  1884  in  cui  in  molte  regioni  del- 
l'Italia Superiore  un  ubertoso  raccolto  d'uva  fu  ridotto  quasi  a  nulla  dalle  gra- 
gnuole,  dalle  pioggie  soverchie  e  dalla  peronospora. 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  313 

tivo  delle  gemme  frutticose,  torna  affatto  impossibile  al  viticultore 
l'aumentare  la  vendemmia  ;  esso  potrà  solo  contribuire  a  serbare  in- 
tatta la  maggior  parte  possibile  dei  tirsi  che  si  presentano  in  prima- 
vera, e  nulla  più.  Cotale  punto  coincide  ad  un  dipresso  col  dodice- 
simo mese  di  vita  della  gemma  del  tralcio  disteso  a  frutto  ;  cotale 
ciclo  vegetativo,  come  già  dicemmo,  comprende  il  seguente  periodo  : 

primavera, 
estate, 
autunno, 
inverno. 

Prima  di  giungere  alla  raccolta  delle  uve  occorrerebbero  ancora 
una  primavera,  un'  estate  e  parte  dell'  autunno,  cioè  all'  incirca  otto 
mesi.  Or  bene  in  quest'ultimo  periodo  faccia  pure  il  viticultore  quanto 
gli  è  possibile  in  favore  della  quantità  dei  grappoli;  ari  pure,  e  van- 
ghi pure  e  zappi  e  concimi  in  primavera,  od  anche  nel  febbraio  o 
nel  marzo;  vanghi  pure  e  zappi  nel  seguito  della  primavera  e  nella 
state;  egli  non  rinscirà  mai  ad  accrescere  d'un  solo  grappolo  il  pro- 
dotto che  gli  sta  dinnanzi,  il  prodotto  pendente.  Egli  potrà  far  in- 
grossare meglio  gli  acini  delle  singole  pigne,  potrà  farne  anticipare 
la  maturanza,  potrà  recar  giovamento  grande  alla  pianta  madre;  ma 
questa  per  quell'anno  non  gli  porterà,  in  premio  delle  sue  fatiche,  un 
numero  di  grappoli  maggiore  di  quelli  segnati  in  primavera. 

Si  obbietterà  che  le  femminelle,  come  già  dicemmo,  recano  talvolta 
grappolini  ;  ma  oltre  che  quest'uva  in  rarissimi  casi  giunge  a  matu- 
ranza, essa  non  rappresenta  che  una  produzione  eccezionale  di  viti 
molto  vigorose.  Sarebbe  una  vera  pazzia  Y  arrestarsi  a  considerare 
quest'  uva  come  possibile  prodotto  rinumeratore  di  quei  lavori  che 
si  fanno  nella  vigna  durante  l'anno. 

Questi  ultimi  hanno  uno  scopo  ben  più  importante;  si  fanno  anzi 
con  duplice  intento: 

1°)  quello  di  giovare  ai  frutti  pendenti, 

2°)  quello  di  giovare  alle  gemme  ascellari  che  nell'anno  succes- 
sivo dovranno  dare  i  germogli  fruttiferi. 

Ma  a  noi  non  preme  per  queste  ricerche  che  il  secondo. 

Diremo  pertanto  che  se,  colle  opere  di  coltura  (lavori  e  concimi), 
si  giova  alle  gemme  della  fruttificazione  avvenire,  ciò  dipende  da 
questo  fatto:  che  per  esse  si  aumentano  i  materiali  utili  alla  pianta 
madre  cotanto  spossata  a  cagione  dei  frutti  pendenti.  Questi  infatti 


314  CAPITOLO   VII 


sono  i  più  accaniti  parassiti  del  vecchio  ceppo:  essi  non  fanno  altro 
che  consumare  senza  pagargli  alcun  tributo  di  principii  utili;  essi  in 
sostanza  non  si  comportano  molto  diversamente  di  quanto  fa  il  te- 
muto oidio.  Crescono  e  maturano  bene,  se  la  pianta  loro  provvede 
buona  copia  di  alimenti  convenientemente  elaborati  ;  vivono  invece 
rachitici  e  non  si  completano  mai  se  la  pianta  non  ha  questi  mate- 
riali nelle  volute  dosi  :  può  darsi  benissimo,  e  si  dà  spesso,  che  essi 
prosperino  a  detrimento  della  madre,  ma  non  si  dà  mai  che  la  ma- 
dre li  sacrifichi  a  suo  prò.  Infatti  se  la  pianta  si  trova  in  mediocri 
condizioni  e  può  assimilare  poco,  non  sono  già  i  frutti  che  ne  risen- 
tono maggiormente,  ma  è  la  parte  legnosa  della  madre,  cioè  la  pianta 
stessa,  che  in  parte  sacrificasi  a  prò  della  costituzione  del  frutto. 

Dopo  una  fruttificazione  molto  abbondante  i  ceppi  trovansi  quasi 
estenuati,  e  ci  vuole  almeno  un  anno,  e  cure  adatte,  per  rimetterli  in 
vigore. 

Giunge  per  verità  un  certo  punto  in  cui  la  pianta  non  toglie  che 
pochissimo  (e  fors'anche  nulla)  al  terreno,  come  avviene  per  le  piante 
annuali  dopo  la  fecondazione  {Isidoro  Pierre);  allora  i  frutti  vivono 
proprio  esclusivamente  a  spese  dei  materiali  che  costituiscono  quella. 

Abbiamo  già  accennato  a  pag.  207  ad  una  nostra  vignala  quale 
non  poteva  maturare  i  suoi  frutti  per  difetto  di  umidità,  e  che  fu 
inutilmente  annacquata  al  piede  d'ogni  ceppo;  le  radici  non  funzio- 
navano quasi  più  a  beneficio  dei  frutti.  Avendo  provato  ad  asper- 
gere direttamente  i  grappoli,  la  maturanza  si  fece  pronta  e  completa; 
l'acqua  era  penetrata  forse  per  endosmosi,  come  proverebbero  le  belle 
esperienze  di  /.  Boussingault  fatte  per  altro  scopo. 

Se  pertanto  il  frutto  è  così  dannoso  alla  pianta  madre,  come  non 
lo  sarà  egualmente  alle  delicate  gemme  latenti  o  visibili,  che  si  vanno 
appunto  formando  su  di  essa  mentre  crescono  e  maturano  i  grappoli  ? 

Queste  gemme  saranno  anzi  le  prime  a  risentire  Y  influenza  del 
parassitismo  dei  frutti,  di  loro  molto  più  potenti;  ed  ove  questi  ul- 
timi fossero  veramente  molto  numerosi  le  gemme  potrebbero  con- 
trarre una  organizzazione  quasi  diremmo  rachitica,  e  non  portare 
Fanno  dopo  che  getti  infruttuosi  o  poco  fruttiferi. 

E  così  avviene.  È  cosa  notoria  a  tutti  i  viticultori  che  due  annate 
di  grande  vendemmia  non  si  succedono  può  dirsi  mai,  o  solo  in  certe 
condizioni  affatto  eccezionali  di  cui  ci  occuperemo  in  appresso  ;  le  quali 
condizioni  però  hanno  sempre  per  effetto  di  favorire  il  miglior  svi- 
luppo delle  gemme  in  quistione. 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  3115 

Dopo  le  gemme,  risentiranno  V  effetto  del  parassitismo  dei  frutti  i 
tralci  (il  terreno  per  il  primo  sviluppo  dei  bottoni  nell'anno  susse- 
guente), i  quali  saranno  meno  ricchi  di  sostanze  utili  alle  gemme 
stesse. 

Dunque  ne  avremo  un  danno  alle  gemme  ed  un  danno  ai  tralci 
frutticosi  per  l'anno  che  segue. 

Naturalmente  dal  fin  qui  detto  desumesi  il  primo  e  più  ovvio  cri- 
terio per  prognosticare  l'entità  d'una  vendemmia,  anche  più  d'un  anno 
prima.  E  la  carpoprognosia  non  può  certo  sprezzare  questo  primo  in- 
dizio, per  cui  noi  lo  terremo  in  nota. 

§  5.  Influenza  della  primavera  sulla  formazione  delle 
gemme  frutticose.  —  Quello  che  ora  dobbiamo  anzitutto  studiare 
è  l'influenza  della  primavera  sulle  gemme  che  nel  successivo  anno 
dovranno  darci  i  germogli  più  o  meno  frutticosi.  È  in  questa  sta- 
gione che  si  vanno  formando  cotali  gemme,  che  noi  vediamo  dise- 
gnarsi all'ascella  delle  giovani  foglie  ;  è  quindi  naturale  che  le  con- 
dizioni meteorologiche  di  essa  abbiano  una  marcatissima  influenza  sui 
bottoncelli  nascenti. 

Già  sappiamo  che  la  gemma  è  in  origine  una  cellula  vegetale,  cioè 
un  corpicciuolo  tondeggiante  formato  da  una  membrana  (cellulosa) 
racchiudente  un  nocciolo  di  sostanza  più  consistente  il  quale  nuota 
in  un  liquido  :  —  quando  poi  il  bottone  è  costituito  ed  ha  perforato 
la  corteccia,  presenta  nel  suo  interno  (cioè  entro  Y  involucro  delle 
scaglie  protettrici)  un  embrione  di  germoglio  del  quale  tutte  le  parti 
laterali  —  i  rudimenti  delle  foglie,  e  fors'  anche  delle  gemme  fiori- 
fere, foglifere  o  miste  —  stanno  per  così  dire  rannicchiati,  pieghettati 
attorno  ad  un  cortissimo  asse  (H.  De  Jussieu)  per  modo  da  occu- 
pare il  minor  spazio  possibile. 

Come  avvenga  che  da  una  semplice  cellula  si  formi  grado  grado 
questo  bottone,  noi  non  lo  sappiamo  fin'ora-:  possiamo  solo  ammet- 
tere con  Raspail  che  la  gemma  si  costituisca  a  spese  degli  strati 
esterni  dell'alburno,  e  che  per  segmentazioni  incessanti  (strozzature) 
della  cellula  madre  da  cui  trasse  origine,  essa  finisca  per  allungarsi 
sotto  la  corteccia,  rendendosi  infine  esterna. 

Ora  se  è  vero  —  come  già  dicemmo  studiando  la  fruttificazione 
delle  vite  —  che  consentaneamente  alle  razionali  idee  di  Raspati, 
al  ritorno  della  primavera  l'alburno  dovrà  nutrire  gli  organi  più  in- 
terni, fra  cui  cotali  bottoni  latenti,  nessun  dubbio  che  esso  si  andrà 


316  CAPITOLO   VII 


esaurendo,  passando  in  parte  allo  stato  di  libro,  e  confondendosi  per 
tal  maniera  col  libro  degli  anni  antecedenti,  per  poi  passare  allo 
stato  di  corteccia  ed  infine  essicarsi  affatto. 

Quindi  è  che  la  pianta  sentirà  un  potente  bisogno  di  riparare  a 
queste  perdite  per  le  quali  il  legno  si  fa  alburno,  l'alburno  libro,  ed 
il  libro  corteccia. 

Se  la  pianta  si  troverà  in  condizioni  di  provvedere  a  questo  suo 
accrescimento  per  intuscezione,  vuol  dire  che  avrà  un  alburno  ricco 
di  materiali  atti  alla  buona  costituzione  delle  gemme  ed  al  loro  ac- 
crescimento; per  cui  ognuna  di  esse,  uscita  che  sia  di  sotto  la  cor- 
teccia, conterrà  nel  suo  interno  un  embrione  di  germoglio  provvisto 
di  parecchie  gemme  fiorifere. 

Allungatosi  poi  il  germoglio  a  primavera,  cotali  gemme  ci  daranno 
i  grappoli.  Ogni  gemma  ne  contiene,  allo  stato  rudimentale,  due  o 
tre:  è  raro  che  non  ve  ne  siano  affatto;  ma  non  è  ugualmente  raro 
il  loro  aborto,  per  cui  il  germoglio  nasce  e  si  sviluppa  senza  por- 
tare frutti.  Così  quando  la  gemma  si  costituisce  sotto  cattive  con- 
dizioni, sovratutto  perchè  la  pianta  è  contrariata  dal  cattivo  anda- 
mento delle  stagioni,  questi  embrioni  di  grappoli  possono  benissimo 
fallire  completamente  o  ridursi  ad  un  solo  per  bottone. 

Ricordato  tutto  ciò  e  volendosi  ora  studiare  per  tutta  la  nostra 
penisola  l' influenza  della  primavera  sulla  formazione  delle  gemme,  bi- 
sognerebbe distinguere  vari  casi,  cioè  : 

«  viti  rigogliose,  in  terre  fertili,  ben  tenute,  nell'alta  e  media  Italia 
«  nonché  in  tutte  le  regioni  alte  e  fresche  dell'Italia  meridionale  »; 

«  viti  poco  rigogliose,  in  terre  poco  fertili,  in  paesi  assai  caldi  e 
«  secchi  nell'estate  »  e  via  dicendo. 

Noi  però,  per  amor  di  chiarezza  ed  anche  per  deficienza  di  dati 
sperimentali  meteorologici  e  fisiologici,  non  ci  occuperemo  che  del 
primo  fra  i  due  casi  citati.  Date  quindi  le  accennate  condizioni,  diciamo 
che  una  primavera  calda  e  poco  piovosa  sarà  molto  favorevole 
alla  buona  organizzazione  delle  gemme  ascellari  suddette  che,  come 
sappiamo,  si  formano  appena  mostransi  le  foglioline,  tra  l'aprile  ed 
il  maggio. 

Nel  caso  di  abbondanti  pioggie  si  ha  nel  terreno  come  dire  una  solu- 
zione nella  quale  le  viti  vegetano  a  grande  stento;  si  ha  un  soverchio  as- 
sorbimento di  acqua  che  non  può  smaltirsi  se  non  in  piccola  parte 
per  evaporazione,  essendo  poche  le  foglie:  si  ha  altresì  una  scarsa 
provvista  di  materiali  inorganici;  infine  una  produzione  di  germogli 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  317 

esili  eà  allungati,  e  quindi  delle  gemme  rachitide,  mal  conformate 
già  dal  loro  nascere;  quasi  diremmo  una  cattiva  gestazione  nella  pianta 
madre. 

Ma,  come  abbiamo  notato,  se  la  stagione  oltre  a  trascorrere  poco 
piovosa,  o  meglio  asciutta,  fosse  altresì  calda,  tanto  meglio:  allora 
potendosi  durante  il  giorno  raggiungere,  specialmente  in  maggio,  26 
o  27  gradi  di  calore  all'altezza  di  0m,50  ad  lra  dal  suolo  (cioè  nell'am- 
biente in  cui  si  trovano  ad  un  dipresso  le  viti  basse  o  mediane)  riesce 
di  molto  coadiuvata  la  formazione  del  legno,  quindi  le  gemme  na- 
scono da  un  alburno  ben  provvisto  di  principii  utili,  e  si  vanno  di 
poi  sempre  più  perfezionando  nel  maggio,  nel  giugno,  e  nei  mesi 
successivi,  se  l'estate  non  le  contraria. 

Vedremo  in  fine  che  le  osservazioni  fatte  nel  periodo  1855-83 
confermano  pienamente  questo  fatto: 

«  Che  durante  una  primavera  calda  e  sopratutto  poco  piovosa, 
«  nelle  viti  rigogliose,  in  terre  fertili,  ben  tenute,  dell'Alta  e  Media 
«  Italia  nonché  nelle  regioni  alte  e  fresche  del  Mezzodì,  le  gemme 
«  ascellari  primaverili  che  debbono  svolgersi  nel  successivo  anno  si 
«  organizzano  bene  ». 

Ed  è  questo  il  2°  indizio  di  cui  si  giova  la  carpoprognosia  appli- 
cata alla  viticultura. 

§  6.  Influenza  delle  altre  stagioni.  —  Abbiamo  già  detto  più 
sopra  che  dopo  l'influenza  della  primavera  sulle  gemme  nascenti, 
conveniva  studiare  l'influenza  dell'estate  susseguente. 

L'osservazione  del  citato  periodo  1855-83  ci  condusse  a  concludere 
che  ima  estate  poco  piovosa  e  calda  è  a  sua  posta  favorevolissima 
alla  buona  cresciuta  delle  gemme  ascellari  ed  alla  provvigione,  se 
così  possiamo  esprimerci,  dei  loro  serbatoi. 

Poiché  abbiamo  già  detto  che  ogni  bottone  reca  sotto  di  sé  un  rigon- 
fiamento del  legno,  una  specie  di  mensoletta,  o  cuscinetto  polputo,  rac- 
chiudente una  sostanza  di  apparenza  amilacea,  la  quale  funge  la  stessa 
parte  che  fungono  nei  semi  i  cotiledoni  ;  cioè  deve  alimentare  il 
tenero  germoglio  nella  successiva  primavera  sino  a  che  esso  non 
abbia  cacciato  le  foglie,  ed  intrecciate  le  sue  fibre  radicali  colle  fibre 
corticali  del  libro.  Oltre  a  ciò  anche  alla  base  delle  scaglie  carnose 
protettrici  delle  gemme  delle  viti,  si  trova  immagazzinata  sostanza 
nutritizia. 

Or  bene,  questa  provvista  si  fa  copiosa  in  un'estate  calda  e  poco 


318  CAPITOLO    VII 


umida,  od  anche  asciuttissima:  se  1'  estate  trascorre  piovosa  accade 
che  le  viti  continuando  senza  posa  a  cacciare  femminelle  e  foglie  e 
bottoni  ascellari  e  persino  femminelle  sulle  femminelle  (esempio,  il 
1875)  non  può  provvedere  siccome  converrebbe  ai  suddetti  serbatoi. 

Accade  poi  anche  un  fatto  pochissimo  considerato  sin  qui,  ma 
pure  importante  ed  è  che  «  le  gemme  meglio  sviluppate  sono,  in 
tali  casi,  quelle  della  punta  dei  germogli  primaverili.  »  Infatti  o- 
gnuno  avrà  notato  che  all'ascella  della  foglia  ove  trovasi  la  gemma 
sorge  spesso,  per  non  dire  sempre,  una  femminella,  per  cui  il  bot- 
toncello  rimane  collocato  tra  questa  ed  il  picciuolo  della  accennata 
foglia.  Ora,  tanto  quest'ultima  che  la  femminella  concorrono  a  nutrire 
meglio  cotale  gemma  ascellare,  la  quale,  trovandosi  per  di  più  in  punta 
ove  i  succhi  nutritori  riescono  meglio  elaborati  (essendo  queste  parti 
dei  tralci  penzoloni  ed  esposte  meglio  alla  luce  ed  al  calore)  finisce 
infine  per  essere  assai  preferibile  ai  bottoni  spuntati  alla  base  del 
tralcio;  i  quali,  come  sanno  benissimo  gli  uomini  della  pratica,  sono 
poco  appariscenti,  piccoli,  foggiati  a  punta  e  forieri  di  scarsa  ven- 
demmia per  il  successivo  anno. 

Da  queste  osservazioni  è  facile  dedurre,  che  all'atto  della  potagione 
recidendosi  la  punta  di  così  fatti  tralci,  si  reciderà  né  più  né  meno 
che  la  loro  parte  migliore;  quindi  alla  germogliazione  nella  prossima 
ventura  primavera  si  verificheranno  questi  fatti: 

1°).  cotali  gemme  poste  sopra  serbatoi  scarsamente  provvisti  della 
necessaria  scorta  di  materiali  nutritizii  si  svilupperanno  male,  e  non 
troveranno  neppure  il  necessario  alimento  nel  tralcio,  esso  pure 
male  organizzato,  e  di  costituzione  quasi  diremmo  erbacea  e  floscia; 
quindi  l'aborto  di  molti  grappolini  in  viticci: 

2°).  quelli,  fra  i  suddetti  bottoni  dell'  anno  avanti,  i  quali  si 
troveranno  collocati  verso  la  parte  superiore  del  tralcio,  siccome  da- 
ranno i  loro  germogli  solo  quando  le  radici  della  pianta  madre  già 
funzionano,  porteranno  pur  tuttavia  un  qualche  grappolo. 

Concludendo  :  V  estate  piovosa  contraria  la  buona  cresciuta  dei 
bottoni  ascellari  formatisi  nella  precedente  primavera;  contraria  la 
copiosa  provvigione  dei  loro  serbatoi;  contraria  la  perfetta  forma- 
zione del  legno  dei  nuovi  getti,  cioè  dei  futuri  tralci  a  frutto;  con- 
traria la  buona  alimentazione  di  quelli  fra  cotesti  bottoni  che  sono 
posti  nella  parte  inferiore  dei  getti. 

In  sostanza  e  come  appunto  si  vedrà  nelle  osservazioni  sopra  ci- 
tate, è  contraria  ad  una  copiosa  vendemmia  per  il  successivo  anno. 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  319 

« 

Ed  è  questo  il  3°  indizio  o  criterio  che  si  deve  tener  a  calcolo 
per  la  carpoprognosia. 

Ma  lo  studio  dell'influenza  della  primavera  e  dell'estate  {tuttoché 
importantissimo  e  che  tale  basterebbe  forse  da  solo  in  certi  casi 
al  nostro  intento)  non  è  completo  in  ogni  emergenza:  ad  esso  deve 
pure  accoppiarsi  Tesarne  dell'  andamento  dell'autunno. 

Una  gemma  formatasi  sotto  buone  condizioni  in  primavera,  cre- 
sciuta bene  e  provvista  d'un  ricco  serbatoio  nell'estate,  ha  poco  da 
temere  dall'autunno  e  dal  verno  susseguenti:  e  quasi  si  potrebbero, 
come  dicevamo,  troncare  a  questo  punto,  in  settembre  cioè,  le  os- 
servazioni per  la  carpoprognosia. 

Se  non  che  l'osservazione  ci  ha  dimostrato  che  quando  l'autunno 
trascorre  secco  ed  abitualmente  sereno  il  raccolto  futuro  è  viem- 
meglio assicurato,  e  si  potrebbe  allora  con  una  tal  quale  sicurezza 
affermare  che  sarà  veramente  ubertoso  ;  (bene  inteso  si  parla  qui 
della  vendemmia  dell'anno  susseguente). 

Infatti,  se  sono  molte  le  giornate  a  sole  vivo  e  cocente  e  se  il 
terreno  non  è  inzuppato  da  piogge,  si  possono  facilmente  trovare, 
specialmente  durante  l'intero  mese  di  settembre,  le  condizioni  neces- 
sarie perchè  la  cellulosa  si  converta  in  sostanza  legnosa  od  amilacea 
coadiuvando  così  la  perfetta  formazione  del  legno  e  dei  serbatoi  sud- 
detti, nonché  delle  gemme.  Secondo  il  Prof.  Gaetano  Cantoni  bisogna 
per  ciò  che  la  temperatura  atmosferica  arrivi  a  -f-  27°  C.  e  quella 
del  terreno  a  circa  25°;  or  se  il  suolo  è  umido,  si  riscalda  troppo 
difficilmente,  e  quando  anche  giungano  in  settembre  giornate  nelle 
quali  la  temperatura  di  cui  godono  i  tralci  delle  viti  sia  di  27  a  30 
e  più  gradi,  non  si  hanno  le  preziose  trasformazioni  sopra  accennate. 

In  caso  opposto  e  specialmente  trattandosi  di  viti  basse  (le  quali 
perciò  vivono  negli  strati  più  caldi  dell'atmosfera,  che  sono  quelli  che 
più  avvicinano  il  terreno)  l'autunno  secco  ed  abitualmente  sereno  può 
giovare  assai,  e  nel  settembre  intero,  ed  anche  spesso  nell'ottobre. 

Ma  oltre  a  ciò  l'autunno  secco  e  caldo  può  giovare  anche  a  ri- 
mediare in  parte  ai  danni  della  precedente  estate,  supponendo  che 
sia  trascorsa  umida,  ed  in  ogni  caso  poi  a  migliorare  le  condi- 
zioni dei  tessuti  della  pianta.  In  tal  caso  questi  ultimi  saranno  so- 
verchiamente acquosi;  ma  se  l'aria  è  in  autunno  secca  e  calda,  può 
contenere  più  vapor  acqueo  che  non  a  temperature  più  basse,  quindi 
l'evaporazione  dai  tessuti  stessi  può  riescire  più  attiva,  e  questi  mi- 
gliorare così  sensibilmente  la  loro  costituzione. 


320  CAPITOLO    VII 


Infine,  dato  un  autunno  umidiccio,  i  tessuti  essendo  per  l'appunto 
troppo  acquosi,  nel  successivo  inverno  potrebbero  riescire  assai  più 
fatali  i  danni  dei  disgeli;  i  quali,  come  è  noto,  sono  poco  a  temersi 
se  la  pianta  non  è  impregnata  d'acqua.  È  superfluo  soggiungere  che 
questi  disgeli  riescono  talvolta  a  distruggere  molte  gemme,  facendo 
scemare  sensibilmente  il  prodotto  dell'annata. 

Infine  ci  rimane  a  studiare  l'influenza  dell'inverno,  la  stagione 
che  precede  il  momento  dello  sbocciamento  di  queste  gemme,  che  allora 
formerebbero  già  da  un  anno  circa  l'oggetto  delle  nostre  osservazioni. 

I  fatti  hanno  provato  che  anche  questa  stagione,  se  deve  essere 
favorevole  alla  fruttificazione  avvenire,  deve  trascorrere  secca,  con 
molte  giornate  a  cielo  sereno.  Certo  l'influenza  dell'inverno  non  è 
da  paragonarsi  a  quella  della  primavera,  e  tanto  meno  poi  a  quella 
dell'estate,  per  le  addotte  ragioni;  ma  pure  può  essere  utile  una  sta- 
gione non  umidiccia,  a  cielo  abitualmente  scoperto.  Ed  eccone  i  motivi. 

Anche  nel  verno  può  attivarsi  per  qualche  ora  del  giorno  la  ve- 
getazione e  ciò  accade  {Gaetano  Cantoni)  quando  la  temperatura 
del  terreno  esplorato  dalle  radici,  sia  almeno  di  -f-  5°  C.  e  quella  dell'a- 
ria, superiore  a  -f-  7°  C.  Ora  noi  abbiamo  potuto  constatare  che 
nelle  giornate  affatto  serene  e  quando  non  vi  sono  venti  freddi,  il 
tralcio  delle  viti  basse  (alla  latina,  ad  alberello,  alla  casalese,  alla 
Guyot  ecc.)  può  godere  d'una  temperatura  maggiore  di  7  gradi  du- 
rante alcune  ore  dopo  il  mezzodì:  e  così  pure  può  il  terreno,  se  non 
è  gelato,  portarsi  a  5°  negli  strati  suoi  che  sono  in  contatto  colle 
radici,  strati  compresi  all'ingrosso  fra  0m,30  e  0m,50  di  profondità. 
Dunque  durante  un  inverno  secco  ed  a  cielo  poco  nuvoloso  vi  pos- 
sono essere  parecchi  giorni  non  del  tutto  perduti  per  la  vegetazione. 

Or  bene,  in  queste  ore  utili  di  risveglio  vegetativo  si  ha  una  leg- 
gera evaporazione  per  la  corteccia,  ed  un  cotal  perfezionamento  nei 
tessuti,  come  ammetteva  anche  Giusto  Liebig.  Che  se  non  si  avrà  vera 
evaporazione,  certamente  si  dovrà  avere  la  traspirazione,  che  quasi 
diremmo  cutanea,  dagli  stomi  dell'epidermide,  fenomeno  fisiologico  che 
si  produce  specialmente  sotto  l'influenza  della  viva  luce  solare,  in- 
dipendentemente, secondo  alcuni,  dall'umidità  dell'aria  e  dalla  sua  tem- 
peratura (Guettard  e  DehérainJ. 

Senza  voler  fare  sforzi  di  induzione  per  dimostrare  come  da  questa 
traspirazione  invernale  possa  derivare  un  utile  per  le  vite,  poiché  è 
meglio  non  spiegare  che  spiegare  male,  diremo  solo  che  le  osservazioni 
che  seguono,  dimostrano  veramente  1'  utilità  d'  un  inverno  quale  lo 
abbiamo  più  sopra  indicato. 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  321 


§  7.  Osservazioni  e  pronostici  nel  periodo  1855-1884.  — 

Premesse  tutte  queste  considerazioni,  indispensabili  a  formarsi  un 
criterio  esatto  di  ciò  che  noi  chiamammo  Carpoprognosia,  radu- 
neremo in  uno  specchio  i  risultati  delle  osservazioni  che  si  riferi- 
scono ad  un  periodo  di  30  anni,  cioè  dal  1855  al  1884,  osserva- 
zioni che  confermano  ampiamente  tutto  quanto  precede  e  dimostrano 
come  questi  pronostici  della  fruttificazione  della  vite  abbiano  un  serio 
fondamento. 

Come  si  è  visto  per  le  viti  rigogliose  dell'alta  e  media  Italia,  poste 
in  terre  fertili  ecc.,  Vanno  secco  è  in  generale  più  giovevole  che 
Vanno  amido,  e  ciò  riescirà  evidente  a  chi  rifletta  alle  ragioni  e- 
sposte  al  §  5.  Però  non  si  vuol  con  ciò  inferire  che  sia  bene  ab- 
biano a  mancare  affatto  le  pioggie;  allora  si  cadrebbe  in  eccessi  op- 
posti. 

«  Che  esse  siano  quindi  moderale  durante  le  suddette  sta- 
«  gioni  —  ma  specialmente  in  primavera  e  nella  state  —  e  nel 
«  rimanente  sia  il  cielo  sereno,  e  perciò  potente  V  azione  della 
«  luce  e  del  calore  solare,  e  poi  (data  una  vigna  coltivata  con 
«  qualche  cura  ed  a  parte  i  possibili  danni  dell'oidio,  della  grandine 
«  ecc.)  si  potrà  andar  sicuri  di  avere  nelVanno  successivo  una 
«  abbondante  vendemmia.  » 

Ed  ecco  ora  la  suddetta  tabella  nella  pagina  seguente. 

L' inverno  comprende,  secondo  queste  osservazioni,  i  tre  mesi  di 
dicembre,  gennaio  e  febbraio,  e  così  di  seguito  di  tre  in  tre  per  le 
altre  stagioni. 

L'esame  di  questa  tabella  convincerà,  come  noi  crediamo,  lo  studioso 
delle  verità  delle  cose  sin  qui  esposte.  Le  quali  potranno  mancare 
di  una  più  soddisfacente  spiegazione  fisiologica  (la  fisiologia  vegetale 
essendo  tanto  bambina),  ma  non  per  questo  cessano  di  essere  vere. 

Gli  anni  ottimi  per  la  vendemmia  (parliamo  sempre  ed  unicamente 
dell'  alta  e  media  Italia  e  delle  viti  che  si  trovano  nelle  condizioni 
altrove  designate),  cioè  il  1862  ed  1871,  nei  quali  si  raccolsero  co- 
piosissime quantità  d'uva,  li  vediamo  preceduti  da  quattro  stagioni 
pressoché  identiche  per  condizioni  di  calore  e  di  umidità;  il  secco 
predominò  tanto  nella  primavera  che  nell'estate  e  nell'autunno,  e  se 
nell'estate  del  1870  si  ebbe  qualche  pioggia  di  più  che  nel  1861  ciò 
non  nocque  (come  non  poteva  nuocere)  al  prodotto  del  successivo 
1871,  perchè  anzitutto  le  pioggie  moderate  sono  pur  esse  utili,  eppoi 
poiché  l'autunno  dello  stesso  1870  fu  asciutto. 

0.  Ottavi,  Trattolo  di  Viticoltura  22, 


322 


CAPITOLO    VII 


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Abbreviazioni.  —  s.  piov.,  semi  piovoso  —  <j.    nonn 
—  s.  aorm.j  semi  o  quasi  aormale. 


quasi  normale   —  s.   asciutto,  semi  asciutto 


(1)  Ku  invece  scarsa  a.  cagione  della    primavera  umilia,   e  fredda  del  1876  —  (2)  Fu   invece  b a 

soltanto  perchè  le  piogge  della  primavera  del  1878  furono  cagione  di  molta  cascola. — f.i)  Nonio  fu 
dappertutto.  Nell'Alta  Italia  vi  era  bensi  poca  uva,  ma  in  varii  locali  dopo  tre  mesi  di  siccità,  se- 
guita da  aleune  piogge  moderate,  essa  ingrossò  mollo  e  il  reddito  ivi  fu  buono.  —  (4)  Fu  itero  dan- 
neggiata moltissimo  dalla  peronospora  e  dall'antracnosi.  —  (5)  Danneggiato  dalla  peronospora.  —  (6)  Fu 
pei'o  quasi  distrutto  dalla  peronospora  e  dalle  grandini.  Ma  la  promessa  in  primavera  era  assai  beila 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  323 

Al  contrario  gli  anni  di  scarsa  vendemmia  si  mostrano  in  tutti  i 
casi  preannunciati  da  primavere  umide  nell'anno  precedente;  e  certo 
questa  stagione,  che  è  quella  come  vedemmo  in  cui  formansi  i  bot- 
toni, deve  avere  una  marcatissima  influenza,  tale  che,  come  accadde 
nel  1860,  neppure  un'  estate  caldissima  può  modificarla  a  prò  della 
fruttificazione  avvenire. 

In  nessun  caso  poi  una  primavera  umida  e  fredda  ha  permesso 
nell'anno  successivo  una  vendemmia  soltanto  buona;  essa  fu  sempre 
scarsa  o  mediocre,  a  seconda  che  fu  molto  umida  e  fredda,  o  umida 
e  calda  e  via  dicendo. 

Del  resto  non  bisogna  mai  perdere  di  vista  l'entità  della  vendemmia 
precedente:  così  se  il  1864  potè  (benché  piovosissima  la  primavera 
del  1863)  vantare  una  raccolta  buona,  si  fu  perchè  nel  1863  se  ne 
ebbe  una  mediocre:  la  vigna  quindi  non  doveva  essere  molto  esausta, 
e  le  gemme  benché  formatesi  sotto  condizioni  poco  buone,  poterono 
crescere  bene  e  perfezionarsi;  ciò  tanto  più  se  si  riflette  che  la  pri- 
mavera del  1863  fu  calda  —  tuttoché  piovosissima  —  e  calde  fu- 
rono pure  le  stagioni  susseguenti;  l'eccesso  d'umido  potè  quindi  es- 
sere comodamente  smaltito. 

Gli  anni  buoni,  cioè  di  vendemmia  ubertosa  senza  essere  abbon- 
dantissima, succedono  sempre  a  stagioni  normali,  tanto  per  calore 
che  per  umidità,  e  ciò  conferma  viemmeglio  le  cose  anzidette. 

Ma  quello  su  cui  ci  preme  maggiormente  di  insistere  egli  è  sulla 
necessità  di  raggruppare  fra  loro,  e  confrontare  e  coordinare 
i  cinque  criterii  suddetti,  la.  vendemmia  cioè,  la  primavera, 
l'estate  e  l'autunno  delV  anno  pcecedente  e  V  inverno  dell'  anno 
stesso,  se  si  vuole  formarne  un  unico  criterio  attendibile.  Ed 
egli  è  soltanto  con  questa,  quasi  diremo,  compensazione,  che  esami- 
nando la  tabella  suddetta  si  potrà  trovare  la  conferma  del  fin  qui 
detto. 

§  8.  Deduzioni  utili  per  la  pratica.  —  Ci  rimangono  a 
trattare,  a  guisa  di  appendice  a  questi  studi,  due  argomenti  assai 
importanti: 

1.)  accennare  alle  pratiche  che  sono  oggi  in  nostro  potere  per 
ovviare  almeno  in  parte  ai  cattivi  influssi  delle  condizioni  meteoriche 
d'un'annata,  sulla  vendemmia  dell'anno  susseguente; 

2.)  accennare  alla  questione  economica  cosi   felicemente  risolta 


324  CAPITOLO   VII 


col  mezzo  della  carpoprognosia,  quella  cioè  di  esitare  sempre  il  proprio 
vino  a  prezzi  rimuneratori,  anche  nelle  annate  d'ubertosissima  ven- 
demmia. 

È  indispensabile  svolgere  anche  questi  due  punti,  prima  di  porre 
termine  a  questo  capitolo. 

Consideriamo  brevemente  il  primo  fra  i  due:  —  quando  il  viti- 
cultore,  tutto  ben  ponderato,  è  quasi  certo  che  l'anno  successivo  la 
vendemmia  sarà  scarsa,  non  dovrà  rassegnarvisi,  ma  invece  vedrà 
ogni  maniera  per  venire  coll'arte  sua   in   soccorso  alle  proprie  viti. 

È  un  fatto  degno  di  rimarco  che  per  i  bravi  viticultori  quasi  non 
esistono  le  male  annate;  per  costoro  questi  studii  di  carpoprognosia 
tornano  pressocchè  inutili  perchè  a  dispetto  dell'andamento  delle  sta- 
gioni essi  riescono  a  mantenere  le  proprie  viti  in  condizioni  normali 
ad  un  dispresso,  e  la  fruttificazione  vi  è  almeno  discreta  anche  nelle 
annate  così  dette  cattive.  Siccome  però  questi  viticultori  sono  pochi 
assai,  e  siccome  d'altra  parte  essi  pure,  per  la  migliore  vendita  dei 
loro  prodotti  possono,  come  diremo  fra  breve,  trarre  grande  giovamento 
da  questi  prognostici,  così  anche  per  essi  non  riesciranno  affatto  i- 
nutili,  come  parrebbe  a  primo  aspetto. 

Intanto  però,  attenendoci  alle  condizioni  generali  di  quasi  tutti  i 
nostri  vigneti,  i  cui  ceppi  si  lasciano  crescere  a  benefizio  di  natura, 
(tolte  poche  pratiche  di  cui  non  sarebbe  possibile  fare  a  meno)  di- 
remo succitamente  che: 

a)  Durante  gli  anni  di  abbondanza  si  deve  provvedere  la  vite 
di  buona  copia  di  opportuni  concimi,  acciò  possa  riparare  alle  gravi 
perdite  cui  la  fa  soggiacere  il  frutto  e  si  predisponga  bene  colle  sue 
gemme  ascellari  ad  una  copiosa  fruttificazione  nell'anno  successivo; 

b)  Trascorrendo  umida  assai  la  primavera,  ad  evitare  i  gra- 
vissimi inconvenienti  che  già  accennammo,  fa  mestieri  porre  in  pra- 
tica tutti  quei  mezzi  (fognatura,  fossi  di  scolo,  ecc.  ecc.)  che  gio- 
vano a  dare  pronto  smaltimento  alle  acque  piovane;  e  nel  tempo  i- 
stesso  praticare  il  «  salasso  primaverile  »  delle  viti,  operazione 
viticola  di  cui  parleremo  al  cap.  XXVIII.  Il  salasso  ha  per  iscopo  non 
solo  di  frastornare  i  gravissimi  danni  dell'aborto  nei  fiori  dell'annata, 
ma  quello  altresì  di  cooperare  in  modo  assai  efficace  al  buon  sviluppo 
delle  gemme  ascellari  che  formano  oggetto  precipuo  di  queste  ri- 
cerche. 

Non  vogliamo  qui  entrare  a  descrivere  il  salasso  delle  viti  perchè 
non  è  questo  il  luogo  opportuno;  ci  basti  l'accennare  che  se  la  pri- 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  325 

mavera  (maggio)  trascorre  molto  umida,  se  non  si  provvede  a  questo 
guajo,  l'anno  dopo  le  gemme  danno  quasi  sempre  fiori  che  aborti- 
scono. Naturalmente  poi  trascorrendo  la  primavera  molto  secca  e 
calda  queste  pratiche  non  sono  punto  da  consigliarsi  specialmente 
se  le  viti  sono  poco  rigogliose  perchè  attempate; 

e)  Avendosi  un'  estate .  umida  assai  bisogna  praticare  —  con 
molto  discernimento  però  —  quelle  operazioni  che,  come  le  cima- 
ture, le  ricimature  dei  getti  e  delle  femminelle,  la  scacchiatura  o 
spollonatura,  in  una  parola  la  potatura  verde,  hanno  per  iscopo  di 
impedire  gli  inconvenienti  che  già  accennammo;  si  badi  però  che  di- 
cemmo a  bello  studio  «  con  molto  discernimento  »  perchè  è  noto, 
tanto  per  citare  un  esempio,  che  trattandosi  di  viti  ricche  di  umori, 
rigogliose  e  giovani,  le  scacchiature  vogliono  essere  moderate  assai, 
se  non  si  vuole  che  l'eccesso  di  umore  danneggi  le  gemme  ascellari; 
d)  Che  infine,  trascorrendo  umidi  l'autunno  e  l'inverno,  giove- 
ranno moltissimo  a  queste  gemme  e  la  fognatura  ed  i  fossi  di  scolo 
già  accennati.  Oltre  a  ciò  gioverà  pure  il  ritardare  la  potatura,  a 
fine  di  provocare  il  pianto  delle  viti  che  è  cotanto  giovevole  in 
ispecial  modo  alle  piante  robuste,  rigogliose,  giovani  che  crescono 
in  terreni  pingui.  Infine  in  certe  condizioni  gioverà  altresì  —  per 
ovviare  agli  inconvenienti  delle  due  suddette  stagioni,  se  umidicce 
—  la  potatura  ricca,  cioè  o  con  più  tralci  frutticosi  ovvero  con  tralci 
frutticosi  più  lunghi  del  consueto,  tanto  per  avere  un  maggior  fra- 
zionamento del  succo. 

Ma,  lo  ripetiamo,  qui  non  intendiamo  entrare  nel  vasto  campo 
della  pratica  viticola,  che  sarà  oggetto  dei  capitoli  seguenti;  abbiamo 
solo  voluto  porre  sotto  gli  occhi  di  chi  legge,  come  possano  questi 
studii  di  carpoprognosia  giovare  anche  al  viticultare,  servendogli  di 
guida  nelle  svariate  operazioni   dell'arte  sua. 

Ora  veniamo  alla  questione  economica,  che  interessa  assai  da  vi- 
cino l'enologo. 

Le  annate  di  grande  abbondanza  d'uva  si  può  ben  dire  che  non 
si  seguono  mai;  rare  volte  poi  accade  che  ad  un'annata  buona,  un'altra 
ne  segua  pure  tale;  ma  con  tutto  ciò  il  caso  si  dà,  e  ne  ebbimo 
un  esempio  nel  1874  e  nel  1875.  Tolti  questi  casi  eccezionali  si  può 
stabilire,  in  tesi  generale,  che  le  vendemmie  buone  e  le  mediocri  o 
le  cattive  si  alternano  d'anno  in  anno;  così  ne  viene  che  il  prezzo 
del  vino  segue  la  stessa  curva,  le  stesse  oscillazioni.  Nel  Basso  Mon- 
ferrato si  alternano  generalmente  parlando  questi  prezzi: 


326  CAPITOLO    VII 


20  —  30       ,       ,. 
40  ,>()  ali  ettolitro 

Possono  capitare  due  anni  consecutivi  nei  quali  il  vino  valga  60 
lire,  come 

1854  L.  66  in  media  all'ettolitro 

1855  »    67        »  » 

e  possono  capitare  invece  due  anni  di  seguito  in  cui  non  valga  che 
da  20  a  30  lire,  come 

1865  L.  23  in  media  all'ettolitro 

1866  »    27         »  » 

Ma  tre  anni  consecutivi  di  prezzi  bassi,  inferiori  cioè  alle  30  lire, 
nella  citata  plaga  non  si  sono  verificati  in  questi  30  anni,  e  ciò  non 
ci  pare  difficile  a  spiegarsi  dietro  quanto  dicemmo  sulla  fruttifica- 
zione delle  viti. 

Ora  egli  è  evidente  che  chi  sapesse  approfittare  dei  prezzi  suddetti 
di  50  oppure  60  lire  Y  ettolitro,  offrendo  ai  compratori  nelle  annate 
di  scarsa,  o  solo  di  mediocre  vendemmia,  del  vino  prodotto  a  20 
o  30  lire  nelle  annate  abbondanti  o  buone,  ricaverebbe  tale  utile 
dalla  sua  industria  da  persuaderlo  di  leggieri  che  l'industria  del  vino, 
esercitata  con  criterio  ed  accortezza,  è  la  più  lucrosa  di  quante  si 
conoscono  e  si  esercitano  in  paese. 

Ma  per  giungere  a  tale  risultato,  fa  mestieri  non  solo  fabbricare 
bene  il  vino,  in  guisa  da  saperlo  serbare  anche  per  24  mesi  in  cantina; 
ma  saper  anche  prevedere  con  una  certa  quale  approssimazione  come 
andrà  la  vendemmia  nell'anno  susseguente.  E  così,  prevedendosi  — 
dietro  i  criterii  della  carpoprognosia  —  una  vendemmia  copiosa  per 
l'anno  dopo,  si  potrà  esitare  il  proprio  vino  ai  prezzi  correnti,  senza 
attendere  un  rialzo  impossibile,  ed  anche  per  non  lasciarsi  cogliere 
da  una  straordinaria  raccolta  colle  cantine  tuttavia  occupate  dal 
vino  vecchio:  oppure  prevedendosi  una  assai  scarsa  raccolta  si  potrà 
serbare  il  proprio  vino  colla  certezza  di  rivenderlo  fra  10  o  12  mesi 
al  doppio  del  suo  valore,  e  lucrare  cosi  il  100  per  100,  come  già 
accade  a  qualche  accortissimo  enologo,  che  pur  opera  così  a  caso, 
cioè  senza  i  criterii  di  quella  prescienza  che  noi  qui  tentammo  di  sta- 
bilire. 

Né  ci  si  venga  a  parlare  degli    interessi  del   capitale    che  si   ter- 


PRONOSTICO  DELLA  FRUTTIFICAZIONE  DELLA  VITE  327 

rebbe  infruttuoso,  per  un  anno  e  forse  più,  in  cantina;  poiché  il  gua- 
dagno sarebbe  tale,  in  ogni  caso,  da  pagare  a  grande  esuberanza  i 
frutti,  come  si  potrebbe  vedere  dietro  un  calcolo  semplicissimo  che 
ognuno  può  istituire  da  sé. 

I  produttori  di  vino  sono  generalmente  le  vere  vittime  delle  oscil- 
lazioni che  subiscono  i  prezzi  della  preziosa  bevanda,  specialmente 
nelle  annate  assai  ubertose.  Dall'  altro  canto  vediamo  i  consumatori 
costretti  a  pagare  il  vino  a  carissimi  prezzi  quando  le  vendemmie 
sono  scarse. 

Ma  tutto  ciò  scomparirebbe,  e  si  avrebbe  il  tanto  desiderato  «  li- 
vellamento nei  prezzi  »  ove  almeno  i  più  ricchi  enologi  serbassero 
una  parte  o  tutto  il  loro  vino  (secondo  i  casi)  nelle  annate  d'abbon- 
danza per  esitarlo  solo  in  quelle  di  poca  raccolta.  Essi  vi  farebbero 
grassi  guadagni  ed  i  consumatori  avrebbero  a  loro  disposizione  una 
maggior  copia  di  vino  che  non  pagherebbero  mai  a  prezzi  esorbi- 
tanti; poiché  noi  chiamiamo  esorbitante  il  prezzo  di  70  lire  l'etto- 
litro per  vino  da  pasto  buono  (senza  essere  poi  di  qualità  speciale) 
quale  si  ebbe  non  di  rado  a  verificare  qui  in  Monferrato. 

Oltre  a  tutto  ciò  la  carpoprognosia  potrebbe  giovare  moltissimo 
nelle  annate  di  copiosa  vendemmia  nelle  quali  l'uva  scende  talvolta 
a  prezzi  vili:  infatti  allora,  essendo  già  trascorse  e  la  primavera  e 
l'estate  e  conoscendosi  1'  entità  della  vendemmia  presente  si  hanno 
di  già  tre  fra  i  più  importanti  criterii  sui  quali  si  basano  queste 
nostre  previsioni;  e  per  questo  si  può  con  grande  approssimazione 
predire  se  l'anno  successivo  sarà  di  nuovo  ubertoso  o  non. 

Ma  in  quest'ultimo  caso  è  evidente  che  niuna  miglior  speculazione 
vi  sarebbe  di  quella  del  fabbricare  molto  vino  colle  uve  suddette  a 
prezzi  bassissimi,  per  poi  rivenderlo  l'anno  dopo  al  doppio  ed  anche 
più  del  suo  valore. 

Così  accadde  per  esempio  nel  1871.  L'uva  nel  basso  Monferrato  si 
vendeva  a  10  o  12  soldi  il  miriagramma,  ed  il  vino  si  produsse  perciò 
al  massimo  a  12  lire  l'ettolitro  (vino  ottimo,  mercantile,  da  pasto):  — 
nell'anno  successivo  1872  il  vino  ebbe,  dopo  la  vendemmia,  un  va- 
lore maggiore  del  doppio,  e  coloro  che  avevano  vino  del  1871  lu- 
crarono il  100  per  100:  nel  1873  poi,  essendo  l'uva  salita  a  4  lire  il 
miriagramma,  il  vino  toccò  le  60  —  70  lire  per  ettolitro.  Ora  sa- 
rebbe stato  facile  —  mediante  questi  nostri  studii  —  prevedere  la 
scarsità  d'uva  del  1873,  poiché  i  due  anni  precedenti  erano  stati  ab- 
bondanti, anzi  il  1871  abbondantissimo,  e  sopratutto  perchè  il  1872 


328  CAPITOLO    VII 


era  trascorso  pochissimo  favorevole  alla  fruttificazione  del  successivo 
anno  (veggasi  la  tabella):  siccome  il  vino  buono  del  1872  si  era 
prodotto  a  circa  30  lire  l'ettolitro,  così  vendendolo  nel  1873  anche 
a  sole  60  lire  (prezzo  dei  vini  usuali,  poiché  i  scelti  toccarono  le 
70)  si  sarebbe  anche  qui  lucrato  comodamente  il  100  per  100.  Non 
parliamo  poi  dei  guadagni  che  avrebbe  potuto  fare  chi  avesse  avuto 
scorte  del  vino  del  1871  prodotto  a  12  lire  l'ettol.:  gli  interessi  dei 
capitali  nei  due  anni  circa  d'infruttuosità  sarebbero  stati  pagati  più 
che  comodamente  e  l'industria  avrebbe  pur  tuttavia  reso  più  del  100 
per  100. 

Sotto  questo  aspetto  nessuna  industria  può  reggere  il  confronto 
con  quella  del  vino,  e  se  si  costituissero  Associazioni  per  questo 
unico  scopo,  gli  azionisti  ne  ritrarrebbero  i  più  lauti  guadagni. 

Qui  poniamo  termine  a  questi  studii  e  tentativi  di  Carpoprognosia, 
nutrendo  fiducia  che  troveremo  per  essi  dei  seguaci,  acciò,  in  un 
tempo  non  lontano,  possa  questo  ramo  della  meteorologia  agricola 
poggiare  su  più  solide  ed  ampie  basi. 


CAPITOLO  Vili 


Il  terreno  per  la  vite, 


Après  avoir  passe  en  revue  la  nature  du 
sol  d'un" grand  noinbre  de  vignobles 
renommés,  il  est  impossible  de  trouver  une 
seule  nature  de  terrain  qui  ne  fournisse 
un  exeinple  d'un  vin  célèbre  naissant  à 
sa  sur face. 

Gasparin  —  Cours  d'Agriculturej 
T.  IV,  p.  638. 


1.  Il  terreno  per  la  vite  —  §  2.  Natura  chimica  del  terreno  —  §  3.  Influenza 
della  natura  chimica  del  terreno  sui  fenomeni  d'assorbimento  —  §  4.  Compo- 
posizione  delle  ceneri  della  vite  —  §  5.  I  quattro  elementi  immediati  e  loro 
influenza  sulla  quantità  e  qualità  del  prodotto  della  vite  —  §  %.  Riassunto 
sull'influenza  della  natura  chimica  del  suolo  —  §  7.  Natura  fisica  del  terreno 
—  §  8.  Riassunto  sulle  proprietà  chimiche  e  fisiche  del  terreno  in  relazione 
colla  vite  —  §  9.  Esposizione  —  §  10.  Giacitura. 


§  1.  Il  terreno  per  la  vite.  —  Tutti  gli  autori  che  scrissero 
di  viticultura  pongono  la  vite  tra  le  piante  meno  esigenti  in  quanto 
al  terreno.  La  vite  quando  trovi  a  sé  confaciente  il  clima,  facilmente 
si  contenta  del  terreno.  Nello  studio  che  faremo  su  quest'argomento 
cominceremo  dal  considerare  la  composizione  chimica,  per  venire  poi 
a  quello  ben  più  importante  della  struttura  e  delle  proprietà  fìsiche. 
Completeremo  infine  le  notizie  sulla  esposizione  e  sulla  inclinazione 
del  terreno  date  nel  capitolo  VI.  Come  si  vedrà,  questi  diversi 
coefficienti  che  contribuiscono  a  formare  la  maggiore  o  minore  bontà 
del    terreno  per    la  vite,  sono  strettamente    legati  fra    di  loro,  e  si 


330  CAPITOLO   Vili 


influenzano  a   vicenda  in  modo,    che  nessuno  di  essi    è  tale  da  non 
poter  essere  dagli  altri  modificato  nei  suoi  effetti. 

§  2.  Natura  chimica  del  terreno.  —  È  stato  detto  e  cre- 
diamo con  ragione,  che  la  composizione  chimica  del  terreno  non  è 
mai  un  ostacolo  alla  formazione  d'un  buon  prodotto.  Questo  potrebbe 
dispensarci  dal  trattare  della  natura  chimica  del  terreno  per  la  vite, 
e  potremmo  passare  senz'altro  alla  trattazione  delle  proprietà  fisiche 
le  quali  sono  al  contrario  della  più  alta  importanza  nella  coltura 
che  ci  occupa. 

Ma  tuttavia,  acciocché  quella  proposizione  non  riesca  a  qualcuno 
troppo  assoluta  e  avventata,  daremo  innanzitutto  qualche  esempio  che 
varrà,  meglio  d'ogni  dimostrazione,  a  dimostrarne  la  verità.  Osser- 
viamo i  vini  celebri  italiani,  francesi  e  d'altri  paesi;  ci  persuaderemo 
che  non  v'ha  natura  di  terreno  che  non  si  possa  con  vantaggio  appli- 
care alla  coltura  della*  vigna.  Noi  troveremo  che  un  terreno  calcare 
è  quello  che  più  si  acconcia  alla  produzione  del  Nebbiolo,  che  i  ter- 
reni vulcanici  producono  prodotti  in  vino  abbondantissimi  nella  re- 
gione Etnea  e  del  Vesuvio  e  nei  colli  Laziali,  troviamo  un  terreno 
granitico  pei  vini  famosi  dell'Hermitage,  un  terreno  sabbioso  o  ciot- 
toloso nel  Médoc,  terre  calcari  e  marnose  nella  Costa  d'Oro,  sabbie 
quarzose  a  Xeres,  schisti  argillosi  a  Malaga,  terre  cretose  nella 
Sciampagna,  sabbie  nere  e  ricche  di  humus  a  Tokai. 

Le  sabbie  calcari  leggere,  come  ne  ha  molte  la  provincia  d'Ales- 
sandria, sono  eccellenti.  I  terreni  calcari  sono  buoni  anche  pel  fatto 
che  resistono  meglio  alla  siccità  e  ai  calori  estivi,  mentre  i  terreni 
neri  basaltici  di  cui  si  trovano  esempi  nella  provincia  di  Vicenza, 
non  riflettendo  i  raggi  solari,  fanno  sì  che  la  vigna  soffra  assai  i 
danni  del  secco.  —  Nel  compartimento  francese  della  Marne  i  ter- 
reni che  danno  i  prodotti  più  rinomati  hanno  uno  strato  poco  pro- 
fondo di  terra  vegetale  e  sotto  di  esso  un  sottosuolo  calcare  cretoso. 
Infine  abbiamo  in  Italia  il  proverbio  la  vite  nel  sasso,  e  lo  studio 
dei  vigneti  di  regioni  le  più  disparate,  di  cui  abbiamo  numerosi  esempi 
in  Guyot,  in  Ladrey  e  in  altri  autori  di  viticoltura,  ci  ricorda  una  quan- 
tità di  plaghe  vitifere  a  produzione  abbondantissima  e  in  cui  la  vite 
cresce  e  prospera  tra  le  pietre.  Sono  queste  regioni  per  lo  più  le  calde, 
ma  anche  le  centrali  ne  porgono  esempii.  Abbiamo  in  Francia  le  piane, 
che  Guyot  chiama  desolate,  della  Crau,  le  pietre  e  le  roccie  quasi  senza 
terra  delle  garrigues  dei  Pirenei  Orientali,  della  Dròme,  dell'Hérault, 


IL  TERRENO  PER  LA  VITE  331 

abbiamo  in  Spagna  una  regione  tra  la  Sierra  Morena  e  le  Cordi- 
gliere di  Moclin  tutta  a  sabbie  e  ciottoli,  affatto  sterile,  e  che  pare 
non  si  possa  prestare  a  vegetazione  alcuna,  la  quale  pure  si  adatta 
assai  bene  alla  vite.  Terreni  consimili  si  trovano  all'isola  di  Madera  e 
alle  isole  Azorre,  nelle  quali  la  vigna  costituisce  uno  dei  prodotti 
più  importanti. 

V'è  però  un'altra  considerazione  a  farsi,  ed  è  che  gli  effetti  della 
composizione  chimica  del  suolo  possono  essere  notevolmente  modi- 
ficati dalla  composizione  fìsica  del  suolo  stesso.  L'illustre  agronomo 
Gasparin  studiò  V  influenza  che  poteva  avere  su  terreni  di  eguale 
natura  chimica,  la  facilità  più  o  meno  grande  colla  quale  il  terreno 
trattiene  l'acqua:  ne  concluse  che  da  un  terreno  secco  si  ottiene 
uva  ricca  assai  di  zucchero  ma  relativamente  sprovvista  d' acidi, 
mentre  in  un  terreno  fresco  la  proporzione  di  acidi  era  maggiore. 
Da  un  terreno  umido  si  otterrebbe  un  frutto  in  cui  predominano  gli 
acidi,  l'albumina  e  le  mucillagini  a  pregiudizio  della  proporzione  dello 
zucchero. 

Si  aggiunga  che  sulle  proprietà  del  terreno  relative  ai  fenomeni 
d'assorbimento  la  composizione  chimica  ha  una  notevole  influenza.  Di 
qui  la  necessità  di  far  precedere  un  breve  studio  sui  componenti  del 
terreno;  poiché  è  evidente  lo  stretto  legame  tra  le  proprietà  del  ter- 
reno e  la  sua  composizione  chimica,  per  quanto  la  conoscenza  di 
quest'ultima  non  possa  fornire  argomento  a  conchiusioni  assolute 
sulla  fertilità  del  suolo  stesso  —  come  vedremo  in  seguito. 

§  3.  Influenza  della  natura  chimica  del  terreno  sui  fe- 
nomeni d'assorbimento.  —  Le  esperienze  del  Dr.  Way  dimostrarono 
che  tutte  le  argille,  i  silicati  idrati  d'allumina,  esercitano  una  grande 
influenza  sui  fenomeni  d'assorbimento,  mentre  poca  ne  esercitano  le 
terre  calcaree  e  pochissimo  le  terre  sabbiose.  Ne  nasce  da  ciò  che  se 
noi  confideremo  al  terreno  elementi  fertilizzanti,  la  loro  soluzione, 
attraversando  lo  strato  coltivabile  cederà  più  o  meno  di  questi  ele- 
menti a  seconda  del  predominio  del  terreno  dell'  alimento  argilloso, 
calcare  o  siliceo. 

Aggiungendo  al  terreno  del  cloruro  di  potassio  e  del.  solfato  d'am- 
moniaca avviene  un  mutuo  scambio  tra  i  silicati  doppi  (zeolitici)  con- 
tenuti nel  terreno  e  il  sale  aggiunto.  La  potassa  e  l'ammoniaca  oc- 
cupano il  posto  della  calce  nel  zeolite,  mentre  la  calce  si  combina 
coli'  acido  cloridrico    del  cloruro    o  solforico    del  solfato.    Tutto    ciò 


332 


CAPITOLO    Vili 


gioverebbe  adunque  a  quel  complesso  d'azioni  che  contribuiscono  alla 
formazione  dell'argilla.  Ed  è  nell'argilla  che  trovansi  gli  alcali  e  spe- 
cialmente la  potassa  che  un    terreno  può    abbandonare    alle  piante. 

Ma  anche  un  altro  elemento  importantissimo  viene  assorbito,  ed  è 
l'acido  fosforico.  Il  Dr.  Wólcher  dimostrò  che  se  esso  trovasi  nelle  so- 
luzioni allo  stato  di  fosfato  d'ammoniaca  o  di  potassa,  viene  dal 
terreno  trattenuto  tutto  il  sale,  mentre  se  si  tratta  di  fosfato  sodico 
solo  l'acido  fosforico  viene  trattenuto,  mentre  la  soda  esce  dal  ter- 
reno stesso. 

La  conclusione  di  tutto  ciò  è  che  sarà  interessante  il  conoscere 
se  in  un  terreno  predomina  l'elemento  argilloso,  poiché  1°)  in  questo 
caso  saremo  certi  che  in  tale  terreno  sarà  grande  la  facoltà  assor- 
bente, ossia  il  potere  di  assorbire  e  trattenere  delle  sostanze  dalle 
soluzioni  che  lo  attraversano;  2°)  Perchè  si  sa  che  i  terreni  argillosi 
formati  dalla  disgregazione  delle  roccie  feldspatiche  contengono  na- 
turalmente più  potassa  degli  altri.  Gli  ultimi  progressi  della  chimica  a- 
graria  ci  permettono  di  affermare  questo  fatto.  Si  provò  infatti  a 
trattare  un  terreno  con  acido  cloridrico  concentrato  e  quindi  privato 
di  silicati  zeolitici,  i  quali  come  abbiamo  veduto  possono  dar  luogo 
ad  uno  scambio  chimico  delle  rispettive  basi;  orbene  ne  risultò  che 
facendo  attraversare  delle  soluzioni  di  cloruri,  nitrati  e  solfati  per 
quel  terreno  non  vi  era  più  assorbimento  di  basi  alcaline  (potassa, 
ammoniaca)  o  terro-alcaline  (calce,  magnesia). 

§  4.  Composizione  delle  ceneri  della  vite.  —  Dimostrata 
cogli  argomenti  svolti  al  cap.  V,  nonché  nei  precedenti  paragrafi,  l'op- 
portunità —  se  non  la  necessità  —  di  conoscere  le  principali  ma- 
terie occorrenti  alla  nutrizione  della  vite,  daremo  le  seguenti  cifre 
del   Wolff  le  quali  si  riferiscono  a  100  in  peso  di  ceneri  : 


Principali  sostanze 
componenti  le   ceneri 

Foglie 
verdi 

Tralci 

44,1 
36,0 
4,8 
7,1 
1,8 
1,2 

Semi 

Bucce 

Mosto 
d'uva 
acerba 

Mosto 

d'uva 

matura 

Potassa 

Calce 

Magnesia 

Acido  fosforico   .     .     . 

»      solforico   .     .     . 

Silice 

23,9 

20,  3 

8,1 

15,1 

3,1 

5,0 

27,4 

32,2 

8,5 

27,0 

2,4 

1,0 

41,9 

21,7 

4,4 

15,  C) 

3,8 
2,6 

66,3 
5,2 
3,2 

15,4 
5,2 
2,0 

65,0 
3,4 
4,7 

16,6 
5,5 
2,1 

IL  TERRENO  PER  LA  VITE  333 

Basta  dare  uno  sguardo  alla  tabella  del  Wo///"per  rendersi  ragione 
di  ciò  che  si  dice  comunemente,  che  cioè  la  vite  è  una  pianta  a  po- 
tassa. La  potassa  infatti,  come  già  dicemmo  al  Cap.  V,  è  l'elemento 
che  in  proporzione  maggiore  concorre  nella  vite  a  formare  la  parte 
erbacea,  la  legnosa,  e  specialmente  il  frutto. 

Ma  ad  evitare  che  da  questa  rilevante  proporzione  di  potassa  con- 
tenuta nella  vite  si  traggano  conseguenze  troppo  assolute,  sottopor- 
remo due  fatti  di  singolare  importanza,  i  quali  fra  le  altre  cose  var- 
ranno anche  a  dimostrare  quanto  sia  limitata  Y  importanza  che  si 
deve  attribuire  all'  analisi  chimica  di  un  terreno. 

Le  esperienze  di  Boussingault  e  di  Vergnefte  hanno  dimostrato 
che  la  vigna  non  esige  nel  terreno  una  quantità  di  materie  alcaline 
(la  potassa  è  appunto  una  sostanza  alcalina)  più  grande  di  quella 
assorbita  da  altri  raccolti:  non  ostante  la  grande  quantità  di  alcali 
esistente  in  qualcuno  dei  suoi  prodotti  (specialmente  nel  frutto),  la 
vigna  non  toglie  alla  terra  più  di  quello  che  tolgano  altre  piante  (1). 
Queste  esperienze  di  Boussingault  e  di  Vergnette  giovarono  a 
prevenire  un  errore  in  cui  si  poteva  troppo  facilmente  incorrere. 
Era  naturale  che  si  credesse  necessaria  nel  terreno  una  quantità 
grandissima  di  potassa,  specialmente  anche  dopo  le  esperienze  di 
Gueymard,  le  quali  dimostrarono  che  le  ceneri  dei  tralci  sono  più 
ricche  in  sali  alcalini  ed  in  fosfati  che  quelle  del  ceppo:  quelle  della 
vinaccia  sono  più  ricche  di  quelle  del  tralcio,  quelle  del  vino  più 
ricche  ancora.  Adunque  le  parti  più  alcaline  sono  quelle  che  servono 
alla  produzione  del  vino,  onde  quella  credenza  era  naturale.  Eppure 
si  provò  che  la  barbabietola,  la  patata,  il  frumento  tolgono  al 
terreno  più  alcali  di  quanto  ne  toglie  la  vigna  nelle  medesime  con- 
dizioni. La  causa  di  questa  apparente  contraddizione  sta  in  ciò,  che 
parte  dei  sali  alcalini  contenuti  nelle  foglie  della  vite  resta  nel  ter- 
reno. E  poi  si  consideri  che  se  le  ceneri  del  vino  sono  più  ricche  di 
potassa,  esse  ceneri  sono  per  altro  in  piccolissima  quantità.  Si  può 
quindi  conchiudere  che  la  vigna  esige  meno  potassa  ed  elementi  mi- 
nerali in  genere  delle  altre  colture.  (2)  S'aggiunga  che  essa  occupa 
un  cubo  di  terreno  non  determinato,  perchè  può  estendere  assai  le 
sue  radici,  e  ciò  spiega  in  parte  perchè  la  vite  spesso  trovi  il  suo 
nutrimento  anche  in  terreni  aridissimi. 


(1)  Vedi  Cap.  V,  pag.  126. 

(2)  JoiUie,  pag.  348  (Engrais  Chimiques), 


334  CAPITOLO    Vili 


Ma  vi  è  un'altra  circostanza  da  considerare  ed  è  il  diverso  grado 
di  assimilabilità  della  potassa  e  qui  sta  il  secondo  dei  fatti  che 
volevamo  osservare. 

Esso  si  lega  al  principio,  ormai  accettato  dai  chimici  agronomi,  che 
l'analisi  chimica  non  basta  a  dare  un'idea  della  fertilità  d'un  terreno. 
E  poiché  siamo  a  parlare  della  potassa  esistente  nel  suolo,  gio- 
viamoci di  questo  esempio,  il  quale  ci  semplificherà  alquanto  il  cam- 
mino da  percorrere. 

Quando  non  si  avevano  ancora  idee  esatte  sulF  assorbimento  delle 
sostanze  contenute  nel  terreno  per  parte  dei  vegetali,  e  sulle  condi- 
zioni che  lo  regolano,  si  attribuiva  all'  analisi  chimica  una  grande 
importanza.  La  si  riteneva  un  dato  sufficiente  per  giudicare  della 
fertilità  di  un  terreno.  Ma  in  seguito  si  osservò  che  un  terreno  pro- 
veniente da  micaschisto,  ricco  cioè  di  potassa,  non  fa  prosperare 
piante  esigenti  potassa,  come  sarebbe  appunto  la  vite.  E  si  osservò 
contemporaneamente  che  certi  terreni  poveri  di  potassa  lo  possono 
fare,  e  lo  fanno  realmente  per  il  solo  motivo  che  in  quel  terreno 
la  potassa  esiste  sotto  forma  assimilabile.  Si  cita  ad  esempio  il  ter- 
reno della  foce  del  Nilo,  poverissimo  di  potassa,  ma  che  si  presta 
benissimo  alla  coltura  di  piante  così  dette  potassiche,  perchè  questa 
base  in  esso  è  contenuta  allo  stato  assimilabile. 

Se  adunque  siamo  a  questo  punto,  che  una  concimazione 
potassica  avrà  esito  favorevole  in  un  terreno  di  micaschisto 
mentre  avrà  pochissima  influenza  sul  terreno  del  Nilo,  dovremo 
conchiudere  che  Y  analisi  chimica  del  terreno  ci  dà  solo  un'  idea 
sulla  fertilità  possibile  di  esso,  ma  non  ci  porge  un  esatto  e  giusto 
criterio  sulla  sua  attitudine  a  questa  piuttosto  che  a  quella  coltiva- 
zione. 

Una  conclusione  sicura  per  quanto  indiretta  può  trarsi  dall'analisi 
chimica  ed  è  questa:  se  l'analisi  ci  dice  che  un  terreno  è  ricco  di 
potassa  e  tuttavia  vediamo  che  la  vite  od  altra  pianta  potassica 
non  vi  prosperano,  noi  conchiuderemo  che  questo  elemento  non  si  trova 
nel  terreno  allo  stato  assimilabile,  ed  in  tal  caso  bisognerà  ricorrere 
a  concimazioni  o  a  ripetute  lavorazioni,  le  quali  rendendo  la  terra 
maggiormente  esposta  all'azione  simultanea  degli  agenti  atmosferici, 
riducono  la  potassa  allo  stato  assimilabile.  Ecco  adunque  sino  a  qual 
punto  l'analisi  chimica  può  servire  di  guida  all'agricoltore.  L'analisi 
chimica  ci  dice  quale  è  la  ricchezza  del  terreno,  cioè  la  quantità 
di  materiali  utili  contenuti  in  esso,  mentre  l'analisi  unita  alle  espe- 


IL  TERRENO  PER  LA  VITE  335 

rienze  di  coltura  ci  conduce  ad    avere    un'  idea    prossima  al  vero 
sulla  fertilità. 

§  5.  I  quattro  elementi  immediati  (argilla,  silice,  calce  ed 
humus)  e  loro  influenza  sulla  quantità  e  qualità  del  prodotto 
della  vite.  —  Le  considerazioni  teoriche  sull'importanza  dell'argilla  nel 
terreno  per  la  vite  trovano  nella  pratica  una  dimostrazione  e  una 
conferma.  Abbiamo  veduto  infatti  come  la  chimica  agraria  moderna 
spiega  il  legame  che  unisce  l'elemento  argilla  all'elemento  potassa. 
E  la  pratica  così  dice  per  bocca  dell'illustre  H.  Marès  (1):  «  I  ter- 
reni argillosi  formati  dalla  disgregazione  delle  roccie  feldspatiche  con- 
tengono naturalmente  più  potassa  degli  altri.  Il  feldspato  è  un  mi- 
nerale alluminoso  a  base  di  potassa,  di  soda,  di  calce  ecc.  La  po- 
tassa che  esso  contiene  la  si  ritrova  nelle  argille  e  dà  molta  forza 
e  vigore  alla  vegetazione  della  vite.  I  terreni  puramente  calcari  o 
silicei  mancano  di  elementi  potassici  e  non  danno  mai  prodotti  così 
abbondanti.  Il  miscuglio  degli  elementi  argilloso  e  calcare  che  tro- 
vasi in  certi  terreni  e  sottosuoli  marnosi,  è  una  delle  migliori  con- 
dizioni per  assicurare  la  durata  della  vigna  e  l'abbondanza  dei  suoi 
prodotti.  » 

Vediamo  ora  altre  cause  per  cui  il  predominio  di  uno  dei  quattro 
materiali   immediati  suddetti,  possa  influire  sul  prodotto  finale. 

I  terreni  argillosi  —  specialmente  se  ricchi  d'ossido  di  ferrò  — 
danno  vini  più  colorati  e  più  stabili  per  essere  più  ricchi  d'alcool. 
Il  Petit-Lafitte  nel  suo  pregiato  lavoro  La  vigne  dans  le  Borde- 
lais,  dice  che  talvolta  si  dà  colpa  alla  natura  troppo  argillosa  del 
terreno,  di  quel  sapore  speciale  terroso  del  vino  che  i  Francesi  chia- 
mano goùt  de  terroir. 

Ciò  è  confermato  anche  dal  Marès,  il  quale  aggiunge  che  quei 
medesimi  terreni  forti,  assai  argillosi  dai  quali  si  ottiene  il  vino  col 
gusto  di  terroir,  danno  invece  con  vitigni  ad  uva  bianca,  un  vino 
distintissimo. 

I  terreni  in  cui  v'ha  giusta  armonia  tra  la  silice  ed  il  calcare 
danno  vini  meno  colorati,  ma  più  fini  e  più  suscettibili  d'acquistare 
il  profumo  {bouquet).  Tali  terreni  trovansi  nel  mezzogiorno  della 
Francia  in    piane  più  o  meno  ondulate    tra  il  mare  e  le  montagne, 


(1)  Bes  vignes  chi  midi  de  la  Franca \ 


336  CAPITOLO    Vili 


In  terreni  di  poggio,  coperti  di  ciottoli  qua  calcari,  là  mescolati  con 
quarzo  e  silice,  si  ottengono  —  da  vitigni  ad  uva  molto  colorata  — 
i  vini  più  carichi  di  colore,  che  il  commercio  desidera  pel  taglio  coi 
vini  inferiori. 

Del  resto  la  silice  in  particolare  agisce  sull'aroma,  sulle  qualità 
che  diremo  brillanti  del  vino.  Il  Marès  mette  in  dubbio  la  serbevo- 
lezza  dei  vini  ottenuti  da  terreni  silicei:  se  non  che  molte  osserva- 
zioni fatte  nella  nostra  Italia  dicono  che  il  vino  dei  terreni  silicei  è 
leggero  ma  serbevole  (1). 

Il  calcare  o  carbonato  di  calce  esercita  un'azione  marcata  sulla 
solidità,  sulla  durata  del  vino  e  anche  sulla  sua  ricchezza  in  al- 
cool. Secondo  alcuni  osservatori  i  terreni  calcari,  a  misura  che  in 
essi  predomina  l','elemento  siliceo  o  l'argilloso,  partecipano  della  na- 
tura dei  terreni  sabbiosi  o  argillosi. 

Ultimo  e  non  meno  importante  tra  gli  elementi  immediati  del  ter- 
reno agrario  è  1'  humus.  —  Esso,  come  pure  il  ferro,  pare  che  au- 
menti il  colore  del  vino.  Pare  anche  che  comunichi  a  questo  più  a- 
sprezza  e  maggiore  conservabilità. 

Una  singolare  importanza  si  attribuisce  dagli  autori  quest'humus 
(sostanza  organica).  Fra  gli  altri  Guyot  nell'accennare  ai  requisiti  che 
deve  avere  il  terreno  per  la  vigna  nei  paesi  non  meridionali,  dice 
che  le  terre  leggere  e  permeabili,  vulcaniche,  calcari,  giurassiche  e 
cretacee,  sabbiose  e  silicee,  a  ciottoli,  a  frammenti  sono  le  migliori, 
ma  alla  condizione  di  essere  mol'o  profonde  ed  assai  ricche  di  prin- 
cipii  vegetali  (2).  Ivi  1'  humus  supplirebbe  all'  azione  stimolante 
del  calore,  secondo  il  Guyot  stesso;  e  ci  pare  che  egli  si  apponga 
al  vero. 

Si  capisce  che  si  dia  notevole  importanza  sl\Y humus  anche  nei  paesi 
soggetti  ai  calori  ed  alla  siccità:  questa  materia  vegetale  rende  il 
terreno  assai  proprio  ad  assorbire  e  a  trattenere  una  quantità  suffi- 
ciente d'umidità  anche  durante  il  cuore  dell'estate.  Nello  studio  in- 
teressante sui  vigneti  d'America  fatto  dal  Ladrey  si  citano  esempi 
di  questi  terreni  vegetali  e  ricchi  anche  assai  di  calcare  magnesiaco 
(centro  e  sud  del  Missouri). 


(1)  G.  A.  Ottavi.  La  Chiave  dei  Campi. 

(2)  Guyot.  Elude  des  vignobles  de  France.  Tome  III.  p.  605. 


IL  TERRENO  PER  LA  VITE  337 

È  noto  del  resto  che  —  passate  le  esagerazioni  sulle  pretese  pro- 
prietà fertilizzanti  dell'humus  —  questa  sostanza  si  ritiene  ancora 
d'un  valore  grandissimo  e  costituisce  tuttavia  uno  dei  mezzi  per  ri- 
conoscere la  fertilità  di  un  terreno.  In  grazia  all'  humus  il  terreno 
acquista  non  solo  la  igroscopicità,  come  abbiamo  detto,  ma  anche 
altre  preziose  proprietà  fìsiche  quali  la  porosità,  il  potere  di  assor- 
bire e  trattenere  con  più  energia  i  materiali  utili,  e  infine  la  facoltà 
di  assorbire  una  quantità  più  rilevante  di  calore,  appunto  per  la 
tinta  oscura  che  esso  ha  naturalmente. 

L'humus  poi  è  sede  di  importanti  reazioni  chimiche,  le  quali  av- 
vengono ancorché  la  composizione  di  esso  varii;  e  varia  diffatti  a 
seconda  della  diversa  natura  dei  vegetali  che  hanno  vissuto  su  quel 
dato  terreno.  L'  humus  è  il  generatore  continuo  nel  terreno  dell'a- 
cido nitrico  e  dell'anidride  carbonica  (volgarmente  acido  carbonico). 
Ed  ecco  in  qual  modo  i  chimici  moderni  spiegano  la  di  lui  benefica 
azione  nel  terreno.  L'  acqua  carbonicata  che  deriva  dall'  azione  di 
esso,  scioglie  una  piccola  quantità  di  fosfato  neutro  di  calce  (fosfato 
tricalcico)  il  quale,  come  si  sa,  sarebbe  insolubile  nell'acqua  pura. 
Adunque  l'humus  provoca  l'assorbimento  di  materiali  che  altrimenti 
non  sarebbero  assimilabili.  Contenendo  poi  esso  sostanze  azotate,  dà 
luogo  a  sviluppo  d' ammoniaca,  la  quale  genera  poi  l'acido  ni- 
trico. 

Dall'analisi  del  Wolff  abbiamo  veduto  che  anche  la  calce  e  l'acido 
fosforico  sono  contenuti  in  proporzioni  rilevanti  nelle  ceneri  della 
vite. 

G.  A.  Ottavi  osservò  (1)  che  si  ottengono  vini  più  colorati  dove 
esiste  in  abbondanza  nel  terreno  il  calcare  (Casale,  Acqui,  Alessandria, 
Bergamo,  molte  provincie  del  Veneto  e  Napoletano  massime  nel  lito- 
rale est,  ecc),  mentre  dove  non  esiste  calcare  (Biella,  Ivrea,  Pinerolo) 
si  hanno  vini  più  scolorati. 

Un  valente  chimico  agronomo  francese,  il  sig.  Joulie,  ha  coordinato 
la  seguente  tabella,  nella  quale  si  confrontano  gli  elementi  minerali 
contenuti  nei  prodotti  della  vigna  con  quelli  di  altre  coltivazioni, 
prendendo  per  unità  l'acido  fosforico: 


(l)  Lezioni  d'Agricoltura  pei  Contadini,  voi.  III. 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura  23 


338 

CAPITOLO   Vili 

Acido 

fosforico 

Potassa 

Soda 

Calce 

Magnesia 

Vite 

2,28 

0,021 

1,79 

0,46 

Frumento 

maturo               1 

1,28 

» 

0,52 

0,36 

» 

in  fiore              1 

2,25 

0,305 

1,18 

0,52 

Pomi  di  terra  (tubercoli)     1 

3,30 

0,048 

0,12 

0,24 

Barbabietole  (radici)          1 

3,65 

0,725 

0,45 

0,63 

Fieno  di 

prateria               1 

4,18 

1,145 

1,83 

0,80 

Da  queste  cifre  il  Joulie  conchiude  che  per  una  medesima  quan- 
tità d'acido  fosforico  la  vigna  assorbe  più  di  calce  e  meno  di  po- 
tassa che  la  maggior  parte  delle  altre  colture.  Per  la  calce  essa  è 
quasi  al  livello  del  fieno  di  prateria,  e  per  la  potassa  scende  a  quello 
del  frumento  in  fiore,  che  certo  non  ha  la  potassa  come  elemento 
dominante.  Dunque  i  viticultori  neh'  esame  del  terreno  per  la  loro 
vigna  devono  preoccuparsi  almeno  tanto  dell'acido  fosforico  e  della 
potassa  quanto  della  calce  e  degli  altri  elementi  immediati. 

§  6.  Riassunto  sull'influenza  della  natura  chimica  del  ter- 
reno. —  Riassumendo  tutto  ciò  che  abbiamo  detto  sin  qui  nella  com- 
posizione chimica  del  terreno  per  la  vite  diremo  che,  quantunque  la 
nostra  ampelidea  prosperi  in  terreni  di  natura  diversissima,  pure  al- 
cuni terreni  ci  sono  che  ad  essa  si  confanno  di  più,  ed  è  dimostrato 
che  la  natura  chimica  del  suolo  esercita  una  sentita  influenza  sulla 
qualità  del  prodotto.  È  noto  a  tutti  come  nei  terreni  grassi  ed  ar- 
gillosi abbiasi  per  riguardo  alla  vegetazione  uno  sviluppo  vigoroso 
del  legno,  un  prodotto  abbondante,  ma  un  vino  di  qualità  non  sempre 
sceltissima,  mentre  nei  terreni  magri  e  secchi  il  prodotto  della  vite, 
assai  meno  considerevole  per  riguardo  alla  quantità,  sarà  sempre  su- 
periore per  la  qualità.  Si  può  ritenere  che  i  terreni  tipi  per  la 
coltura  della  vite  —  dal  punto  di  vista  della  fertilità  —  sono 
quelli  in  cui  si  trovano  sottosuoli  formati  di  ceneri  vulcaniche, 
e  ciò  perchè  tali  sottosuoli  più  degli  altri  si  prestano  al  disgre- 
gamento delle  roccie  di  cui  sono  composti,  disgregamento  che  for- 
nisce costantemente  alla  pianta  tutti  gli  elementi  che  essa  ha  ten- 
denza ad  assimilarsi.  I  terreni  primitivi  più  antichi  che  si  avvicinano 
ai  precedenti  per  la  loro  composi/Jone  ed  origine,  e  che  loro  somi- 
gliano nelle  proprietà  per  i  detriti  che  contengono  mescolati  alla  terra 
vegetale,  sono  buoni  altrettanto  quanto  i  terreni  vulcanici.  Vengono 


IL  TERRENO  PER  LA  VITE  339 

dopo  —  sempre  riguardo  alla  fertilità  —  i  terreni  argillosi,  in  cui 
l'elemento  alcalino  non  esiste  più  che  nei  detriti  che  sfuggirono  alle 
decomposizioni  anteriori;  seguono  infine  le  formazioni  calcari  e  sab- 
bionose. 

Ma,  lo  ripetiamo,  la  vite  è  tra  i  vegetali  uno  di  quelli  che  meno 
esigono  per  quel  che  è  della  fertilità  del  suolo,  e  per  darne  una 
idea,  citeremo  noi  pure  il  fatto  ricordato  dal  Ladreij  che  le  an- 
tiche leggi  della  Provenza  non  permettevano  di  piantar  la  vigna  se 
non  dopo  aver  constatato  con  un'inchiesta  che  il  suolo  era  realmente 
sterile  ! 

§  7  Natura  fisica  del  terreno.  —  La  natura  fisica  del  ter- 
reno, e  le  proprietà  che  ne  conseguono,  relative  al  vario  grado  di 
porosità,  di  umidità,  di  capillarità,  di  disgregamento  più  o  meno  a- 
vanzato  delle  molecole  terrose,  per  tacer  d'altro,  hanno  sulla  quan- 
tità e  sulla  qualità  del  prodotto  della  vite  una  influenza  più  rimar- 
chevole che  non  la  composizione  chimica. 

Premettiamo  che  anche  per  quel  che  è  della  natura  fisica  del  ter- 
reno, la  vigna  è  assai  meno  esigente  delle  altre  piante  coltivate.  Veri 
suoli  ingrati  per  essa  non  esistono.  Enumereremo  colla  scorta  del 
citato  sig.  Marès  e  delle  osservazioni  da  noi  fatte,  i  terreni  che 
meno  si  prestano  alla  coltura  della  vite,  diremo  poi  dell'  influenza 
dell'umidità  nel  terreno,  e  verremo  infine  a  conclusioni  generali. 

Suoli  ingrati  per  la  vite  si  potrebbero  considerare  quelli  in  cui 
v'  è  eccesso  di  sabbia,  il  tufo,  le  ghiaie  ed  arene  dilavate  dalle  acque, 
i  depositi  di  piccolo  spessore  sopra  roccie  compatte,  gli  strati  d'ar- 
gilla tenace.  Suoli  ingrati  si  possono  considerare  eziandio  quelli 
umidi  e  soggetti  alle  inondazioni. 

Questi  terreni  presentano  gli  uni  e  gli  altri  le  condizioni  estreme 
le  più  opposte.  Cosi  le  sabbie,  le  ghiaie  che  tra  loro  non  hanno  alcun 
elemento  che  le  leghi,  come  ad  esempio  la  marna  o  l' argilla,  non 
offrono  consistenza  alcuna.  La  vite  in  esse  soffre  e  mal  sopporta  i 
grandi  calori,  massime  nei  nostri  paesi  meridionali,  e  compie  imperfet- 
tamente la  fioritura  e  la  fruttificazione.  Sopra  il  tufo  le  condizioni 
sono  ancora  peggiori;  in  tali  terreni  la  vigna  produce  poco  e  dura 
poco.  Dicasi  lo  stesso  dei  depositi  in  istrato  sottile  sulla  roccia 
compatta. 

Negli  strati  d'argilla  tenace  la  vigna  si  trova  ancora  peggio  al- 
lorché il  terreno  è  orizzontale  e  non  vi  può  quindi  essere  sfogo  per 
lo  scolo  delle  acque,  cosa  che  ognuno  avrà  potuto  osservare. 


340  CAPITOLO    Vili 


In  questi  casi  vale  meglio  abbandonare  affatto  la  coltura  della  vite: 
un  simile  terreno,  continuamente  umido  d'inverno,  disseccato  e  con 
larghi  e  profondi  crepacci  nella  state,  non  può  dar  vita  che  a  miseri 
ceppi  esposti  ad  ogni  sorta  di  accidenti  atmosferici,  i  quali  danno 
luogo  poi  alla  colatura,  al  carbone,  al  marciume,  ecc. 

Quando  le  argille  sono  inclinate  e  possono  essere  prosciugate  me- 
diante la  fognatura,  le  condizioni  sono  meno  cattive  (1). 

Una  massima  che  si  vede  ripetuta  nei  trattati  di  viticoltura  è  la 
seguente,  che  la  vite  prospera  bene  in  qualunque  terreno  purché 
non  sia  umido. 

La  vite  soffre  il  freddo  ai  piedi  ha  detto  con  frase  felice  il  nostro 
Prof.  Cantoni,  il  quale  ha  conchiuso  cogli  altri  che  le  bassure  ed  i 
luoghi  umidicci  vogliono  essere  destinati  ad  altre  colture. 

Il  precetto  è  adunque  giusto,  e  non  vi  si  può  fare  che  qualche 
eccezione  come  vedremo  più  sotto.  La  vite  che  vegeta  in  terreni 
umidi  non  solo  dà  prodotti  scarsi,  ma  dà  uve  meno  zuccherine,  più 
ricche  di  albuminoidi  e  di  sostanze  mucillaginose,  che  sono  poi  di 
pregiudizio  alla  buona  conservazione  del  vino.  Dà  infine  uve  più  a- 
cide. 

Lo  stato  arabile  attivo  del  terreno  si  sovracarica  di  umidità  quando 
sotto  di  sé  ha  un  sottosuolo  impermeabile,  il  quale  non  permetta  d'in- 
verno l' infiltramento  delle  acque  piovane.  Conseguenza  di  ciò  si  è 
che  il  terreno  d'inverno  è  come  pieno  d'acqua  stagnante  e  d'  estate 
diventa  troppo  asciutto,  perchè,  specialmente  nei  terreni  sabbiosi, 
l'acqua  evaporandosi  rapidamente  lascia  lo  strato  arabile  affatto  secco. 

Il  miglior  sottosuolo  sarebbe  adunque  quello  composto  d'uno  strato 
permeabile  come  sabbia,  ma  piuttosto  alto,  sovrapposto  ad  uno  strato 
impermeabile.  Però  quest'ultimo  sarebbe  invece  dannoso  se  lo  strato 
permeabile  di  mezzo  fosse  di  piccolo  spessore.  Qualora,  essendovi 
il  sottosuolo  impermeabile,  esso  sarà  a  70-80  cent,  almeno  della  su- 
perficie, si  potrà  egualmente  conchiudere  in  favore  della  bontà  del 
terreno,  perchè  quella  distanza,  oltre  al  non  darci  più  a  temere  per 
l'umidità,  ci  dinoterà  che  lo  strato  vergine  è  piuttosto  spesso,  e  ciò 
è  della  massima  importanza,  massime  nel  caso  speciale  della  vite. 

Ne  risulta  la  necessità  pel  viticultore  di  farsi  un'idea  sulla  natura 
del  sottosuolo,  per  potervi,  occorrendo  il  caso,  praticare  gli  opportuni, 
-anzi  indispensabili  ammendamenti.  Questa  cognizione  la  si  acquista  nello 


(!)  II.  Marès,  op.  cii.  p.  273. 


IL  TERRENO  PER  LA  VITE  311 


scavar  le  fosse  per  le  piantagioni  o  anche  mercè  opportuni  trafori. 
Quando  si  trova  un  sottosuolo  formato  di  elementi  grossolani  come 
ciottoli,'  arena  ecc.  si  avrà  un  indizio  di  terreno  permeabile.  Poco 
permeabile  sarà  invece  il  sottosuolo  formato  di  particelle  finissime, 
specie  di  argilla,  ovvero  formato  di  vero  sasso. 

Una  proprietà  importante  da  considerarsi  nel  sottosuolo  è  eziandìo 
la  forza  di  capillarità,  quella  proprietà  cioè  del  terreno  per  cui 
l'acqua  esistente  negli  strati  del  suolo  sale  alla  superficie. 

Carattere  del  sottosuolo  a  molta  forza  di  capillarità  è  l' essere 
composto  di  particelle  minute  come  in  forma  di  fine  sabbietta.  — 
In  certi  luoghi,  di  primavera  e  d'  estate,  alla  superficie  del  terreno, 
massime  se  il  suolo  è  soffice,  vangato  e  zappato,  si  vedono  delle 
efflorescenze  saline.  Questi  sali,  fra  cui  specialmente  il  salnitro  ed  il 
sai  di  cucina,  sono  prova  della  capillarità  del  terreno,  poiché  vengono 
trasportati  alla  superficie  di  esso  dall'acqua,  che  sale  appunto  per  la 
forza  di  capillarità.  La  salita  di  essi  si  manifesta  con  maggiore  e- 
nergia  allorché  dopo  le  piogge  succede  un  tempo  bello  e  caldo,  e 
che  il  terreno  non  sia  né  asciutto  ne  molto  freddo. 

Nel  sottosuolo  la  sabbia  vera  ha  capillarità  di  pronto  effetto,  ma 
talvolta  di  poco  rilievo:  la  terra  finissima  invece  come  1'  argilla  ha 
capillarità  d'effetto  assai  lento,  ma  più  potente. 

Veniamo  ora  alle  eccezioni  che  avevamo  accennato  poco  fa  ri- 
guardo alla  natura  del  sottosuolo. 

La  prima  di  esse  la  troviamo  nei  paesi  caldi,  nei  quali  —  quando 
si  ha  ragione  di  temere  la  siccità  —  può  ritenersi  che  un  sottosuolo 
di  natura  argillosa  eserciti  una  vantaggiosa  influenza  sullo  strato 
arabile  attivo.  Esso  infatti  trattiene  tra  le  radici  una  certa  dose  di  umi- 
dità, che  viene  certo  utilizzata  durante  la  stagione  del  secco;  ma  è  sempre 
necessario  però  che  il  terreno  non  sia  di  per  sé  stesso  troppo  com- 
patto e  che  la  circolazione  dell'aria  sia  facile.  Il  signor  Ladrey 
nel  citato  suo  Traile  de  Viticulture,  senza  neppure  farne  un  caso 
pei  climi  molto  caldi,  afferma  senz'altro  che  le  terre  forti  le  quali 
soddisferanno  alle  condizioni  più  sopra  accennate,  provocheranno  nella 
vigna  un  grande  vigore  di  vegetazione. 

A  dimostrare  che  1'  umidità  sotterranea  può  avere  una  vantag- 
giosa influenza  sulla  vegetazione,  purché  non  resti  stagnante,  cite- 
remo un  esempio  che  ci  darà  anche  una  bella  applicazione  di  quanto 
esponemmo  sulla  forza  di  capillarità. 

In  Francia,  nella  regione  del  basso  Rodano,   trovasi  una  zona  di 


342  CAPITOLO   VITI 


terreno  dell'estensione  di  6000  ettari,  che  prese  il  nome  delle  sabbie 
di  Aigues-Mortes.  Quivi  dal  1873  si  vanno  piantando  alacremente 
nuove  vigne,  poiché  si  scoprì  in  quelle  sabbie  la  preziosa  proprietà 
di  tenere  la  vigna  illesa  dagli  attacchi  della  fillossera. 

Infatti  le  sabbie  di  Aigues-Mortes  sono  eminentemente  quarzifere, 
costituite  di  granelli  sottilissimi  che  scorrono  assai  facilmente  gli  uni 
sugli  altri,  si  asciugano  prontamente  dopo  le  pioggie,  e  mancano  af- 
fatto di  miscugli  plastici-  Non  possono  quindi  aver  coerenza,  e  per 
questa  loro  grandissima  mobilità  e  scioltezza  la  fillossera  non  vi  si 
può   muovere. 

Ad  Aigues-Mortes  si  ottengono  prodotti  favolosi;  parlasi  di  150  a 
200  ettolitri  di  vino  ad  ettare.  Il  signor  Barrai,  illustre  agronomo 
francese,  nello  studiare  le  cause  di  sì  splendidi  raccolti  in  quella  re- 
gione, nella  quale  non  cade  quasi  mai  acqua  meteorica  dall'  aprile 
al  settembre,  non  volle  attribuire  tutta  la  importanza  al  concime,  e 
specialmente  al  letame  di  stalla  che  colà  si  sparge  sino  alla  bella 
cifra  di  100  m.  e.  per  ettaro:  ci  doveva  essere  un'  altra  cagione. 

Il  sig.  Barrai  percorse  l'intiera  regione  studiandone  il  terreno,  e 
trovò  che  i  primi  20  cent,  di  sabbia  contenevano  l'I  0[q  di  umidità, 
la  quale  umidità  andava  man  mano  aumentando  sino  a  raggiungere 
il  6,  e  il  12  0[o  alla  profondità  d'un  metro,  e  il  18-22  0[q  a  2  metri 
di  profondità.  Sotto  le  sabbie  di  Aigues-Mortes  havvi  dunque  una 
corrente  di  acqua  dolce  che,  per  capillarità,  è  portata  in  alto  sino 
a  raggiungere  le  radici  delle  viti,  e  vi  mantiene,  ad  onta  della  manc- 
anza di  pioggia,  quella  rigogliosa  vegetazione. 

Per  provar  ciò,  un  vagone  di  questa  sabbia  fu  trasportata  al  capo 
Pinède  {Marsiglia)  e  vi  furono  piantate  alcune  viti  in  una  fossa  lunga 
6  metri  e  larga  2.  Le  v'iti  si  mostrarono  immuni  alla  fillossera,  ma 
vegetarono  con  molto  minor  vigore,  perchè  nella  loro  nuova  località 
l'acqua  mancò  assolutamente,  non  potendola  esse  assorbire  dal  sot- 
tosuolo. 

A  questo  punto,  richiamativi  anche  dall'argomento  della  fillossera, 
crediamo  dover  rispondere  ad  una  obbiezione  che  si  può  fare  a 
quello  che  dicemmo  sugli  effetti  dell'umido  nel  terreno.  È  noto  come 
uno  dei  metodi  suggeriti  per  combattere  V  invasione  fillosserica  sia 
la  sommersione,  mezzo  energico  e  sicuro  e  del  quale  si  fece  strenuo 
propugnatore  in  Francia  il  sig.  Faucon.  Si  tratta  di  allagare  il  vigneto 
durante  40  o  45  giorni.  Si  aggiunga  che  questa  operazione  va  ri- 
petuta tutti  gli  anni  sul  tardo  autunno  o  nell'inverno,  e  che  si  pone 


IL  TERRENO  PER  LA  VITE  343 

per  condizione  della  sua  completa  riescita  la  presenza  di  un  sotto- 
suolo impermeabile.  Infatti  se  il  sottosuolo  lasciasse  facile  scolo  al- 
l' acqua,  bisognerebbe  rinnovare  quest'  ultima  continuamente,  e  in 
questo  rinnovo  si  porterebbe  naturalmente  nel  terreno  anche  una 
certa  quantità  d'aria,  la  quale  sarebbe  sufficiente  al  funesto  insetto 
per   respirare  e  per  vivere. 

Quest'obbiezione  ha  certo  un  valore,  e  noi  ammettiamo  che  il  pri- 
vare il  terreno  della  vite  della  sua  aria,  durante  l'inverno,  non  può 
che  nuocere  alla  prosperità  della  vite  stessa,  benché  questa  sia  al- 
lora nel  periodo  del  riposo.  Ad  ovviare  in  parte  a  questi  inconvenienti 
bisogna  far  seguire  all'  allagamento  una  buona  concimazione  con  in- 
grassi azotati  e  con  potassa,  ciò  che  supplirà  ai  materiali  di  fertilità 
esportati  dall'acqua,  nonché  frequenti  lavorature  del  terreno,  in  pri- 
mavera ed  in  estate,  per  ridonargli  l'aria. 

Veniamo  ora  alla  struttura  propriamente  detta  della  terra. 

Ad  essa  si  attribuisce  importanza  massima.  È  constatato  dall'os- 
servazione che  per  tutto  dove  si  produce  vino  di  qualità  superiore, 
cioè  vino  rinomato,  il  terreno  offre  questa  particolarità  di  trovarsi 
mescolato  a  frammenti  rocciosi,  variabili  in  numero,  in  forma  e  in 
grossezza,  ma  tali,  sotto  questi  tre  rapporti,  che  diminuirebbero  assai, 
e  fors'anche  ridurrebbero  a  zero  il  valore  di  questo  terreno,  ove  ve- 
nisse destinato  ad  altra  coltura.  Esempi  di  terre  pietrose  e  ciottolose 
producenti  ottimi  vini  si  trovano  in  Sicilia,  in  quel  di  Marsala,  in 
Francia  nella  Borgogna,  nell'Hérault,  in  Spagna  nei  dintorni  di  Gra- 
nata. Pare  però  da  osservazioni  raccolte  in  Italia  (I)  che  le  terre  a 
cui  sono  misti  ciottoli  e  ghiaie,  per  quanto  ottime  a  dar  frutto  ec- 
cellente e  vino  veramente  prelibato,  siano  in  qualche  modo  di  pre- 
giudizio alla  vitalità  della  pianta,  la  quale  in  esse  avrebbe  una  breve 
durata. 

Ma  ad  ogni  modo  l'influenza  di  una  simile  struttura  del  terreno  sul 
vino  è  innegabile.  Potremmo  citare  molti  autori  di  viticoltura  che  la  af- 
fermano; ci  limiteremo  a  ricordare  il  Conte  Odart  che  afferma  come 
essa  basti  a  prevenire  l'alterazione  del  vino  conosciuta  sotto  il  nome 
di  grassume  fgraissej.  Il  medesimo  autore  propone  anzi  un  procedi- 
mento fondato  su  questa  proprietà  per  prevenire  nei  vini  la  detta 
malattia;  esso  consisterebbe  nel  coprire  di  uno  strato  di  ciottoli  o 
pietre  stritolate  la  superfìcie  del  vigneto. 


(1)  V.  giornale  il  Coltivatore  voi.  XXXII. 


344  CAPITOLO    Vili 


§  8.  Riassunto  sulle  proprietà  chimiche  e  fisiche  del  ter- 
reno. —  Da  tutto  quello  che  abbiamo  detto  si  può  conchiudere  in 
tesi  generale  che  la  vite  vive  e  dà  frutto  in  qualsiasi  terreno  anche 
se  situato  in  bassure  e  non  perfetttamente  asciutto,  come  quello  della 
classica  Vernaccia  di  Oristano:  però  il  viticultore  non  deve  badare 
soltanto  ad  ottenere  frutti,  ma  ad  ottenerne  molti,  di  buona  qualità 
e  nello  stesso  tempo  di  non  nuocere  soverchiamente  alla  longevità 
della  pianta.  Studiando  la  questione  sotto  questo  triplice  aspetto,  si 
può  stabilire  un  principio  fondamentale  invariabile;  cioè  che  i  terreni 
umidi   sono  poco   convenienti  alla  vite. 

Allorquando  poi  i  terreni  non  umidi  sono  composti  di  sabbie  cal- 
cari, sono  leggieri,  permeabili,  ciottolosi,  magri  e  via  dicendo,  la  vite 
ci  dà  vini  secchi,  ricchi  di  alcool,  di  eteri,  poveri  di  albuminoidi  e 
di  facile  conservazione.  Invece  se  i  terreni  sono  compatti  e  fertili, 
ci  dà  vini  in  maggior  copia,  colorati,  più  nutrienti,  meno  fini  e  meno 
facili  a  conservarsi.  Concludendo,  la  finezza  del  prodotto  è  pro- 
porzionale alla  scioltezza  e  magrezza  del  suolo;  la  sua  quantità 
invece  aumenta  nei  suoli  fertili.  Il  viticultore  intelligente  deve  poi, 
considerando  la  cosa  dal  lato  economico,  scegliere  quel  terréno  che 
naturalmente,  o  corretto  con  opportuni  ammendamenti,  potrà  dargli 
un  prodotto  discretamente  copioso  e  con  quelle  buone  qualità  che  il 
commercio  desidera:  lo  ripetiamo,  noi  qui  parliamo  in  generale,  perchè 
non  possiamo  considerare  i  casi  speciali  in  cui  il  viticultore  può  tro- 
varsi. 

§  9.  Esposizione.  —  Poco  ci  resta  a  dire  sull'esposizione  più 
conveniente  per  la  vite,  già  avendone  parlato  nel  capitolo  della  Me- 
teorologia viticola. 

Rimandiamo  innanzitutto  il  lettore  alle  idee  generali  esposte  a  pa- 
gina 296,  ed  insisteremo  nell'avvertire  che  la  scala  delle  esposizioni 
da  noi  stabilita,  cominciando  dalla  migliore  per  venire  alla  meno  fe- 
lice, è  tutt'altro  che  assoluta.  Noi  abbiamo  detto  che  in  generale  la 
miglior  esposizione  è  quella  di  Sud,  e  che  seguono  poi  rispettiva- 
mente quelle  di  Ovest,  di  Est  e  di  Nord.  Ora,  non  solo  le  condizioni  di 
clima  e  di  terreno  possono  cambiare  o4  anche  affatto  invertire  l'or- 
dine da  noi  stabilito,  ma  ripari  naturali  particolari  ad  ogni  regione, 
operazioni  speciali  condotte  dall'uomo,  possono  radicalmente  modifi- 
care gli  effetti  di  una  data  esposizione. 

Noi  abbiamo  visto  infatti  che,  quantunque  la  vite  resista  al  freddo 


IL  TERRENO  PER  LA  VITE  345 


più  di  molti  altri  vegetali,  pure  la  esposizione  Nord  era  per  essa  la 
meno  conveniente,  essendo  quella  che  riceve  la  minor  quantità  di 
raggi  solari  diretti.  Ma  si  è  detto  pure  che  var  ii  agronomi  dell'  età 
antica  e  media,  i  quali  scrissero  sulla  vite  da  regioni  meridionali,  ci 
tramandarono  il  precetto  che  l'esposizione  Nord  era  buona  nei  climi 
caldi.  —  Magone  Cartaginese,  per  aggiungerne  un  altro  a  quelli  già 
citati,  scrivendo  per  l'Africa  consigliava  decisamente  l'esposizione 
Nord,  la  medesima  d'altronde  che  si  preferisce  ora  in  Egitto,  nei  din- 
torni di  Alessandria.  Queste  differenze  trovano  la  loro  ragione  special- 
mente nel  clima. 

Si  sa  che  nei  paesi  caldi  le  vigne  hanno  spesso  a  soffrire  gli  ar- 
dori del  sole,  ed  i  loro  frutti  in  certe  annate  sorpassano  anche  il 
giusto  grado  della  maturità.  E  così,  quantunque  la  vite  rifugga  quanto 
mai  dall'ombra,  spesso  si  è  costretti  a  procurargliela  correggendo 
così  in  certa  guisa  il  difetto  dell'esposizione.  Il  sig.  T.  Carnevale  da 
Lipari  ci  scriveva  che  in  molti  vigneti  di  quell'isola  negli  anni  di  calore 
eccessivo  si  provvede  ad  aumentare  l'ombra  al  frutto  per  mezzo  di 
vegetali  (ad  esempio  felci)  coi  quali  si  copre  l'uva  tanto  dalla  parte 
superiore,  quanto  da  quella  cui  da  riceve  il  calore  riflesso.  (1) 

Per  quello  che  è  dell'  esposizione  Ovest,  se  dovessimo  accettare  le 
conclusioni  dei  molti  fatti  raccolti  dal  Guyot,  dovremmo  affermare 
che  essa  sia  la  peggiore.  Veramente  essa  presenta  qualche  difetto; 
ad  esempio  è  più  umida  di  quella  di  levante  non  essendo  colpita 
dai  raggi  solari  altro  che  nelle  ore  pomeridiane.  Si  aggiunga  che 
in  questa  esposizione  e  in  quella  di  Sud  Ovest  può  avvenire  d'estate, 
specialmente  dall'una  alle  tre  pomeridiane,  che  l'evaporazione  e  la  tra- 
spirazione delle  piante  si  facciano  eccessive.  In  tali  casi  l'umidità  di 
cui  la  pianta  può  disporre,  e  quella  che  essa  toglie  naturalmente  al 
suolo,  non  bastano  a  compensare  le  perdite  prodotte  dall'evaporazione 
e  ne  nasce  uno  squilibrio  nelle  funzioni  dalla  pianta,  il  quale  produce 
la  caduta  delle  foglie  e  l'essiccamento  dei  frutti. 

Ma  tuttavia  anche  tenuto  calcolo  di  ciò  noi  abbiamo  moltissimi 
fatti  che  ci  provano  come  in  Italia  alla  esposizione  ovest  si  otten- 
gono ottime  uve  a  frutto  zuccherino;  tanto  che  si  può  dire  che  in 
tutte  le  parti  d'Italia  il  sud  e  l'ovest  danno  i  vini  più  generosi. 

Neppure  ha  valore  assoluto  l'appunto  che  si  fa  alle  vigne  esposte 
al  levante  di  andar  soggette  alle  brine.  Innanzitutto    la   brina  reca 


(1)  Giornale  Vinicolo  Italiano  1884,  pag.  345. 


346  CAPITOLO    Vili 


pochi  danni  se  il  suolo  è  asciutto,  permeabile,  sassoso  o  selcioso.  E 
d'altronde  si  sa  che  l'esposizione  di  levante  è  buona  dove  formasi 
abbondante  la  rugiada,  venendo  questa  dissipata  dal  sole  nelle  prime 
ore  del  mattino.  (1) 

Sugli  alti  colli  poi  all'  esposizione  est  il  passaggio  dal  caldo  al 
freddo  e  viceversa  non  nuoce.  Il  danno  è  dunque  limitato  alle  basse 
valli  ed  alle  piane. 

L'esempio  infine  di  vitigni  celebri  provenienti  da  terreni  situati 
ad  esposizioni  le  più  opposte,  finirà  per  persuaderci  della  limitata 
importanza  che  vuoisi  dare  all'  esposizione.  Abbiamo  in  Italia  Ba- 
roli squisiti  provenienti  da  terre  esposte  al  Nord  del  circondario 
d'Alba,  abbiamo  in  Francia  il  SaiUerne  proveniente  da  vigneti 
esposti  quasi  del  tutto  ad  Est,  e  per  tacer  d'altri  il  Médoc  esposto 
al  Nord-est. 

Questi  vini  —  il  Médoc  (Bordeaux)  e  il  Nebbiolo  —  per  quanto 
abbiano  una  fama  mondiale,  non  sono  certo  tra  i  più  generosi,  mentre 
sono  generosissimi  i  vini  provenienti  dalle  esposizioni  sud  e  ovest  della 
nostra  Italia  e  dai  paesi  caldi  specialmente.  Questo  fatto  può  aiutarci 
a  formulare  un  precetto  o  un  consiglio  pratico  per  le  regioni  calde 
che  può  essere  generalizzato  secondo  noi  senza  incontrare  eccezioni 
molto  gravi.  Nelle  regioni  calde  oltre  alle  esposizioni  sud  e  ovest 
che  danno  vini  generosissimi,  possono  convenire  moltissimo  le  espo- 
sizioni est  e  nord  le  quali  in  generale  danno  vini  meno  generosi; 
ciò  specialmente  negli  alti  colli  e  anche  al  piede  o  alle  falde  dei  più 
alti  monti  dove  si  ottengono  vini  un  po'  acerbi,  ma  gustosi  e  ser- 
bevoli. 

Il  sig.  Petit- Lafltte  nel  libro  da  noi  già  ricordato,  dedica  un  ca- 
pitolo ad  un  argomento  nuovo  o  almeno  sin'ora  pochissimo  studiato: 
l'influenza  sulla  vite  della  vicinanza  di  masse  d'acqua,  di  montagne 
e  di  foreste.  Egli  non  cita  che  fatti,  confessandosi  incapace  a  spie- 
garli, e  questi  fatti  starebbero  a  dimostrare  che  realmente  cotale  vi- 
cinanza esercita  una  influenza  favorevole.  Il  conte  Odart  scrive  nel 
suo  Manuel  du  Vigneron:  «  il  corso  dell'  Ebro  essendosi  allontanato 
dalla  città  di  Emos  in  Tracia,  le  vigne  di  quei  pressi  perdettero  la 
loro  fama  »  (pag.  64).  Nelle  Geoponiche  greche  si  trova  scritto  che 
l'aria,  il  calore  e  anche  i  venti  di  mare  sono  favoreroli  alle  vigne. 
Il  Pelit-Lafitle  fa  seguire  a  queste  citazioni  il  nome  di  molte  regioni 


(1)  F.  Garelli.   Viticoltura,  pag.  24. 


IL  TERRENO  PER  LA  VITE  347 

celebri  pel  vino,  e  che  risiedono  presso  grandi  masse  d'acqua.  E  così 
il  Tokai  presso  alla  Theiss  affluente  del  Danubio,  il  Porto  non  lontano 
dall'Oceano  e  dal  Douro,  Malaga  che  domina  il  Mediterraneo,  VHer- 
mitage  che  ha  vicini  il  Rodano,  e  nella  Gironda,  Lafitte,  Latour  e 
Margaux  sono  vicinissimi  al  fiume  del  medesimo  nome. 

Esempi  consimili  potremmo  trovare  in  Italia,  nei  nostri  vini  delle 
isole,  nel  Marsala  e  nei  Moscati  Siciliani  e  Sardi,  nella  Vernaccia  di 
Oristano,  nel  Lacryma  Cristi  presso  il  Golfo  di  Napoli,  e  mille  altri. 

L'influenza  delle  montagne  vicine  può  avere  una  spiegazione  nel 
fatto  che  esse  servono  di  riparo  contro  i  venti,  e  modificano  affatto 
l'influenza  dell'esposizione.  Le  catene  di  montagne  che  riparano  dai  venti 
del  nord  concorrono  infatti  a  rendere  più  caldo  il  clima.  —  In  Italia 
ne  abbiamo  molti  esempi.  Pisa  che  è  difesa  dai  suoi  colli  Pisani  dai 
venti  di  tramontana,  quando  questi  spirano,  è  più  calda  di  Livorno. 
E  la  Riviera  ligure  deve  in  parte  alla  catena  degli  Appennini  le  sue 
vegetazioni  di  agrumi  e  di  palme. 

E  infine,  riguardo  all'influenza  delle  foreste,  afferma  il  Petit  La- 
fitte  che  essa  esiste  realmente  ed  è  dannosa.  «  La  cura  che  si  pone 
a  tenerne  lontane  le  vigne  —  aggiunge  egli  —  e  i  numerosi  esempi 
che  si  hanno  nel  Bordolese  della  loro  pericolosa  influenza,  special- 
mente riguardo  ai  geli,  ci  mostrano  quanto  sia  prudente  questo  modo 
di  agire.  » 

Un  solo  fatto  egli  cita,  che  farebbe  sotto  un  certo  rispetto  eccezione 
alla  massima  data,  fatto  antico  e  che  ha  una  conferma  nella  Gi- 
ronda. Racconta  Plutarco  che  a  Bacco  fu  consacrato  il  pino  come 
quello  che  dà  al  vino  la  dolcezza,  ed  il  nostro  autore  conferma  ciò 
applicandolo  al  Médoc.  È  un  fatto  costante  che  quei  vini  i  quali 
vengon  si  può  dire  all'  ombra  dei  pini,  hanno  tra  le  loro  preziose 
qualità  anche  quella  della  dolcezza.  Non  la  dolcezza  che  risulta  uni- 
camente dallo  zucchero,  ma  quella  che  risulta  dall'  assenza  di  ogni 
principio  di  sapore  che  domini  gli  altri.  I  vini  del  Médoc  sono  per 
vero  perfettamente  equilibrati  nei  loro  componenti. 

§  10.  Giacitura.  —  Anche  su  quest'argomento  rimandiamo  il 
lettore  alla  pag.  296.  Bacco  ama  il  colle  e  anche  le  gole  più  soleg- 
giate degli  alti  monti  purché  abbia  un  terreno  asciutto.  Si  trova  più 
a  disagio  nelle  valli  e  nelle  piane,  ma  vi  vegeta  e  vi  può  prospe- 
rare, purché  queste  valli  e  piane  non  siano  a  sottosuolo  impermeabile. 
La  valle  del  Po  conta  numerosissimi  vigneti,  i  quali  sono  in  maggior 


348  CAPITOLO   Vili 


numero  alla  destra  di  questo  fiume  dove  vi  hanno  terre  forti  e  ar- 
gillo- calcari,  che  non  alla  sinistra  dove  abbondano  la  ghiaia  e  la 
sabbia,  elementi  che  contribuiscono  a  dare  al  terreno  quella  strut- 
tura fisica  che,  come  vedemmo,  è  per  la  vite  la  più  adattata.  Adunque 
molte  sono  le  piane  della  sinistra  del  Po  che  si  potrebbero  adattare 
alla  coltura  della  vite,  perchè  abbiamo  appunto  ghiaia  e  sabbia  nelle 
piane  di  Cuneo,  di  Torino,  di  Novara,  di  Milano,  di  Bergamo,  di 
Brescia  e  sovratutto  di  Verona,  di  Treviso  e  di  Udine. 

Le  piane  che  veramente  e  assolutamente  sono  inadatte  alla  col- 
tivazione della  vite  sono  quelle  soggette  alle  nebbie  ed  alle  inonda- 
zioni, nonché  quelle  in  cui  1'  acqua  soggiorna  d' inverno.  Il  nemico 
principale  della  vite  in  pianura  è  Tumido,  e  quest'umido  le  viene  e 
dal  terreno,  e  dall'  evaporazione  dei  poggi  vicini.  Innanzitutto  l'ec- 
cesso d' acqua  che  la  vite  trova  nell'  aria  e  nel  suolo  produce  un 
raffreddamento;  ciò  perchè  il  vapore  acqueo  che  scende  a  guisa  di 
nebbia  alla  pianura,  assorbe  molto  del  calore  solare,  e  parte  di 
quest'ultimo  è  anche  impiegato  per  l'evaporazione  dell'umidità  della 
terra.  È  adunque  una  notevolissima  quantità  di  calore  che  si  sottrae 
alla  vite. 

Venendo  all'eccesso  opposto  diremo  che  difficoltà  non  meno  gravi, 
quantunque  di  diversa  natura,  la  vite  trova  nelle  erte  pendici  e  nei 
luoghi  troppo  alti.  Le  prime  essendo  troppo  inclinate  vengono  dalle 
acque  di  pioggia  denudate  della  loro  parte  superficiale,  ed  essendo 
esposte  troppo  direttamente  ai  raggi  del  sole  perdono  gran  parte 
della  loro  freschezza.  Le  alte  cime  sono  esposte  a  tutti  i  venti  e 
continuamente  da  essi  se  cosi  possiamo  dire  spazzate,  onde  vanno 
poi  soggette  non  solo  ai  grandi  geli,  ma  anche  alle  brinate  tardive, 
alle  nebbie  della  primavera,  agli  uragani  dell'  estate,  alla  grandine, 
alle  piogge. 

Concluderemo  adunque,  per  quel  che  è  della  situazione,  che  questa 
è  sempre  conveniente,  date  però  quelle  condizioni  di  terreno  che  ab- 
biamo più  sopra  stabilite. 


CAPITOLO  IX 


Lavori  preparatorii  per  l'impianto 
del  vigneto. 


§  1.  Due  modi  di  preparazione  del  terreno.  Scasso  reale  —  §  2.  Fosse  —  §  3.  Li- 
vellazione del  terreno  —  §  4.  Disposizione  del  terreno  a  banchine  —  §  5.  Am- 
mendamenti. Marnatura.  Terra  vergine.  Aggiunta  di  sali  di  ferro  ai  terreni 
bianchi  —  §  6.  Arrotto.  Fognatura  —  §  7.  Concimi  per  l'impianto. 


§  1.  Due  modi  di  preparazione  del  terreno.  Scasso  reale. 

—  Per  facilitarci  la  trattazione  dell'interessante  tema  che  si  riferisce 
alla  preparazione  del  terreno  cominceremo  a  stabilire  tre  casi  diffe- 
renti che  il  terreno  stesso  ci  può  presentare,  ed  a  seconda  dei  quali 
diverse  saranno  le  operazioni  da  eseguirsi  dal  viticultore. 

Come  primo  caso  supporremo  quello  più  comune  di  un  terreno 
pianeggiante  o  leggermente  inclinato,  già  da  gran  tempo  coltivato 
a  prato,  cereali,  alberi  da  frutta  o  da  olio  o  da  legno,  e  che  si  voglia 
ridurre  per  la  coltivazione  della  vite. 

Un  secondo  caso  lo  ammetteremo  in  un  terreno  già  coltivato  a 
vigna,  e  che,  estirpata  questa,  voglia  essere  di  nuovo  ripiantato 
a  viti. 

Terzo  ed  ultimo  caso  quello  d'un  terreno  a  grandependenza  sino 
ad  ora  mai  coltivato,  o  tenuto  a  boscaglie  —  terreno  che  si  vuol 
ridurre  a  vigneto. 

Partendo  dal  primo  caso  ed  ammettendo  che  il  vigneto  voglia  es- 
sere specializzato  e  cioè  colla  distanza  tra  i  filari  non  maggiore  di 
tre  metri,  l'esperienza,  la  pratica  più  illuminata,  ci  dicono  che  il  metodo, 


350  .  CAPITOLO   IX 


migliore  di  preparare  il  terreno  è  quello  dello  scasso  generale  o  reale 
come  dicesi  comunemente,  e  che  vuol  dire  rimuovimento  profondo 
di  tutto  quanto  il  terreno  che  si  destina  alla  coltura  della  vite.  Mercè 
lo  scasso  si  supplisce  alla  concimazione  per  qualche  anno,  perchè  si 
recano  alla  portata  delle  radici,  e  si  rendono  assimilabili,  molti  ele- 
menti che  giacevano  inerti  negli  strati  profondi  del  suolo  coltivabile: 
la  vite  si  giova  in  modo  singolare  di  questi  elementi,  il  suo  le- 
gno ingrossa  prontamente,  le  gemme  si  fanno  feconde  a  partire 
dal  terzo,  e  talvolta  dal  secondo  anno;  in  conclusione,  la  pianta 
immagazzina  sin  dai  suoi  primi  anni  molti  elementi  utili,  e  ciò 
giova  molto  e  ad  una  copiosa  fruttificazione  annuale  ed  alla  longevità 
della  pianta  stessa.  Non  v'ha  provincia  d'Italia  nella  quale,  nella  gran 
maggioranza  dei  casi,  lo  scasso  non  si  possa  consigliare.  Solo  vi  sarebbe 
a  fare  qualche  differenza  in  quanto  alla  profondità;  ad  esempio  nel 
Mezzodì  esso  vorrebbe  esser  profondo  da  60  centimetri  a  un  metro 
per  dare  allo  strato  attivo  del  terreno  quella  porosità  e  quella  fre- 
schezza che  sono  indispensabili  nei  paesi  caldi.  Nel  Nord  invece,  ove 
di  rado  si  hanno  a  lamentare  la  siccità  e  gli  altri  effetti  del  calore 
soverchio,  può  bastare  lo  scasso  a  50,  00  centimetri. 

L'importanza  grandissima  dello  scasso  —  la  vera  necessità  in  certi 
casi  —  è  già  stata  ovunque  sancita  dalla  pratica  viticola  in  Italia.  Nel 
trattato  La  Chiave  dei  Campi  di  G.  A.  Ottavi  (1)  si  racconta  come 
collo  scasso  reale  molti  viticultori  ottennero  già  nel  terzo  anno  da  15 
sino  a  40  ettolitri  di  vino  ad  ettare.  Un  tale  risultato  fu  sorpassato 
al  nostro  podere  sperimentale  La  Cardella  in  un  vigneto  a  terreno 
argillo-calcare  piantato  nel  1874  sopra  scasso  di  60  centimetri. 
Questa  vigna  neh'  annata  fortunosa  1876  diede  44  ettolitri  di  vino. 

La  profondità  utile  per  lo  scasso  varia  non  solo  secondo  il  clima  ma 
anche  secondo  le  proprietà  del  terreno.  Nelle  terre  buone  argillo-cal- 
cari  è  sufficiente  uno  scasso  a  60  centimetri  e  non  sarebbe  sempre 
utile  uno  a  80  od  a  100  centimetri.  Molti  in  un  terreno  così  profon- 
damente scassato  si  crederebbero  forse  obbligati  a  piantarvi  magliuoli 
e  barbatelle  alla  enorme  profondità  di  50,  60  q  più  centimetri,  cosa 
che  come  vedremo  può  divenir  fatale  alla  vitalità  della  pianta.  Se 
poi  il  terreno  fosse  ghiaioso,  selcioso  ecc.,  sarà  buona  cosa  spingere 
lo  scasso  da  70  sino  a  100  centimetri.  Invero  si  comprende  di  leg- 
gieri come  più  il  terreno  è  magro  ed  arido,  più  lo  si  faccia  fecondo 


(1)  V.  ivi  pag.  434. 


[,AVOR[  PREPARATOMI  PER  L'IMPIANTO  PEL  VIGNETO         351 

per  la  vigna  a  misura  che  si  scende  più  al  basso  nel  suolo  inerte, 
e  se  è  di  buona  natura,  anche  nel  sottosuolo. 

Questa  profondità  non  è  necessaria  nei  suoli  feraci.  Nel  compar- 
timento dell'  Hérault  troviamo  le  vigne  più  produttive  del  mondo,  ma 
ivi  non  si  parla  guari  di  scassi  molto  profondi.  Ivi  gli  scassi  sono 
quasi  sempre  operati  col  mezzo  di  semplici  aratri.  Nell'Economia 
Rurale  di  G.  A.  Ottavi  (1)  è  raccontato  il  fatto  del  Senatore 
G.  Bazile  di  Mompellieri  il  quale  fece  fare  in  una  sua  vigna  lo  scasso  a 
soli  35  cent,  di  profondità  e  ne  ottenne  risultati  favolosi;  cento  un- 
dici ettolitri  di  vino  ad  ettare  nel  sesto  anno. 

Tuttavia,  se  collo  scasso  profondo  la  vigna  mette  con  maggior 
forza,  si  fa  più  prosperosa,  meglio  resiste  alle  siccità  estive  ed  ha, 
almeno  per  qualche  anno,  meno  bisogno  d'ingrasso,  può  andare  in- 
contro, in  casi  speciali,  ad  inconvenienti  non  piccoli. 

Prima  di  tutto  mettiamo  la  questione  economica.  Uno  scasso  cosi 
profondo  sarebbe  costosissimo,  mentre  lo  scasso  a  media  profondità 
operato  da  un  semplice  aratro  coll'aiuto  di  qualche  bracciante  che  lo 
segue  per  voltar  meglio  le  zolle  e  nettare  il  solco,  non  richiede  che 
una  piccola  spesa. 

Bisogna  considerare  poi  che  la  vite  piantata  sopra  scasso  profondo 
da  80  a  100  cent,  e  in  terreno  buono,  mette  con  troppo  rigoglio,  e 
male  capiterebbe  allora  all'  inesperto  viticultore  che  non  la  sapesse 
domare  in  tempo.  Essa  non  darebbe  che  pochissima  uva,  ed  una  parte 
di  questa  la  perderebbe  poi  all'atto  della  fioritura  in  maggio. 

Vero  è  che  il  viticultore  istrutto  e  previdente  sa  prevenir  ciò  colla 
piegatura  dei  tralci  e  con  altre  pratiche  di  cui  si  parlerà  a  suo  tempo 
diffusamente. 

Altro  studio  interessante  è  quello  del  momento  migliore  per  pra- 
ticare lo  scasso. 

La  stagione  preferibile  è  l'estate,  primo  perchè  la  terra  nuova  o 
vergine  portata  alla  superfìcie,  si  ingentilisce  sotto  l'azione  del  po- 
tente calor  solare,  secondo  perchè  le  pioggie  autunnali  sono  assai 
bene  trattenute,  e  per  molto  tempo,  nel  terreno  scassato,  locchè  co- 
stituisce un  importante  magazzino  di  umidità,  massimamente  pei  paesi 
meridionali. 

Lo  scasso  fatto  in  autunno  è  pure  buono  ma  è  ben  lungi  dal  dare 
gli  effetti  dello  scasso  estivo.   Un'esperimento   comparativo    fu    fatto 


(1)  Ivi  p.  30. 


352  CAPITOLO   IX 


da  noi  al  citato  podere  sperimentale  tra  una  vigna  in  cui  lo  scasso 
fu  fatto  nel  novembre  e  dicembre,  ed  un'altro  in  cui  fu  fatto  tre 
mesi  prima. 

Nella  vigna  collo  scasso  estivo,  piantata  l'aprile  susseguente,  tro- 
vammo nell'ottobre,  e  cioè  dopo  sei  mesi  di  vegetazione,  che  buona 
parte  delle  viti  avevano  getti  di  un  metro  di  lunghezza,  alcune  di 
due,  e  altre  poche  perfino  di  tre  metri.  Scoperta  una  radice  trovammo 
che  aveva  due  metri  e  mezzo  di  lunghezza.  Risultati  assai  meno 
belli  ne  diede  la  vigna  su  scasso  autunnale. 

Prima  di  passare  ai  diversi  modi  di  eseguire  lo  scasso,  toccheremo 
una  questione  alla  quale  abbiamo  accennato  di  volo  dicendo  che  lo 
scasso  era  utile,  necessario  anzi  nella  gran  maggioranza  dei  casi. 
V  ha  adunque  qualche  terreno  in  cui  quest'  operazione  è  dan- 
nosa? 

Le  nozioni  che  abbiamo  fatto  precedere  sulla  struttura  e  sulla  na- 
tura chimica  dei  terreni  ci  dicono  come  lo  scasso  è  in  taluni  casi 
impossibile,  come  sarebbe  quello  di  un  sottosuolo  di  nuda  roccia  a 
pochissima  distanza  dallo  strato  attivo,  e  in  taluni  altri  inopportuno. 
Ad  esempio  se  si  trattasse  di  terre  affatto  ciottolose  con  poca  terra 
sfatta  sopra,  la  miglior  cosa  da  farsi  pel  viticultore  sarebbe  di  limi- 
tarsi a  smuovere  questa  terra  senza  scendere  a  toccare  le  pietre. 

In  certi  terreni  lo  scasso  non  è  sufficiente  ad  apportare  al  ter- 
reno tutti  quei  vantaggi  che  sono  conseguenza  diretta  della  porosità. 
Sono  questi  i  terreni  pochissimo  permeabili.  In  essi  lo  scasso  dà  buoni 
risultati  per  qualche  anno,  poi  la  porosità  si  perde  quasi  del  tutto. 
Questi  terreni  hanno  bisogno  di  essere  anche  drenati.  Il  più  volte 
citato  Marès  va  assai  più  in  là  nell'attribuire  alla  fognatura  del  vi- 
gneto grande  importanza:  egli  ammette  spesso  nei  terreni  forti  che  il 
drenaggio  possa  supplire  lo  scasso.  Ma  non  si  tratta  che  di  casi  spe- 
ciali sui  quali  ecco  come  scrive  TA: 

«  Nei  terreni  argillosi  o  a  sottosuoli  di  marna  tenace,  alla  super- 
ficie dei  quali  si  trova  una  grande  quantità  di  pietre  o  di  grossi  ciot- 
toli che  sono  d'ostacolo  alla  coltura,  il  modo  migliore  di  sbarazzar- 
sene è  quello  di  aprire  nel  terreno  delle  fosse  di  drenaggio  ampie  e 
profonde  tanto  da  dar  ricetto  a  tutte  queste  pietre.  Così  mentre  si 
fanno  scomparire  queste,  si  trasforma  nel  modo  più  vantaggioso  la 
natura  del  suolo.  Terreni  cattivi,  freddi  ed  umidi  possono  diventare 
buoni.  In  simili  terreni  gli  scassi  sono  pericolosi,  poiché  portano  alla 
superfìcie  del  suolo  delle  argille  o  delle  marne  crude,    le   quali  per 


LAVORI  PREPARATORII  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         353 

sverginarsi  all'  azione  dell'  aria  e  del  sole  adoperano  diversi 
anni  (1).  » 

Le  idee  dell'egregio  scrittore  francese  possono  nei  casi  da  lui  esposti 
essere  accettate.  Invero  se  ci  facciamo  a  considerare  gli  effetti  che  in 
genere  apportano  i  lavori  profondi  e  quelli  del  drenaggio,  noi  li  vediamo 
in  gran  parte  identici.  Ambedue  aumentando  l'altezza  dello  strato  col- 
tivabile permettono  alle  radici  di  svilupparsi  facilmente  ed  ampia- 
mente, —  introducendo  molt'aria  nel  terreno  vi  arrecano  un  elemento 
necessario  alla  respirazione  delle  radici,  —  introducendo  molt'aria  re- 
golano eziandio  la  temperatura  del  terreno,  rendendolo  più  fresco  d'e- 
state e  più  caldo  durante  i  rigori  del  verno.  Anche  gli  effetti  chimici  di 
ossidazione  e  nitrifìcazione  sono  gli  stessi,  perchè  col  drenaggio  come 
colle  arature  profonde  introducendo  coll'aria,  l'ossigeno,  si  arreca  al 
terreno  un  agente  attivissimo  per  trasformare  le  sostanze  inerti  del 
suolo   in  sostanze  atte  alla  nutrizione. 

Le  idee  del  Marès  hanno  adunque  un  fondamento  logico  e  nei  casi 
speciali  da  lui  ammessi  sono  accettabili  anche  nella  pratica.  Ma  in- 
fine colla  più  parte  dei  nostri  terreni  italiani  la  pratica  e  l'osserva- 
zione ci  dicono  che  lo  scasso  è  possibile  ed  utile.  E  lo  stesso  autore 
francese  conchiude  d'altronde,  anche  a  proposito  dei  terreni  in  cui 
l'infertilità  del  sottosuolo  dipende  dalla  sua  impermeabilità,  che  questi 
vorrebbero  almeno  essere  drenati  prima  d'essere  scassati. 

Nelle  sue  escursioni  nella  Capitanata  G.  A.  Ottavi  ebbe  ad  osser- 
vare un  fatto  che  apparentemente  viene  a  contraddire  tutto  ciò  che 
sinora  dicemmo  a  favore  degli  scassi.  Questo  fatto  si  è  che  in  Ca- 
pitanata la  vigna  piantata  sopra  scasso  reale  non  dà  un  prodotto 
maggiore  di  quella  piantata  col  palo  di  ferro.  Questo  sistema,  prea- 
damitico nel  vero  senso  della  parola,  e  adottato  anche  in  qualche 
provincia  della  Sicilia  consiste  in  ciò:  si  fa  un  foro  profondo  80  cen- 
timetri con  un  palo  di  ferro,  vi  si  immette  subito  il  magliuolo  spin- 
gendolo fino  in  fondo,  e  si  comprime  attorno  ad  esso  la  terra,  o  me- 
glio se  si  vuole,  vi  si  mette  un  po'  di  vecchio  terriccio.  Infine  si  dà 
una  buona  zappatura  profonda  circa  25  centimetri,  tra  l'uno  e  l'altro 
filare. 

Come  si  spiega  adunque  che  una  vigna  piantata  su  scasso  reale 
non  dà  in  Capitanata  risultati  migliori  di  quelle  piantate  col  sistema  del 
palo?  La  ragione  trovasi  nei  trattamenti  successivi  che  si  fanno  subire 


(1)  Des  vigties  du  Midi  de  la  France,  pag.  305. 
0.  Ottavi,   Trattalo  di  Viticoltura 


354 


CAPITOLO   IX 


alla  vite,  trattamenti  certo  degni  di  essere  modificati.  Quelle  vigne 
piantate  su  scasso  reale  hanno  molto,  troppo  vigore;  e  tuttavia  le  si 
potano  a  due  soli  speroni  con  due  gemme.  Qui  la  pianta  si  fa  ple- 
torica, mette  cioè  dei  getti  molto  vigorosi,  ma  appunto  per  questo  il 
succo  non  si  elabora  abbastanza  bene  e  non  vi  feconda  le  gemme. 
Un  altro  errore  che  si  commette  in  Capitanata  è  quello  di  scacchiare 
prima  della  fioritura  le  vigne  vigorose  fatte  su  scasso  reale.  Una 
tale  operazione  fatta  in  tale  momento  è  dannevolissima  ai  frutti 
pendenti  ed  eziandio  ai  futuri. 

Dati  questi  esempi,  i  quali  ci  dimostrano  come  bisogna  andar  molto 
guardinghi  prima  di  condannare  la  pratica  dello  scasso,  veniamo  ai 
modi  più  semplici  e  più  comuni  di  praticarlo. 

Lo  scasso  si  può  fare  a  mano;  e  allora  è  un'opera  piuttosto  co- 
stosa, o  si  può  fare  coi  buoi  a  scalinata,  scendendo  gradatamente 
anche  ad  un  metro  di  profondità,  e  capovolgendo  esattamente  la  terra, 
e  in  questo  caso  la  spesa  è  relativamente  assai  piccola. 

Gli  strumenti  che  servono  a  far  lo  scasso  a  mano  sono  principal- 
mente la  vanga,  e  nei  paesi  dove  trovansi  molte  pietre,  tufo  duro 
ecc.,  il  zappone  e  il  bidente  uncinato.  —  Questi  due  ultimi  arnesi 
servono  quasi  come  la  vanga  a  capovolgere  esattamente  la  terra  che 
si  smuove:  essi  sono  usati  nel  Genovesato,  in  Terra  di  Lavoro,  nel 
Salernitano,  nel  Brindisino,  nell'Ascolitano,  in  Sicilia  e  altrove. 

Lo  scasso  colla  vanga  si  fa  nel  seguente  modo: 


M 


X 

z 

e 

I) 

A 

B 

Fig.  69. 

Sia  M  N  il  campo  che  si  vuol  scassare.  Si  comincia  ad  aprire  una 
fossa  A  H  ad  una  delle  estremità  del  campo.  Questa  fossa  la  si  farà 
larga  per  es.  50  centim.  e  profonda  altrettanto.  La  detta  terra  si 
potrebbe  spargere  qua  e  là  per  il  campo.  Volendo  procedere  rego- 
larmente sarà  bene  però  trasportarla  colle  carrette  in  P  Q.  Si  apre 
poi  una  seconda  fossa  C  D,  accanto  alla  A  B,  in  modo  che  la  prima 
puntata  della  vanga  riempia  la  parte  inferiore  di  quest'ultima  fossa, 


LAVORI  PREPARATORI!  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         355 

mentre  la  parte  superiore  deve  essere  occupata  dalla  seconda  pun- 
tata, cioè  dalla  terra  vergine.  Si  procede  così  fino  alla  fine  del  campo, 
dove  l'ultima  fossa  X  Z  si  chiuderà  colla  terra  di  A  B  portata  in  P  Q. 

Con  due  fitte  di  vanga  si  scende  alla  media  profondità  di  50  cen- 
timetri. Se  il  lavoro  è  fatto  in  maniera  che  la  terra  della  seconda 
puntata  (terra  vergine)  sia  posta  sopra  la  terra  della  prima  puntata, 
il  capovolgimento  sarà  completo  e  la  spesa  oscillerà  tra  le  300  e 
500  lire  per  ettare,  più  o  meno  secondo  il  prezzo  della  mano  d'opera, 
che  varia  nei  differenti  paesi. 

Lo  zappone  usato  specialmente  nel  Brindisino  ha  una  lama  lunga 
e  larga.  Il  Prof.  Meloni  lo  descrive  nel  suo  lavoro:  Brani  dell'in- 
ventario dell'  agricoltura  italiana  (1)  e  dice  che  con  esso  si  fanno 
a  Brindisi  ottimi  lavori,  capovolgendo  la  terra  quasi  altrettanto  bene 
quanto  colla  vanga.  Non  solo  con  esso  si  fanno  colà  le  scatene  o 
scassi  profondi  a  60,  70  centimetri,  ma  anche  fosse  per  piantare 
alberi  e  non  pochi  lavori  di  maggese. 

Il  bidente  uncinato  è  fatto  come  il  zappone,  ma  ha  due  denti 
piatti,  larghi  tre  dita  traverse,  lunghi  circa  20  centim.  e  separati 
tra  loro  da  uno  spazio  di  circa  altre  tre  dita. 

Il  contadino  apre  anzitutto  davanti  a  sé  un  solchetto,  poi,  come 
fanno  gli  ortolani,  scrosta  alla  profondità  di  pochi  centimetri  la  co- 
tica superficiale  del  suolo  col  suo  bidente  e  fa  cadere  in  fondo  nel 
detto  solchetto,  unitamente  ad  un  po'  di  terra,  al  concio  e  alle  fronde 
delle  leguminose  coltivate  per  sovescio.  Allora,  e  con  replicati  colpi, 
smuove  il  terreno  a  quel  modo  scrostato,  lo  capovolge  quasi  e- 
saltamente,  trae  alla  superfìcie  la  terra  vergine  e  infine  la  frantuma. 
In  questo  modo  egli  apre  davanti  a  sé  un  secondo  solchetto  profondo 
da  25  a  35  centimetri  per  ricominciare  come  sopra  il  suo  scasso,  e 
cosi  di  seguito  sino  all'estremo  lembo  superiore  del  campo. 

Ed  ora  veniamo  a  descrivere  in  qual  modo  si  pratichi  lo  scasso 
a  gradinata. 

Si  apre  in  fondo  al  tratto  di  terra  che  si  vuole  scassare  un  fos- 
satello  a  scalinata,  alla  profondità  voluta  e  di  cui  diamo  il  profilo 
nella  fìg.  70. 

Ciò  si  fa  coi  bovi  seguiti  da  uomini  armati  di  badili,  che  versano 
questa  terra  smossa  al  disotto,  cioè  in  fondo  al  tratto  suddetto  o  la 
spargono  nella  parte  di  sopra  ancora  da  scassare.    Indi  si  apre  col- 


li) 11  Coltivatore  voi.  23  p.  168. 


356 


CAPITOLO   IX 


l'aratro  un  solco  in  C,  con  un    paio  di  buoi,  e  la  terra  cade  in  B: 
un  altro  solco  si  apre  pure   in  C  e  la  terra  occupa  allora  il  posto  di 


B 

C            C 

A 

F.g.  70. 

quella  che  era  in  C.  Ciò  fatto  gli  uomini  coi  badili  versano  il  tutto 
(la  terra  mossa  dello  strato  arabile)  in  A,  e  qui  il  profilo  si  cambia 
presso  a  poco  in  quest'altro  (fig.  71). 


C     C     D 


Fig.  71. 


In  seguito  si  apre  un  altro  solco  in  C  sotto  il  primo  e  un  quarto 
si  apre  in  C  e  la  terra  mossa  (la  terra  vergine  questa  volta)  gli 
uomini  la  versano  sull'arativa  in  A. 

Quindi  il  profilo  prende  quest'altra  figura  (fig.  72). 


E 


1) 


Fig.  72. 


Lo  scasso  ora  in  A  è  ultimato,  e  lo  è  pure  in  C  e  C;  solo  qui 
si  dovrà  farvi  scendere  (come  sopra  si  fece  in  A)  la  terra  di  E  e 
di  E'  poi  (sempre  come  sopra)  1'  altra  sottostante  e  così  di  seguito, 
capovolgendo  esattamente  le  fette,  smosse  colla  forza  dei  bovi,  e  po- 
nendo alla  superficie  coi  badili  la  terra  vergine. 

11  gradino  B  nella  prima  figura  e  quello  D  nella  terza,  e  succes- 
sivamente negli  altri    corrispondenti  a  misura  che  lo  scasso  progre- 


LAVORI  PREPARATORI!  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO 


disce,  sono  necessarii  perchè  sopra  di  essi  passa  il  bue  di  destra  e 
non  dunque  in  fondo  allo  scassato,  perchè  allora  il  tiro  riescirebbe 
malagevole  per  essere  un  bue  troppo  alto  e  l' altro  posto  troppo 
in  basso. 

Fu  in  una  delle  tante  Escursioni  in  zig-zag  che  G.  A.  Ottavi  fece 
per  l'Italia,  che  egli  apprese  lo  scasso  a  gradinata  e  lo  vide  a  pra- 
ticare —  sempre  coi  bovi  —  anche  ad  un  metro  di  profondità.  Nel- 
l'opera Y  Economia  rurale  è  descritto  il  modo  con  cui  fa  questo 
scasso  appunto  a  un  metro  il  Conte  Saverio  Bernetti  di  Fermo, 
nella  provincia  d'Ascoli  Piceno.  Lo  riportiamo  trascrivendo  letteral- 
mente quanto  si  dice  a  pag.  219  della  detta  opera. 

«  Nella  parte  più  bassa  del  tratto  di  terra  che  vuoisi  scassare  fa 
aprire,  passando  e  ripassando  coll'aratro,  una  fossa  M  (fìg.  73)  larga 


Fiar.  73. 


due  metri,  e  la  terra  mossa,  quella  pur  anche  dei  gradini  A  A,  la 
fa  trar  su  coi  badili  e  la  versa  dalla  parte  di  sotto  della  fossa  stessa, 
e  così  in  A'  (1).  Fatto  ciò  si  fa  passare  l'aratro  (tirato  da  due  buoni 
bovi)  per  aprire  un  solco  al  punto  1,  per  cui  un  bue  passa  qui  sul 
sodo,  cioè  nella  linea  notata  colla  cifra  4  e  1'  altro  passa  sul  primo 
gradino  superiore  notato  colla  lettera  A.  La  terra  mossa  del  tratto 
1  rotola  giù  quasi  tutta  nella  fossa  M,  da  dove  gli  uomini,  che 
sempre  seguono  1'  aratro,  V  accumulano  col  badile  in  1'.  Con  altro 
solco,  ritornando  indietro,  si  fa  cadere  nella  fossa  la  fetta  2,  e  dagli 
uomini  si  rovescia  sulla  prima,  e  cosi  in  2'.  Con  altro  solco  ancora, 
si  smuove  la  striscia  n.°  3  e  questa  coi  badili  si  pone  in  3'. 

Infine  allo  stesso  modo    ancora,  si  fanno,    sempre  a   gradinata,  i 
solchi  4,  5  e  6  e  la    terra  di    essi  si    versa  nei    siti  corrispondenti, 


(1)  La  figura  non  fu  bene  incisa.    Essa  suppone    almeno  che  1'  aratro  versi    la 
terra  a  sinistra  e  non  a  destra;  come  accade  quasi  sempre, 


358  CAPITOLO   IX 


cioè  in  4'  5'  e  6'.  E  così  procedendo  si  giunge  infine  a  scassare 
tutto  il  tratto,  che  a  questo  modo  vuoisi  smuovere,  e  dappertutto 
la  terra  rimane  perfettamente  capovolta.  Cosa  essenziale  questa  per 
lo  sverginamento  delle  parti  inerti  di  essa  terra  e  la  successiva  sua 
fecondazione. 

Qui  dunque  il  maggior  lavoro  si  fa  coi  bovi  (1);  ma  suppone  che 
la  terra  di  sotto  non  sia  tufo  durissimo  o  peggio  sasso.  La  durezza, 
in  casi  opposti,  non  è  insuperabile,  e  con  un  buon  paio  di  buoi  si 
scende  benissimo  a  oltre  a  30  centimetri  per  volta,  che  le  fette  of- 
frono poca  resistenza  e  sdrucciolano  facilmente  nella  fossa. 

Ad  ogni  modo  ecco  le  cifre  relative  al  costo  di  questo  scasso,  e 
che  devo  alla  cortesia  del  signor  conte  Bernetti. 

Con  18  uomini  e  un  paio  di  buoi  per  ogni  solco  lungo  100  metri, 
in  una  giornata  di  8  ore  (giornata  dunque  d' inverno),  si  scassano 
500  metri  superficiali  a  un  metro  di  profondità. 

Per  ettare  occorrono  pertanto  20  giornate  dei  detti  bovi  e  360 
di  uomini.  Se  si  valuta  la  giornata  di  questi  a  80  centesimi,  il  costo, 
per  tale  superficie,  sarebbe  di  sole  L.  288,  e  compreso  il  lavoro  dei 
bovi,  circa  L.  370,  e  così  infine  tre  volte  meno,  approssimativamente, 
degli  scassi  fatti  a  mano  ». 

Quanto  costa  lo  scasso?  Già  abbiamo  avvertito  che  quello  prati- 
cato a  mano  a  un  metro  e  anche  a  mezzo  metro  viene  a  costar 
moltissimo.  Per  cinquanta  centimetri  fatto  con  due  fitte  di  vanga  ne 
calcolammo  il  costo  in  lire  400  sino  a  600  1'  ettare  —  viene  poi  a 
costare  da  L.  800  a  1000  quando  lo  si  fa  ad  1  metro  e  ciò  ancora 
nella  supposizione  che  la  giornata  di  lavoro  si  paghi  solo  da  L.  1 
a  L.  1,20.  Fatto  nell'inverno  e  quindi  col  prezzo  della  giornata  assai 
minore,  il  costo  dello  scasso  scema  in  proporzione.  Togliamo  questi 
dati  dal  trattato  La  chiave  dei  campi;  ivi  lo  scasso  a  gradinata 
più  sopra  descritto,  si  calcola  che  costi  non  più  di  L.  290  Tettare  non 
compreso  il  lavoro  dei  bovi  e,  comprendendo  anche  questo,  L.  370. 

Vi  sarebbero  altri  modi  di  far  gli  scassi,  ad  esempio  quello  con- 
sigliato dal  Marès  pei  suoli  sani  e  profondi  delle  piane  e  delle  valli, 
di  far  scassinare  il  terreno  per  la  vigna  da  un  forte  aratro  seguito 
da  un  ravagliatore. 

In  questo  caso  si  tratterebbe  di  scassi  alla  profondità  di  40  o  50 


(1)  lui  solo  paio,  perchè  tra   molti    si  coi're    rischio  di    vederne  a   sdrucciolare 
qualcuno  nella  l'ossa  sottoposta 


LAVORI  PREPARATORI  1  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         359 

centimetri  al  più.  L'aratro  in  questo  caso  vorrebbe  essere  trascinato 
da  sei  bovi  almeno,  il  ravagliatore  sarebbe  quello  Bonnet,  secondo 
il  citato  autore.  Noi  in  Italia  ci  potremmo  servire  benissimo  di  quello 
Certani  che  crediamo  migliore. 

Ma  se  volessimo  occuparci  della  descrizione  dei  diversi  sistemi  di 
scassinare  il  terreno  usati  nelle  diverse  provinole  italiane  e  stra- 
niere, ci  dilungheremmo  di  troppo,  e  basta  per  ciò  Taver  accennato 
ai  principali. 

Facciamoci  ora  a  considerare  brevemente  il  secondo  dei  casi  da 
noi  ammessi  in  principio  di  questo  capitolo,  quello  cioè  in  cui  si  tratti, 
dopo  aver  estirpato  una  vigna,  di  ripiantarla  nel  medesimo  terreno. 
In  questo  caso  bisognerà  regolarsi  secondo  la  natura  del  terreno 
stesso,  tenendo  calcolo  dell'  ultima  volta  in  cui  fu  scassato  o  lavo- 
rato profondamente.  Se  trattasi  di  terreni  affatto  mancanti  di  uno 
o  più  dei  materiali  utili,  che  si  spossino  facilmente  e  presto,  bisognerà 
letamarli  e  scassarli,  estirpando  ogni  vecchia  ceppaia  e  non  ripian- 
tando che  dopo  qualche  anno.  E  nel  frattempo  si  faranno  gli  oppor- 
tuni ammendamenti,  come  V  insabbiamento  se  1'  elemento  che  scar- 
seggia è  la  silice,  la  marnatura  se  scarseggia  1'  elemento  calcare  e 
se  i  terreni  sono  troppo  sabbiosi  e  sciolti.  Si  praticherà  la  vera 
fognatura  inglese  o  drenaggio  se  sono  troppo  argillosi  o  impermeabli. 
Si  potrà  allora  sperare  che  la  nuova  vigna  avrà  sorti  più  prospere 
della  precedente. 

Quando  il  terreno  invece  sarà  di  buona  natura,  ma  stanco,  im- 
poverito, basterà  un  buon  divelto  profondo  con  una  concimazione  nei 
modi  che  diremo.  Crediamo  di  poter  dare  con  sicurezza  questo  con- 
siglio quantunque  diversi  autori,  specialmente  francesi,  insistano  nel- 
1'  ammettere  la  necessità  di  un  riposo  per  la  vigna.  Il  est  sage  et 
prudent  —  dice  il  Petit-Lafìtte  —  quand  une  terre  a  dejà  porte 
de  la  vigne  et  quand  on  veut  en  remettre  de  nouveau  d'accorder 
quelques  temps  à  des  cultures  diffèrentes.  (1)  Pure  il  medesimo 
autore  ammette  che  dovunque  lo  strato  attivo  è  profondo,  e  do- 
vunque si  può  tirare  alla  superficie  un  buon  sottosuolo,  il  ripiantar 
vigna  su  vigna  si  possa  fare.  E  cita  il  Mécloc  in  cui  vide  esempi 
di  ciò,  alla  sola  condizione  di  far  precedere  al  nuovo  pianta- 
mento  uno  scasso  del  terreno.    Ma   di  ciò   ci  occuperemo    di  nuovo 


(1)  Op.  cit.,  pag.  112. 


360  CAPITOLO    IX 


quando  parleremo  dei  modi  migliori  di  ringiovanire  un  vigneto 
vecchio. 

E  infine  venendo  al  terzo  caso  da  noi  supposto,  quello  dei  ripidi 
pendìi,  dovremmo  ora  studiare  il  modo  di  ridurre  questi  terreni  a 
banchine,  terrazze,  ed  è  quello  che  faremo  diffusamente  nel  §  4. 

Prima  ci  preme  dire  due  parole  sulla  seconda  e  meno  buona  maniera 
di  preparare  il  terreno  per  la  vite,  quella  cioè  delle  fosse.  —  Non  ci 
fermeremo  a  parlare  d'un  terzo  sistema,  invero  pessimo  e  pur  usato  in 
molte  provincie  dove  la  vite  si  marita  ad  alberi.  Ivi  —  nel  Veneto  e 
neh'  Emilia  specialmente  —  non  si  fa  altro  che  aprire  tante  buche 
della  larghezza  di  1  metro  quadrato  e  profonde  da  70  ad  80  cen- 
timetri, ed  ivi  piantar  Y  albero  vivo  e  attorno  ad  esso  le  talee.  (I) 
Con  questo  sistema  le  radici  della  vite  si  trovano  come  imprigio- 
nate, né  è  loro  possibile  espandersi  siccome  è  necessario  per  avere 
viti  robuste,  feconde  e  longeve. 

§  2.  Preparazione  del  terreno  colle  fosse.  —  Questo  se- 
condo metodo  è  usato  da  coloro  che  tengono  tra  i  filari  delle  viti 
distanze  maggiori  di  tre,  quattro  e  più  metri,  e  nell'interfilarc  colti- 
vano poi  cereali,  baccelline,  e,  peggio,  patate.  È  usato  quindi  anche  in 
quelle  provincie  dove  la  vite  si  appoggia  a  sostegno  vivo,  e  dove 
pure  non  si  crede  sufficiente  di  limitarsi  a  quelle  semplici  buche  di 
cui  parlavamo  testé,  nelle  quali  si  mette  poi  la  vite  come  si  pianterebbe 
un  fiore  in  un  vaso.  Queste  fosse  si  sogliono  aprire  neh11  autunno 
tra  novembre  e  dicembre,  e  il  piantamento  si  fa  poi  in  primavera; 
è  molto  meglio  però  aprire  le  fosse  in  primavera  e  piantare  all'au- 
tunno successivo.  E  ciò  per  dare  agio  alla  terra  vergine  che  si 
estrae  e  si  sparge  alla  superficie  (si  noti  che  abbiamo  detto  si 
sparge  e  non  si  accumula)  di  ricevere  durante  tutta  l'estate  l'azione 
riunita  degli  agenti  atmosferici  e  quindi  di  sverginarsi.  —  In  Toscana 
molti  viticoltori  sono  persuasi  di  ciò,  secondo  ci  racconta  il  Fonseca  (2), 
e  aprono  le  fosse  in  aprile  per  poi  piantarle,  o,  come  dicesi,  riti- 
rarle nel  venturo  novembre.  I  vignaiuoli  toscani  pare  che  siano  ben 
compresi  dell'importanza  che  hanno  i  mesi  estivi  nello  sverginamento 
della  terra  inerte,  perchè   cercano   di  aumentare  tale    beneficio,  di- 


(1)  V.  /  sostegni  per  le  riti  di  E.  Ottavi,  pag.  27  e  il  giornale  il  Campagnolo 
(Dr.  G.   Vecchi),  anno   1883. 

(2)  La  viticoltura  nel  Fiorentino,  cap,   lu. 


LAVORI  PREPARATORI!  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         361 


sponendo  il  terreno  cavato  dalla  fossa  in  due  larghi  argini  lateral- 
mente alla  fossa  stessa  e  così  esponendo  all'aria  una  più  ampia  su- 
perficie di  terreno. 

Tanto  ricaviamo  dal  citato  Fonseca,  il  quale  dice  pure  che  nel 
piantamento  di  vigneti  promiscui  in  collina,  le  fosse  hanno  in  media 
una  larghezza  ed  una  profondità  di  metri  1,20,  mentre  in  piano 
la  larghezza  è  di  m.  1,50  e  la  profondità  di  m.  0,90. 

Nel  Veneto  le  fosse  si  aprono  alla  fine  di  settembre  o  in  ottobre, 
larghe  un  metro  e  mezzo  e  profonde  70  a  80  centimetri.  Troviamo 
dimensioni  che  poco  si  discostano  da  queste,  nelle  altre  provincie  ove 
la  vite  si  marita  agli  alberi  vivi.  Ivi  nelle  fosse  si  piantano  gli  al- 
beretti  (aceri,  olmi)  presi  dal  vivaio  e  tra  Y  uno  e  l'altro  poi  si 
sdraiano  le  talee  di  vite.  Ma  neh1'  impianto  di  veri  vigneti  specializ- 
zati bastano  fosse  di  dimensioni  minori.  Nei  terreni  buoni  con  sot- 
tosuolo permeabile  basta  una  profondità  di  50  a  60  centimetri,  stando 
però  sempre  la  larghezza  ad  un  metro  e  mezzo,  e  non  meno. 

Come  si  deve  procedere  nell'apertura  delle  fosse? 

Vi  sono  diversi  buoni  metodi  da  seguire.  Scavato  nel  terreno  un 
primo  tratto  tanto  ampio  che  vi  possa  star  entro  il  vangatore, 
questi  continuando  ad  aprire  la  fossa,  da  una  parte  getta  la  terra 
arativa,  dall'  altra  la  vergine,  in  modo,  come  abbiamo  detto,  che 
questa  sia  piuttosto  sparsa,  perchè  meglio  possa  profittare  degli 
agenti  atmosferici.  Ricordiamo  qui  di  passaggio  come  nella  mas- 
sima parte  dei  terreni  lo  strato  arabile  si  divide  in  strato  attivo  e 
strato  inerte  da  non  confondersi  col  sottosuolo,  il  quale  sta  da  sé 
ed  è  di  natura  chimico-fisica  diversa  dal  soprasuolo.  In  generale 
lo  strato  inerte  (che  sta  tra  lo  strato  attivo  e  il  sottosuolo)  è  meno 
oscuro  dello  strato  attivo  ma  è  più  scuro  del  sottosuolo.  E  così  pure 
possiamo  dire  che  in  generale  lo  strato  arabile  attivo  ha  uno  spes- 
sore di  10  a  circa  30  centim.  mentre  lo  strato  inerte  può  essere 
alto  da  10  a  100  e  più  centimetri. 

Torniamo  alle  fosse  aperte  e  che  così  stanno  tutta  1*  estate,  du^ 
rante  la  quale  stagione  sarà  cosa  ottima  aiutare  lo  sverginamento 
della  terra  vergine  con  zappature  frequenti.  Giunto  V  autunno,  nel 
riempir  di  nuovo  la  fossa,  si  porrà  in  fondo  Y  antico  strato  super- 
ficiale, e  si  terrà  invece  alla  superfìcie  quello    che  prima    era  sotto* 

Il  Garelli  nel  suo  Manuale  di  viticoltura  e  di  vinificazione 
propone  un  metodo  che  egli  dice  più  economico  di  quello  dello  scavar 
le  fosse  e  lasciarle  aperte.  Anch' egli  vuol  rovesciare  completamente 


3(32  CAPITOLO   IX 


lo  strato  arabile,  esponendo  all'aria,  al  calore,  all'elettrico,  all' umido 
quello  che  prima  era  strato  inerte;  ma  egli  la  fossa  la  colmerebbe 
subito,  contemporaneamente  alla  pratica  di  questo  rovesciamento. 
È  adunque  un  vero  scasso  che  il  Garelli  vuol  fare  della  striscia  di 
terreno  destinata  a  ricevere  il  filare  di  viti;  ma;  secondo  il  nostro 
avviso,  questo  sistema,  che  pure  è  buono,  non  giova  tanto  quanto 
il  nostro  a  procurare  alla  terra  inerte   un  completo  sverginamento* 

Ecco  come  si  pratica  lo  scasso  parziale  consigliato  dal  Garelli: 
si  scava  in  capo  al  filare  tanta  terra  che  basti  perchè  un  uomo  scen- 
dendo nel  tratto  scavato  possa  maneggiare  la  vanga.  «  La  terra 
del  primo  tratto  si  porta  all'altro  capo  del  filare.  Dappoi  continuando 
Tescavazione,  il  vangatore  getta  dinanzi  a  sé  la  terra  superficiale 
sul  fondo  della  fossa  già  scavata,  e  la  ricolma  colla  terra  inferiore 
del  tratto  in  cui  lavora;  e  così  procede  fino  all'estremità  del  filare, 
dove  riempie  l'ultimo  tratto  con  la  terra  trasportata  all'altro  capo.  » 

Contemporaneamente  alla  preparazione  del  terreno,  si  sogliono 
fare,  specialmente  nei  terreni  a  sottosuolo  impermeabile,  lavori  spe- 
ciali per  dare  aria  agli  strati  inferiori  del  terreno,  e  per  facilitare 
lo  scolo  delle  acque.  Questi  lavori  sono  la  fognatura  con  pietre,  o 
con  veri  tubi,  o  con  fascine,  pratica  quest'ultima  conosciuta  da  lungo 
tempo  nel  Monferrato  sotto  il  nome  di  ar rotto.  Di  tutto  ciò  parle- 
remo al  §  6,  come  pure  parleremo  al  §  7  dei  concimi  che  si  so- 
gliono mescolare  al  terreno  neh1'  atto  del  riempimento  delle  fossA. 
Per  ora  l'ordine  del  nostro  sommario  ci  conduce  a  parlare  della  li- 
vellazione del  terreno  e  della  sua  disposizione  a  banchine. 

§  3.  Livellazione  del  terreno.  —  A  rendere  completo  il  no- 
stro lavoro  ci  conviene  considerare  il  caso  in  cui  avendosi  una  por- 
zione di  terreno  sano,  asciutto,  ma  leggermente  ondulato  e  si  voglia 
appianare  per  ridurlo  a  vigneto.  Vi  sono  certe  operazioni  della  geo- 
metria pratica  che  sono  facili  ad  effettuarsi  coll'aiuto  di  pochi  e  semplici 
strumenti  come  lo  squadro,  il  livello,  e  che  ogni  agricoltore  dovrebbe 
conoscere  per  non  dover  ricorrere  troppo  spesso  al  perito.  Trattan- 
dosi dello  spianamento  d'una  porzione  di  terreno  basterà  possedere 
un  livello  ad  acqua  detto  anche  a  tubi  comunicanti,  il  cui  uso  è 
semplicissimo.  Ricorderemo  che  per  riconoscere  di  quanto  un  punto 
dei  terreno  si  trova  al  disotto  della  linea  orizzontale  determinata 
dal  livello,  si  può  servirsi  come  mira  di  una  canna  comune  sulla 
quale  il    porta  mira    farà   scorrere    colla  mano    un    pezzo  di    carta 


LAVORI  PREPARATOMI  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         36*3 

bianca  rettangolare  detta  scopo.  Ricorderemo  pure  che  la  visuale 
orizzontale  diretta  dall'osservatore  mediante  il  livello  deve  colpire  il 
lembo  superiore  dello  scopo,  detto  linea  di  fede,  e  che  in  generale 
quel  numero  che  si  legge  sulla  mira,  e  che  indica  di  quanto  un 
punto  del  terreno  è  al  disotto  dell'orizzontale  determinata  col  livello, 
dicesi  quota  di  livello. 

Ciò  premesso  ecco  come  deve  condursi  l' agronomo  che  voglia 
spianare  una  porzione  di  terreno. 

Si  abbia  un  piccolo  appezzamento  del  quale  si  vogliono  portare 
tutti  i  punti  al  medesimo  piano.  Qui,  servendosi  della  livellazione 
raggiante,  si  fa  stazione  col  livello  in  un  punto  che  permetta  di  ve- 
dere la  massima  parte  degli  altri  e  si  manda  il  porta-mira  nel  punte» 
all'altezza  del  quale  si  vogliono  portare  tutti  gli  altri,  e  se  ne  trova 
la  quota  di  livello. 

Si  tiene  la  linea  di  fede  dello  scopo  fìssa  a  questo  punto  ed  il 
porta-mira  recandosi  nei  diversi  punti  dove  varia  l'andamento  della 
superficie  scaverà  od  innalzerà  il  terreno  sino  a  che  la  visuale  oriz- 
zontale diretta  dal  livello  alla  mira  colpisca  la  linea  di  fede. 

In  tal  modo  si  potrà  valutare  di  quanto  il  terreno  vuol  essere 
innalzato  o  scavato,  per  mezzo  di  quantità  che  si  ottengono  facendo 
la  differenza  di  livello  di  ogni  singolo  punto  con  quello  che  si  era 
preso  come  punto  di  partenza. 

Livellato  così  il  terreno,  si  potrà ,  procedere  agli  accennati  lavori 
per  l'impianto  del  vigneto  come  scasso,  fognatura  e  via  dicendo. 

§  4.  Disposizione  del  terreno  a  terrazze  o  banchine.  — 

Nel  nostro  giornale  TI  Coltivatore  è  soventi  ripetuto  che  nei  colli  del 
basso  Piemonte  coltivati  a  vite  trovasi,  coll'arbusto  di  Bacco,  la  ric- 
chi zza  e  in  apparenza  per  un  nonnulla.  Questo  nonnulla  sono  i 
piantamene  fatti,  a  distanza  non  minore  di  3  metri  tra  le  file,  in 
senso  trasversale  alla  pendenza  del  suolo.  Accade  con  simili  pian- 
tamene che  aran  lo  poi  la  terra  anch'essa  trasversalmente,  massime 
se  cogli  aratri  a  volta  orecchia,  questa  a  poco  a  poco  comincia  a 
rialzarsi  nelle  parti  basse  degli  interfilari  e  cioè  vicino  al  filare,  e  si 
abbassa  invece  dall'altro  lato  che  restava  più  sollevato.  In  tal  modo  co- 
mincia a  tratteggiarsi  una  specie  di  banchina  colla  sua  scarpa,  la  quale 
presenta  il  vantaggio  di  rendere  il  vigneto  più  accessibile  a  tutti, 
uomini  e  bovi  coi  carri,  e  di  rendere  il  terreno  più  sodo,  e  meno  sog- 
getto alle  frane.  —  È  questo  a  nostro  avviso  il  nonnulla  che  dà  l'a- 
giatezza ai  colli  del  basso  Piemonte. 


364 


CAPITOLO   IX 


Chi  poi  si  facesse  a  visitare  le  diverse  regioni  dell'  Italia  viticola  trove- 
rebbe che  queste  banchine,  fatte  appositamente  e  perfettamente  oriz- 
zontali o  inclinate  verso  il  poggio  (cioè  da  m  ad  n  come  nella  figura  74) 
trovansi  in  diverse  regioni,  ove  per  la  pendenza  troppo  ripida  dei 
colli  e  pel  bisogno  di  frenare  il  corso  delle  acque,  il  terreno  vitato 
è  tutto  disposto  a  terrazze.  Ne  hanno  esempi  la  Liguria,  la  Brianza,  la 


Pie:.  71. 


Valle  di  S.  Martino  nella  Bergamasca,  il  Lucchese,  il  Salernitano  ecc. 
Colle  banchine  l'acqua  si  arresta  dove  cade  e  non  dà  luogo  a  frane, 
o,  grazie  all'inclinazione  che  abbiamo  detto,  si  porta  verso  un  sol- 
chetto  che  si  può  praticare  a'  piedi  d'ogni  scarpa,  e  da  questo  sol- 
chetto  è  poi  portata  in  un  canale  più  grosso  che  la  raccoglie  tutta 
e  la  conduce  fuori  del  vigneto. 

Esponiamo  il  principio  su  cui  si  fonda  questa  riduzione  del  terreno 
a  terrazze;  passeremo  quindi  all'applicazione  pratica.  Sia  A  B  il  terreno 
inclinato  che  si  vuol  ridurre  a  terrazze.  Si  comincia  a  fare  una 
generale  lavorazione  o  scasso  in  pieno,  poi  si  divide  l'intera  super- 


Pig.  75. 


llcie  del  terreno  in  tanti  piccoli  appezzamenti,  indicandoli  colla  zappa 
o  colla  vanga.  In  ogni  appezzamento,  e  coll'aiuto  dei  detti  strumenti 
si  fanno  i  trasporti  di  terreno  dalla  metà  superiore  alla    metà  infe- 


LAVORI   PREPARATORI!  PER  IMPIANTO  DEL  VIGNETO         805 

riore.  Quindi,  come  vedesi  nella  figura,  75  si  comincia  a  scavare  la 
terra  dei  triangoli  a,  a,  a\  versandola  nel  sottostante  terreno  e  for- 
mando così  i  triangoli  b,  b,  b. 

In  tal  modo  si  ottengono  i  ripiani  o  banchine  le  quali,  lo  ripetiamo, 
debbono  avere  una  leggera  pendenza  verso  il  poggio,  in  modo  che  le 
acque  si  raccolgano  tutte  precisamente  al  piede  della  scarpa  della 
banchina  superiore,  e  non  possano  produrre  guasti  alle  inferiori. 
Anzi  al  piede  d'ogni  banchina  e  dove  si  raccoglie  i'  acqua,  è  bene 
praticare  addirittura  un  fossetto  a  lieve  pendenza.  In  tal  modo  l'acqua 
scorre  e  va  a  sboccare  in  un  acquidoccio  generale  o  fossato  più 
grande,  acquidoccio  che  si  fa  tortuoso  per  allungare  e  rallentare 
così  il  cammino  dell'acqua. 

Se  si  incontrano  dei  sassi  nella  formazione  delle  banchine,  questi 
si  possono  utilizzare  facendone  muriccioli  che  rinforzino  la  scarpa 
delle  banchine  stesse. 

Nei  terreni  molto  ripidi,  è  naturale  che  l'altezza  della  scarpa  voglia 
essere  più  ampia  della  larghezza  delle  banchine  stesse.  Avendosi  ad 
esempio  una  inclinazione  di  45  gradi,  quell'  inclinazione  cioè  che  è 
equidistante  dalla  linea  orizzontale  e  dalla  verticale,  la  scarpa  dovrà 
essere  almeno  di  3  metri  per  2  della  banchina.  Con  una  inclinazione 
invece  assai  minore,  la  scarpa  non  ha  spesso  più  di  60  ad  80  cen- 
timetri di  altezza,  essendo  la  larghezza  del  ripiano  di  due  metri 
e  più. 

G.  A.  Odavi  che  scrisse  molte  opere  e  articoli  di  viticoltura  e 
mise  in  pratica  in  diverse  occasioni  il  piantamento  delle  viti  in  ban- 
chine orizzontali,  ce  ne  addita  i  precetti  principali  nell'  opera  La 
Chiave  dei  Campi.  È  da  questo  libro  che  noi  riassumiamo  le  se- 
guenti norme. 

Nel  tracciare  le  banchine  bisogna  sempre  seguire  la  perpendico- 
lare alla  pendenza  del  suolo;  e  ciò  spesso  a  pregiudizio  della  lun- 
ghezza d'alcune  banchine,  dovendone  spesso,  per  averle  tutte  oriz- 
zontali, farne  qualcuna  più  corta. 

Spesso,  progredendo  nel  tracciamento  e  nella  esecuzione  pratica 
delle  banchine,  si  trova  improvvisamente  un  cangiamento  nelle  pen- 
denze del  suolo,  onde  volendo  conservare  1'  orizzontalità  in  tutta 
la  lunghezza  del  ripiano  (sia  A  B  nella  fìg.  76)  è  giuocoforza  farlo 
precedere  da  uno  o  più  ripiani  corti.  Ecco  come  è  spiegato  questo, 
caso  nell'opera  citata: 

«  Supposto  infatti    (è  una    supposizione,  che    questa  figura    male 


366 


CAPITOLO    IX 


«  rende  il  concetto),  che  oltre  la  china  principale  del  terreno  da 
«  M  in  N,  un'altra  ne  sorga  da  B  in  A,  allora  per  dare  alla  ban- 
«  china  ABI'  orizzontalità  in  tutta  la  sua  lunghezza  si  è  costretti 
«  di  farla  precedere   da  due  o  più  banchine  o  p  q  r  s  t,  dando  a 


M 


Fi£.  76 


«  queste  una  lunghezza  tale  che  le  distanze  p  x  e  r  y  ecc.  (mi- 
«  nori  di  certo  di  u  o  ,  o  q)  siano  tali  da  permettere,  come  dissi 
«  qui  sopra,  il  passaggio  dei  buoi  coi  carri,  ecc.  » 

Ed  ecco  infine  ora  un  modo  pratico  per  tracciare  queste  banchine. 
Continuiamo  a  servirci  della  Chiave  dei  Campi. 

Tutti  sanno  che  cosa  sono  le  paline,  quelle  asticciuole,  cannette, 
o  rami  ben  diritti  della  lunghezza  di  metri  1  a  2,' aguzzate  ad  un 
estremo  e  fesse  nell'altro  per  inserirvi  un  pezzetto  di  carta  che  le 
rende  meglio  visibili. 

Queste  paline,  che  servono  comunemente  nel  tracciare  gli  allinea- 
menti, si  collocano  a  posto  innanzi  tutto  sul  terreno,  in  senso  tra- 
sversale alla  pendenza  delle  terre,  ponendole  alla   base  della   futura 


Fig.  77. 


scarpa  delle  banchine,  le  quali,  si  le  lunghe  che  le  corte,  avranno  tutte 


la  medesima  larghezza, 


LAVORI  PREPARATORI!  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         367 


Siano  p  p  le  paline.  (Fig.  77). 

Allora,  non  volendo  far  tutto  a  mano,  si  fa  passare,  cominciando 
dalla  parte  più  alta  del  campo,  tre  volte  l'aratro  volta  orecchia, 
versando  la  terra  sempre  a  basso  nel  tratto  A  B.  Quindi  cogli 
uomini  armati  di  badili,  si  fanno  togliere  le  ultime  due  fette  smosse 
dall'aratro  facendole  versare  sulla  prima,  nonché  sulla  linea  delle 
paline  p  p  p.  In  tal  modo  si  ha  un  solco  largo  circa  mezzo  metro 
alla  profondità  a  cui  è  sceso  l'aratro.  In  questo  solco  per  approfon- 
dirlo si  fa  passare,  una  volta  o  due,  secondo  la  profondità  che  si 
vuol  raggiungere,  un  ripuntatore  americano  tirato  da  4  buoi.  (Fig.  78). 


Fig.  78. 

Dietro  al  solco  profondo  lasciato  dal  ripuntatore  seguono  operai  ar- 
mati di  badili,  i  quali  tirano  su  la  terra  vergine  mossa  dal  potente 
aratro  e  la  versano  sopra  quella  già  smossa  dal  volta -orecchia  e 
messa  a  posto  come  dicemmo. 

Fatto  ciò  si  avrà   (Fig.  79)  un   cumulo   di  terra   m  n    verso   la 
scarpa  e  un  fossetto  A  B  largo  30  centim.  e  profondo  da  40  a  50. 


A 


1  rl 1  f! 

0  P 


Fiar.  79. 


In  questo  fossetto  si  fa  scendere  parte  colla  vanga  e  parte  col  volta- 
orecchia  tutto  lo  strato  arabile  del  tratto  0  P  che  tocca  la  base  della 
scarpa  della  banchina  di  sopra  q  q  q,  e  si  fa  smuovere  poi  la  terra 


368  CAPITOLO  IX 

vergine  di  sotto  che  servì  ad  appianare  la  banchina  e  a  sotterrare 
il  detto  tratto  arabile.  Infine  si  dà  un  colpo  di  badile  alla  scarpa 
per  lisciarla  ed  ultimarla,  e  la  banchina  a  questo  modo  è  fatta,  colla 
leggera  pendenza  in  a  monte  che  avevamo  consigliato  e  applicando 
a  dovere  la  teoria  della  terra  vergine  (1). 

Abbiamo  detto  che  era  cosa  buona,  per  dare  all'acqua  piovana  un 
corso  lento  e  tale  da  non  produrre  franamenti,  di  praticare  presso 
la  base  d'ogni  argine  un  fossetto  con  lieve  pendenza  verso  gli  scoli 
maestri  praticati  nel  colle  dall'  alto  in  basso,  in  modo  da  condurre 
poi  l'acqua  fuori  del  vigneto.  In  questa  strada  che  deve  fare  l'acqua 
essa  può  nondimeno  trascinar  via  molta  terra.  Ad  ovviare  a  questo 
inconveniente  è  buona  cosa  aprire  dei  pescajuoli  o  piccole  buche 
nelle  quali  V  acqua  abbandoni  le  particelle  terrose,  ciò  che  si  fa  da 
taluno  con  buon  esito  negli  alti  colli  del  Monferrato. 

§  5.  Ammendamenti  —  Marnatura  —  Terra  vergine  — 
Aggiunta  di  sali  di  ferro  ai  terreni  bianchi.  —  Sulla  esatta 
definizione  della  parola  ammendamento  non  si  accordano  gli  autori 
che  scrissero  di  agronomia.  —  Il  Cantoni  vuole  compresi  tra  gli 
ammendamenti  i  lavori,  il  debbio,  la  fognatura,  solo  quei  modi  cioè 
di  preparare  il  terreno  che  nessun  materiale  sensibile  aggiungono  al 
terreno.  —  G.  A.  Ottavi  invece  si  attiene  al  significato  che  pare 
espresso  nella  parola  stessa,  e  chiama  ammendamento  tutto  ciò  che 
può  togliere  alla  terra  una  o  più  mende.  E  così  egli  vi  comprende 
pure  le  aggiunte  di  calce,  marna,  silice,  torba  e  le  concimazioni  in 
una  parola.  Siccome  pare  che  quest'ultima  maniera  di  vedere  sia  più 
generalmente  ammessa,  ad  essa  ci  atterremo,  senza  pretendere  però 
che  sia  rigorosamente  scientifica.  E  comincieremo  a  parlare  di  quelle 
aggiunte  che  possono  correggere  e  modificare  profondamente  la  na- 
tura fisico- chimica  del  suolo:  queste  vertono  specialmente  sui  mate- 
riali immediati  del  suolo  stesso. 

La  marnatura,  ossia  l'aggiunta  di  marna  al  terreno,  si  pratica  per 
rendere  più  consistenti  le  terre  sabbiose,  per  rendere  più  porose 
quelle  argillose,  e  per  dare  più  corpo  e  calore  alle  terre  vegetali 
fredde.  Essa  è  possibile  economicamente  quando  la  marna  trovasi 
nel  sottosuolo,  o  almeno  sul  pendio  o  sui  fianchi  di  colle  assai  vi- 
cino. Da  noi  si  usa  poco  la  marnatura  nei  vigneti,  molto  invece  in 


(I)  V.  La  Chiave  dei  Campi,  %   136. 


LAVORI  PREPARATORII  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         369 

Francia.  Nella  Gironda,  scrive  il  Petit  Lafitte,  si  applica  sovente 
la  marna  alle  vigne  e  con  felicissimi  successi.  Vigne  vecchie  e  spos- 
sate, furono  con  quest'  ammendamento  ricondotte  ad  uno  stato  di 
fiorente  vegetazione,  ed  egli  cita  diversi  fatti  al  proposito;  come  pure 
parla  della  correzione  di  terre  silicee  e  leggere  coll'aggiunta  di  altre 
più  argillose,  della  correzione  di  terre  forti  e  compatte  coli' appli- 
cazione di  sabbia. 

La  marna  è  una  terra  vergine,  ed  è  anche  per  questo  che  por- 
tata alla  superficie  dagli  strati  più  bassi  del  terreno  dove  trovavasi, 
e  opportunamente  sverginata,  fa  prodigi  nei  suoli  sprovvisti  di 
calcare  (1).  E  la  terra  vergine  applicata  alle  vigne  come  ammenda- 
mento è  una  fra  le  migliori  pratiche  che  onorano  la  viticoltura  italiana. 
L'alternanza  della  terra  vergine  al  pedale  delle  viti,  che  da  secoli  si  usa 
nel  Bresciano,  il  così  detto  colturone  del  Vogherese,  e  moltissimi 
altri  fatti  raccolti  da  G.  A.  Ottavi  nell'  alta  e  bassa  Italia  ne  sono 
un  esempio  (2).  Del  modo  di  portare  la  terra  vergine  alla  superficie, 
all'atto  dell'impianto  del  vigneto  già  abbiamo  discorso;  delle  belle  ap- 
plicazioni di  essa  colle  cure  successive  di  coltura  parleremo  a  suo 
tempo. 

Un  ammendamento  che  si  rende  importantissimo  in  certi  casi  è 
l'aggiunta  al  terreno  della  soluzione  di  sali  di  ferro. 

In  Francia  hanno  trovato  che  le  viti  americane  sono  più  delle 
Europee  soggette  al  giallume,  anzi  ad  una  infermità  spesso  più 
complicata,  per  la  quale  le  foglie  si  deformano  offrendo  una  dentel- 
latura più  profonda,  e  si  produce  nella  vite  una  quantità  stragrande 
di  piccoli  rami  secondarii,  il  cui  ufficio  è  di  far  da  parassiti  ai  tralci 
fecondi.  Questa  malattia  è  chiamata  dai  francesi  le  cottis  de  la  vigne 
o  anche  la  potesse  en  or  lille. 

Essa  fu  osservata  più  volte  nella  Charentes  e  il  dott.  Guyot  ne 
diede  una  esatta  descrizione.  Si  manifesta  specialmente  nelle  terre 
bianche,  cretacee,  ed  è  ammesso  che  risulti  da  mancanza  di  ferro 
nei  principii  minerali  del  suolo.  Il  Planchon,  che  ha  segnalato  testé 
questa  malattia  nelle  viti  americane,  dice  che  nel  suo  vivaio  il  Clinton 
soccombette  a  questa  specie  di  giallume  nel  primo  anno  del  pianta- 
mento,  mentre  il  Taylor  ne   fu  invaso    solo  al    quarto  anno,    ma  il 


(1)  V.  Marcon,  Le  cidtivateur  Chareniais. 

(2)  V.  giornale  il  Coltivatore  voi.  XI,  XII,  XIII,  XIV,  XXII  ecc. 

0.  Ottavi,  Trattato  di   Viticoltura.  25 


370  CAPITOLO    IX 


male  si  estese  però  anche  all'innesto  di  vite  indigena,  da  due  anni 
posto    sul  ceppo  americano. 

Cercò  il  Planchon  di  scoprire  se  una  qualche  crittogama  non  con- 
tribuisse a  produrre  ed  allargare  il  male;  egli  sospettava  questo,  a- 
vendo  notato  che  il  piede  della  vite  morta  era  coperto  di  una  muffa 
biancastra;  ma  tale  produzione  non  si  trovò  che  sulle  radici  già 
morte,  mentre,  neppure  nell'ultima  fase  della  malattia,  sulla  pianta 
viva  non  fu  osservata. 

Ed  è  così  ch'egli  ammette  definitivamente  che  le  cause  del  Cottis 
si  devono  ricercare  nel  suolo;  e  queste  cause,  secondo  il  Planchon, 
sono  due:  povertà  in  ferro,  e  mancanza  di  calore.  È  adunque  una 
malattia  clorotica  della  pianta,  malattia  che,  come  è  noto,  si  cura 
dando  al  terreno  il  ferro  che  gli  manca.  La  proporzione  consigliata 
da  Guyot  contro  la  clorosi  è  di  5  chilogr.  di  solfato  di  ferro  in  100 
litri  d'  acqua  da  adoperarsi  poi  alla  dose  di  2  a  5  litri  per  pianta: 
venti  a  venticinque  chilogrammi  di  solfato  bastano  però  per  un  et- 
tare  a  vigneto  in  condizioni  normali  di  vegetazione,  cioè  non  affetto 
da  clorosi. 

Ed  ecco  perchè  abbiamo  messo  il  ferro  tra  gli  elementi  che  tal- 
volta concorrono  ad  ammendare  il  terreno. 

§  6.  Arrotto,  fognatura  o  drenaggio.  —  Varrotto  o  fogna 
del  Monferrato,  detto  contrafosso  nello  Stradellese,  è  un'operazione 
che  si  fa  o  all'impianto  del  vigneto,  o  negli  anni  successivi,  per  dare 
aria  agli  strati  inferiori  del  terreno.  È  una  specie  di  fognatura  con 
fascine.  Nelle  fosse  che  si  aprono  pel  piantamento,  nel  modo  che  di- 
cemmo, si  sdrajano  all'epoca  di  questo  piantamento  fascine  di  canna, 
o  fasci  d'erba  legati;  vi  si  aggiunge,  potendo,  del  letame  misto  a  cal- 
cinacci, cenere,  rottami,  ghiaia  ecc.  e  si  copre  poi  il  tutto  con  terra. 

L'arrotto  è  una  pratica  buona  per  l'aria  che  introduce  nel  terreno; 
ma  è  evidente  che  essa  non  è  affatto  necessaria  per  chi  prepara  il 
terreno  collo  scasso  reale,  ed  è  poi  meno  necessaria  ancora  per  co- 
loro che  hanno  la  buona  abitudine  di  piantare  superficialmente.  È  una 
vera  necessità  invece  per  i  viticultori  Casalesi,  gli  Astigiani  e  tutti 
quegli  altri  che  avendo  terreni  compatti  piantano  tuttavia  la  vite  a 
50,  60  e  ben  anche  70  centimetri  di  profondità. 

In  altre  provincie  d'Italia  la  fognatura  si  fa  mettendo  in  fondo 
alla  fossa  uno  strato  di  ghiaia  di  circa  o0  o  10  centimetri  di  spes- 
sore, coprendo  il  tutto  con  terra  e  comprimendo. 


LAVORI  PREPARATORII  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         371 

Altri  fanno  di  meglio:  stabiliscono  in  un  fosso,  un  canaletto  fatto 
con  pietre  piane  o  con  tegoli,  e  mettono  su  di  esso  un  po'  di  ghiaia 
e  quindi  la  terra  come  sopra  (fig.  80). 


Fig.  80. 
(Profondità  del  fosso  lm,50:  altezza  delle  pietre  0,50). 

Meglio  assai  dell'arrotto,  come  quello  che  non  ha  bisogno  d'esser 
rinnovato  ogni  tre  o  quattro  anni,  e  meglio  anche  della  fognatura 
fatta  cogli  antichissimi  metodi  italiani  è  il  vero  drenaggio  coi  tubi 
poco  diffuso  sin'ora  in  Italia,  molto  in  Inghilterra  e  in  Francia.  Nei 
locali  in  cui  il  terreno  è  per  natura  compatto  ed  umidiccio  in  tutte 
le  stagioni,  chi  volesse  impiantarvi  una  vigna  dovrebbe  pensare,  come 
prima  opera,  all'  impianto  del  drenaggio,  per  non  trovarsi  poi  nel 
caso  doloroso  di  avere  buona  annata  solamente  negli  anni  secchi. 

La  metà,  se  non  di  più,  dei  nostri  viticoltori  degli  Apennini,  dove 
abbondano  le  terre  forti  argillo-calcari,  potrebbe  col  drenaggio,  se 
non  duplicare  quasi  ogni  anno  il  prodotto  della  vigna,  accrescerlo 
almeno  di  molto,  averlo  di  miglior  qualità  e  pagare  così  largamente 
la  spesa.  Inoltre  si  potrebbero  lavorare  e  zappare  assai  meglio  le 
terre  drenate,  e  far  ciò  più  presto  in  tutti  i  momenti  dell'  anno.  Ci 
troviamo  qui  dunque  di  fronte  ad  un  prodotto  maggiore  e  migliore 
e  ad  una  diminuzione  di  spesa  nei  lavori  del  suolo  vitato. 

In  Francia  (nella  Gironde,  a  Lagrange)  il  conte  Buchatel  fece  dre- 
nare ottanta  ettari  a  vigna,  vi  spese  lire  275  ad  ettare  e  l'aumento 
del  prodotto  fu  tale  che  in  un  anno  solo  egli  pagò  la  spesa. 

Nello  stesso  dipartimento  il  marchese  di  Bryas  fece  drenare  una 
sua  vigna  di  sei  ettari,  la  quale  dava  il  reddito  medio  appena  di  60 
ettolitri  di  vino.  Or  dopo  che  vi  fu  eseguito  il  drenaggio,  il  prodotto 
ascese  a  208  ettolitri. 

Chaptal  cita  in  una  sua  opera  il  caso  di  tre  campicelli  attigui 
ed  a  vigneto,  dove  lo  strato  arabile  era  di  natura  eguale  in  tutti  e 


372 


CAPITOLO   IX 


tre;  per  tutti  e  tre  si  seguiva  lo  stesso  processo  di  coltura  della 
vite  prima,  e  quello  della  vinificazione  poi,  e  solo  differiva  in  essi  il 
sottosuolo.  Per  la  qual  cosa  dal  campicello  primo  si  ottenevano  in 
media  L.  1200  di  prodotto,  dal  secondo  800  e  dal  terzo  sole  400. 
Ivi  c'era  il  sottosuolo  impermeabile  ed  il  drenaggio  sarebbe  tornato 
utilissimo. 

Vediamo  ora  alcuni  sistemi  spegnali  di  fognatura. 

Nei  vigneti  le  fosse  da  drenaggio  si  possono  aprire  anche  tra  un 
filare  ed  un  altro  di  viti,  e  basta  che  in  fondo  ad  esse,  per  il  lungo, 
vi  sia  la  pendenza  di  circa  due  o  tre  millimetri  per  metro.  Ognuna 
di  queste  fosse  deve  avere  la  media  profondità  d'un  metro,  dove  dif- 
ficilmente giungono  le  radiche    delle  viti.  Con  tale  profondità  la  di- 


Kte.  81. 


stanza  media  tra  una  e  l'altra  fossa  può  essere  di  dieci  metri.  O- 
gnuna  infine  deve  por  capo  in  un  emissario  comune,  nel  quale  versa 
le  sue  acque  e  questo  a  sua  volta  le  conduce  in  un  qualunque  fosso 
o  roggia  di  scarico.  Le  fosse  vogliono  essere  ben  spazzate  e  livellate 
(fig.  81  a  e  d)  onde  i  tubi  vi  si  adagino  per  bene. 

Posti  i  tubi  uno  a  capo  dell'altro  in  fondo  alle  dette  fosse,  dopo 
averne  regolarizzata  la  pendenza,  si  cuoprono  con  terra,  il  che  si  fa 
un  po'  per  volta,  poi  la  si  comprime  ben  bene  coi  piedi  e  colle  maz- 
zeranghe; e  ciò  onde  i  tubi  non  abbiano  poi  a  spostarsi  menoma- 
mente. 

Queste  sono  le  avvertenze  principali  che  voglionsi  avere  nel  fare 
il  drenaggio.  I  dettagli  è  d'uopo  studiarli  nei  trattati  speciali  di  fo- 
gnatura. 


LAVORI  PREPARATOMI  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         373 

Per  chi  abbia  terreni  umidi  l'impianto  del  drenaggio  non  è  cosa 
da  poco:  si  calcolano  in  media  L.  100  ad  ettare  per  l'acquisto  dei  tubi 
e  altre  L.  100  per  i  lavori  necessarii  all'impianto.  V'è  però  un  altro 
sistema,  assai  più  economico,  quello  dei  pozzi  assorbenti.  Ma  essi  non 
si  possono  praticare  che  ad  una  condizione,  che  cioè  al  disotto  dello 
strato  impermeabile  si  trovi,  ad  una  profondità  ancora  accessibile, 
uno  strato  permeabile  di  sabbia,  d'  alluvioni  antiche,  di  roccie  di- 
sgregate ecc.  Allora  l'acqua  dello  strato  superficiale  condotta  a  que- 
sti strati  più  profondi  e  permeabili  per  mezzo  di  uno  o  più  appositi 
pozzi  assorbenti,  troverà  uno  scolo  (v.  fig.  82). 

Il  pozzo  assorbente  si  può  praticare  con  profitto  anche  nelle  co- 
struzioni delle  case  di  campagna  per  liberarle  dalle  acque. 


0 

Pie.  82. 


Si  comincia  dal  praticare  una  vasta  apertura  cogli  ordinarli  stru- 
menti, la  quale  si  fa  per  tutto  lo  strato  superficiale,  arrivando  così 
al  banco  impermeabile.  Quest'apertura  segnata  con  A  nel  figura  82 
potrà  avere  un  diametro  di  3  a  5  metri  all'  orifizio,  restringentesi 
sempre  più.  Giunti  allo  strato  impermeabile,  colla  trivella  si  pratica 
un  foro  0  che  traversa  il  banco  in  tutta  la  sua  altezza,  mettendo  così 
in  comunicazi'one  lo  strato  superficiale  con  quello  selcioso  o  ghiaioso; 
basterà  far  tanti  di  questi  fori  a  seconda  dell'effetto  che  si  vuol  ot- 
tenere. 

Se  lo  strato  impermeabile  è  molto  alto,  l'ostruzione  dei  fori  pra- 
ticati è  facilissima,  e  allora  bisogna  pensare  a  tenerli  aperti  artifi- 
cialmente. Si  consiglia  di  collocare  nel  foro  fatto  dalla  trivella  un 
tubo  di  legno  di  ontano,  di  olmo  o  di  quercia.  E  per  impedire  l'in- 


374  CAPITOLO   IX 


tasamento  di  questo  tubo  è  bene  coprirne  Y  apertura  con  fascetti 
di  spine,  sopra  i  quali  si  dispone  una  grossa  pietra  D,  sostenuta 
da  due  altre  laterali.  Finalmente  si  riempirà  tutta  1'  escavazione  di 
pietre  sino  al  livello  del  fondo  delle  fosse  che  devono  portar  l'acqua 
al  pozzo  assorbente. 

Un'ultima  avvertenza  per  chi  vuol  risanare  i  suoi  terreni  con  questo 
metodo,  è  quella  di  praticare  le  fosse  leggermente  inclinate  col 
loro  fondo  verso  il  pozzo.  Ma  solo  leggermente  per  impedire  che 
al  momento  delle  grandi  piogge  queste  trasportino  al  pozzo  stesso 
materiali  troppo  grossolani,  i  quali  potrebbero  otturarlo. 

Un  drenaggio  eziandio  economico  applicabile  non  solo  per  dar  aria, 
ma  per  facilitare  lo  scolo  dell'acqua,  è  quello  d'invenzione  italiana  prati- 
cato da  circa  10  anni  alla  Scuola  agraria  di  Brusegana  nella  provincia  di 
Padova.  Le  fosse  si  scavano  colle  ordinarie  distanze  e  profondità,  e  in 
fondo  ad  esse  si  collocano  i  tubi  che  si  piazzano  gli  uni  vicini  agli  altri 
precisamente  come  nel  vero  drenaggio  all'inglese;  ad  ogni  10,  15,  20 
metri  si  stabiliscono  delle  prese  d'aria  o  caminetti,  i  quali  altro  non 
sono  che  tubi  comunicanti  con  quelli  orizzontali  e  che  vengono  a 
sporgere  di  qualche  centimetro  sulla  superficie  del  suolo. 

Ecco  come  il  Prof.  Niccoli,  che  pratica  questo  sistema  di  drenaggio 
a  Brusegana,  lo  descrive: 

«  I  caminetti  favoriscono  la  circolazione  dell'aria  se  un  po'  elevati  sul 
suolo,  se  semplici,  cioè  di  pareti  sottili  e  di  sezione  un  po'  piccola,  a  mo' 
anzi  dei  fumaioli  dei  nostri  comuni  camini;  infine  se  dipartonsi  dai  punti 
più  salienti  dei  condotti  sotterranei,  oppure  dal  punto  del  loro  inter- 
secamento.  Perchè  poi  non  riescano  di  ostacolo  ai  lavori  e  siano  per 
quanto  è  possibile  immuni  da  danni,  devono  pur  costruirsi  ove  non 
agisce  l'aratro  e  simili  istrumenti,  e  dove  altri  danni  sono  poco  proba- 
bili. E  i  nostri  caminetti  altro  non  piccolo  beneficio  arrecano,  col  de- 
terminare esattamente  sul  terreno  la  posizione  dei  sottoposti  condotti; 
ed  ancora  col  dar  sentore  della  condizione  in  cui  essi  si  trovano. 
Così  tanto  più  forte  è  all'  estremità  superiore  della  torretta  la  cor- 
rente dell'aria  (fatto  che  col  sistema  adottato  a  Brusegana  colla  sola 
mano  e  in  breve  momento  facilmente  si  riscontra)  quanto  più  attiva 
è  l'azione  della  fogna:  tanto  più  debole  è  la  detta  corrente,  quanto 
più  debole  è  pure  1'  azione  dell'  acqua  nella  fogna.  Pertanto,  se  in 
tempo  di  gran  caldo  o  di  gran  freddo,  nei  quali  casi  la  detta  cor- 
rente dovrebbe  essere  maggiore,  fosse  invece  nulla,  sarebbe  segno 
manifesto  che  altrettanto  avverrebbe  nello  scolo  del  liquido;  vale  a 


LAVORI  PREPARATORII  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO         375 

dire  che  il  condotto  è  inattivo    perchè  in  qualche  luogo    otturato  o 
guasto  ». 

Drenaggio  aereo  del  terreno  col  sistema  Hooinbrenk.  Il  signor 
Hooinbrenh  è  autore  di  un  sistema  d'aerazione  del  terreno  il  cui  prin- 
cipio non  si  scosta  da  quello  del  sistema  Niccoli,  ma  che  è  più  perfe- 
zionato per  quel  che  è  del  richiamo  dell'aria;  inoltre  in  esso  non  si  tiene 
calcolo  delle  pendenze,  poiché  tale  drenaggio  è  puramente  aereo.  Siamo 
alle  solite  fosse  nel  cui  fondo  si  collocano  i  tubi  da  drenaggio;  questi 
si  fanno  arrivare  in  un  condotto  primario  che  va  a  terminare  nell'a- 
pertura d'un  piccolo  fornello  (v.  fìg.  83)  il  quale  funge  da  macchina 


Fig.  83. 

per  fare  il  vuoto  e  può  essere  situato  nel  terreno  stesso  da  drenare 
in  modo  che  ad  esso  non  abbia  assolutamente  accesso  altr'aria  all'in- 
fuori  di  quella  che  viene  dai  tubi  collettori.  A  questo  scopo  il  for- 
nello ha  in  alto  un'apertura  (f  nella  fìg.  83)  per  la  quale  si  fa  en- 
trare il  combustibile,  apertura  che  poi  si  chiude  accuratamente.  — 
Malgrado  questa  completa  esclusione  dell'  aria  esterna  il  tiraggio  è 
talmente  energico  che  pare  un  mantice  da  fucina:  se  vi  si  gettasse 
entro  un  pezzo  di  ferro  non  starebbe  molto  ad  arroventarsi. 

Quando  la  temperatura  dell'  aria  è  inferiore  a  quella  del  terreno 
non  converrà  eccitare  questo  rapido  movimento  sotterraneo  dell'aria 
stessa  e  non  si  farà  quindi  fuoco,  non  solo,  ma  non  si  apriranno 
neppure  le  prese  d'aria  (fig.  83  e  fig.  84  h  h).  E  così  pure  non  è  ne- 
cessario di  far  sempre  fuoco;  tre  o  quattro  volte  per  settimana,  e 
spesso  solo  durante  qualche  ora,  sono  sufficienti. 

Se  il  terreno  che  si  vuol  aerare  trovasi  presso  l'abitazione  si  po- 
trebbe fare  arrivare  il  tubo  collettore  nel  focolare  della  cucina  as- 
sicurando così  il  tiraggio,  poiché  è  certo  che  quel  fuoco  che  si  fa 
di  quando  in  quando  sarà  sufficiente  a  fare  il  vuoto  in  tutti  i  con- 
dotti e  ad  avere  così  un  vivace  richiamo  d'aria. 

Nella  fig.  83  si  vedono  le  fosse  (a,  a)  scavate,  in  fondo  alle  quali 


376 


CAPITOLO   IX 


stanno  i  tubi  che  —  non  l'avevamo  ancora  avvertito  —  sarà  bene 
siano  traforati  da  molti  buchi  perchè  l'aria  vi  si  possa  più  facilmente 
introdurre:  (b,  b)  è  la  fossa  in  cui  è  situato  il  tubo  collettore  che  arriva 
al  focolare  e\  in  d  vi  ha  la  griglia  ed  in  f  l'apertura  da  cui,  come  di- 
cemmo, si  introduce  il  combustibile.  Vi  è  poi  un  tubo  che  serve  per  l'uscita 
del  fumo.  Passiamo  alla  fig.  84  la  quale  ci  dà  a  volo  d'uccello  un'idea 
sulla  disposizione  delle  fosse.  Quivi  g  g  g  g  indicano  i  limiti  del  ter- 
reno, h  h  i  tubi  di  presa  d'  aria  che,  piazzati  verticalmente,  vanno 


#^^g^^^^^$$^%$g^^$^^^^^^^^^^ 


84. 


a  corrispondere  con  quelli  che  sono  in  fondo  alle  fosse.  Quando  non 
si  fa  fuoco,  questi  tubi  verticali  si  lasciano  aperti,  perchè  si  stabi- 
lisce allora  una  corrente  d'aria  che  rinnova  quella  contenuta  nel 
terreno:  queste  bocche  o  prese  d'aria  possono  avere  tra  loro  la  di- 
stanza di  20  metri.  Quando  l'aria  di  fuori  è  troppo  fredda  si  chiu- 
dono con  una  calotta  di  zinco  o  con  altro  mezzo  qualunque.  È  inu- 
tile poi  l'avvertire  che  quando  si  fa  fuoco  nel  focolare  si  chiudono 
ermeticamente  tutte  le  aperture  che  comunicano  coll'aria  esterna. 
E  passiamo  infine  ai  concimi  propriamente  detti. 


LAVORI  PREPARATOMI  PER  L'IMPIANTO  DEL  VIGNETO  377 

§  7.  Concimi  per  l'impianto.  —  Noi  crediamo  che  la  conci- 
mazione del  vigneto  debba  variare  secondochè  si  tratta  dell'impianto 
oppure  del  vigneto  già  formato.  Occupiamoci  quindi  del  solo  primo 
caso.  Non  v'ha  dubbio  che  allorquando  una  pianticella  di  vite  riesce, 
sin  da'  suoi  primi  anni,  a  formarsi  un  ampio  sistema  radicale,  non 
solo  si  mantiene  per  lunghi  anni  in  un  soddisfacente  stato  di  robu- 
stezza, ma  si  fa  fruttifera  precocemente  e  produce  di  poi  abbondanti 
grappoli,  senza  estenuarsi  di  soverchio,  e  costantemente,  per  poco  che 
il  viticultore  le  venga  in  aiuto  coi  lavori  e  coi  concimi. 

Adunque  il  piantamento  delle  talee,  dei  maglioli  o  delle  barbatelle 
deve  essere  fatto  in  terreno  lautamente  concimato,  con  ingrassi  ricchi 
di  azoto,  poiché  le  radichette  appena  nate  lo  usufrutteranno,  cre- 
scendo e  moltiplicandosi  prontamente;  alla  fine  del  primo  anno  a- 
vremo  così,  senza  dubbio,  una  pianticella  provvista  d'un  ampio  ca- 
pellamento,  locchè  è  quanto  desideriamo  per  l'avvenire  del  nostro 
vigneto. 

Fra  i  detti  ingrassi  citeremo  anzi  tutto  il  letame  di  stalla  bene 
sfatto,  nonché  gli  escrementi  umani  e  la  pollina;  quest'ultima  è  in 
ispecie  attivissima,  ma  il  suo  effetto  utile  cessa  dopo  il  primo  anno: 
tutti  questi  concimi  si  mescolino  con  terra,  così  da  fare  un  terric- 
ciato ricchissimo,  che  si  spargerà  alla  dose  media  di  5000  miria- 
grammi per  ettare,  salendo  anche  a  6000  e  più  nelle  tèrre  magre. 
Gioverà  pure  a  rendere  più  attivo  il  terricciato  l'aggiunta  del  sale 
agrario  alla  dose  di  600  chilogrammi  per  ogni  30  carri  di  letame. 

Fra  i  concimi  chimici  merita  la  preferenza  il  nitrato  di  potassa 
(acido  azotico  e  potassa)  detto  comunemente  nitro,  che  è  il  più  po- 
tente fra  i  sali  azotati;  a  questo  riguardo  noi  sappiamo,  per  le  ac- 
curate esperienze  di  Boussingault,  che  le  piante  fissano  nei  loro  tes- 
suti l'azoto  che  è  loro  fornito  allo  stato  di  nitrato  (azotato).  Anche 
gli  altri  nitrati  (di  soda,  di  calce,  ecc.)  possono  giovare  al  nuovo 
piantamento,  ma  il  salnitro  deve,  se  si  può,  essere  preferito  a  tutti. 

Oltre  ai  detti  concimi  dobbiamo  accennare  al  buon  guano,  al 
guano  cioè  ricco  di  azoto,  il  quale  è  ottimo  per  l'impianto  del  vi- 
gneto. Il  guano  si  unisce  al  suddetto'  terricciato,  ma  si  può  benis- 
simo usarlo  anche  da  solo;  la  dose  può  essere  di  due  ettogrammi 
per  ogni  pianta,  con  molto  profìtto  di  questa,  poiché  caccierà  fuori 
una  vegetazione  rigogliosa,  quale  appunto  noi  la  desideriamo. 

Le  vinaccie  non  giovano  molto  nell'impianto  del  vigneto,  perchè 
adoperate  talquali  escono  dalla  cantina  o  dalla  distilleria,  sono  un  in- 


378  CAPITOLO   IX 


grasso  di  decomposizione  relativamente  lenta,  mentre  al  nuovo  pian- 
tamelo occorrono  concimi  attivi.  Bisognerà  quindi  (siano  esse  di- 
stillate o  non,  perchè  in  ambedue  i  casi  la  loro  composizione  chimica 
non  muta  gran  fatto)  farle  prima  fermentare  col  letame,  alternan- 
dole nella  concimaia  cogli  strati  del  letame  stesso  ed  inaffiandole  o 
con  colaticci,  o  con  escrementi  umani  liquidi:  però  la  pratica  ha  di- 
mostrato che  conviene  far  passare  la  vinaccia  pel  corpo  dell'animale, 
che  così  se  ne  ottiene  un  ottimo  letame,  adattatissimo  all'impianto 
del  vigneto. 

Infine  per  quest'ultimo  scopo  sono  consigliabili  le  acque  dei  fossi 
maceratoi  del  lino  e  della  canapa  (perchè  ricche  assai  in  azoto)  la 
fuliggine  ad  alte  dosi,  le  carni,  il  sangue,  l'orina  (per  inumidire 
i  terricciati  o  il  letame),  la  colombina,  gli  avanzi  di  pesci  e  tutto 
ciò  insomma  che  si  sa  essere  molto  azotato,  molto  attivo  e  pronta- 
mente utilizzabile  dalle  piante. 

Adunque,  quando  si  impianta  il  vigneto  si  debbono  usare  concimi 
molto  azotati  e  di  pronta  assimilazione:  vedremo  poi  al  Cap.  XII 
quale  debba  essere  la  concimazione  periodica  del  vigneto  già  formato. 


CAPITOLO  X 


Formazione  del  vigneto. 


§  1.  Seminagione  della  vite  europea  —  §  2.   Seminagione    della    vite   americana 

—  §  3.  Moltiplicazione  per  mezzo  di  gemme  —  §  4.  Scelta,  conservazione,  di- 
sinfezione e  piantamento  delle  talee  nel  vivaio  o  a  dimora  —  §  5.  Pianta- 
mento  dei  magliuoli  —  §  6.  Piantamento  delle  barbatelle:  confronto  colle  talee 

—  §  7.  Età  delle  barbatelle  —  §  8.  Scelta  dei  vitigni  a  seconda  del  clima,  del 
terreno,  della  situazione  e  delle  esigenze  del  mercato. 


§  1*  Seminagione  della  vite  europea.  —  Il  vigneto  può  for- 
marsi in  due  modi  diversi;  o  traendo  partito  della  generazione  ses^ 
suale  (seminagione  dei  vinacciuoli)  oppure  giovandosi  della  moltipli- 
cazione agamica  (talee,  barbatelle,  propaggini,  ecc.)  È  legge  natu^ 
rale  invariabile  che  i  ceppi  provenienti  dal  seme  sono  più  robusti 
e  più  longevi  di  quelli  nati  da  barbatelle  o  tralci  o  gemme;  tuttavia 
industrialmente  non  si  potrebbe  consigliare  l' impianto  d'  un  vigneto 
per  mezzo  della  seminagione,  inquantochè  si  andrebbe  incontro  so^ 
vratutto  a  due  gravi  inconvenienti;  il  primo,  che  solo  dopo  sette  od 
otto  anni  la  vite  sarebbe  in  fruttificazione,  il  secondo,  che  si  avrebbe 
nel  vigneto  un  miscuglio  di  varietà  diverse  (pag.  192)  con  predo- 
minio di  piante  sterili  o  di  poco  valore,  spesso  nella  proporzione 
dell'  ottanta  per  cento,  siccome  constatava  il  valente  ampelografo 
Barone  Antonio  Mendola. 

Sarebbe  però  un  errore  il  condannare  recisamente  la  seminagione 
della  vite  europea;  —  lasciando  per  ora  in  disparte  quanto  si  rife- 
risce ai  semi  di  viti  americane,  di  cui  diremo  nel  paragrafo  seguente, 


380  CAPITOLO  X 


è  certo  che  anche  dai  vinacciuoli,  che  diremo  nostrani,  i  viticultari 
possono  ricavare  non  poco  beneficio  nella  riforma  dei  loro  vigneti. 

Noi  non  crediamo  menomamente  che  la  vite  europea  sia  degene- 
rata, siccome  scrisse  taluno,  perchè  sin  qui  si  pensò  solo  a  moltipli- 
carla per  mezzo  di  tralci;  anche  le  viti  nate  da  seme  possono  perire 
per  la  fillossera  e  sono  poi  esse  pure  soggette  all'  oidio  (detto  crit- 
togama per  antonomasia),  alla  peronospora  ed  alle  altre  crittogame 
che  infestano  i  vigneti.  D'altra  parte  il  piantamento  della  vite  data 
da  Noè,  il  quale  precisamente  piantò  e  non  seminò  la  preziosa  am- 
pelidea;  ed  il  suo  metodo,  se  così  possiamo  esprimerci,  fu  sempre 
adottato,  da  quei  tempi  primitivi  insino  a  noi,  senza  che  la  vite  abbia 
dato  indizii  di  degenerazione;  infatti  la  riproduzione  agamica  coi 
tralci  è  tanto  naturale  e  razionale  quanto  quella  sessuale  coi  vi- 
nacciuoli. E  certo  però  che  i  vitigni  provenienti  da  seme  sono  assai 
rusticani,  robusti  e  longevi;  essi  portano  con  sé  come  una  energia 
novella,  quasi  rinfrescata  dall'  atto  generativo,  come  felicemente  si 
esprime  il  Mendola.  Per  questo  consigliamo  quei  viticultari  i  cui 
vigneti  per  mala  coltivazione  fossero  in  deperimento,  di  seminare,  in 
apposita  aiuola,  una  certa  quantità  di  vinacciuoli  europei  opportuna- 
mente scelti  e  poscia  al  secondo  o  terzo  anno  di  innestarli:  ne  otter- 
ranno, come  già  fa  taluno,  piante  assai  robuste,  a  legno  più  Consi- 
stente e  di  tardo  invecchiamento. 

Ma  abbiamo  già  osservato  che,  seminando  i  vinacciuoli,  si  ottengono 
piante  assai  dissimili  e  si  perde  generalmente  la  varietà  del  vitigno 
da  cui  fu  preso  il  seme;  per  ovviare  a  questi  inconvenienti  si  deve 
trarre  partito  della  ibridazione  o  fecondazione  artificiale  di  cui  parle- 
remo al  Capitolo  XVII;  allora  si  ottengono  vinacciuoli  che  non  danno 
varietà  protee,  ma  bensì  varietà  costanti,  cioè  coi  caratteri  dei  pro- 
genitori. Questo  però  succede  talvolta  seminando  i  vinacciuoli  dello 
stesso  grappolo,  i  cui  nati  sono  allora  rassomiglianti,  se  non  iden- 
tici; ma  non  tutte  le  varietà  coltivate  permettono  di  ottenere  questo 
risultato,  anzi  in  generale  si  ricavano  soggetti  disparatissimi  non  solo 
per  la  forma  ed  il  sapore  ma  anche  pel  colore  del  frutto;  per  questo 
deve  adottarsi  esclusivamente  il  metodo  della  ibridazione. 

L'impianto  del  vigneto  col  mezzo  della  seminagione  non  è  adun- 
que consigliabile,  inquantochè  se  ne  avrebbe  un  vero  caos  di  ceppi 
eterogenei  e  senza  verun  pregio,  cosa  che  invece  non  accade  colle 
barbatelle  o  colle  talee  e  via  via.  Sono  interessanti  a  questo  pro- 
posito le  esperienze  del  Mendola,  il  quale  avendo  riseminato  per  ben 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  381 

cinque  volte  i  semi  dell'uva  Greca  di  Somma  ne  ebbe  non  soltanto 
soggetti  dissimilissimi  dai  genitori,  ma  dissimilissimi  altresì  tra  loro 
stessi.  Però  dalla  Golletta  bianca  egli  ottenne  soggetti  assai  somi- 
glianti, benché  non  mai  identici,  locchè  concorda  con  quanto  dice- 
vamo poco  fa. 

Accade  però,  seminando  i  vinacciuoli,  che  accidentalmente,  fra 
migliaia  e  migliaia  di  soggetti  selvaggi,  ne  sorgono  altri  allo  stato 
perfetto,  capaci  cioè  di  dare  eccellenti  frutti;  le  nuove  varietà,  talvolta 
pregevolissime,  che  si  hanno  colla  seminagione,  prendono  appunto  ori- 
gine da  questi  fortunati  casi.  Scegliendo  queste,  si  potrebbero  rite- 
nere come  porta-innesti  i  restanti  soggetti  selvaggi  e  rinvigorire  così 
poco  per  volta  ed  anzi  rifare  di  pianta  le  varietà  coltivate,  formando 
per  ultimo  un  vigneto  molto  rusticano,  molto  produttivo  e  con  grap- 
poli di  buona  qualità  per  sapore  e  volume. 

La  seminagione  dei  vinacciuoli  vuole  essere  preceduta  da  una 
oculata  scelta  dei  medesimi:  essi  devono  presentare  una  cotale  tur- 
gidezza, essere  cioè  ben  nutriti,  voluminosi,  duri,  ed  avere  un  colore 
piuttosto  oscuro.  In  tal  caso  si  potrà  sperare  di  avere  generalmente 
soggetti  robusti.  Alcuni  credono  che  una  vite  rigogliosa  dia  semi 
ottimi  per  aver  soggetti  rigogliosi;  la  cosa  non  si  verifica  sempre. 

La  seminagione  si  deve  fare  tanto  più  tardi  quanto  più  freddo  è 
il  clima:  in  aprile  e  maggio  nei  paesi  del  nord,  in  marzo  od  anche 
in  febbraio  in  quelli  del  sud.  È  pure  talvolta  efficace  la  seminagione 
in  ottobre,  cioè  nell'autunno.  In  questo  caso  appena  raccolti  i  vinac- 
ciuoli di  grappoli  maturissimi,  si  confidano  ad  un  semenzaio  fatto 
con  terra  assai  fertile  e  soffice:  in  esso  apronsi  solchettini  poco 
profondi,  distanti  30  centim.  gli  uni  dagli  altri,  ed  il  seminato  rico- 
presi  con  3  o  4  centimetri  di  sabbia.  In  primavera  spuntano  le  pian- 
tine; allora  si  tengono  sempre  nette  dalle  male  erbe  e  si  bagna  il 
suolo  di  tanto  in  tanto  per  aiutare  viemmeglio  le  piantine  stesse  nel 
loro  sviluppo.  Alla  successiva  primavera  si  trapiantano  a  dimora  le 
più  belle  viti  del  semenzaio.  Dopo  sei,  sette  e  più  anni  la  vite  inco- 
mincierà  a  dar  frutti  e  quanto  più  tarderà  tanto  più  sarà  robusta 
quale  appunto  noi  la  desideriamo  dal  seme. 

Ma  a  questo  metodo,  che  non  sempre  riesce  molto  bene,  prefe- 
riamo il  seguente  altro  che  è  più  accurato;  quello  cioè  del  Barone 
Antonio  Mendola. 

Il  vinacciuolo  egli  lo  raccoglie  maturo,  cioè  quando  più  non  pre- 
senta certe  tinte  verdastre  o  bianchiccie  e  giallastre,  e  quando  si  è 


382  CAPITOLO  X 


fatto  duro;  per  raggiungere  questo  stato  conviene  talvolta  attendere 
che  il  grappolo  sia  stramaturo  od  anche  fradicio. 

Ciò  fatto  il  Mendola  lava  bene  i  vinacciuoli  per  spogliarli  della 
mucillaggine  zuccherina  e  conservarli  meglio;  asciutti  che  siano,  li 
avvolge  in  cartoline,  varietà  per  varietà,  segnandovi  sopra  tutti  i 
dati  che  reputa  utili  a'  suoi  studii  ampelografìci.  La  terra  cui  con- 
fida i  semi  la  suol  comporre  con  metà  terra  fertile  e  metà  terriccio 
di  vinaccie  sfatte,  con  un  po'  di  cenere  e  concime  pecorino.  La  se- 
mina la  fa  in  vasi  e  sparge  semi  a  josa. 

Il  vinacciuolo  non  lo  sotterra  troppo;  basta  qualche  centimetro, 
mantenendo  sempre  umida  la  terra  con  frequenti  e  leggere  bagna- 
ture segnatamente  nei  giorni  e  nelle  ore  molto  caldi.  In  Sicilia  dopo 
40  o  50  giorni  i  semi  spiegano  all'aria  i  cotiledoni  in  foglioline,  seb- 
bene non  manchino  casi  di  germinazione  in  soli  20  giorni,  secondo 
la  varietà  dell'uva  ed  il  corso  delle  stagioni.  Se  le  pianticelle  nascono 
tutte  e  vengono  troppo  affollate,  egli  le  dirada  togliendo  le  piccine 
e  deboli  e  conservando  le  rigogliose  e  meglio  appariscenti.  Venuto 
il  verno  il  Mendola  trapianta  in  altri  vasi  le  viti  che  vuol  allevare, 
ponendone  al  più  due  per  vaso:  dopo  due  anni  le  colloca  a  dimora 
nella  sua  bellissima  collezione  ampelografica. 

Chi  volesse  invece  allevare  tutte  le  piante  nate,  potrebbe  trapian- 
tarle in  un'aiuola  speciale:  dopo  quattro  anni  circa  si  collocherebbero 
a  dimora  nel  vigneto  ove,  trascorsi  altri  tre  o  più  anni,  incomincie- 
rebbero  a  maturare  i  primi  grappoli. 

Abbiamo  quindi,  come  vedesi,  anzitutto  il  germinatolo  (il  vaso) 
poi  il  semenzaio  (l'aiuola)  infine  la  dimora  (il  vigneto).  —  Richie- 
donsi  poi  molti  anni  (nove,  dieci  o  più)  prima  di  avere  frutti  in  di- 
screta quantità,  e  d'  altra  parte,  come  dicemmo,  quasi  tutti  i  sog- 
getti conviene,  anzi  è  necessario,  innestarli. 

Con  tutto  questo  però  stimiamo  utile  di  richiamare  1'  attenzione 
dei  viticultori  sulla  seminagione  della  vite,  siccome  quella  che  ci  può 
dare  ottime  e  gagliarde  varietà  da  sostituire  —  in  gravi  emergenze 
—  alle  attuali  snervate  dalla  coltura  irrazionale,  già  accennata  a 
pag.  180. 

Seminagione  dei  granelli  d\iva  avvizziti.  A  titolo  di  curiosità 
riferiremo  quanto  leggemmo  anni  sono  negli  Annalen  der  Oenologie 
del  Dr.  Blanhenhorn  (1870,  p.  10)  di  un  vecchio  scrittore  di  viticol- 
tura il  sig.  Ilórler,  il  quale  fin  dal  1825  nel  suo  Catechismo  del  Vi- 
licullore  raccomandava  il  seguente  processo  di  seminagione  dei  granelli 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  383 

d'uva  avvizziti:  «  Si  raccolgono  in  autunno  dalle  piante  più  fruttifere 
e  più  belle  di  diverse  specie,  le  uve  meglio  conformate,  più  sane, 
più  succulenti  e  più  mature,  e  si  serbano  in  luogo  temperato  fino 
alla  primavera.  Nel  mese  di  aprile,  se  non  v'  ha  più  a  temere  il 
freddo,  si  collocano  gli  acini  d'  uva  avvizziti  con  i  semi,  che  vi  si 
trovan  dentro,  (profondi  2-3  pollici  e  distanti  1-2  piedi  un  dall'altro) 
nel  terreno  asciutto  del  vivaio,  dove  essi,  mercè  favorevoli  condi- 
zioni di  temperatura,  tosto  germogliano;  ma  se  il  secco  dominasse, 
converrebbe  annacquare  il  suolo.  »  Le  piante  ricavate  dai  semi,  se- 
condo Hòrter,  tengono  meglio  i  fiori  in  caso  di  temperatura  sfa- 
vorevole, soffrono  meno  i  freddi  invernali  nonché  quelli  tardivi 
di  primavera,  infine  danno  nuove  varietà  non  di  rado  eccel- 
lenti. 

§  2.  Seminagione  della  vite  americana.  —  La  seminagione 
dei  vinacciuoli  ha  un'  importanza  molto  maggiore  ne'  suoi  rapporti 
colla  quistione  fillosserica,  perchè  confidando  al  suolo  i  semi  di  ta- 
lune specie  selvaggie  si  possono  ottenere  soggetti  da  innesto  non  solo 
di  grande  robustezza  e  rusticità,  ma  eziandio  resistenti  alle  punture 
della  fillossera  stessa.  Per  ciò  abbiamo  creduto  necessario  dedicare 
a  queste  seminagioni  uno  speciale  paragrafo. 

Anzitutto  ci  si  affaccia  il  seguente  quesito:  si  deve  dare  la  pre- 
ferenza ai  vinacciuoli  di  viti  americane  coltivate  in  Europa,  oppure 
a  quelli  provenienti  direttamente  dal  Nord-America?  Alcuni,  fra  cui 
il  Dott-  Blankenhorn,  ritengono  che  i  primi  si  debbano  scartare, 
perchè  a  loro  avviso  le  viti  americane  coltivate  in  Europa  sono  in- 
debolite «  dai  dolci  inverni  »  e  perciò  i  loro  vinacciuoli  hanno  per- 
duto di  energia:  invece  altri,  fra  cui  il  Barone  Mendola,  sosten- 
gono con  validi  argomenti  che  il  vinacciuolo  delle  viti  americane 
resistenti  raccolto  in  Europa,  invece  di  perdere,  acquista  molto  nella 
potenza  germinativa  e  produce  piante  più  robuste  e  più  sane:  su 
100  vinacciuoli  originarli  americani  in  media  soli  10  germinano,  e 
di  questi  10  pochissimi  attecchiscono;  invece  in  100  vinacciuoli  delle 
stesse  viti,  però  raccolti  in  Europa,  quasi  tutti  germinano  ed  attec- 
chiscono. Per  la  nostra  non  breve  esperienza  in  fatto  di  semicultura 
ci  accostiamo  alle  idee  del  Barone  Mendola,  in  questo  senso,  che 
noi  seminiamo,  come  seminammo  sempre  fin  qui,  esclusivamente  vi- 
nacciuoli di  specie  selvatiche,  prese  di  preferenza  non  già  nel  luogo 


384  CAPITOLO  X 


d'origine  in  America  ma  bensì  in  Francia  (1);  i  risultati  che  ne  ot- 
tenemmo furono  sin  qui  ottimi. 

Alla  seminagione  dei  vinacciuoli  americani  si  fanno  due  gravi  ap- 
punti: il  primo  è  quello  che  essi  germinano  troppo  difficilmente,  il 
secondo  che  i  loro  prodotti  si  discostano  dal  vitigno  che  si  vuole 
moltiplicare  assai  di  più  di  quanto  accade  seminando  vinacciuoli  della 
vite  nostrana:  ma  noi  abbiamo  ovviato  a  questi  due  gravi  inconve- 
nienti seminando,  nel  modo  che  ora  diremo,  esclusivamente  Riparia 
selvatica  selezionata  in  Francia,  cioè  d'una  unica  varietà,  essendo- 
vene  in  America  oltre  a  trecento  a  cagione  della  continua  ibrida- 
zione che  avviene  nelle  foreste  vergini  del  Missouri.  Tutti  coloro  che 
hanno  seminato  vinacciuoli  di  Riparia  selvatica  oyHginarii  ne  hanno 
ottenuto  differenti  varietà;  è  vero  che  si  tratta  sempre  di  vizzati  che 
hanno  i  caratteri  specifici  del  tipo  Riparia  selvatica,  ma  il  miscuglio 
esiste  ed  è  un  inconveniente;  perchè  queste  varietà  hanno  pregi  di- 
versi e  diverse  esigenze  per  natura  del  terreno,  situazione  e  via  di- 
cendo. 

Infine  i  semi  franco -americani  sono  di  più  facile  germogliazione, 
come  abbiamo  noi  pure  esperimentato.  Non  è  questo  il  luogo  di  di- 
scutere sulla  preferenza  da  noi  accordata  alla  Riparia;  ne  parleremo 
diffusamente  al  Cap.  XXXI  {Le  viti  americane  in  Europa)',  qui 
dobbiamo  solo  studiare  quanto  si  riferisce  alla  semina  dei  vinacciuoli 
americani  in  genere. 

Come  abbiamo  già  detto  a  pag.  157  non  è  indispensabile  il  letto 
caldo  di  letame,  quale  usasi  negli  orti  pel  pomodoro  ed  altri  or- 
taggi, a  fine  di  ottenere  la  germinazione  dei  vinacciuoli  ;  tuttavia 
per  certi  semi  (Aestivalis  e  Cordi  fo  Ha)  la  nascita  in  piena  terra  è 
alquanto  difficile  e  però  i  letti  caldi  sono  assai  raccomandabili;  le 
piantine  passeranno  allora  dal  germinatolo  nel  vivaio  collocandole  a 
25  o  30  centim.  per  ogni  verso. 

Nel  timore  —  che  noi  riteniamo  però  assolutamente  infondato  —  che 
i  semi  d'uva  siano  infetti  da  fillossera,  usano  taluni  semicultori  di- 
sinfettarli prima  di  metterli  a  germogliare:  il  Dott.  Giulio  Cocchi 
esperimentò,  senza  nocumento,  il  bagno  di  cloruro  di  calce  sciolto 
in  acqua,  nel  quale  tenne  durante  48  ore  dei  semi  di  Cordi fb Ha; 
li  passò  poscia  per  altre  ore   48  in    acqua  pura,    indi  li    seminò  in 


(1)  Dal  valente  americanista  sig\  Aimo  Champin  (Dròme)  —  Salettes  près  Mon* 
télimar, 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  385 

terra  molto  sciolta  ricoperta  di  minuzzoli  di  paglia,  innaffiando  questo 
germinatolo  mattina  e  sera  durante  tutta  Testate;  ciò  avvenne  nel- 
l'aprile del  1879:  la  nascita  ebbe  luogo  copiosa,  ma  soltanto  un  anno 
dopo,  cioè  nell'aprile  del  1880.  A  pag.  154  abbiamo  già  descritte  le 
nostre  esperienze  colla  soluzione  quasi  satura  di  soda,  che  non  riu- 
scirono troppo  bene;  crediamo  quindi  non  si  debba  fare  troppo  a  fi- 
danza con  questi  bagni  preventivi  di  sostanze  caustiche:  d'altra  parte 
essi  non  sono  strettamente  necessarii. 

Che  se  si  tratta  di  affrettare  l'azione  rammollitrice  dell'acqua  sull'in- 
volucro dei  vinacciuoli  abbiamo  visto  che  basta  riscaldare  1'  acqua 
stessa  (pag.  154). 

Ma  quello  a  cui  si  deve  piuttosto  badare,  prima  di  confidare  al 
suolo  i  vinacciuoli,  si  è  la  loro  età;  è  un  fatto  che  quelli  di  due 
anni  germinano  in  una  proporzione  sensibilmente  più  debole  che  non 
quelli  di  un  anno,  ed  il  Prof.  Millardet,  che  ha  fatto  tante  belle 
esperienze  sulla  semicultura,  assevera  che  passato  il  secondo  anno 
si  può  ritenere  perduta  la  facoltà  germinatrice  se  non  totalmente 
quasi  totalmente,  cosicché  le  nascite  diventano  scarsissime.  È  anche 
prudente  non  seminare  quei  vinacciuoli  i  quali  hanno  fermentato  col 
mosto,  perchè    talvolta,    se  non  sempre,   germinano   male. 

I  vinacciuoli  debitamente  sceltisi  pongono  nell'acqua  durante  quattro, 
sei  o  otto  giorni,  se  l'acqua  è  alla  temperatura  ordinaria,  cioè  non  ri- 
scaldata, oppure  nella  sabbia  umida;  ma  allora  conviene  tenerveli  anche 
per  un  mese  di  seguito.  Intanto  si  prepara  il  terreno  con  lavoro 
profondo,  si  sgretola  accuratamente  e  si  concima  con  letame;  indi 
si  tracciano  le  file  cioè  i  solchi  superficiali,  come  si  pratica  per  se- 
minare i  piselli,  e  si  collocano  i  vinacciuoli  a  10  centim.  di  distanza 
nelle  file  ;  infine  si  coprono  con  soli  3  cent,  di  terricciato  fino. 

Sortite  le  giovani  pianticelle  si  debbono  proteggere  con  ripari  dal 
sole  cocente  di  maggio  o  giugno  :  esse  si  possono  anche  trapiantare 
a  dimora  scegliendo  un  tempo  piovoso  e  coperto  e  proteggendole 
contro  la  luce  solare  troppo  viva;  —  in  ogni  caso  si  avverta  che  al 
primo  anno  le  pianticelle  si  possono  collocare  a  10  centimetri  di  di- 
distanza 1'  una  dall'  altra  nelle  file,  mentre  al  secondo  anno  è  indi- 
spensabile portarle  a  20  centimetri,  colle  file  a  25  o  30  centimetri, 
se  si  vuole  che  acquistino  tutto  il  loro  sviluppo.  Noi  abbiamo  adot- 
tato questo  trapiantamento,  che  diremo  precoce,  senza  inconvenienti; 
dope  aver  tenuti  i  semi  {Riparia)  per  due  giorni  nell'acqua,  li  po- 
niamo in  sabbia  umida,  indi  mano  mano  che  germinano,  li  trapiantiamo. 
0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura,  26 


386  CAPITOLO  X 


Siccome  poi  queste  seminagioni  di  vinacciuoli  americani  si  fanno 
essenzialmente  per  avere  dei  porta-innesti,  così  si  usa  in  Francia  di 
impedire  la  ramificazione  delle  pianticelle  nei  primi  due  anni,  al  di- 
sotto del  punto  ove  vuoisi  applicare  l'innesto.  Questa  precauzione 
ha  per  iscopo  di  forzare  il  giovane  fusto  a  prendere  tutto  il  pos- 
sibile sviluppo  in  ispessore  fino  all'altezza  di  25-30  centim.  in  modo 
che  sia  capace  di  adattarsi  perfettamente  al  legno  della  marza.  (1) 

Porremo  termine  a  questi  precetti  avvertendo  che  in  generale 
nella  nostra  Italia,  il  momento  più  opportuno  per  seminare  i  vinac- 
ciuoli è  l'ultima  decade  di  marzo  o  la  prima  di  aprile;  alcuni  hanno 
esperimentato  la  seminagione  in  gennaio  o  febbraio  ma  con  risul- 
tati poco  soddisfacenti,  certo  per  il  soverchio  umido  e  per  la  defi- 
cienza di  calore. 

§  3.  Moltiplicazione  per  mezzo  di  gemme.  —  Abbiamo  già 
detto,  nella  fisiologia  della  vite,  che  la  gemma  può  paragonarsi  al 
seme,  inquantochè  contiene  i  rudimenti  della  pianta  (pag.  193);  con- 
fidando quindi  al  suolo  in  opportune  condizioni  una  gemma,  essa  deve 
darci  una  pianta  di  vite,  come  la  dà  il  vinacciuolo.  Ed  è  ciò  che  ac- 
cade, perchè  la  gemma  ha  vita  propria,  indipendente  affatto  dal  tral- 
cio su  cui  è  collocata:  ricorderemo  a  questo  riguardo  la  brillante 
esperienza  di  Duchartre  (2),  il  quale  introdusse,  durante  l'inverno, 
un  tralcio  di  vite  entro  una  serra  calda  alla  temperatura  costante 
di  20°  C,  lasciando  la  parte  posteriore  e  la  estremità  dello  stesso 
tralcio  esposte  alla  temperatura  esterna,  che  si  mantenne  a  lungo 
in  quell'inverno  a  —  8°  e  —  12°:  or  avvenne  che  le  gemme  della 
porzione  di  tralcio  tenuta  al  caldo  si  schiusero  prontamente,  mentre 
le  altre  non  incominciarono  a  svilupparsi  che  al  momento  della  or- 
dinaria vegetazione. 

Possiamo  adunque  impiantare  il  nostro  vigneto  eziandio  colle  gemme, 
seguendo  il  processo  che  usano  taluni  orticultori  per  le  viti  dei  giardini: 
senoncbè  si  calcola  che  delle  gemme  confidate  al  suolo  ne  perisca 
non  meno  del  50  per  cento,  ond'è  che  sarà  prudente  seminarle  in 
apposito  germinato]  o  od  anche  in  vivaio,  ma  non  mai  direttamente 
in  piena  terra.  I  risultati  saranno  allora  molto  migliori. 

Questo  sistema  di  moltiplicare  la  vite  si  suole  attribuire  dai  Fran- 


(1)  Messager  Agricole  du  Midi,  1881  A.  Millardet. 

(2)  Descritta  dal  Bott.  A.  Levi  {Moltiplicazione  <lcil<<.  vite  ecc.  pag.   13). 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO 


387 


cesi,  al  viticultare  Gian  Giuseppe  Hudelot  della  Franca-Contea, 
cui  Napoleone  III  infatti  nel  1863  conferì  una  medaglia  ed  un  pre- 
mio; ma  i  Tedeschi  ne  danno  invece  tutto  il  merito  all'  inglese 
Hackley;  invece  le  ricerche  nei  vecchi  libri  hanno  dimostrato  che  questo 
processo  è  noto  da  moltissimi  anni,  e  si  cita  anzi  una  memoria  a- 
vente  la  data  del  1777  scritta  su  tale  argomento  in  Germania. 

Ad  ogni  modo  è  certo  che  ora  —  dopo  la  invasione  fillosserica  — 
la  riproduzione  per  gemme  è  venuta  molto  in  voga,  allo  scopo  di 
moltiplicare  rapidamente  ed  in  grande  numero  le  viti  americane  re- 
sistenti. 

Si  possono  piantare  le  sole  gemme  (fig.  85)  oppure   piccole   talee 


Fig.  85. 


Fiff. 


Fiff.  87. 


ad  una,  due  o  tre  gemme  (fig.  86  e  87)  od  anche  lunghi  tralci  (fig.  88) 
isolati  oppure  non  separati  dal  ceppo  come  nelle  propaggini. 


Fig.  88. 


Quando  si  piantano  le  sole  gemme  bisogna    distaccarle    con   cura 
dal  tralcio,  che  allora  presenta  l'aspetto  della  fig.  89  ove  da  b  si  è 


388 


CAPITOLO  X 


tolta  la  gemma  che  in  a  (fig.  85)  è  rappresenta  vista  per  disopra 
ed  in  b  vista  per  disotto.  Però  questo  sistema  non  è  da  raccoman- 
darsi perchè  di  esito  assai  dubbio. 

Piantando  invece  le  piccole  talee  ad  una  gemma  l'esito  è  più  si- 
curo: però  si  consiglia  di  lasciare  poco  legno  da  una  parte  e  dal- 
l' altra  dell'  occhio,  acciò  non  vada  soggetto  a  marcire   alle  due   e- 


Fig.  89. 


Fi-    90 


Fig    91 


Fig.  92. 


stremità.  La  gemma,  sviluppata  che  sia,  assume  l' aspetto  della 
fig.  90  ove  bb  è  il  pezzo  di  tralcio  ed  a  il  sarmento  uscito  dal  bot- 
tone. Alcuni  tagliano  longitudinalmente  la  piccola  talea  e  piantano 
soltanto  la  parte  che  porta  la  gemma  (fig.  91);  si  ottiene  allora  una 
pianticella  che  ha  l'aspetto  della  lig.  92;  ma  questo  sistema  è  d'esito 
molto  incerto. 

Infine  se  si  corica  un  tralcio  (fig.  88)  si  deve  aver  l'avvertenza  di  la- 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO 


389 


sciare  fuori  terra  due  occhi;  da  questi  nascono  i  due  sarmenti  a  a  (fìg.  03) 
che  secondo  Carrière  agiscono  quali  eccitanti  della  vegetazione,  co- 
sicché dalle  varie  gemme  sotterrate  in  un  piccolo  fossatello,  vengono 
fuori  altrettanti  sarmenti  con  radici;  tagliando  il  tralcio  in  varie  parti 
si  hanno  allora  varie  pianticelle  distinte,  da  trapiantarsi  a  dimora  al 
secondo  anno,  non  essendo  conveniente  separarle  subito  al  primo  anno. 


Fiff.  93. 


Le  gemme  su  piccole  talee  (fig.  87)  hanno  bisogno  di  cure  speciali: 
noi  usiamo  anzitutto  sceglierle  da  buone  talee  ben  colorate  e  sane; 
potiamo  la  vite  in  febbraio  e  queste  talee  le  collochiamo  in  cantina 
entro  sabbia;  a  marzo  le  tagliamo  a  pezzetti  di  una,  due  o  tre  gemme 
al  più,  indi  procediamo  al  piantamento,  tenendole  però  sempre  nella 
sabbia  umida  durante  l'operazione.  Noi  le  piantiamo  in  piena  terra,  ma 
nell'orto  e  non  già  subito  nel  vigneto;  facciamo  cioè  un  vivaio.  Il  terreno 
lo  lavoriamo  profondamente  e  con  cura,  lo  concimiamo  bene  con  in- 
grassi azotati  e  poscia  vi  tracciamo  dei  solchetti  profondi  cinque  cen- 
timetri; in  questi  solchetti  collochiamo  le  gemme  —  rivolte  all'insù  — 
alla  distanza  di  circa  5  centimetri  una  dall'altra,  indi  le  copriamo 
con  sabbia  e  terricciato  bene  sminuzzato,  oppure  con  terra  fina  da 
orto;  infine  vi  passiamo  sopra  coi  piedi  per  comprimere  un  poco  la 
terra  sulla  gemma. 

Se  le  piccole  talee  hanno  due  o  tre  gemme  i  solchetti  vogliono 
essere  più.  distanti;  inoltre,  le  talee  si  piantano  allora  diritte  in  appo- 
siti fori,  lasciando  un  occhio  fuori  terra.  Ciò  fatto  si  comprime  un  po' 


390 


CAPITOLO  X 


la  terra  attorno  alla  talea  stessa  e  si  copre  la  gemma  fuori  terra 
con  un  po'  di  terra  fina,  perchè  non  abbia  a  soffrire  i  freddi  tardivi; 
non  dobbiamo  infatti  scordare  che  questo  piantamento  si  fa  in  marzo. 
La  gemma  fuori  terra  dà  a  suo  tempo  un  getto  che  attraversa  facil- 
mente la  poca  terra  che  vi  sta  sopra,  ed  intanto  le  gemme  sotto 
terra  gettano  radici. 

Alcuni  piantano  le  gemme  in  buche  (fig.  94):  queste  debbono  avere 
la  profondità  di  15  centimetri  e  la  larghezza  di  20;  sotto  le  gemme 
si  collocano  10  centimetri  di  terra  fina  e  sopra  si  pone  la  gemma, 
che  si  ricopre  con  cinque  centimetri  di  altra  terra;  la  buca  non  ri- 
mane piena,  ma  ciò  da  taluni  si  fa  ad  arte  per  serbarvi  l'acqua  pio- 
vana; è  preferibile  però  riempirla  con  terra  vegetale. 


Fig.  94. 


La  seminagione  delle  gemme  di  vite  ebbe  grandi  ammiratori  (fra 
cui  il  Dr.  Guyot)  e  grandi  detrattori;  oggi  però  che  si   è   studiata 
meglio  questa  maniera  di  moltiplicare  le  viti  non  è  più  lecito  metterne 
in  dubbio  i  vantaggi,  specialmente,  lo  ripetiamo,  per  quanto  riguarda 
la  moltiplicazione  rapida  delle  viti  americane.  E  per  dimostrare  che 
questo  processo  non   è  più   relegato  ai    giardini,    ma  è    entrato  nel 
vasto  campo  della  viticoltura,  accenneremo   alle   grandi   seminagioni 
di  gemme  fatte-in  Francia  {nel  Gard)  dalla  Duchessa  di  Fitz-James; 
questa  esimia  viticoltrice  si  accinse  da  qualche  anno  a  questa  parte 
a  ricostituire  con  viti  americane  i  suoi  ottocento  ettari  di  vigna  di 
strutti  dal  vorace  afide,  e  perciò,  vedendo  che  molte  di  esse  diffidi 
mente  attecchivano  da  magliuolo,  pensò  alla  seminagione  delle  gemme 
destinandovi  12  ettari,  che  costituiscono  un  colossale  vivaio  irrigabile 
L'  esito  fu  completo.  Il  Doti.  A.  Levi,  che  fu  a  visitare   questi  la- 
vori, attesta  che  la  Duchessa  Fitz-James  ottiene  da  tali  gemme  di 
vite,  già  nel  primo  anno  della  semina,  piante   di  una  vegetazione  e 
robustezza  sorprendenti.  —  Del  resto  anche  il  sig.    Luigi   Oudart 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO 


391 


seminò  con  profitto  gemme  di  viti  europee,  assicurando  di  avere  avuto 
pieno  raccolto  d'uva  al  6°  anno  (1). 

§  4.  Scelta,  conservazione ,  clisinfezione  e  piantamento 
delle  talee  nel  vivaio  e  nel  vigneto.  —  Premettiamo  alcune  de- 
finizioni indispensabili:  si  chiama  talea  un  pezzo  di  tralcio  di  un 
anno  e  qualche  volta  anche  dell'annata,  con  varie  gemme,  e  si  po- 
trebbe anche  dire  marza  (fig.  95  b):  se  il  tralcio  di  un  anno  b  porta 


Fig.  95. 


alla  sua  estremità  un  pezzo  di  legno  di  due  anni  a  a  guisa  di  maglio 
o  martello,  abbiamo  il  magliolo  (fig.  96):  se  si  taglia  con  precauzione 


(1)  Il  sig.  Oudart  fece  un  vero  vivaio  di  gemme;  alla  primavera  del  secondo 
anno  potò  le  giovani  piante  a  una  gemma  buona;  al  terzo  anno  potò  il  tralcio 
uscito  ancora  ad  una  gemma;  verso  la  fine  di  novembre  trapiantò  a  dimora. 
(V.  il  nostro  Giornale   Vinicolo   del  1876). 


392 


CAPITOLO  X 


la  parte  a  del  magliolo  rispettando  le  gemme  che  stanno  là  dove  il 
legno  di  un  anno  sorge  da  quello  di  due,  si  ha  la  zampa  di  ca- 
vallo (1)  (fig.  95  a),  perchè  la  talea  assomiglia  allora  realmente  ad 
una  zampa  di  cavallo:  infine  se  piantiamo  la  talea,  il  magliolo  o  la 
zampa  di  cavallo  così  da  far  loro  mettere  radici,  abbiamo  la  bar- 
batella a  tutti  nota. 


Fig.  96 


Esaminiamo  anzitutto  ora  quanto  si  riferisce  alle  talee. 

È  legge  invariabile  questa:  che  una  talea  ben  organizzala  e  fe- 
conda dà  una  pianta  essa  pure  feconda.  La  scelta  della  talea, 
come  è  facile  ad  intendersi,  ha  quindi  un'  importanza  assai  grande 
nella  riuscita  del  vigneto  che  si  vuole  impiantare.  La  regola  generale 
che  seguono  tutti  i  viticultori  intelligenti  in  detta  scelta  è  la  seguente: 
la  miglior  talea  è  quella  che  faceva  parte  d'un  tralcio  il  quale, 
se  si  fosse  lasciato  sulla  pianta  madre,  avrebbe  daloy  nell'anno 
stesso,  maggior  copia  d'uva.  L'occhio  del  pratico  è  tutto  in  simile 
scelta;  i  meno  pratici  usano  scegliere  quelle  talee  le  quali  provengono 
da  tralci  che  hanno  dato  molta  uva.  Le  loro  gemme  devono  essere 


(1)  Questo  nomo  le  fu  imposto  dall'egregio  Doli.  Belletti  e  noi  lo  accettiamo 
di  buon  grado,  mancandoci  nella  lingua  italiana  la  parola  corrispondente  a  eros- 
sette  ilei   Francesi. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  393 

turgide,  gli  internodi  corti  (1),  il  colore  vivo  e  rossigno,  ed  il  mi- 
dollo poca  cosa.  —  Nell'Italia  superiore  queste  talee  si  trovano  spe- 
cialmente in  quella  porzione  di  tralcio  che  venne  piegata  ad  arco  e 
che  restò  meglio  esposta  ai  raggi  del  sole:  la  talea  composta  della 
punta  del  tralcio  è  generalmente  meno  buona  di  quella  che  si  taglia 
alla  sua  parte  inferiore.  Nell'Italia  meridionale,  massimamente  colà 
dove  le  viti  sono  vecchie  ed  esauste,  conviene  spesso  attenersi  a  re- 
gole affatto  opposte:  ma  il  precetto  che  demmo  in  principio  si  applica  a 
tutte  le  regioni.  Solo  faremo  notare  che  si  deve  anche  tenere  calcolo, 
nella  scelta  delle  talee,  delle  condizioni  climatologiche  dell'annata:  infatti 
se  Vestale  trascorre  molto  umida,  accade  che  le  gemme  'meglio 
sviluppate  sono  quelle  della  punta  dei  germoglii  primaverili: 
queste  punte  stanno  generalmente  penzoloni  e  son  meglio  esposte 
alla  luce  ed  al  calore  solare,  per  cui  le  loro  gemme  son  più  turgide 
e  feconde  di  quelle  della  base,  fattesi  poco  pregevoli  appunto  a  ca- 
gione dell'umidore  estivo.  Ritorneremo  più  tardi  su  questo  punto. 

Veniamo  ora  alla  conservazione  delle  talee. 

La  cagione  per  cui  tante  talee  e  tanti  maglioli  dopo  il  piantamento 
non  rappigliano,  deve  cercarsi  specialmente  nella  cattiva  loro  con- 
servazione :  allorquando  si  fa  la  raccolta  delle  talee  dalle  viti  madri, 
è  d'uopo  anzitutto  non  lasciarle  né  al  sole  né  all'aria  come  fanno  i 
poco  esperti;  è  invece  indispensabile  farne  dei  piccoli  fascii,  che  si 
collocano  col  calcio  nell'acqua  o  che  si  sotterrano  se  non  si  pian- 
tano subito. 

Noi  seguiamo  questo  sistema,  con  ottimo  successo:  distacchiamo 
le  talee  neh'  inverno  od  in  principio  della  primavera,  ne  facciamo 
dei  piccoli  pacchi  di  30  caduno,  che  poscia  sotterriamo  neh'  orto  o 
nella  vigna  stessa,  ma  in  luogo  sano,  scavando  ivi  una  fossa  pro- 
fonda mezzo  metro.  In  questa  noi  collochiamo  coricati  uno  accanto 
all'altro  i  pacchi  di  talee  sul  fondo  della  fossa  stessa,  che  tosto 
riempiamo  di  nuovo  colla  sua  terra  senza  comprimerla.  Così  abbiamo 
sempre  conservato  le  talee  anche  sino  alla  fine  di  maggio,  se  questo 


(1)  La  brevità  degli  internodi,  cioè  l'abbondanza  delle  gemme,  dinota  una  mag- 
gior fecondità,  (v.  pag.  187),  mentre  la  lunghezza  loro  dinota  rigoglio:  —  ma  è 
noto  che  il  rigoglio  è  contrario  alla  fruttificazione;  lo  dice  bene  un  proverbio 
sardo:  silva  manna,  fructu  minore  (stelo  grande,  frutto  piccolo).  Quando  poi  lo 
gemme  sono  turgide  e  grosse,  vuol  dire  che  hanno  altresì  de'  serbatoi  riccamente 
forniti:  sull'ufficio  di  questi  serbatoi  (quasi  li  diremmo  cotiledoni),  abbiamo  detto 
a  lungo  parlando  della  fruttificazione  delle  ri/i.  (Cap.  IV). 


394  CAPITOLO  X 


ci  è  stato  necessario;  essendo  l'ambiente  fresco  e  sano  le  talee  si  con- 
servano esse  pure  tali.  Noteremo  però  che  nei  paesi  caldi,  ove  si  tenes- 
sero sino  al  finire  dell'aprile  le  talee  in  buche  siffatte,  e  spingendosi  fino 
al  maggio  nei  locali  freschi,  le  gemme  si  muoverebbero,  mettendo  fuori 
dei  germogli  bianchicci  e  tenerissimi,  cosicché  scuoprendo  le  talee  e 
scuotendole  essi  cadrebbero  facilmente:  ma  ciò  non  accade  tenendo 
smosso  e  zappato  il  terreno  che  ricopre  le  talee,  perchè  allora  esso 
si  fa  cattivo  conduttore  del  calore  e  le  talee  stesse  non  germogliano 
Ma  d'altra  parte  abbiamo  osservato  che  quelle  talee,  piantate  a  di- 
mora, rappigliano  tuttavia  assai  bene. 

Il  Prof.  Carlo  Hugues  ha  fatto  nel  1881  alcune  interessanti  espe- 
rienze sulla  conservazione  delle  talee,  suggeritegli  dalla  lettura  di 
questo  brano  del  Gasparin:  —  «  si  potrebbe  prevenire  la  dissec- 
cazione del  sarmento,  col  carbonizzarne  la  parte  inferiore.  E  noto 
che  fu  soltanto  dopo  di  avere  presa  questa  precauzione,  che  si  po- 
terono fare  riuscire  le  viti  trasportate  dalla  Borgogna  al  Capo  di 
Buona  Speranza  (Kolbe)  »   (1). 

Ecco  le  esperienze  in  quistione: 

1.°  Al  15  febbraio  dell'anno  suddetto  il  Prof.  Hugues  prese  100 
talee  di  Marzemino,  tagliate  al  primo  nodo  della  base  del  sarmento, 
di  peso,  lunghezza  e  grossezza  quasi  uniformi,  che  divise  in  due  lotti 
di  50  talee  V  uno.  Il  lotto  A  venne  conservato  intatto;  le  talee  del 
lotto  B  vennero  carbonizzate  all'estremità  inferiore,  passandole  una 
ad  una  sopra  una  fiamma  ad  alcool,  in  modo  da  abbruciarne  un 
anello  largo  circa  1  centimetro  e  da  carbonizzare  il  legno  fino  al 
midollo. 

Dopo  questa  operazione  il  peso  del  lotto  A  fu  di  grammi  1375, 
quello  del  lotto  B  fu  di  grammi  1300.  I  due  lotti  vennero  collocati 
in  un  locale  chiuso  e  riscaldato  con  una  stufa,  sopra  un  medesimo 
tavolo,  all'ombra  e  colle  talee  sciolte,  cioè  non  legate  a  mazzo.  La 
temperatura  del  locale  oscillò  tra  10°  e  12°  centig. 

Ogni  24  ore  si  pesarono  i  due  lotti,  ed  ecco  le  cifre  che  se  ne 
ebbero  : 


(1)  Cours  d'agriculture  par  le  conte  De  Gasparin,   Tome  IV,  pag.  651. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  395 

peso  in  grammi 

A  B 

16  Febbraio 1375  1300 

17  »  1348  1282 

18  »  1328  1269 

19  »  1309  1254 

20  »  1292  1242 

25  » 1209  1184 

2  Marzo 1144  1128 

Dunque  nel  periodo  16  febbraio  2  marzo,  la  perdita  in  peso,  do- 
vuta alla  evaporazione,  fu  di  grammi  231  pel  lotto  A,  e  di  grammi 
172  pel  lotto  B;  e  riducendo  questa  diminuzione  di  peso  a  100  del 
peso  rispettivo  iniziale  dei  singoli  lotti,  la  perdita  in  peso  del  lotto 
A  risulta  del  16,80  0[q,  e  quella  del  lotto  B  del  13,23  0[Q.  Laonde 
una  perdita  in  meno  di  peso  del  3,57  0[Q  a  vantaggio  delle  talee 
carbonizzate  all'estremo  inferiore. 

2.°  Il  Prof.  Hugues  volle  riprendere  1'  esperienza   mettendo  in 
confronto  i  seguenti  trattamenti: 

Lotto  A  Carbonizzazione  dell'estremità  inferiore  delle  talee. 

»  B  Incatramazione  »  »  » 

»  C  Incatramazione  di  ambedue  le  estremità  delle  talee. 

»  D  Testimonio  non  trattato. 

Egli  si  servì  di  talee  di  Kaukà.  Per  la  carbonizzazione  usò  il  pro- 
cesso già  descritto,  per  Fincatramazione  fece  uso  di  catrame  liquido 
delle  usine  del  gaz,  immergendovi  l'estremità  delle  singole  talee  per 
circa  1  centimetro.  I  lotti  furono  composti  di  20  talee  ognuno,  scelte 
di  dimensioni  quasi  uniformi,  in  guisa  che  ogni  lotto  pesasse  esatta- 
mente grammi  383.  Ogni  lotto  venne  fatto  a  mazzo  e  legato;  i  mazzi 
si  collocarono  all'ombra  in  un  locale  non  riscaldato,  l'uno  vicino  al- 
l'altro su  d'uno  stesso  tavolo,  conservando  i  mazzi  sempre  legati. 
La  temperatura  media  del  locale  fa  di  circa  9°  cent.  Eseguiti  i  re- 
spettivi trattamenti  e  pesato  si  ebbero  le  seguenti  indicazioni: 

peso  del  lotto  A grammi  359 


» 


» 


B »        399 

C »        417 

D »        383 


306  CAPITOLO  X 


Le  rispettive  perdite  di  peso  risultano  dal  seguente  prospetto: 


peso  in 

grammi 

11  Marzo 

12  Marzo 

16  Marzo 

23  Marzo 

)tt( 

)  A 

359 

352 

338 

308 

» 

B 

399 

386 

362 

322 

» 

C 

417 

402 

383 

349 

» 

D 

383 

371 

344 

310 

Nel  periodo  11-23  marzo  si  ebbero  perciò  le  seguenti  perdite  in  peso: 

Lotto  A  grammi  51  cioè  14.20  0[q  del  peso  iniziale  di  grammi  359 

»      E        »       77           20.10  0[Q         »             »  »         399 

»      C        »       68           17.75  0[Q         »             »  »         417 

»     D        »       73           19.06  0[o         »             »  »         383 

La  carbonizzazione  dell'estremità  inferiore  delle  talee  condusse 
pertanto  alla  minima  perdita  di  peso}  in  confronto  dei  singoli 
trattamenti  e  del  testimonio  non  trattato,  confermando  in  tal  modo 
Vutilità  di  questa  pratica  per  la  conservazione  delle  talee  di  viti. 

Queste  esperienze  ci  richiamano  alla  memoria  alcune  norme  sul- 
Y imballaggio  delle  talee  e  dei  mag Itoli,  desunte  dalle  osservazioni 
fatte  dal  sig.  G.  Ermens,  direttore  dei  lavori  agricoli  e  viticoli  di 
S.  M.  il  Maharajah  di  Kaschmir,  in  occasione  dei  trasporti  di  viti 
fatti  dall'Europa  nell'Asia  centrale,  trasporti  che  durarono  novanta 
giorni:  le  talee  imballate  nella  polvere  di  carbone  di  legna  si  con- 
servarono perfettamente  bene,  e  neppure  una  si  essiccò;  quelle  im- 
ballate nel  muschio  secco  diedero  risultati  ottimi,  ma  meno  completi 
della  polvere  eli  carbone;  fallirono  invece  quasi  del  tutto  le  talee 
poste  nel  muschio  secco,  nella  segatura  di  legno  secca,  e  sovratutto 
quelle  messe  entro  casse  di  zinco  chiuse  ermeticamente;  in  queste 
casse  le  talee  si  essicarono  completamente. 

La  disinfezione  delle  talee  ha  oggi  una  grande  importanza  di 
fronte  all'invasione  fillosserica,  ed  è  per  questo  che  si  fecero  in 
questi  ultimi  anni  varie  esperienze  al  riguardo.  Si  tratta  qui  di  uc- 
cidere le  fillossere  o  le  ova  delle  fillossere  senza  recare  nocumento 
alla  talea  stessa;  a  tal'uopo  si  esperimentò  l'azione  del  calore  e  quella 
del  solfuro  di  carbonio. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  397 

Il  compianto  Dr.  I.  Maccagno,  dopo  accurate  esperienze  trovò 
come  in  un  ambiente  di  aria  mantenuta  satura  di  umidità  e  scaldata 
costantemente  fra  i  41°,5  ed  i  43°  centigradi  nello  spazio  di  4  ore 
tutte  le  fillossere  muoiono  e  le  ova  si  guastano  (come  già  aveva 
constatato  l'illustre  Balbianì  nel  1876)  prendendo  queste  ultime  lo 
stesso  aspetto  di  quelle  trattate  col  sulfuro  di  carbonio  ad  elevata 
dose  e  che  divengono  improprie  allo  sviluppo  di  nuovi  insetti  (1): 
—  l'azione  di  questa  elevata  temperatura  sulle  talee  non  è  meno- 
mamente nociva.  Infatti  il  Dr.  Maccagno  raccolse  22  talee  addì  15 
novembre  1881,  con  3  gemme  caduna,  e  ad  undici  di  esse  fece  su- 
bire durante  5  ore  e  1[2  una  temperatura  di  44°  a  45°;  dopo  di  che 
tutte  quante  le  22  talee  vennero  piantate  in  terreno  appropriato;  a 
suo  tempo  rappigliarono  tutte  contemporaneamente.  Altre  talee  scal- 
date a  45°  40°  durante  6  ore,  piantate  che  furono,  rappigliarono 
normalmente.  Si  può  quindi  essere  sicuri  di  disinfettare  assai  bene 
le  talee,  senza  danneggiarle,  tenendole  per  alcune  ore  in  una  sfufa 
od  in  un  forno,  avvertendo  o  ad  immergerne  una  estremità  nell'acqua 
oppure  badando  a  che  l'ambiente  sia  saturo  di  umidità. 

Anche  il  sulfuro  di  carbonio  è  micidiale  tanto  per  la  fillossera 
quanto  per  le  sue  ova:  lo  hanno  dimostrato  nel  1876  i  signori  Comic 
e  Mouillefert,  e  più  tardi  Lérault,  Balbiani  e  Dumas,  infine  il 
Dr.  Maccagno,  che  esperimentò  nello  stesso  tempo  la  resistenza 
delle  talee  ai  vapori  di  sulfuro:  egli  assoggettò  piccole  talee  di  tre 
gemme  caduna,  poste  entro  palloni  di  vetro  ben  chiusi,  ai  vapori  di 
sulfuro  a  varie  dosi  (grammi  214,  241  e  322  per  metro  cubo)  la- 
sciandovele  durante  36  ore;  orbene,  tanto  queste  talee  quanto  altre 
tenute  fuori  dai  palloni  come  termini  di  confronto,  poste  in  terra  rap- 
pigliarono ugualmente  presto  e  bene.  È  inutile  adoperare  quantità 
maggiori  di  solfuro  perchè  alle  dosi  esperimentate  niuna  fillossera  e 
nessun  ovo  può  resistere;  è  vero  però  che  le  talee  potrebbero  soppor- 
tare quantità  di  vapore  anche  maggiori.  —  La  disinfezione  in  grande 
si  potrebbe  fare  in  una  camera  ben  chiusa,  munita  nel  suo  interno 
di  un  agitatore  a  palette  per  facilitare  e  rendere  uniforme  la  diffu- 
sione del  sulfuro;  le  talee  si  disporrebbero  su  graticci  sul  genere  di 
quelli  dei  bachi  da  seta,  e  poscia  altro  non  si  avrebbe  a  fare  che  gettare 
sul  pavimento  quella  quantità  in   peso  di  solfuro  di   carbonio  che  è 


(1)  Targioni-Tozzetti  —  Relazione  sui  lavori  di  Valmadera  —  Annali  dell'Agri- 
coltura 1880,  n.  25,  pag.   170. 


398  CAPITOLO  X 


necessaria  perchè  l'ambiente  venga  caricato  di    vapore  alla  dose  di 
250  a  300  grammi  per  metro  cibo. 

Veniamo  infine  al  pian  lamento  delle  talee,  operazione  che  ha 
tanta  influenza  sulla  riuscita  del  vigneto. 

Le  talee  si  possono  piantare  in  vivaio  oppure  subito  a  dimora.  Noi 
pensiamo  che  ogni  viticultare  deve  avere  il  suo  vivaio,  perchè  l'ac- 
quisto delle  barbatelle  dalle  apposite  piantonaie  non  è  totalmente 
scevro  da  inconvenienti;  vi  sono  certamente  i  venditori  scrupolosi 
che  tengono  rigorosamente  divise  le  singole  varietà,  ma  pure  quasi 
non  vi  ha  viticultore  il  quale  non  si  dolga  di  essere  stato  servito 
male.  D'altra  parte,  il  far  viaggiare  talvolta  per  non  brevi  percorsi 
le  piantine  di  vite,  non  è  sempre  senza  inconvenienti.  Infine  è  sempre 
molto  più  economico  prepararsi  da  sé  stessi  le  proprie  barbatelle 
che  non  comperarle  ai  vivai  pubblici,  come  or'  ora  dimostreremo. 

Per  fare  un  buon  vivaio  noi  seguiamo  questo  metodo  :  in  estate 
pratichiamo  uno  scasso  a  60  centimetri  nel  terreno  a  ciò  destinato, 
e  dopo  le  prime  pioggie  di  ottobre  piantiamo  le  talee  (oppure  fac- 
ciamo lo  scasso  in  ottobre  o  novembre  ed  allora  non  piantiamo  che 
in  maggio  (1)).  Ma  noi  preferiamo  fare  lo  scasso  in  estate;  è  bene 
notare  intanto  che  sarebbe  un  errore  di  piantare  in  febbraio  o  marzo 
su  scasso  reale  fatto  poco  tempo  prima,  perchè  la  terra  così  lavo- 
rata si  mantiene  più  fredda  dell'ambiente  esterno,  per  la  qual  cosa 
le  gemme  fuori  terra  germoglierebbero  ma  quelle  sotto  terra  non 
caccierebbero  radici,  e  la  talea  dopo  venti  o  trenta  giorni  perirebbe. 
È  per  questo  che  alcuni  avveduti  viticultori  usano  di  comprimere  il 
suolo  e  poi  incalzare  le  talee  così  da  ricoprirle  intieramente  con  terra; 
le  scoprono  poi  leggermente  solo  all'apparire  dei  primi  germogli. 

Le  talee  noi  le  tagliamo  della  lunghezza  di  40  centimetri,  altri  in- 
vece si  limita  a  20  o  25  centimetri,  il  che  certo  non  offre  inconve- 
nienti, poiché  abbiamo  visto  riescire  bene  vivai  fatti  con  talee  di 
sole  2  gemme.  Le  talee  noi  le  teniamo  nell'acqua  durante  5  ore  e 
poi  le  piantiamo.  Per  segnare  con  regolarità  le  linee,  distanti  20  o 
25  centim.  una  dall'altra,  si  adopera  generalmente  il  molinello  fìg.  97 
che  tiene  avvolto  un  cordone:  indi  col  foraterra  si  praticano  i  fori 
piantandovi  le  talee  e  poi  si  comprime  la  terra  attorno  ad  esse  col 
foraterra  stesso  e  coi  piedi;  fra  una  talea  e  l'altra  deve  intercedere 


(lj  Nei  paesi  caldi  si  potrebbe  benissimo  fare  il  piantamento  in  aprile. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO 


399 


una  distanza  non  minore  di  dieci  centimetri:  fuori  terra  si  lasce- 
ranno due  gemme  od  anche  una  sola.  Si  possono  anche  praticare 
sul  terreno  scassato,  lunghesso  il  cordone,  delle  piccole  fosse  larghe 
e  profonde  un  piede,  collocandovi  entro  le  talee  in  linea  e  ricolmando 


Fie.  97 


poscia  il  fossatello  con  terra  ^fig.  98:  questo  sistema  è  abbastanza 
spiccio  ma  certo  non  quanto  l'altro.  Il  vivajo  si  tiene  sempre  mondo 
dalle  male  erbe  e  bene  zappato.  Per  fare  molto  presto  noi  usiamo 
spesso  far  tracciare  i  solchi  dall'aratro,  cui  segue  tosto  l'operaio  che 


*4dHfek 


Fig.  98. 


colloca  le  talee  in  fila  nel  piccolo  fosso.  Questo  sistema  ci  dà  ottimi 
risultati. 

Quanto  costano  le  barbatelle  ottenute  da  queste  talee  ? 

Un  ragazzo  in  una  giornata  di  lavoro  secondo  i  nostri  calcoli  ne 


400  CAPITOLO  X 


può  piantare  in  media  3000:  colle  distanze  di  25  centina,  fra  le  file 
e  10  fra  le  pianticelle,  in  un  ettare  se  ne  potrebbero  collocare  400 
mila.  Supponiamo  che  si  voglia  lasciare  alle  talee  maggior  spazio  e 
piantarne  sole  300  mila:  ecco  la  spesa 

Scasso  reale  a  65  centim.  (in  Monferrato)     L.  500 

Trecento  mila  talee           ...»  3000 

Immersione  nell'acqua,  piantamento            »  150 

Zappatura »  150 

Svenimento  dopo  un  anno        ..         .          »  350 

Fitto  terreno  ed  altre  spese     .         .          »  400 

Totale      .         .         L.  4550 

Supponiamo  che  100  mila  talee  falliscano;  nondimeno  avremo  per 
L.  4550  ben  200  mila  barbatelle  di  qualità  garantita,  al  tenue  prezzo 
di  2  centesimi  caduna. 

Coloro  poi  che  hanno  mezzo  di  vendere  le  barbatelle  possono 
comodamente  esitarle  a  centesimi  5  caduna,  ed  in  questo  caso  rea- 
lizzerebbero un  guadagno  netto  di  5000  lire  1'  ettare:  solo  che  non 
è  tanto  facile  smerciare  grosse  quantità  di  barbatelle  e  perciò  questo 
calcolo,  per  quanto  esatto,  non  potrebbe  trovare  applicazione  pratica 
che  in  casi  speciali  (1). 

Passiamo  ora  al  piantamento  delle  talee  a  dimora. 

Non  diremo  nulla  delle  distanze,  volendo  dedicare  a  questo  im- 
portante argomento  l'intero  capitolo  seguente:  verremo  quindi  diret- 
tamente al  momento  ed  al  modo  di  piantare. 

Secondo  noi  il  metodo  più  razionale  e  più  economico  è  quello  di 
piantare  le  talee  in  autunno,  perchè  come  dice  l'adagio,  chi  pianta 
in  autunno  guadagna  un  anno:  altri  invece  vuole  che  le  talee 
si  piantino  soltanto  in  primavera,  e  le  barbatelle  in  autunno.  Pos- 
siamo però  assicurare  che  anche  le  talee  piantate  in  autunno 
riescono  assai  bene  :  a  tal'uopo  si  staccano  ordinariamente  le  talee 
in  novembre,  e  si  piantano  subito:  si  può  tardare  due  o  tre  giorni 
tenendole,  legate  a  piccoli  fasci,  col  calcio  nell'acqua  o  sotterrandole. 
Il  suolo  del  vigneto    deve  essere    stato  lavorato    sei  mesi    prima,  o 


(1)  Noi  che  abbiamo  vivai  di  viti  appunto  per    la  vendita  lo  possiamo  dire  di 
certa  scienza. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  401 

nella  peggiore  delle  ipotesi,  almeno  un  mese  innanzi:  un  piantamento 
fatto  in  queste  condizioni  difficilmente  riesce  male.  Ma  allorquando 
si  staccano  i  maglioli  nel  verno  o  in  principio  di  primavera,  si  fanno 
a  piccoli  pacchi  di  40  cadauno,  e  subito  si  vanno  a  sotterrare  in 
una  fossa  profonda  mezzo  metro,  scavata  in  luogo  sanissimo,  collo- 
cando i  fascetti  uno  accanto  all'altro  in  posizione  orizzontale  e  co- 
prendoli poi  colla  terra  estratta,  senza  però  comprimerla  di  troppo. 

In  maggio  si  può  poi  fare  il  piantamento  con  tutta  sicurezza.  Il  pian- 
tamento primaverile  non  deve  essere  fatto  ohe  in  maggio  nelle 
regioni  fresche  e  in  aprile  nelle  calde;  facendolo  prima  accade, 
specialmente  nelle  terre  soffici,  epperò  poco  conduttrici  del  calore, 
che  la  parte  sotterrata  della  talea  si  trova  ad  una  temperatura  in- 
feriore a  quella  di  cui  gode  la  parte  aerea,  esposta  ai  caldi  raggi 
solari;  ed  ecco  che  le  gemme  di  quest'ultima  porzione  di  talea  danno 
tosto  germogli,  mentre  le  gemme  sotterranee  quasi  non  si  muo- 
vono (1);  senonchè  quei  germogli  si  allungano  finché  la  talea  può 
da  sé  stessa  nutrirli,  e  poi,  mancando  il  concorso  delle  radici,  essi 
finiscono  per  morire.  La  pratica  ci  porge  di  ciò  migliaia  di  esempii. 
Bisogna  dunque  tardare  a  far  il  piantamento  in  primavera;  e  non 
potendolo,  fa  mestieri  coprire  tutta  quanta  la  talea,  in  guisa  che 
la  gemma  superiore  abbia  su  di  sé  un  piccolo  strato  di  terra  che 
possa  poi  facilmente  perforare  col  suo  tenero  germoglio  (2). 

La  talea  nel  suolo  scassato  si  pianta  in  due  modi;  o  col  foraterra 
o  entro  una  piccola  buca  aperta  mercè  una  fitta  di  vanga.  Col  fo- 
raterra, o  palo  di  ferro,  non  si  riesce  sempre  bene:  siccome  con 
questo  sistema,  "fatto  il  foro  vi  si  immette  il  magliolo,  o  la  talea,  ed 
è  poi  necessario  di  comprimere  ben  bene  la  terra  tutt'attorno  al  ma- 
gliolo stesso  e  per  tutta  la  sua  lunghezza,  così  accade  spesso  che 
si  arreca  danno  alle  gemme,  e  non  sempre  d'  altronde  si  riesce  a 
farle  combaciare  colla  terra,  come  è  indispensabile.  Per  queste  ra- 
gioni il  piantamento  col  palo  di  ferro,  se  il  viticoltore  non  è  esperto, 
riesce  meno  bene  di  quello  che  si  opera  sullo  scassato  mercè  una 
piccola  buca  fatta  o  colla  vanga  o  colla  zappa. 

In  questo  caso,  fatto  il  foro,  vi  si  collocano  entro  la  talea,  il  ma- 


(1)  È  noto  che  le  gemme  fuori  terra  sbucciano  e  danno  piccoli  germogli  uni- 
camente a  spese  del  loro  serbatoio  e  della  taira,  prima  cioè  che  sianvi  le  radi- 
chette  ad  elaborare  materiali  del  terreno. 

(2)  In  certi  casi  giova  levare  delicatamente  colle  mani  questo  piccolo  strato  di 
terra  in  maggio. 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  21 


402  CAPITOLO   X 


gliolo  o  la  barbatella;  se  si  tratta  di  quest'ultima,  si  deve  avere  l'av- 
vertenza di  distenderne  le  radici  in  ogni  senso.  Il  foro  si  ricolma 
poi  con  terra,  che  si  comprime  colle  mani  e  coi  piedi. 

Se  si  vuol  aggiungere  concime,  si  versa  questo  sopra  e  non  sotto 
il  magliolo,  si  versa  cioè  sulla  prima  terra  che  si  è  fatta  scendere 
sulle  radici.  /  conci  non  vanno  mai  posti  a  contatto  colla  vite; 
sibbene  o  sopra  un  primo  strato  di  terra,  ovvero  all'  intorno  a 
qualche  distanza  dalle  radici.  Del  resto  è  meglio  spargerli  prima  li 
scassare  il  suolo. 

Quando  infine  si  opera  il  piantamento  entro  fosse  aperte,  più 
o  meno  distanti  una  dall'altra,  si  usa  collocare  sdrajato  o  inclinato  il 
magliolo  o  la  barbatella  in  fondo  ad  esse,  vi  si  versa  sopra  alquanta 
terra,  poi  il  concime,  poi  ancora  nuova  terra,  senza  però  riempire 
d'un  tratto  le  dette  fosse. 

Abbiamo  qui  parlato  di  collocamento  dei  maglioli  (o  delle  barba- 
telle) in  posizione  inclinata:  diremo  ora  che  ciò  non  sempre  devesi 
fare.  Il  magliolo  sdraiato  conviene  nelle  contrade  fresche  d' Italia, 
nelle  terre  pingui  e  nelle  piantagioni  a  molta  distanza  fra  fila  e  fila, 
e  tra  pianta  e  pianta  nelle  file.  Non  conviene  invece  in  condizioni 
opposte,  cioè  nelle  regioni  molto  calde,  nelle  terre  mediocri,  e  con 
piantamenti  molto  fitti.  Infine  conviene  sempre  un  po'  di  inclinazione 
pel  magliolo  nelle  condizioni  medie.  Con  viti  rigogliose,  come  accade 
nelle  terre  pingui  dei  paesi  non  troppo  caldi,  col  ceppo  sdraiato  o  al- 
meno inclinato,  si  ha  un  cotal  rallentamento  nel  succo  che  viene  dalle 
radici;  e  questo  rallentamento  come  tutti  sanno,  giova  alla  fruttifica- 
zione, i  fiori  della  vite  non  abortiscono  se  la  primavera  è  umida,  ed  i 
grappolini  attecchiscono  assai  meglio.  Ma  nei  paesi  caldi,  ove  le  terre 
siano  mediocri,  l'aborto  non  reca  che  pochi  danni,  e  la  vite  non  è  quasi 
mai  pletorica;  costì,  se  la  ceppaia  fosse  sdraiata,  si  avrebbe  un  ral- 
lentamento nocivo  al  succo,  il  quale  giungendo  in  minor  copia  ai 
frutti,  non  potrebbe  provocarne  un  adeguato  ingrossamento;  infatti 
allora  essi  resterebbero  picoolini  e  quasi  raggrinziti. 

Ciò  è  tanto  vero  che  nelle  regioni  molto  calde  i  tralci  inclinati  od 
orizzontali  danno  grappoli  ad  acini  più  piccoli  e  meno  zuccherini  che 
non  gli  speroni  diritti.  Concludendo,  la  piegatura  o  sdrajatura  con- 
viene  colà  dove  la  vite  è  pletorica. 

La  fig.  99  ci  mostra  il  piantamento  fatto  con  talea  alquanto  ri- 
curva; ma  in  Monferrato  si  usa  ripiegarla  assai  di  più  entro  la  fossa, 
comprimendola  coi  piedi  per  tenerla  ferma  mentre  le  si  fa  scendere 
sopra  la  terra. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  403 

In  Monferrato  usano  taluni,  con  molto  successo,  un  modo  di  pian- 
tamelo mercè  il  quale  si  può  dire  che  non  una  talea  fallisce;  la 
talea  anzitutto  viene  tagliata,  dalla  parte  che  deve  andare  sotterra,  sin 
sotto  l'ultima  gemma;  cosicché  questa  non  ha  legno  dell'  internodo 
sotto  di  essa,  ma  resta  però  intatta:  tutte  le  talee,  ventiquattro  ore 
prima  di  piantarle,   sono  collocate    diritte  entro    un  mastello    conte- 


Fig.  99. 

nente  succo  di  letame  in  guisa  che  le  talee  stesse  peschino  per  un 
decimetro  della  loro  base  nel  liquido:  al  momento  di  levarle  dal  ma- 
stello per  confidarle  al  suolo,  l'o[  eraio  prende  un  po'  di  terra  argil- 
losa ed  avvolge  la  suddetta  gemma  inferiore  facendo  come  un  pomo 
attorno  ad  essa,  della  grossezza  d'  un  ovo.  poscia  pianta  come  al 
solito.  Con  questo  sistema  le  talee  rappigliano  assai  bene,  ma  si  ri- 
chiede qualche  tempo  per  prepararle. 

Allorquando  l'estate  trascorre  molto  arida  conviene  mantenere  un 
certo  grado  di  umidità  attorno  alle  giovani  pianticelle;  le  zappature 
frequenti  sono  ottime,  ed  è  pure  ottima  V  innaffia  tur  a;  ma  non  sempre 
si  può  praticarla.  Consigliamo  perciò,  in  questi  casi,  l'uso  della  se- 
gatura di  legno  che  in  pratica  dà  ottimi  resultati:  il  sig.  M.  Voli 
vi  richiamava  sopra,  non  è  molto,  Y  attenzione  dei  viticultori  consi- 
gliando loro  di  spargere,  all'atto  del  piantamento,  lungo  i  filari  ed 
al  piede  delle  talee,  una  manata  di  segatura  di  legno  lasciandovela  per 
tutta  l'estate.  Ben  dice  il  Voli  che  questa  sostanza,  conservandosi 
sciolta,  lascia  passare  l'aria  e  nel  tempo  istesso  coprendo  il  terreno 
ne  impedisce  lo  indurimento:  essa  inoltre,  siccome  assai  igroscopica, 
assorbe  nella  notte  la  rugiada  e  mantiene  durante  il  giorno  un  certo 
grado  di  umidità  attorno  alle  giovani  pianticelle.  Soggiungeremo  che 
la  segatura  di  legno  agisce  come  corpo  coibente  ed  impedisce  al  ca- 
lore solare  di  riscaldare  soverchiamente  il  suolo;  perciò  si  potrebbe 
rimpiazzarla  con  terra  fina,  ed  è  appunto  in  questo  senso  che  giovano 
le  zappature  delle  quali  si  suol  dire  che  «  valgono  una  innaffìatura  » 
per  la  ragione  che  sminuzzando  la  superficie  del  suolo  ne  fanno  di- 
minuire la  conduttività  termica  interna,  come  dicono  i  fisici,  cioè  la 
rendono  meno  atta  a  scaldarsi. 


404  CAPITOLO  X 


Vuoisi  pure  considerare  la  direzione  dei  piantamenti  e  la  loro 
disposizione. 

In  quanto  alla  direzione  si  avverta  a  dirigere  i  filari  possibilmente 
da  nord  a  sud,  acciò  possano  godere  per  un  maggior  numero  di 
ore  il  beneficio  della  luce  solare  diretta 

Allorquando  si  pianta  un  vigneto  specializzato,  cioè  senza  conso- 
ciazione di  altre  culture,  e  se  le  piante  sono  molto  vicine  e  potate 
a  speroni,  sarà  bene   disporle  a  cinquonce  (fig.   100)  ossia  a  scac- 

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Fig.  100. 

chiera  od  a  rombo,  oppure  in  quadrato  (fig.  101).  Ma  là  dove  le 
viti  sono  lussureggianti  ed  a  vegetazione  precoce  è  preferibile  il  si- 
stema delle  file  (fig.  102). 

Nei  piantamenti  a  cinquonce  (che  taluno  dice  anche  quinconce)  o 
in  quadrato,  le  radici  d'ogni  singola  pianta  si  sviluppano  bene  senza 


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Fig.  101. 

troppo  danneggiarsi  le  une  e  le  altre;  ma  fra  i    due  sistemi  è  pre- 
feribile quello  a  scacchiera  (1)  perchè  permette  di  lavorare  la  vigna 

(1)  Guyot   (op    cit.  Voi.  I,  586)  die»!  che  a  suo  avviso    la  disposizione   a  cin- 
quonce   non  giova  u  nulla:  troviamo  ciò   alquanto   esagerato.   Sin   dai  tempi   di 


FORMAZIONE   DFX  VIGNETO 


40o 


in  tre  direzioni  sempre  con  interfilarc  di  uguale  larghezza,  onde  si 
realizza  così  una  notevole  economia  nei  lavori  di  vangatura  e  zap- 
patura, che  si  possono  fare  assai  bene  e  cogli  aratri;  inoltre  dato  che 
si  volesse  rimpiazzare  un  ceppo  con  propaggine,  si  avrebbero  molte 
piante  a  propria  disposizione  per  la  scelta  del  ramo;  infine  nei  pian- 
tamenti  a  rombo  vi  sta  un.  maggior  numero  di  piante  per  ettare. 
Infatti  supponiamo  che  si  adotti  la  distanza  di  lra,50  in  tutti  i  sensi; 
nel  sistema  in  quadrato  avremo  2m,25  di  superficie  per  ogni  ceppo, 
ossia  4444  piante  per  ettare  —  invece  nel  sistema  a  quinconce  ab- 
biamo altrettanti  rombi  di  lm,50  di  base  per  lm,25  di  altezza,  cioè 
lm,875  di  superficie,  per   cui   in  un  ettare  vi    saranno  5204   piante. 


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Vis.  102. 


Col  sistema  delle  file  (fig.  102)  se  si  mettono  queste  a  2ra,50  e  le 
piante  ad  1  metro,  occorrono  4000  talee  ad  ettare,  e  bastano  3880 
se  le  file  stanno  a  2m,35  e  le  talee  a  1,10.  Con  queste  distanze,  che, 
come  vedremo  nel  capitolo  seguente,  possono  anche  essere  maggiori, 
la  cultura  coll'aratro  è  assai  più  facile,  e  questo  è  da  tenersi  a  cal- 
colo là  dove,  essendo  scarsa  e  cara  la  mano  d'opera,  non  è  troppo 
conveniente  né  sempre  possibile  la  cultura  a  braccia. 

Vediamo  ora  quanto  concerne  la  profondità  del  piantamento. 
Piantando  una  vite  a  50,  60,  80  centimetri  di  profondità  —  come 
fanno  molti  erroneamente  —  in  terreno  semi-consistente  o  peggio 
compatto,  si  osserva  che  le  migliori  radici  sono  superficiali,  e  così  a  25, 
30  od  al  massimo  a  40  centimetri  di  profondità,  laddove  le  altre  sono 
assai  più  esili  e  meschine,  .e  talvolta  mancano  affatto. 

Oltre  a  ciò  il  ceppo  (l'antico  magliolo  o  la  talea  o  la   barbatella) 


Columella  (op.  cit.  159)  la  si  trovava  utile  per  la    facile  e  completa   lavorazione 
del  vigneto; 


406 


CAPITOLO    X 


si  serba  sottile  a  poco  presso  come  quando  fa  piantato,  ed  infine 
tarda  molto  a  dar  frutto.  Ciò  vuol  dire  che  il  piantamento  fu  fatto 
contrariando  le  esigenze  della  pianticella.  In  Monferrato,  nell'Astigiano 
ed  in  molti  altri  luoghi,  si  commette  Terrore  del  piantamento  troppo 
profondo.  Ma  nel  Monferrato,  dove  i  viticoltori  sono  edotti  da  lunga 
e  bellissima  pratica,  siccome  si  sa  benissimo  che  le  viti  così  piantate 
non  riescirebbero  bene,  allargasi  (uno  o  due  anni  dopo  il  piantamento) 
la  fossa  primitiva,  e  ciò  mercè  due  fossette  laterali  larghe  60  cen- 
timetri e  profonde  altrettanto,  ed  in  fondo  a  queste  si  pone  un  buon 
strato  di  letame  e  di  fascine  di  viti,  di  rovere  o  d'altro,  superposte 
come  le  tegole  di  un  tetto.  Quest'opera,  detta  fogna  o  arrotto 
(v.  pag.  370),  è  fatta  per  rimediare  al  difetto  del  piantamento  troppo 
in  basso,  ma  costa  da  400  sino  a  2000  lire  1'  ettare,  come  diremo 
più  in  disteso  al  Gap.  XXIL 

Anche  sul  suolo  lavorato  a  scasso  reale  non  bisogna  collocare  le 
talee  troppo  al  basso  :  facendolo,  si  osserva  rhe  la  prima  corona  di 
radici  (vedi  fig.  103,  tolta  dal  vero  in  un  piantamento  da  noi  fatto 
a  0,60)  a  circa  15  centimetri  di  profondità  ha  una  direzione  al- 
l'ingiù;  le  altre  corone    sono    orizzontali,   o   quasi:    mentre    1'  ultima 


Fiff.  103. 


corona  (a  0,50  di  profondità)  ha  le  sue  radici  rivolte  all'  insù,  in 
cerca  di  aria.  Certamente  ciò  non  accadrà  nelle  terre  leggiere 
o  ciottolose;  e  questo  spiega  come  nelle  terre  lapillari  sofficissime  dei 
dintorni  di  Napoli,  si  possano  con  profitto  piantare  i  maglioli  ad  oltre 
un  metro  di  profondità.  Ma  nelle  terre  compatte  la  cosa  è  differente. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  407 

La  pratica  quindi,  e  la  fisiologia  vegetale,  ci  dicono  che  la  vite 
deve  essere  piantata  superficialmente  [a  20  o  25  centim.)  nei 
climi  freschi  e  nelle  terre  compatte;  a  30  o  35  nei  climi  medii 
e  nelle  terre  'meno  consistenti;  da  35  a  40  od  anche  di  più  nei 
paesi  caldi,  purché  però  le  tet^re  siano  molto  permeabili  e  soffici. 

Non  dobbiamo  però  tacere  che  il  piantamento  a  35  centimetri  di 
profondità  nei  paesi  caldi,  anche  se  il  terreno  è  molto  permeabile,  ha 
qualche  oppositore,  e  primo  fra  essi  il  Senatore  Devincenzi,  l'ono- 
rando Presidente  della  Società  dei  Viticultori  italiani,  che  coltiva  ot- 
tanta ettari  a  vigna  a  Giulianova  nell'Abruzzo  Ulteriore  1°  su  colline, 
e  precisamente  in  provincia  di  Teramo,  quasi  nel  centro  d'Italia.  Egli  è 
partigiano  nel  modo  più  assoluto  del  piantamento  superficiale,  quan- 
tunque saggiamente  usi  di  farlo  in  terreno  lavorato  a  scasso  reale: 
inoltre  egli,  per  la  sua  non  breve  esperienza,  non  vuole  né  talee, 
né  maglioli,  ma  barbatelle  ad  un  solo  palco  di  radici,  barbatelle 
cioè  provenienti  da  talee  di  due  sole  gemme  :  una  sola  essendo 
allora  la  gemma  sotterrata,  si  ha  un  solo  palco  di  radici,  cosa  cui 
il  Senatore  Devincenzi  attribuisce  grande  importanza  (1).  Egli  pianta 
in  tal  modo  le  sue  vigne,  cioè  molto  superficialmente,  perchè  adopera 
simili  barbatelle,  onde  fra  la  gemma  esterna  ed  il  palco  delle  radici 
havvi  la  distanza  di  un  semplice  internodo  ;  la  corona  delle  radici 
viene  quindi  a  trovarsi  a  pochi  centimetri  dalla  superficie  del  suolo. 
Il  vigneto  lo  pianta  —  essendo  il  terreno  esausto  —  su  soverscio 
di  sulla,  sotterrata  quando  sta  per  fiorire,  a  50  od  al  massimo  60 
centimetri  di  profondità  mercè  lo  scasso  reale;  egli  soggiunge  (2): 
«  la  piccola  profondità  dello  scassato  opponendosi  allo  sprofondarsi 
delle  radici,  mi  fa  ottenere  una  produzione  più  precoce,  una  mag- 
giore quantità  ed  una  migliore  qualità  del  vino.  »  È  noto  però  che 
nei  paesi  caldi  le  radici  superficiali  soffrono  molto  l'aridità  del  clima, 
quindi  è  indispensabile,  seguendo  il  metodo  Devincenzi,  di  tenere 
sempre  il  terreno  del  vigneto  bene  smosso  e  lavorato,  per  renderlo 
cattivo  conduttore  del  calore  (pag.  403).  D'altra  parte  essendosi  fatto  il 


(1)  A  suo  avviso,  quando  si  hanno  varii  palchi  di  radici  (come  accade  colle  talee, 
i  maglioli  e  le  barbatelle  usualmente  adoperate)  si  hanno  anche  varii  movimenti 
vegetativi  a  seconda  della  differente  profondità  dei  palchi  stessi;  ad  ogni  movi- 
mento, dice  egli,  si  hanno  succhi  diversi  e  quindi  una  mescolanza  assai  dannosa 
alla  qualità  e  quantità  del  vino.  Confessiamo  di  non  intendere  bene  quanto  af- 
ferma il  Sen.  Devincenzi. 

(2)  V.  Indirizzo  alla  Società  dei  Viticultori  italiani,   1885,  pag.  19. 


408  CAPITOLO  X 


piantamento  su  scasso  reale,  una  parte  delle  radici  capillari  si  dirige 
all'ingiù  e  si  abbassa  in  guisa  da  permettere  i  lavori  colturali,  che  sa- 
rebbero quasi  impossibili  ove  la  radici  si  mantenessero  troppo  su- 
perficiali. 

Per  ultimare  questo  paragrafo  dovremmo  anche  accennare  al 
piantamento  delle  talee  nelle  sabbie;  ma  di  ciò  diremo  studiando  la 
coltura  delle  viti  nelle  dune  e  nelle  terre  sabbiose  al  capo  XXII. 

§  5.  Piantamento  dei  maglioli.  —  Tutto  quanto  dicemmo 
nel  precedente  paragrafo  sulla  scelta,  disinfezione,  conservazione  e 
piantamento  delle  talee,  si  applica  perfettamente  ai  magliuoli,  detti 
anticamente  malleoli  (1).  Abbiamo  quindi  poco  da  soggiungere  al 
riguardo. 

Se  noi  tagliamo  (fig.  104)  il  legno  di  due  anni  fra  le  inserzioni  dei 
rami  dell'  annata,  avremo  i  maglioli,  che  se  bene  scelti,  cioè  con 
occhi  bene  sviluppati,  ci  daranno  piante  robuste  e  longeve;  tuttavia 
il  vecchio  legno  è  spesso  un  ostacolo  al  rappigliamene,  ed  è  per 
questo  che  molti  viticoltori  usano  esportarlo,  lasciando  solo  la  men- 
soletta  di  legno  che  si  trova  all'  inserzione  della  talea,  in  altri  ter- 


Fig.  101. 

mini  mutano  il  magliolo  in  una  zampa  di  cavallo  (pag.  392).  Da 
quella  mensoletta,  che  è  un  nucleo  di  sostanza  nutriente,  come  già 
dicemmo  studiando  la  fisiologia  della  vite,  e  dalle  gemme  che  vi 
stanno  sopra,  partono  numerose  radici  vigorosissime,  onde  se  ne  ha 
una  pianta  robusta  e  ben  costituita. 

Allorquando  si  debbono  piantare  i  maglioli  in  terreno  arido,  è  bene 
tenerli  immersi  nell'acqua,  per  20  centimetri  dalla  loro  base,  durante 


(1)  Malleus,  martello  —  Malleoli is,  magliolo  cioè  martellino. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  401) 

varii  giorni;  alcuni  usano  per  di  più  di  scortecciare  gli  internodi  in 
questi  20  centimetri  penetrando  sino  al  libro:  pare  che  tutto  ciò  fa- 
ciliti di  molto  il  rappigliamento. 

Fatto  è  che  il  magliolo,  specie  se  ridotto  a  zampa  di  cavallo, 
costituisce  un  ottimo  mezzo  per  moltiplicare  la  vite;  quando  invece 
si  pianta  il  magliolo  intatto,  il  legno  vecchio  può  marcire  con  danno 
grave  della  futura  pianticella.  Tuttavia  il  Dr.  Guyot  è  contrariis- 
simo  ai  maglioli;  egli  non  vuole  vecchio  legno  attaccato  alla  talea, 
e  dopo  aver  visitato  tutti  i  dipartimenti  viticoli  francesi  conclude  (1) 
«  la  boutare  avec  vieux  bois  est  lamoins  bonne  ».  Dice  egli  che, 
ad  esempio,  sopra  un  sarmento  lungo  1  metro  ben  formato  e  bene 
maturo,  la  sommità  è  più  precoce,  più  vigorosa  e  più  fertile  che 
non  la  parte  mediana,  e  questa  la  vince  sulla  parte  che  è  più  vi- 
cina al  vecchio  legno;  a  suo  avviso  quindi  le  talee  si  dovrebbero 
prendere  tagliando  i  sarmenti  dell'annata  all'altezza  di  20  centimetri 
dal  legno  vecchio  su  cui  sono  inseriti,  Senonchè  abbiamo  già  visto 
a  pag  392  che  quanto  dice  Guyot  non  può  costituire  una  regola  ge- 
nerale, poiché  vi  sono  casi  in  cui  la  base  del  sarmento  è  preferibile 
alla  punta. 

Il  metodo  Oudart  per  piantare  i  maglioli  merita  di  essere  riferito: 
è  minuzioso  ma  1'  esito  è  sicuro.  Prima  di  mettere  mano  alla  pian- 
tagione fa  d'uopo  preparare  i  tre  composti  seguenti: 

1.  In  un  vaso  qualunque,  ma  abbastanza  profondo  per  immer- 
gervi tutta  la  parte  inferiore  dei  magliuoli  che  va  sotterrata,  (cen- 
timetri 25  all' incirca)  si  mescoleranno  assieme: 

l[3a  parte  di  cenere  vergine  di  legno 
»         »      di  sterco  bovino 
»         »      di  terriccio,  o  di  terra  buona  senza  ghiaia. 

Con  queste  tre  sostanze  e  acqua  a  sufficienza  si  farà  una  melma 
della  consistenza  d'un  fango  liquido. 

2.  Si  mescolerà  con  1|4  di  cenere  vergine  di  legno,  3[4  di  ter- 
riccio asciutto  o  di  terra  buona,  fina,  ben  sminuzzata  e  senza  al- 
cuna ghiaia,  nemmeno  piccola.  Questa  composta  dovrà  servire  per 
empiere,   all'  intorno  dei  magliuoli,  i   buchi  nei  quali  si  piantano. 

3.  In  una  tinozza  che  si  riempie  di  acqua  si  fa  disciogliere   un 


(1)  Étude   des   vignobles  de  Francc:  T.  Ili,  pag.  615. 


410  CAPITOLO  X 


poco  di  sterco  bovino,  all'incirca  chilog.  2  a  3  per  ogni  ettolitro  dì 
acqua. 

Fatte  queste  preparazioni,  si  principierà  la  piantagione.  Si  leverà 
dal  fosso  dove  sono  sotterrati  i  magliuoli  in  deposito,  solamente  la 
quantità  che  farà  d'uopo  pel  lavoro  della  giornata  e  si  ricopriranno 
con  un  po'  di  terra  i  magliuoli  che  resteranno  nel  fosso. 

Nel  trasportare  al  campo  quelli  da  piantare,  si  avrà  cura  di  co- 
prirli con  qualche  panno,  o  con  paglia,  o  con  qualunque  altro  riparo, 
capace  di  difenderli  dal  contatto  dell'aria  e  si  lascieranno  coperti  fino 
al  momento  di  adoperarli. 

Allora,  un  vignaiuolo  esperto,  reciderà  con  un  ferro  di  taglio  fino, 
i  pezzetti  di  legno  vecchio  che  saranno  stati  conservati  al  piede  dei 
magliuoli,  ai  quali  lascierà  accuratamente  la  corona  intiera  (zampa 
di  cavallo),  avvertendo  anche  di  non  discoprirne  il  midollo.  A  misura 
che  sono  così  preparati  s'  immergono  nel  vaso  della  melma  :  quelli 
che  non  hanno  più  di  legno  vecchio,  perchè  furono  già  preparati, 
si  mettono  a  dirittura  a  bagno  nella  melma,  ma  in  ogni  caso  non 
si  deve  immergere  che  la  parte  inferiore  del  magliuolo  che  va  in 
terra. 

Si  tenderà  un  cordone  sulla  linea  per  guidare  il  piantatore,  il  quale, 
con  un  palo  di  ferro,  praticherà  dei  buchi  lungo  la  linea  alla  di- 
stanza richiesta:  questi  buchi  —  secondo  Oudart  —  saranno  pro- 
fondi centimetri  25  nei  terreni  compatti,  e  centim.  30  in  quelli  sab- 
binosi, leggieri  e  molto  permeabili.  Affinchè  tutti  i  buchi  siano  re- 
golarmente dell'  istessa  profondità,  si  farà  una  marca  sul  palo  per 
norma  del  lavorante. 

Un  ragazzo  prenderà  dei  magliuoli  nel  vaso  della  melma  e  ne  in- 
trodurrà uno  in  ogni  buco,  fin  in  fondo,  mantenendolo  dritto  in  mezzo 
del  buco  :  nell'  istesso  tempo  un  altro  ragazzo,  portando  con  sé  in 
un  sacchetto  della  composta  di  cenere  e  terra  ed  un  bastone  a  punta 
ottusa,  insinuerà  intorno  al  magliuolo,  questa  composta  per  empire 
completamente  il  buco  e  comprimerà  poi  energicamente  questa  terra 
colla  punta  ottusa  del  suo  bastone  affinchè  non  resti  alcun  vuoto 
all'  intorno  della  pianta. 

Si  lasciano  sole  due  gemme  al  magliuolo,  compresa  quella  che  sta 
a  fior  di  terra,  e  si  taglia  in  mezzo  del  terzo  nodo  per  non  disco- 
prire il  midollo  del  meritallo  superiore  alla  seconda  gemma  e  non 
indebolirla  (v.  pag.  127).  S'innaffiano  poi  le  piante  con,  all'incirca 
per  caduna,  mezzo  litro  della  suddetta  acqua  (preparazione  n.  3).  Si 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  411 

coprono  allora  intieramente  con  terra  magra,  ben  sminuzza,  o  an- 
cora meglio  con  sabbia,  formando  all'intorno  delle  piante  mucchietti 
o  montagnine  che  si  spianano  quando  il  magliolo  si  è  fatto  pianta, 
cioè  nel  mese  di  settembre  quando  i  caldi  ardenti  dell1  estate  non 
sono  più  da  temere. 

Questa  pratica  non  ha  solo  per  iscopo  di  preservare  i  maglioli 
dalla  siccità,  ma  ancora  di  ritardare  lo  schiudimento  delle  gemme 
fin'a  tanto  che  i  magliuoli  abbiano  cacciato  radici,  perchè  quando  le 
gemme  si  schiudono  prima  della  nascita  delle  radici,  non  potendo 
ricevere  alcun  alimento  per  sostenere  e  continuare  il  loro  sviluppo, 
si  disseccano  e  il  magliolo  perisce.  Cosi  piantati,  i  maglioli  riescono 
tutti,  afferma  Oudart,  anche  nei  climi  i  più  caldi;  formano  viti  molto 
più  robuste  che  le  barbatelle  provenienti  dai  vivai,  durano  più  tempo 
e  si  mettono  più  presto  a  fruttificare.  Oltre  questi  vantaggi  v'è  an- 
cora molta  economia  nella  spesa  per  la  piantagione:  due  uomini  e 
due  ragazzi  intelligenti,  una  volta  avvezzati  all'ordine  di  questo  la- 
voro, possono,  in  una  giornata,  piantar  a  dovere  maglioli  1000,  quando 
non  potrebb  ro  nell'istesso  tempo  piantare  più  di  quattro  o  cinque- 
cento barbatelle. 

I  maglioli  dell'annata,  che  diremo  verdi,  possono  pure  servire  per 
il  piantamento:  essi  si  staccano  nel  mese  di  giugno,  esportando  con 
cura  la  loro  base,  o  piede,  cioè  quella  specie  di  protuberanza  dalla 
quale  sorgono  sul  legno  vecchio.  Si  vengono  così  ad  avere  delle  zampe 
di  cavallo  (pag.  391  fig.  95  a)  le  quali  però  sono  tuttora  verdi  ed  er- 
bacee. È  facile  supporre  che  questi  maglioli  si  devono  piantare  su- 
bito appena  tagliati,  in  terreno  molto  soffice  e  fertile:  dalla  loro  base 
cacciano  allora  radici;  ma  appena  piantati  è  necessario  potarli  o  di- 
remo meglio  cimarli,  tagliando  anche  metà  circa  delle  loro  foglie. 
Perchè  il  rappigliamento  sia  sicuro  è  indispensabile  tenerli  ri[  arati 
dal  sole  ed  innaffiarli  spesso:  alcuni  li  tengono  da  principio  in  una 
semi-oscurità  e  quando  sono  certi  che  hanno  cacciato  radici,  allora 
grado  grado  li  scoprono  per  lasciarli  poi  all'  aria  libera.  Non  vo- 
gliamo scordare  di  avvertire  che  il  rappigliamento  di  questi  maglioli 
erbacei  è  molto  difficile,  per  cui  in  nessun  caso  il  sistema  accennato 
potrebbe  consigliarsi  per  l'impianto  di  un  vigneto  di  qualche  im- 
portanza. 

II  Dr.  Aloi  ci  faceva  conoscere  sin  dai  1877  un  nuovo  magliolo 
che  si  usa  da  tempi  antichissimi  nell'Agrigentino  ove  è  detto  cor- 
dazzo.  Crediamo  utile  di  farne  qui  cenno.  Il  cordazzo  è  lungo  quanto 


412 


CAPITOLO  X 


il  magliolo  ordinario,  ma  è  formato  di  due  pezzi  eguali  uno  del 
tralcio  di  due  anni  e  l'altro  del  tralcio  di  un  anno,  attaccati  fra 
loro  (fig.  105). 

Il  cordazzo  secondo  YAloi  merita  di  essere  preferito  al  magliuolo 
ordinario  ed  alle  barbatelle,  dappoiché  riunisce  in  sé  i  pregi  di  tutte 
e  due  e  va  esente  dei  difetti  che  questi  presentano. 


Fig.  105 


«  L'esperienza  ha  dimostrato  generalmente,  (non  sempre  però,  mas- 
sime nei  paesi  settentrionali)  che  la  maggior  quantità  di  grappoli  ed 
i  migliori  si  trovano  sui  germogli  sviluppatisi  sul  primo  terzo  del 
tralcio  dell'anno  antecedente,  e  che  tutte  le  varietà  di  viti  portano  i 
maggiori  ed  i  migliori  grappoli  sull'  istessa  porzione  di  quel  primo 
terzo  del  tralcio.  Ordinariamente  dunque  la  parte  più  produttiva  del 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  413 

tralcio  è  quella  del  primo  terzo,  che  germogliò  per  la  prima  fino 
a  tutto  maggio,  che  ha  nodi  brevi  e  gemme  ravvicinate,  più  pro- 
nunziate e  tondeggianti,  avendo  esse  avuto  tempo  di  costituirsi  nor- 
malmente. Nel  terzo  estremo  del  tralcio  le  gemme  si  trovano  ancora 
ravvicinate,  perchè  appartenenti  all'ultima  epoca  della  vegetazione, 
ma  sono  piccole  ed  acuminate  e  danno  perciò  pochi  e  piccoli  grap- 
poli, rarissimamente.  Il  terzo  mediano  ha  lunghissimi  internodi,  ossia 
gemme  molto  distanti  fra  loro,  perchè  appartengono  all'epoca  più 
rigogliosa  della  vegetazione,  e  le  gemme  di  questa  porzione  di  solito 
portano  più  foglie  che  frutto.  Propagando  la  vite  per  gemme,  è  certo 
che  queste  daranno  una  pianta  che  conserverà  la  tendenza  della 
porzione  del  tralcio  cui  quelle  appartenevano;  se  la  pianta  uscirà  (]a\ 
primo  terzo  del  tralcio  produrrà  maggior  quantità  di  grappoli,  sa 
dal  terzo  mediano  darà  più  foglie  che  frutto,  se  dal  terzo  estremo 
pochi  e  piccoli  grappoli.  » 

«  Or  col  magliuolo  ordinario  le  gemme  del  terzo  inferiore  e  quelle 
del  terzo  medio  del  tralcio  si  mettono  sotto  terra  e  si  sviluppano  a 
radici  e  la  pianta  esce  dalle  gemme  del  terzo  estremo;  perciò  por- 
terà pochi  e  piccoli  grappoli,  o  tutto  al  più  escirà  dalle  gemme 
del  terzo  medio  e  sarà  atta  a  produrre  più  foglie  che  grappoli. 
Con  le  barbatelle  si  ottengono  bensì  piante  fruttifere  perchè  si  svi- 
luppano dal  primo  terzo  del  tralcio,  ma  sono  dotate  di  poche  ra- 
dici, dappoiché  poche  gemme  (da  due  a  tre)  si  mettono  sotto  terra 
e  quindi  nelle  regioni  aride,  come  quelle  della  costa  meridionale  della 
Sicilia,  le  viti  ottenute  dalle  barbatelle,  d'  estate  soffrirebbero  molto 
per  la  ostinata  siccità  ». 

«  Col  cordazzo  invece  si  ottiene  una  pianta  fornita  di  molte  radici 
e  per  dippiù  fruttifera,  perchè  si  sviluppa  dal  primo  terzo  del  tralcio. 
Infatti  si  usa  colà  scavare  delle  fosse  profonde  un  30  centimetri  circa 
e  dentro  vi  si  adagia  il  cordazzo,  in  modo  che  tutta  la  parte  del 
tralcio  di  due  anni  e  la  prima  corona  delle  gemme  del  pezzo  di  un 
anno  restino  coperti  dal  terreno,  ed  esca  fuori  la  porzione  del  tralcio 
di  un  anno  che  è  giusto  quella  del  primo  terzo.  È  chiaro  che  con 
questo  metodo  si  ottengono  viti  fornite  di  molte  radici  e  perciò  ro- 
buste, e  per  di  più  fruttifere.  V'ha  solamente,  che  il  cordazzo  può 
aversi  da  quelle  vigne  che  si  potano  razionalmente,  cioè  da  quelle 
vigne  che  si  potano  con  un  tralcio  lungo  fruttifero  ed  uno  sperone 
per  fornire  i  tralci  su  dove  fondare  la  potatura  futura  ».  Nei  paesi 
della  provincia  di  Girgenti  visitati  dall'AC,  e  che  propagano  la  vigna 


414 


CAPITOLO  X 


col  cordazzo,  questo  sistema  di  potatura  usasi  da  tempi  immemo- 
rabili, sistema  che  vuoisi  ostinatamente  chiamare  alla  Guyot  mentre 
è  puramente  italiano,  come  diremo  al  Gap.  XXII. 

§  6.  Piantamento  delle  barbatelle.  —  Confronto  colle  talee. 

—  Anzitutto  ci  chiediamo:  debbono  preferirsi  le  talee  o  le  barbatelle? 
(Fig.  106)  La  pratica  viticola  insegna  che  le  talee  danno  viti  più  robuste 


Fi*.  10.: 


e  più  longeve  che  non  le  barbatelle  e  peggio  le  propaggini.  Le  talee 
adunque  sarebbero  da  preferirsi,  avuto  riguardo  alla  vite  futura; 
però,  benché  costino  meno  delle  barbatelle,  non  sono  generalmente 
preferite  per  la  ragione  che  non  rappigliano  con  uguale  facilità.  Tut* 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  415 

tavia,  dove  per  felici  condizioni  di  suolo  si  fosse  quasi  sicuri  della 
loro  completa  riuscita,  le  talee  dovrebbero  senz'  altro  anteporsi  a 
qualsiasi  altra  maniera  di  piantamento,  poiché  si  avrebbe  il  vigneto 
in  piena  produzione  un  anno  prima  e  più  longevo:  parliamo  per  e- 
sperienza. 

Dopo  le  talee  conviene  porre  le  barbatelle  di  un  solo  anno,  e  su 
ciò  non  può  cadere  contestazione,  quantunque  vi  siano  alcuni  viticol- 
tori che  preferiscono  quelle  di  due,  di  tre  e  perfino  di  quattro  anni 
(v.  §  7  seguente). 

Infine,  in  quanto  alle  propaggini,  esse  non  producono  una  vigna 
robusta,  vuoi  per  la  disposizione  delle  loro  radici,  vuoi  per  la  sepa- 
razione che  ebbero  a  subire  dalla  pianta  madre.  Da  quanto  dicemmo, 
scaturisce  quindi  il  seguente  principio  fondamentale:  L'impianto  d'un 
vigneto  riesce  meglio  (fisiologicamente parlando  ed  avuto  riguardo 
alla  robustezza  e  longevità  delle  piante)  se  fatto  mediante  la 
seminagione  che  non  mediante  talee;  ma  queste  sono  sempre  da 
preferirsi  alle  barbatelle  ed  alle  propaggini. 

Riguardo  al  piantamento  delle  barbatelle,  dopo  quanto  abbiamo 
detto  nei  precedenti  paragrafi,  ci  rimane  poco  a  soggiungere.  Avverti- 
remo solo  che  le  barbatelle  debbonsi  togliere  con  molta  cura  dal  vivaio: 
la  zappa  si  presta  male  per  ciò,  ed  è  meglio  usare  lo  zappone  a  due  denti 
bipartiti:  noi  usiamo  levarle  a  scasso  reale  colla  vanga,  ma  con 
molta  precauzione.  Le  barbatelle  si  debbono  togliere  dal  vivaio  solo 
quando  hanno  perduto  tutte  le  loro  foglie;  ed  allora  conviene  anzi- 
tutto ripulirle  dalle    radici   morte    e  dal   legno    fradicio    e   nerastro. 

Si  avrà  eziandio  cura  di  sopprimere  le  radici  secondarie  che  stanno 
sovra  la  base  del  ceppo;  è  anche  prudente,  se  le  radici  sono  secche 
per  lungo  viaggio,  tenerle  per  qualche  giorno  nell'acqua  corrente, 
che  così  piantate  rappigleranno  bene. 

Dopo  si  pianteranno  nelle  fosse  colla  precauzione  di  ben  distenderne 
le  radici;  si  ricopriranno  quindi  con  terra  e  concime  e  poi  di  nuovo 
terra,  che  si  comprimerà  coi  piedi;  infine  si  poteranno  a  due  occhi, 
cioè  si  lascieranno  fuori  terra  sole  due  o  tre  gemme.  Il  governo 
successivo  della  pianta  varia  secondo  i  sistemi  di  viticoltura;  quindi 
rimandiamo  il  lettore  al  Capo  XXII. 

Per  distendere  regolarmente  le  radici  delle  barbatelle  usano  al- 
cuni viticultori  fare  prima  nelle  fosse  destinate  al  piantamento,  un 
cumulo  conico  di  terra  per  ogni  barbatella,  procurando  che  venga 
colla  sua  punta  a  circa  15  centimetri  dalla  superficie  del    suolo:    la 


416  CAPITOLO  X 


base  di  questo  cumulo  deve  essere  di  30  centimetri,  e  gli  è  su  di 
esso  che  il  viticultore  collocherà  la  barbatella,  tenendola  diritta  e  di- 
stendendone tutte  le  radici  lungo  le  pareti.  Sovra  si  metterà  terra 
fina,  concime  potassico  e  letame  all'ingiro,  indi  si  riempirà  la  fossa, 
comprimendo  fortemente  la  terra.  Con  questo  sistema,  che  se  è  lungo 
è  però  accuratissimo,  le  barbatelle  danno  ottime  piante,  poiché  il  nodo 
vitale  (pag.  88)  resta  quasi  a  fior  di  terra  ove  era  quando  la  bar- 
batella trovavasi  in  vivajo,  e  le  radici  si  trovano  distribuite  con  molta 
regolarità,  tutte  condizioni  queste  che  contribuiscono  alla  perfetta  con- 
formazione della  futura,  pianta  ed  alla  sua  produttività.  Il  sig.  Luigi 
Ouclart,  esperto  viticultore  ben  noto  in  Italia,  fu  forse  l'inventore  di 
questo  siste. uà  di  piantamento;  a  suo  parere  quando  si  pianta  la  bar- 
batella col  sistema  usuale,  cioè  più  profondamente  che  non  collocan- 
dola sui  cumuli  di  terra,  «  la  pianta  si  carica  di  rami  e  di  foglie 
ma  poco  o  niente  di  frutti,  fintantoché  abbia  potuto  formarsi  un 
nuovo  colletto  nella  sua  naturale  situazione  (1).  » 

Quando  le  barbatelle  stanno  due  anni  nel  vivaio,  noi  usiamo  po- 
tarle a  tre  gemme  al  secondo  anno;  abbiamo  osservato  che  potan- 
dole ad  una  sola  gemma,  cioè  troppo  corte,  si  offende  indirettamente 
il  loro  sistema  radicale;  la  barbatella  infatti  si  fa  appunto  per  avere 
una  pianta  riccamente  fornita  di  apparato  radicale;  ma  questo,  come 
già  sappiamo,  è  sempre  in  istretta  armonia  coi  rami.  D'altra  parte 
però  non  potando  si  avrebbero  molti  getti  alquanto  corti,  e  non  si 
saprebbe  bene  poi  quale  scegliere  per  formare  la  futura  pianta.  È 
dunque  bene  potare  a  3  od  anche  a  4  occhi.  - 

Il  piantamento  è  sempre  meglio  farlo  in  autunno  (pag.  400),  perchè, 
come  già  dicemmo  parlando  delle  talee,  si  guadagna  un  anno.  Ma 
acciò  il  piantamento  autunnale  riesca  bene  si  deve  lasciare  alle  acque 
piovane  un  libero  e  pronto  scolo.  Per  questo  nei  piantamenti  annuali, 
sia  a  scasso  reale,  sia  e  massimamente  col  sistema  delle  fosse,  si 
deve  scrupolosamente  far  sì  che  questo  scolo  avvenga. 

Nel  caso  dello  scasso  bisogna,  dove  il  terreno  presenta  degli  av- 
vallamenti, aprire  profondi  acquaroli,  che  vanno  tenuti  ben  netti.  E 
così  anche  nel  caso  delle  fosse,  oltre  al  nettare  i  solchi  ai  due  lati 
del  filare,  se  ne  devono  aprire  altri  nei  luoghi  più  avvallati,  i  quali 
naturalmente  dovranno  essere  profondi  quanto  la  fossa  stessa.  I  mo- 
tivi per  cui  questo  lavoro  è   necessario   sono  due:    1°   dando  libero 


(1)  V.  il  nostro  Giornale   Vinicolo  Italiano,  Voi.  II,  pag.  101. 


FORMAZIONE   DEL  VIGNETO  417 

sfogo  alle  acque  si  impedisce  il  gelo  e  disgelo,  i  cui  effetti  sono 
mortali  per  le  talee  e  per  le  barbatelle;  2°  1'  acqua  corrente  tra- 
scina seco  molta  aria,  che  è  corpo  coibente,  e  ciò  impedisce  i  rapidi 
abbassamenti  di  temperatura. 

Sulla  spedizione  delle  barbatelle  abbiamo  poco  a  dire. 

Allorquando  si  acquistano  le  barbatelle  in  vivai  molto  lontani,  si 
corre  rischio  di  riceverle  secche,  vale  a  dire  prive  di  vitalità,  sicché 
piantate  non  potrebbero  rappigliare;  per  ovviare  a  questo  inconve- 
niente non  basta  il  completo  imballaggio  delle  piantine  colla  paglia, 
ma  occorre  che  le  radici  siano  avvolte  o  in  terra,  o  in  muschio  u- 
mido,  o  in  varech  mescolati  a  terra.  Con  quest'  ultimo  sistema  il 
già  citato  sig.  Ermens  (pag.  396)  riuscì  a  far  viaggiare  barbatelle 
durante  novanta  giorni  dall'Europa  nel  centro  dell'Asia. 

§  7.  Età  delle  barbatelle.  Abbiamo  voluto  serbare  alla  trat- 
tazione di  questo  punto  uno  speciale  paragrafo,  perchè  la  quistione 
è  molto  controversa,  e  chi  preferisce  barbatelle  di  un  anno,  e  chi 
di  due  e  ben  anche  di  tre  e  quattro  anni  ! 

Abbiamo  già  detto  a  pag.  415  che  nell'impianto  del  vigneto  dopo 
le  talee,  cui  noi  diamo  la  preferenza,  conviene  porre  le  barbatelle 
di  un  solo  anno,  per  quanto  quelle  di  tre  o  quattro  anni  appariscano 
belle,  a  giudicarle  dalle  loro  folte  e  lunghe  barboline.  Se  non  si  trat- 
tasse che  di  trapiantarle  a  poca  distanza  dal  vivaio,  certo  si  avreb- 
bero molto  minori  inconvenienti;  ma  dovendosi  quasi  sempre  farle 
viaggiare  in  ferrovia  o  con  altro  mezzo,  diventano  affatto  inaccetta- 
b;li.  Più  la  barbatella  sta  nel  vivaio,  e  più  naturalmente  soffre  poi  per 
lo  sradicamento  ed  il  trasporto  a  dimora.  Diremo  anzi  di  più:  la  vite 
che  si  pianta  con  talee  o  barbatelle  acquistate  lontano  dal  podere 
cresce  tanto  più  robusta  quanto  più  giovane  è  il  legno  da  cui  pro- 
viene: per  questo  la  talea,  che  è  un  rametto  dell'annata,  occupa  il 
primo  posto;  la  barbatella  di  un  anno  il  secondo,  quella  di  quattro 
l'ultimo. 

Il  compianto  Guyot  nel  suo  notissimo  libro  stampò  che  la  miglior 
barbatella  è  quella  di  due  anni  di  vivaio  (1):  ciò  sta  benissimo  nel 
caso  in,  cui  il  vivaio  sia  nel  podere  stesso  ove  si  impianta  il  vigneto, 
od  almeno  nelle  sue  vicinanze:  in  caso  di  trasporto  non  lo  crediamo, 
perchè  molti  fatti  ci  hanno  provato  il  contrario. 


(1)  Le  meilleur  plani  est  celai  de  deux  ans  de  pepinière,  pag-.   123. 

0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura.  28 


418  CAPITOLO  X 


D'altronde  più  la  barbatella  è  attempata  e  più  soffre  per  lo  sra- 
dicamento (a  parte  quanto  può  soffrire  durante  il  trasporto).  Guyot 
dice  che  quella  di  un  anno  ha  le  radici  troppo  tenere,  mentre  in 
quella  di  due  esse  sonosi  fatte  più  legnose  e  robuste;  e  ciò  è  veris- 
simo. Ma  le  mutilazioni,  che  sono  conseguenza  inevitabile  del  trapian- 
tamene, tornano  sempre  più  gravi  e  dannose  alla  barbatella  più 
vecchia,  perchè  ha  le  radici  più  lunghe;  è  noto  che  in  qualsiasi  tra- 
piantamene d'  alberetti  da  frutta  dal  vivaio  a  dimora,  le  radici  più 
lunghe  sopportano  più  diffìcilmente  gli  spostamenti. 

Ma  sentiamo  anche  il  parere  di  altri  viticultori.  Il  sig.  F.  Ceresa  da 
Piacenza  faceva  anni  sono  una  prova  di  confronto,  dopo  la  quale  ci 
scriveva  quanto  segue:  «  Per  quanto  riguarda  la  preferenza  da  ac- 
cordarsi alla  barbatella  di  un  anno,  ella  ha  pienamente  ragione.  Nes- 
suno più  di  me  può  esserne  convinto,  poiché  feci  un  esperimento  ad 
hoc  e  su  scala  abbastanza  vasta  per  sottrarmi  possibilmente  alle  il- 
lusioni dei  piccoli  esperimenti.  Il  successo  a  favore  delle  barbatelle 
di  un  solo  anno  a  confronto  di  quelle  di  due  e  di  tre  anni  fu  evi- 
dente, brillante,  incontestabile.  Debbo  però  ad  onor  del  vero  dichia- 
rare che  tutti  gli  inconvenienti  da  lei  accennati  s'  erano  verificati: 
lontano  trasporto,  guasto  alle  radicelle  per  le  difficoltà  grandi  dello 
sradicamento  delle  barbatelle  di  più  d'un  anno  e  via  dicendo.  » 

La  nostra  conclusione  è  adunque  questa:  la  vite  che  si  pianta  con 
talee  e  barbatelle  acquistate  lontano  dal  podere  cresce  tanto  più  ro- 
busta quanto  più  giovane  è  il  legno  da  cui  proviene:  ripeteremo 
dunque  che  la  talea,  che  è  un  rametto  dell'annata,  occupa  il  primo 
posto;  la  barbatalla  di  un  anno  il  secondo;  quella  di  tre  o  peggio  di 
quattro,  l'ultimo. 

§  8.  Scelta  dei  vitigni  a  seconda  del  clima,  del  terreno, 
della  situazione  e  delle  esigenze  del  mercato.  —  Allorquando 
il  viticultore  si  accinge  all'  impianto  d'  un  vigneto,  si  trova  dinnanzi 
ad  un  serio  problema,  la  scelta  cioè  del  vitigno,  o  dei  vitigni,  se  egli 
è  partigiano  della  promiscuità  delle  varietà:  spesso  però  egli  risolve  il 
suo  dubbio  o  badando  solo  all'essenza  del  vitigno  nella  credenza  che  il 
buon  vino  dipenda  esclusivamente  da  essa,  oppure  considerando  soltanto 
le  condizioni  locali  di  clima,  di  terreno  e  di  situazione,  o  le  condizioni  del 
mercato,  cioè  la  predominante  ricerca  d'un  dato  vino.  È  evidente  in- 
vece che,  per  quanto  si  può,  debbonsi  considerare  tutti  quanti  questi 
fattori,  subordinando  ai  medesimi  la  scelta  del  vitigno;  anzi  oggi  con- 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  419 

verrebbe  tener  eziandio  calcolo  d'  un  altro  elemento,  vale  a  dire  la 
resistenza  di  un  dato  vitigno  alle  malattie  dominanti  (crittogame,  in- 
setti). Bastano  queste  poche  parole  per  dimostrare  quanto  sia  ardua 
e  dilicata  la  scelta  del  vitigno. 

Tuttavia  vediamo  di  esaminare  il  problema  più  da  vicino.  Ed  an- 
zitutto, è  egli  rigorosamente  vero  l'aforisma  del  Boti.  Guyot:  «  Le 
genie  chi  vin  est  cians  le  cépage?  »  0  non  fu  forse  più  esatto  il  nostro 
Marchese  Ridai  fi  (1)  quando  disse  che  «  il  buon  vino  lo  fanno  prima 
la  terra,  il  sole  e  la  qualità  dei  vitigni,  poi  la  buona  cultura  e  la 
diligente  vendemmia;  e  finalmente  la  regolare  vinificazione  diretta 
allo  scopo  di  non  sciupare  con  arte  assurda  il  prodotto  della  na- 
tura? »  Noi  ci  accostiamo  al  concetto  dell'illustre  agronomo  toscano, 
e  già  ne  dicemmo  le  ragioni  in  una  nota  stampata  a  pag.  491  del  nostro 
Giornale  Vinicolo  Italiano  del  1875.  Non  vi  ha  dubbio  che  il  genio 
del  vino  non  risiede  soltanto  nel  vitigno,  e  ben  disse  il  Conte  Oclart, 
l'illustre  ampelografo  francese,  che  la  varietà  del  vizzato  ed  il  suolo 
intervengono  per  una  somma  di  influenze  a  poco  presso  eguali  nella 
qualità  delle  uve  e  per  conseguenza  del  vino  prodotto.  Il  non  meno 
valente  Barone  Mendola  nel  1877  ci  scriveva  (2): 

«  Ogni  vitigno  ha  un'area  propria  ed  in  questa  area  tiene  un 
centro  di  predilezione.  Così  il  Cabernet  ha  il  suo  centro  nel  Bor- 
dolese, il  Nebbiolo  nel  Piemonte,  il  Pinot  nella  Borgogna  e  nella 
Sciampagna,  il  Catarratto  e  Y  Insolia  in  Sicilia,  il  Furmint  in  Un- 
gheria, la  Malvasia  in  Grecia,  il  Moscato  in  Sicilia  e  nell'Arcipelago 
greco  ecc.  ecc.  È  vietato  all'uomo  invertire  o  contraddire  a  queste  leggi 
di  natura.  Se  coltivate  il  Furmint  a  Bordeaux  non  avrete  mai  del  buon 
Tokai  come  quello  fabbricato  nell'Hegy  Allin;  se  coltivate  del 
Cabernet  neh'  Ungheria,  non  avrete  mai  del  genuino  e  fresco 
Chdteau-La  Fitte  o  Chàteau-La  Rose.  I  vitigni  levati  dal  centro 
del  loro  massimo  favore,  perdono  tutta  o  molta  parte  della  loro 
virtù  enantica  per  la  diversificata  azione  della  forza  esogena. 
L'  unico  tentativo  per  avere  vitigni  ereditieri  delle  virtù  e  qualità 
avite  ed  allo  stesso  tempo  accomodati  e  riuscenti  bene  nella  regione 
dove  si  devono  coltivare  e  vendemmiare,  sta  nella  seminagione.  Essa 
sola  può  porgere  soggetti  proporzionati  organicamente  e  quasi  assue- 
fatti ex  visceribus,  al  terreno  e  clima  di  nascita.  » 


(1)  Lezioni  orali,  la  ediz.,  voi.  II,  pag.  277. 

[2)  Utilità  della  seminagione  della  vite.  —  Giornale  Vinicolo  I/aliano  1877,  p.  232. 


420  CAPITOLO  X 


Conosciamo  da  vicino  molti  tentativi  fatti  per  introdurre  in  Italia 
vitigni  francesi,  tedeschi  ed  ungheresi;  ma  dobbiamo  confessare  che 
i  prodotti  ottenuti,  salve  poche  eccezioni,  sono  assolutamente  molto 
lontani  da  quelli  che  l'essenza  del  vitigno  importato  avrebbe  fatto  spe- 
rare. Noi  stessi  che  coltiviamo  Nebiolo,  Sangiovese,  Alicante,  Pinot, 
Cabernet  ecc.  in  Monferrato  (al  Cardello  presso  Casalmonfer- 
rato)  abbiamo  la  prova  evidente  che  il  genio  del  vino  non  sta  sol- 
tanto nel  vitigno:  d'altronde  quasi  non  vi  ha  viticultore  che  non  sia 
in  grado  di  citare  qualche  fatto  a  conferma  di  quanto  diciamo. 

Converrà  dunque  prima  di  scegliere  il  vitigno,  vedere  sino  a  che 
punto  esso  possa  accomodarsi  al  terreno,  al  clima  ed  alla  situazione 
del  futuro  vigneto,  e  se  inoltre  il  prodotto  sarà  poi  tale  da  soddi- 
sfare alle  esigenze  del  mercato.  Per  esempio,  se  il  viticultore  volesse 
piantare  il  suo  vigneto  a  Dolcetto  —  che  dà  vino  assai  pregevole  — 
in  terreno  argilloso  e  tenace,  ed  in  locale  molto  caldo  ed  arido, 
mentre  poi  il  mercato  locale  chiede  di  preferenza  vini  di  molto  corpo, 
commetterebbe  un  errore,  perchè  non  avrebbe  tenuto  calcolo  che  il 
Dolcetto  riesce  bene  soltanto  nei  terreni  sciolti,  in  situazioni  a  dolce 
calore,  temperato  da  una  conveniente  umidità,  mentre  produce  usual- 
mente vini  eccellenti  ma  di  non  molto  corpo,  quali  sono  invece  quelli 
ad  esempio  del  basso  Monferrato.  Che  se  poi  volesse  coltivare  il 
Dolcetto  in  luoghi  molto  elevati,  non  ne  avrebbe  un  vino  troppo 
pregevole;  e  simili  esempii  si  potrebbero  moltiplicare  d'assai,  perchè 
ogni  vitigno  ha  le  sue  esigenze  speciali  e  dà  speciali  prodotti  a  se- 
conda del  locale  ove  cresce. 

Abbiamo  accennato  all'influenza  che  deve  necessariamente  eserci- 
tare sulla  scelta  dei  vitigni,  la  domanda  dei  mercato  vinicolo,  il  de- 
sideratimi cioè  del  commercio;  il  viticultore  previdente  deve  infatti 
considerare  sia  il  mercato  locale,  sia  quello  generale,  per  aprire  un 
sicuro,  proficuo  e  costante  spaccio  ai  suoi  prodotti,  questo  essendo  il 
suo  scopo  ultimo. 

Lasciamo  da  parte  qui  i  dilettanti  di  viticultura,  che  amano  avere 
nel  loro  vigneto  parecchie  dozzine  di  varietà,  e  produrre  pochi  et- 
tolitri di  parecchi  vini  speciali;  noi  parliamo  essenzialmente  dei  viticul- 
tari che  hanno  bisogno  di  far  fruttare  quanto  più  è  possibile  le  loro 
terre  vitate.  Or  bene  costoro  debbono  riflettere  che  attualmente 
sono  sovratutto  ricercati  in  Italia  —  e  ciò  tanto  dai  consumatori  ita- 
liani che  dai  forestieri,  specie  dai  Francesi  —  due  grandi  tipi  di  vino: 
1°)  i  Vini  da  pasto  rossi:  2°)   i    Vini  da  taglio. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  421 

Intanto  il  viticultare  si  tracci  la  sua  via  basandosi  sovra  questi 
due  criterii,  cioè  veda  se  nelle  sue  condizioni  di  suolo,  di  clima  e 
di  vitigno  meglio  gli  convenga  produrre  vini  da  pasto  rossi,  oppure 
vini  da  taglio.  Se  i  suoi  vigneti  sono  un  mosaico  di   molte    varietà 

—  quasi  sempre  varietà  che  producono  poco,  oppure  producono 
molt'uva,  ma  non  atta  alle  fabbricazioni  suddette  —  allora  li  riformi 
e  si  attenga  solo  ai  pochi  ceppi  meglio  rispondenti  al  suo  scopo.  Gli 
è  ciò  che  i  più  zelanti  vanno  ora  facendo  e  con  molta  sollecitudine. 

Le  uve  bianche,  che  abbondano  in  certe  località,  dovranno  forse 
essere  in  gran  parte  abbandonate  e  solo  faremmo  una  eccezione  per 
quelle  scelte,  destinate  alla  fabbricazione  di  vini  speciali,  già  rinomati. 

Le  uve  rosse  aromatiche  a  lor  volta  debbono  quasi  tutte  scom- 
parire; alcune  danno  vini  che  godono  d'un  certo  credito  e  che  hanno 
una  piccola  clientela,  massime  in  paese;  ma  nessuno  certo  oserebbe 
sostenere  che  la  loro  coltivazione  abbia  un  avvenire  commerciale. 
Il  novantanove  per  cento  dei  consumatori  italiani,  e  tutti  poi  i  con- 
sumatori francesi,  di  vini  rossi  da  pasto  profumati  all'  aleatico,  alla 
malvasia,,  al  brachetto  ecc.  non  ne  vogliono  sapere  in  modo  asso- 
luto; quindi  quella  produzione  sarà  sempre  circoscritta  e  Y  esporta- 
zione si  limiterà  a  poche  bottiglie  preparate  con  molte  cure,  perchè 
racchiudenti  vini  di  lusso  aromatici;  e  sin  qui  nulla  può  trovarsi  a 
ridire.  Ma  questi  vini,  ripetiamolo  pure,  non  arricchiranno  mai  la 
grande  massa  dei  produttori,  e  ciò  ci  pare  incontestabile. 

Riassumendo  quindi,  il  viticultare  deve  dare  la  preferenza  a  quei 
vitigni,  i  quali  o  producono  uve  atte  alla  fabbricazione  di  vini  rossi 
da  pasto,  di  alcoolicità  conveniente  e  di  gusto  franco,  senza  aromi 
speciali  all'infuori  della  fragranza  che  possono  acquistare  invecchiando; 

—  oppure  vini  di  molto  corpo  e  colore,  atti  ai  tagli,  cioè  a  quei 
miscugli  che  sono  destinati  a  rendere  bevibili  i  vini  leggeri,  quali 
producono  alcune  terre  italiane  e  molte  francesi. 

Senza  voler  dettare,  a  questo  delicato  proposito  dei  vitigni,  regole 
fisse,  diremo  che  nell'Alta  e  Media  Italia  si  trovano  più  a  loro  agio 
quelli  atti  a  dar  vini  rossi  da  pasto,  comuni  e  scelti;  mentre  l'Italia 
Meridionale  conviene  di  più  ai  vini  da  concia.  Però  anche  nell'Italia 
Superiore  si  producono  qua  e  là  buoni  vini  da  taglio,  come  nella 
Inferiore  si  producono,  nei  luoghi  elevati,  ottimi  vini  da  pasto.  Il  vi- 
ticultare adunque  si  regoli  a  seconda  delie  speciali  condizioni  di  ele- 
vazione, di  clima  e  di  suolo  in  cui  si  trovano  i  suoi  vigneti. 

Riguardo    all'  impianto   del  vigneto  con   vitigni  forestieri,    dob- 


422  CAPITOLO  X 

biamo  notare  due  cose  di  non  piccola  importanza;  la  prima  si  è  che 
non  sempre  queste  importazioni  di  varietà  d'altri  paesi  riescono  bene, 
specialmente  per  le  differenze  di  clima  e  di  suolo,  onde  spesso  si 
ottengono  prodotti  poco  pregevoli  (1):  la  seconda,  che  nelle  attuali 
condizioni  dell'invasione  filìosserica  in  Europa,  è  prudenza  astenersi 
completamente  dall'acquistare  barbatelle  e  talee  fuori  di  paese;  non 
bisogna  scordare  che  se  la  fillossera  è  penetrata  in  Italia,  in  Ger- 
mania, in  Austria  ed  in  altri  paesi,  ciò  è  avvenuto  mercè  la  intro- 
duzione di  vitigni  provenienti  da  regioni  fìllosserate.  Ripetiamo  quindi: 
che  ognuno  si  faccia  da  sé  il  suo  vivaio,  propagando  quelle  varietà 
locali  che  sono  più  ricche  di  pregi,  e  che  non  mancano  si  può  dire 
in  nessuna  provincia  italiana.  —  Ma  qualora  non  fosse  proprio  pos- 
sibile attenersi  a  vigneti  del  luogo  e  si  fosse  costretti  ad  importare 
nuove  varietà  per  migliorare  la  produzione  vinicola,  si  abbia  almeno 
molta  oculatezza  nell'acquisto  di  tali  varietà. 

In  quanto  ai  nomi  dei  vitigni  più  convenienti,  chi  legge  ci  con- 
cederà che  è  cosa  più  che  ardua  lo  indicarli  qui  in  termini  assoluti; 
si  debbono  ancora  fare  al  riguardo  molte  esperienze  nei  vigneti  prima 
di  poter  giungere  a  codesto.  Però  non  crediamo  di  dare  un  cattivo  con- 
siglio invitando  i  viticultori  a  seguire  —  dove  è  possibile  —  1'  e- 
sempio  dei  migliori  coltivatori,  i  quali  già  si  sono  posti  sulla  buona 
via,  e  che  fortunatamente  non  mancano  in  ogni  terra  italiana.  Un 
po'  d'esperienza  su  cui  basarci  ce  l'abbiamo  quindi. 

E  per  esempio  per  l'Alta  Italia  —  e  forse  per  tutta  l'Italia  —  si 
trova  molto  conveniente  di  diffondere  la  coltivazione  del  Barbera, 
che  dà  in  copia  eccellenti  vini  commerciabili,  ricercati  all'  interno  e 
graditi  anche  ai  Francesi.  Nel  Mezzodì  ■ —  e  massime  nelle  Puglie  — 
molti  si  trovano  contenti  dell'  impianto  di  nuovi  vigneti  d'  uva  di 
Troia  e  Somarello  nero  (o  Mondonico),  ottimi  pei  vini  da  taglio. 
Nella  provincia  di  Bari,  per  esempio,  in  certi  comuni  vitiferi  dove 
sonovi  vigneti  con  35  o  40  varietà,  le  quali  danno  cattivi  vini,  si 
vanno  formando  nuovi  vigneti  con  le  dette  uve,  e  già  varii  viticultori 
ne  ricavano  ottimi  vini,  che  parecchi  negozianti  francesi  contrattano 
annualmente.  Ed  anche  in  Sicilia  vi  sono  buoni  esempii,  sia  per  ciò 
che  ha  tratto  ai  vini  da  pasto  (vini  di  montagna),  come  pei  vini 
da  concia  {Terre forti,  ecc.). 


(1)  Ad  esempio  noi  stessi  col  rinomato  Cabernet  di  Bordeaux  non  abbiamo  mai 
potuto  ottenere  un  vino  superiore. 


FORMAZIONE  DEL  VIGNETO  423 

La  scelta  del  vitigno  non  pare  adunque  una  difficoltà  insormon- 
tabile; bisogna  quindi  accingersi  tosto  all'  opera,  perchè  ogni  anno 
che  passa  è  un  bel  lucro  di  meno,  o  fors'  anche  una  perdita  per  il 
viticultore. 

Al  capitolo  XXVI  (Ampelog rafia)  diremo  di  alcuni  fra  i  princi- 
pali vitigni,  i  quali  converrebbe  specialmente  di  diffondere  in   Italia. 


CAPITOLO  XI 


Distanze  delle  viti 


1.  Cinque  fattori  che  debbono  regolare  le  distanze  delle  viti  —  §  2.  Distanze 
nei  paesi  meridionali,  centrali  e  settentrionali  d1  Italia  —  §  3.  Le  grandi  di- 
stanze fra  le  viti  e  la  consociazione  con  altre  piante  —  §  4.  Dati  numerici  — 
§  5.  Appendice.  Le  piccole  distanze  tra  le  viti  e  l'invasione  fillosserica. 


§  1 .  Cinque  fattori  che  debbono  regolare  le  distanze  delle 
viti.  —  Abbiamo  serbato  allo  studio  delle  distanze  delle  viti  uno 
speciale  capitolo,  perchè  da  esse  dipendono  sia  la  maggiore  o  minore 
fruttificazione,  sia  la  longevità  delle  ceppaie;  ed  è  quanto  apparirà 
chiaramente  dalle  considerazioni  che  seguono. 

Già  sappiamo,  dietro  lo  studio  che  abbiamo  fatto  della  fisiologia 
della  vite,  che  se  la  pianta  non  può  costituirsi  un  ampio  e  robusto 
sistema  radicale  deperisce  prontamente  e  nel  breve  periodo  della  sua 
esistenza  dà  meschini  prodotti;  or  bene  l'ampiezza  e  la  robustezza  del- 
l'apparato assorbente  sono  proporzionali  alla  fertilità  del  terreno  in  cui 
esso  vive  e  si  svolge.  Ma  è  evidente  che  quando  il  terreno  è  molto 
fertile  o  riccamente  concimato  può  alimentare  un  numero  maggiore 
di  piante  che  non  quando  è  arido  e  scarsamente  sovvenuto  di  in- 
grassi; ed  ecco  che  in  conseguenza  di  ciò  debbono  variare  le  di- 
stanze delle  viti  e  dei  filari. 

Abbiamo  pure  visto,  studiando  la  fisiologia  della  vite,  che  questa 
pianta  non  può  maturare  i  suoi  frutti  né  vegetare  normalmente 
senza  una  adeguata  quantità  di  umido;  ravvicinando  molto  le  cep- 
paie diminuisce  la  quantità  d'umido  che  può  trovarsi   a  disposizione 


DISTANZE  DELLE  VITI  425 


d'ogni  singola  pianta,  ed  ecco  che  anche  il  clima  deve  influire  a  mo- 
dificare le  distanze  delle  viti. 

Infine,  se  il  viticultore  non  pone  mente  ai  diversi  fattori  che  re- 
golano la  maggiore  o  minor  distanza  fra  le  viti,  corre  il  rischio 
di  raccogliere  pochi  frutti,  anche  con  intermittenza  nella  fruttifica- 
zione, e  di  avere  il  suo  vigneto  spossato  e  quasi  vecchio  a  trentanni. 

E  questi  fattori  sono  cinque:  il  clima,  il  suolo,  il  sistema  di 
potatura,  il  metodo  di  coltura  e  la  varietà  del  vitigno. 

Il  clima  ha  una  influenza  che  si  può  ben  dire  maggiore  di  quella 
dello  stesso  suolo;  nei  climi  sotto  i  quali  la  vite  cresce  rigogliosa 
dall'aprile  all'ottobre,  se  le  ceppaie  sono  molto  vicine  le  une  alle 
altre,  si  ha  rigoglio  e  quasi  diremmo  pletora,  ma  non  vera  fecondità 
(pag.  202)  ond'è  che  i  frutti  sono  scarsi.  Inoltre  se  il  clima  è  caldo 
la  vite  si  estenua  facilmente,  per  difetto  d'una  conveniente  quantità 
d'acqua,  e  questo  accade  in  ispecie  nell'anno  in  cui  porta  molta  uva; 
l'anno  susseguente  le  piante  incominciano  a  deperire.  Si  ha  intanto 
una  vera  intermittenza  nella  fruttificazione  che  è  facile  a  spiegarsi: 
infatti  se  l'anno  trascorre  fresco  d'estate  e  la  vite  non  ha  molta 
uva,  le  gemme  ascellari  crescono  bene,  sono  bene  nutrite  e  1'  anno 
dopo  danno  frutti;  ma  se  in  questo  secondo  anno  il  tempo  corre 
molto  caldo  ed  asciutto,  allora  (siccome  la  pianta  porta  molta  uva) 
gli  occhi  ascellari  sono  assai  meschinamente  nutriti,  e  di  certo  l'anno 
dopo  danno  assai  poca  uva,  o  non  ne  danno,  cosa  che  noi  osser- 
vammo ripetute  volte,  possedendo  viti  nei  dintorni  di  Ajaccio.  Questa 
intermittenza  nella  fruttificazione  merita  attento  esame,  perchè  da 
essa  si  può  trarre  qualche  utile  precetto.  Oltre  a  ciò  quelle  viti, 
quando  hanno  molta  uva,  si  esauriscono,  appunto  per  soddisfare 
alle  esigenze  del  frutto;  d'altra  parte  le  piante  sono  allora  meschine 
e  soffrono  molto  i  danni  —  che  si  possono  dire  annuali  —  del  secco. 
Tutto  ciò  cagiona  nei  detti  vigneti  un  invecchiamento  precoce  del 
ceppo:  tant'è  vero  che  ogni  12  anni  circa  si  è  costretti  a  rifare 
quasi  del  tutto  il  piantamento  mercè  la  propagginazione.  Il  prodotto 
medio  annuale  non  oltrepassa  i  20  ettolitri  ad  ettare,  il  che  è  assai 
poco. 

Il  suolo,  come  già  abbiamo  avvertito,  ha  pure  la  sua  parte  d'in- 
fluenza sulle  distanze.  Noi  non  possiamo  ammettere,  con  alcuni  au- 
tori, che  nelle  terre  ingrate  e  magre  si  debba  piantare  un  maggior 
numero  di  viti.  Quivi  invece  noi  pensiamo,  e  lo  mettiamo  in  pratica, 
che  se  ne  debbano  coltivare  di  meno.  Per  esempio,  se  in  terreni  buoni 


426  CAPITOLO    XI 


di  regione  calda,  possiamo  avere  6,750  piante  per  ettare  (10  mila 
metri  quadrati),  ponendo  le  piante  a  0,98  e  le  file  a  1,50,  in  ter- 
reni magri  basterebbero  3,795  piante,  cioè  i  ceppi  a  0,60  e  le  file 
a  metri  4,25.  Nel  primo  caso  supponendo  che  le  radici  scendano  a 
mezzo  metro  di  profondità,  ogni  ceppo  avrebbe  circa  tre  quarti  di 
metro  cubo  di  terra  a  sua  disposizione;  nel  secondo  caso,  essendo 
il  suolo  ingrato,  ne  avrebbe  di  più,  cioè  un  metro  ed  un  quarto. 
E  ci  pare  logico  che  quando  il  suolo  è  magro,  ogni  ceppo  debba  a- 
verne  a  sua  disposizione  un  buon  metro  cubo,  cioè  una  maggior 
quantità.  Se  così  non  è,  accade  che  le  piante,  essendo  fìtte  ed  es- 
sendo mal  nutrite,  crescono  molto  mingherline,  soffrono  assai  i  danni 
o  del  secco  o  dell'umido  (secondo  i  climi)  ed  invecchiano  presto, 
oltre  a  dare  durante  la  loro  esistenza  poca  uva.  Codesto  lo  sanno 
benissimo  coloro  che,  nell'Alta  Italia,  vollero  piantare  viti  secondo  il 
vero  sistema  Guyot,  cioè  ad  un  metro  in  tutti  i  sensi,  avendo  cosi 
ben  diecimila  piante  ad  ettare;  molti  furono  costretti  a  diradare  co- 
testi piantamenti  che,  col  nostro  clima  e  col  nostro  suolo,  sono  irra- 
zionali (1).  Adunque  la  vite,  per  essere  longeva  e  per  produrre 
abbondantemente,  vuole  essere  tanto  meno  fitta  quanto  più  è 
sterile  il  terreno;  il  piantamento  a  brevi  distanze  richiede  un 
terreno  fertile,  oppure  copiose  concimazioni,  e  molto  lavoro  da 
parte  dell'uomo,  non  potendosi  adoperare  gli  strumenti  trascinati 
dagli  animali. 

Il  sistema  di  potatura  esercita  pure  la  sua  azione  sulle  distanze, 
e  già  ne  abbiamo  accennate  di  passaggio  le  ragioni.  L'osservazione 
di  quanto  accade  nei  vigneti  italiani,  da  noi  visitati,  ci  insegna  che 
quando  si  potano  le  viti  a  tralcio  lungo  e  non  a  speroni  ed  il  pian- 
tamento è  fìtto,  le  viti  stesse  deperiscono  prontamente,  tanto  più 
presto  quanto  più  è  magro  il  terreno  e  scarsamente  concimato.  Nei 
nostri  paesi  meridionali  assai  caldi,  colà  dove  le  viti  sono  potate 
corte  e  coltivate  con  cura,  esse  vi  resistono  bene  ai  calori  estivi  e 
non  vi  invecchiano  tanto  precocemente. 

Il  metodo  di  coltura  deve  eziandìo  tenersi  a  calcolo;  infatti  è 
evidente  che  le  viti  molto  fìtte  richieggono   la  coltura  a  braccia,  la 


(1)  Nel  comune  di  San  Giorgio  (Monferrato)  esiste  una  bella  vigna  alla  Guyot, 
ma  a  file  distanti  4  metri,  per  cui  in  un  ettare  invece  di  10,000  piante  ve  ne 
sono  soltanto  4105.  La  differenza  è  rilevante,  e  questa  vigna  produce  circa  100 
ettolitri  di  vino  allattare,  benché  sia  raramente  concimata. 


DISTANZE  DELLE  VITI  427 


sola  possibile  d'altronde;  richieggono  inoltre  cimature  e  scacchiature 
accurate,  per  equilibrare  i  rami  colle  radici,  zappature  frequenti  e 
concimazioni  razionali.  Se  adunque  il  viticultore  può  disporre  di 
molta  mano  d'opera  ed  è  intelligente,  cioè  conosce  bene  le  pratiche 
viticole  razionali,  avvicini  pure  le  piante,  ma  però,  come  diremo 
meglio  fra  poco,  a  non  più  di  lm,50  in  tutti  i  sensi:  —  se  invece  è 
povero  e  poco  esperto,  e  vuole  lavorare  il  suo  vigneto  col  concorso 
degli  animali,  tenga  più  distanti  le  file  nonché  le    ceppale  nei  filari. 

La  varietà  del  vitigno  deve  infine  tenersi  essa  pure  in  conto, 
perchè  è  noto  che  vi  sono  vitigni  i  quali  amano  la  potatura  lunga, 
altri  la  potatura  corta;  ond'  è  che  converrà,  a  seconda  dei  casi,  la- 
sciare maggiori  o  minori  distanze,  per  assecondare  la  varietà  che  si 
coltiva  nella  sua  tendenza  naturale;  cosa  questa  di  non  poca  impor- 
tanza per  l'abbondanza  del  prodotto  e  la  longevità  della  pianta. 

Premesse  queste  considerazioni  d' ordine  generale,  scendiamo  .ai 
particolari. 

§  2.  Distanze  nei  paesi  meridionali,  centrali  e  settentrio- 
nali d' Italia.  —  Le  piccole  distanze  sono  generalmente  parlando 
assai  poco  convenienti  ai  paesi  meridionali,  specialmente  nei  locali 
aridi  ed  esposti  a  Sud.  Eppure  è  stato  detto  che  se  il  clima  è  caldo 
e  secco,  non  si  sbaglia  avvicinando  i  ceppi,  perchè  i  tralci  delle  viti 
ravvicinate  difendono  il  terreno  dai  venti  e  dall'eccessivo  ardore  so- 
lare; perciò  il  terreno  si  conserva  più  fresco,  cioè  meno  facilmente 
perde  quel  grado  di  umidità  che  è  necessario  per  mantenere  la  ve- 
getazione. Eppure  in  pratica  le  cose  non  stanno  così;  quel  vigneto, 
in  clima  caldo  e  se  il  terreno  è  discreto,  mette  con  straordinario 
rigoglio  nei  primi  7  od  8  anni;  però  avendo  a  sua  disposizione  un 
piccolo  cubo  di  terra,  non  solo  non  ha  sufficiente  nutrimento,  ma 
soffre  per  mancanza  d'  umido;  poiché,  quantunque  il  terreno  perda 
direttamente  poco  umido,  essendo  coperto,  pure  per  1'  evaporazione 
della  rigogliosa  pianta  ne  perde  grandi  quantità.  Concludendo  diremo, 
che  più  è  caldo  il  clima  e  magro  il  suolo,  tanto  maggiore  deve 
essere  la  distanza  fra  le  ceppaie  (1). 

Potremmo  citare  numerosissimi  esempii  a  conferma  di  questa  tesi: 
ci  limiteremo   ai  più   salienti.  Già   abbiamo   accennato  ai    vigneti  di 


(1)  Si  noti,  per  esempio,  che  nelle  regioni  calde  anche  il   frumento  si   semina 
molto  meno  fitto  che  non  nel  Nord  (100  litri  circa  ad  ettare). 


428  CAPITOLO    XI 


Ajaccio,  nei  quali  le  viti  sono  poste  ad  1  metro  in  tutti  i  sensi  in 
clima  molto  caldo  e  secco;  or  bene  la  vite  vi  invecchia  precocissi- 
mamente ed  ogni  anno  circa  un  quinto  delle  piante  si  riposa,  cioè 
non  reca  uva!  —  Il  sig.  Attilo  Sani  ci  scriveva  or  sono  alcuni  anni, 
che  le  sue  viti  nell'Agro  Romano,  poste  a  file  distanti  l,o,30  ed  a  0,45 
fra  pianta  e  pianta,  in  terre  ben  soleggiate,  magre  e  sciolte,  non  du- 
rano più  di  quindici  anni,  ed  1[3  ogni  anno  è  improduttivo. 

Il  valentissimo  viticultore  sig.  Marès,  tanto  stimato  nella  Francia 
meridionale,  studiando  il  perchè  in  questa  regione  le  viti  si  piantino  a 
non  meno  di  2  metri  a  2m,50  in  tutti  i  sensi,  così  da  avere  non  più 
di  4000  a  5000  piante  per  ettare,  dice  (1)  che  l'esperienza  da  tempi 
remotissimi  ha  dimostrato  come  avvicinando  le  ceppaie  per  esempio  ad 
lm,25,  non  resistevano  abbastanza  alla  siccità.  «  Allora  esse  non 
possono  più  nutrire  le  loro  uve  e  queste  si  disseccano,  si  scottano  e 
si  sviluppano  male;  il  vino  risulta  in  piccola  quantità  e  di  qualità  in- 
feriore; invece  allorquando  le  ceppaie  sono  più  distanti,  la  massa 
d'acqua  che  possono  assorbire  dal  suolo  per  sovvenire  alla  evapo- 
razione delle  foglie  e  dei  frutti  essendo  proporzionatamente  più  grande 
per  ognuna,  esse  soffrono  meno.  Un  soverchio  ravvicinamento  delle 
piante  presenta  inoltre  l' inconveniente  di  non  permettere  altro  che 
la  cultura  a  braccia,  perchè  i  vitigni  della  regione  sono  molto  vi- 
gorosi e  finiscono  per  formare  ceppaie  rigogliose  i  cui  rami  occu- 
pano almeno  un  cerchio  di  0m,50  di  diametro;  non  resterebbe  quindi 
fra  le  ceppaie  che  uno  spazio  di  0m,75  per  la  manovra  del  cavallo 
e  dell'aratro,  ciò  che  è  assolutamente  insufficiente.  »  E  giustamente 
soggiunge  il  Marès  che  «  quando  1'  annata  è  abbastanza  piovosa, 
perchè  la  siccità  non  si  faccia  sentire,  ciò  che  però  è  raro,  la  vege- 
tazione è  tanto  forte  che  i  frutti  si  sviluppano  male;  ingrossano  poco 
e  maturano  a  stento.  » 

Non  vuole  però,  lo  stesso  viticultore,  che  si  esageri  nelle  distanze: 
—  «  un  spazio  troppo  grande  fra  le  viti  ha  V  inconveniente  di  di- 
minuire considerevolmente  i  prodotti;  fino  ad  un  certo  limite  questi 
sembrano  proporzionali  al  numero  delle  ceppaie,  e  questo  limite  è 
precisamente  quello  di  4000  a  5000  piante  per  ettare.  Nei  terreni 
buoni  una  distanza  troppo  grande  favorisce  lo  sviluppo  del  legno  e 
del  fogliame  a  detrimento  dei  frutti;  accade  allora  che  la  maturità 
dell'uva  è  ritardata  e  la  qualità  mediocre:  certo  però  questo  incon- 
veniente non  è  a  temersi  là  dove  i  terreni  sono  meno  ricchi.  » 


(1)  Op.  cit.  pag.  308. 


DISTANZE  DELLE  VITI  429 


Tuttavia  in  varii  locali  della  Sicilia,  degli  Abruzzi,  nelle  piane  Pu- 
gliesi e  dell'  Italia  meridionale  in  genere,  noi  troviamo  le  viti  fitte, 
non  ostante  il  clima  caldo;  non  è  meno  vero  però  che  queste  viti 
hanno  una  vita  media  di  soli  30  anni,  ed  abbiamo  anzi  accennato  a 
pag.  209  e  210  a  vigneti  dei  nostri  paesi  del  Sud  che  sono  esausti 
a  20  anni  appunto  perchè  le  ceppaie  vi  sono  soverchiamente  addos- 
sate, se  così  possiamo  esprimerci,  le  une  alle  altre.  Ora  per  noi  la 
vita  media  d'un  vigneto  dovrebbe  essere  di  50  a  60  anni  almeno, 
anche  nei  detti  paesi. 

Non  vogliamo  però  scordare  di  dire  che,  nelle  accennate  regioni  ita- 
liane, si  hanno  soventi  volte  terreni  molto  permeabili,  spesso  vulcanici, 
nei  quali  le  radici  si  spingono  anche  a  2  e  3  metri  di  profondità;  per  la 
.qual  cosa  se  loro  difetta  il  terreno  in  quanto  a  superfìcie,  hanno  un 
adequato  compenso  nella  maggior  profondità,  ove  possono  trovare 
quella  quantità  d'umido  e  di  sostanze  nutrienti  che  loro  abbisogna; 
è  evidente  che  in  queste  condizioni  le  piante,  resistendo  meglio  agli 
ardori  estivi,  invecchiano  meno  precocemente. 

Infine  dobbiamo  ancora  notare,  e  lo  diciamo  ad  onore  di  quei  vi- 
ticoltori, che  la  vite  è  da  essi  coltivata  assai  bene,  generalmente  par- 
lando; la  potatura  secca  è  corta,  la  potatura  verde  è  praticata  con 
giusta  misura,  il  terreno  è  lavorato  e  concimato  come  si  conviene, 
onde  le  ceppaie,  così  trattate,  non  si  estenuano  tanto  presto.  Anche 
Guyot,  in  simili  condizioni  di  cultura,  consiglia  per  la  regione  me- 
ridionale di  ravvicinare  i  ceppi,  ponendoli  in  tutti  i  sensi  a  lm,20. 

Nelle  regioni  centrali,  ed  in  genere  in  quelle  a  clima  mite,  si 
potranno  ravvicinare  alquanto  i  ceppi,  sempre  tenendo  a  calcolo  i 
cinque  fattori  di  cui  abbiamo  parlato  or'  ora.  Sono  specialmente  in 
questa  condizione  i  vigneti  della  Toscana,  dell'Umbria,  delle  Marche, 
degli  alti  colli  degli  Apennini,  la  Liguria  e  via  dicendo;  tuttavia  non 
converrà  esagerare  in  cotale  ravvicinamento,  e  già  abbiamo  accen- 
nato a  pag.  210  come  in  Toscana  le  viti  fitte  non  vi  durino  oltre 
ai  20  anni,  siccome  ci  attestava  il  signor  Severiano  Ardinghi  da 
Siena  (1),  e  che  in  Liguria  si  debbono  rinnovare  i  vigneti  ogni  15  anni 
circa,  fatte  le  debite  eccezioni  per  quelli  dei  viticultori  intelligenti. 

Nelle  regioni  più  settentrionali,  come  nell'Alta  Italia,  se  si  possono 


(1)  Il  sig.  Ardinghi  non  si  trova  troppo  contento  delle  sue  antiche  viti  a  m.  2 
da  fila  a  fila  e  1,50  da  pianta  a  pianta;  le  nuove  piantagioni  egli  le  fa  a  3  metri 
tra  fila  e  fila  e  1,30  fra  le  piante. 


430  CAPITOLO  XI 


adottare  piccole  distanze  in  circostanze  speciali,  è  però  vero  che  ge- 
neralmente non  si  deve  abusarne;  ne  possono  far  fede  i  non  pochi 
viticultori  che,  presi  da  eccessivo  entusiasmo  pel  sistema  Guyot 
puro,  piantarono  vigneti  ad  1  metro  fra  le  piante  in  tutti  i  sensi, 
così  da  avere  ben  10  mila  ceppaie  ad  ettare.  Molti  ne  conosciamo 
che  dovettero  svellere  metà  delle  ceppaie  per  raddoppiare  il  cubo  di 
terra  a  disposizione  d'ogni  pianta,  non  volendo  rassegnarsi  a  mediocri 
raccolti  ed  a  gravi  spese  di  coltura  a  braccia.  Diremo,  studiando  i 
varii  sistemi  di  cultura,  delle  eccezioni  che  vi  si  riscontrano  e  del 
perchè  vi  siano;  ma  in  generale  sta  fermo  quanto  qui  diciamo. 

I  vigneti  a  piantagione  molto  fitta  richiedono  frequenti  concima- 
zioni per  sopperire  ai  bisogni  di  tante  piante,  e  questo,  coni'  è  na- 
turale, specialmente  nelle  terre  sfruttate  o  magre  per  natura:  con- 
viene inoltre  lavorarle  di  frequente  per  impedire  un  soverchio  asciu- 
gamento del  terreno,  perchè  è  noto  che  il  terreno  smosso  perde 
meno  facilmente  l'umido  che  contiene.  Inoltre  le  piante  non  possono 
mai,  in  simili  piantamenti  farsi  molto  robuste,  e  ciò  torna  a  scapito 
del  prodotto. 

Ove  il  terreno  fosse  molto  ferace,  si  avrebbe,  in  simili  condi- 
zioni di  piantamento,  una  soverchia  vegetazione  fogliacea  che  ingom- 
brerebbe tutto  il  vigneto  rendendolo  quasi  impraticabile  e  certo  poco 
fruttifero;  sarebbero  quindi  indispensabili  non  solo  le  scacchiature  ma 
le  cimature,  onde  altre  spese  di  mano  d'  opera.  L'  esperienza  ci  ha 
dimostrato  che  in  queste  buone  condizioni  di  terreno  si  debbono  al- 
lontanare i  filari  a  circa  3  m.  come  noi  facciamo  sui  colli  di  Ca- 
salmonferrato,  e  potare  la  vite  più  ricca;  con  questo  sistema  si  ha 
più  uva  e  la  vite  è  più  longeva  (pag.  180). 

§  3.  Le  grandi  distanze  fra  le  viti  e  la  consociazione 
con  altre  piante.  —  in  molti  locali  dell'Italia  superiore  le  distanze 
fra  i  filari  delle  viti  sono  superiori  ai  10  metri,  e  noi  stessi  ab- 
biamo visto  talvolta  interfìlari  di  20  metri,  come  accade  usual- 
mente nelle  così  dette  alberate  (v.  capitolo  XXIV).  In  questi  enormi 
interfìlari  si  coltivano  il  frumento,  l'avana,  la  veccia,  i  fagioli,  i  ceci, 
le  patate  e  via  dicendo:  diremo  a  suo  luogo  (cap.  XXIII)  fino  a  qual 
punto  sia  tollerabile  simile  consociazione  di  culture  colla  vite.  Qui 
vogliamo  solo  far  osservare  che,  nonostante  queste  grandi  distanze, 
se  non  si  provvede  il  vigneto  del  necessario  concime,  la  vigna  oltre 
a  produrre  poco    ed  a  divenire    una  coltivazione    di  piccolo  reddito, 


DISTANZE  DELLE  VITI  431 

(anzi  passiva  là  dove  la  mano  d'opera  è  cara)  intristisce  relativamente 
presto,  perchè  ogni  anno  viene  a  soffrire  a  cagione  della  vicinanza 
di  dette  piante. 

Che  le  piante  erbose  coltivate  neh1'  interfilare  siano  molto  nocive 
alla  vite,  è  noto  a  tutti  coloro  che  si  sono  occupati  con  amore  e 
scienza  della  coltura  della  vite  stessa;  qualcuno  vi  ha  che  non  lo  ammette, 
ma  ciò  è  la  conseguenza  del  non  saper  osservare  bene  i  fatti  che  si 
verificano  anche  quotidianamente  sotto  ai  proprii  occhi.  Il  Dr.  Guyot, 
della  cui  competenza  niuno  vi  ha  che  possa  dubitare,  dalle  sue  nu- 
merosissime escursioni  a  traverso  tutti  quanti  i  dipartimenti  vitiferi 
francesi,  ha  tratto  la  conclusione  che  «  la  vicinanza  delle  cereali  e 
dei  foraggi  verdi  fa  abortire  i  fiori  della  vite,  mentre  il  tappeto  di 
verdura  e  le  radici. arrecano  un  danno  incredibile  al  sistema  radicale 
della  vite;  questa  pianta  vuole  una  terra  che  sia  nuda  alla  super- 
ficie (1)  »  —  «  L'  osservazione  mi  ha  dimostrato  dappertutto  che 
le  erbe  le  quali  ricoprono  il  suolo  in  cui  la  vite  distende  le  sue  ra- 
dici, le  cagionano  un  danno  che  nessun  concime  può  compensare  » 
ed  accennando  alle  vignes  en  haies  a  filari  distanti  sino  ad  8  metri 
con  colture  di  cereali  e  foraggi  nell'  interfilare,  quali  usansi  nella 
Dordogna,  soggiunge  che  «  se  si  avvicinassero  i  ceppi  a  lm,30  o 
lm,50  e  le  file  a  lm,50  o  2m ,  si  quadruplicherebbe  la  produzione  dei 
frutti,  la  produzione  del  legno  e  la  durata  della  vite,  la  quale  in- 
vece di  venticinque  anni  vi  durerebbe  cento,  e  sempre  fertile  (2)  ». 

Coloro  quindi  i  quali,  nonostante  tutto  ciò,  credono  di  dover  per- 
sistere a  tenere  i  vigneti  con  grandi  interfìlari  e  con  colture  intercalari, 
provvedano  coi  concimi  e  coi  lavori  a  compensare  almeno  in  parte, 
se  possibile,  le  piante  del  danno  che  queste  colture  stesse  loro  ar- 
recano. 

§  4.  Dati  numerici.  —  Dopo  tutte  queste  considerazioni  d'or- 
dine generale  stimiamo  utile  venire  a  qualche  dato  numerico  sulle 
distanze  delle  viti  ed  il  numero  delle  piante  ad  ettare,  a  seconda  del 
predominio  di  uno  o  dell'altro  dei  fattori  accennati  al  §  1.  —  Av- 
vertiamo però  che  non  intendiamo  di  dare  ai  numeri  che  seguono  un 
valore  assoluto;  essi  possono  bensì  servire  di  norma  al  viticultore  dub- 
bioso nello  stabilire  le  distanze  de'  suoi  piantamenti,  ma  egli  dovrà  però 


(1)  Étude  des  vignobles  de  Franco  toni.  II,  714, 

(2)  Op.  cit.  toin.  I,  51(J. 


432 


CAPITOLO   XI 


tener  calcolo  eziandio  del  sistema  di  potatura  che  intende  di  adottare 
e  delle  possibilità  o  non  di  lavorare  il  vigneto  cogli  animali,  del  che 
noi  non  abbiamo  tenuto  calcolo  per  amor  di  brevità.  Per  la  stessa 
ragione  abbiamo  limitato  i  nostri  calcoli  all'  Italia  settentrionale 
ed  alla  meridionale;  in  quanto  ai  paesi  centrali,  gioverà  prendere 
una  media  dei  dati  che  seguono. 


l.°  ITALIA  SETTENTRIONALE. 
Terreni  fertili. 


Modo  di  coltivazione 


Vigneti  ben  coltivati   . 


Id.  mediocremente  coltiv. 


Id.  male  coltivati 


Distanza  tra  le  file 


metri 


1,25 


oppure  m.   1,75 


metri 


1,75 
99? 


oppure  m.  z,zo 

»  »    2,75 

metri  2,25 

oppure  m.  2,75 

»  »    3,25 


Distanza 
nelle  file 


0,88 
0,03 
0,49 

0,84 
0,65 
0,53 

0,98 
0,80 
0,65 


Numero 
di 

piante  per  ettare 


9000 


6750 


4500 


Terreni  di  mediocre  fertilità. 


Vigneti  ben  coltivati   .  . 


Id.  mediocremente  coltiv. 


Id.  male  coltivati 


metri 


2,75 


oppure  m.  3,25 

»  »    3,75 

metri  3,25 

oppure  m.  3,75 

»  »    4,25 

metri  3,75 

oppure  m.  4,25 

»  »    4,75 


0,53 
0,44 

0,40 

0,59 
0,53 
0,45 

0,80 
0,68 

0,62 


6750 


5060 


3375 


Terreni  di  cattiva  qualità. 


V ignoti   ben   coltivati    .   . 


Id.  mediocremente  coltiv. 


Id.    male  coltivati    . 


metri 

4,25 

oppure 

ni. 

4,75 

» 

» 

5,25 

metri 

4,75 

oppure 
» 

ni. 

5,25 

5,75 

metri 

5,25 

oppure 

» 

m. 
» 

5,75 
6,25 

0,45 
0,41 

0,37 

0,55 
0,50 
0,45 

0,75 
0,67 
0,63 


5060 


3795 


2530 


DISTANZA  DELLE  VITI 


433 


2.°  ITALIA  MERIDIONALE  (in  locali  molto  caldi  e  aridi). 
Terreni  fertili. 


Vigneti  ben  coltivati   .  . 


Id.  mediocremente  coltiv. 


ld.  male  coltivati   .  .  .  . 


Vigneti  ben  coltivati    . 


Id.  mediocremente  coltiv. 


ld.  male  coltivati 


Terreni  di  mediocre  fertilità. 

|  metri  2,25  m. 

.   <  oppure  m.  2,50 
(  »        »    2,75 

l  metri  3  — 

]  oppure  m.  3,25 
(  »         »    3,75 

(  metri  4  — 

.   ]  oppure  m.  4,25 

(  »        »    4,50 

Terreni  di  cattiva  qualità. 

i  metri  4,25  m. 

.    ■  oppure  m.  4,50 
'  »         »    4,75 

i  metri  4,50 

]  oppure  m.  4,75 
'  »        »    5  — - 

i  metri  5,25 

.    ;  oppure  m.  5,50 

'  »         »    5,75 


0,86 
0,79 
0,71 

0,87 
0,80 
0,60 

1  — 

0,90 
0,87 


0,60 
0,58 
0,56 

0,80 
0,75 
0,70 

1  — 

0,96 
0,90 


Modo  di  coltivazione 

Distanza  tra  le  file 

Distanza 
nelle   file 

Numero 
di 

piante  per  ettare 

( 

metri            1,50 

m.     0.98 

Vigneti  ben  coltivati  .  .  . 

oppure  ni.   1,75 
»         »    2  — 

»     0,84 
»     0,74 

6750 
1 

Id.  mediocremente  coltiv. 

( 

metri            1 ,75 

oppure  m.  2  — 

»         »    2,25 

»     1,24 
»     0,99 
»     0,86 

5060 

Id.  male  coltivati - 

metri            2  — 

oppure  m.  2,25 

»         »    2,50 

»     1,49 
»     1,35 
»     1,20 

3375 

5060 


3795 


2530 


3795 


2846 


1897 


§  5.  Appendice.  Le  piccole  distanze  tra  le  viti  e  la  in- 
vasione fìllosserica.  —  Non  vogliamo  chiudere  questo  capitolo  senza 
dire  qualche  cosa  sulla  relazione  che  passa  fra  la  distanza  delle  viti 
e  la  maggiore  o  minore  rapidità  della  invasione  fìllosserica;  ci  pare 
che  di  ciò  debba  pure  tener  calcolo  il  previdente  viticultore,  se  è 
-  O.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura,  29 


434  CAPITOLO   XI 


vero,  come  da  molti  studiosi  si  asserisce,  che  la  fillosseronosi  non  si 
arresterà  tanto  presto  e  che  forse  nessun  paese  potrà  col  tempo  an- 
darne del  tutto  immune. 

È  un  fatto  notorio  che  là  dove  le  viti  sono  molto  vicine  le  une 
alle  altre,  la  fillossera  si  estende  con  spaventevole  facilità;  ne  sono 
una  grande  ed  irrefutabile  prova  i  dipartimenti  francesi  più  danneg- 
giati da  questo  vorace  afide.  Ed  è  naturale;  perchè  in  simili  condi- 
zioni il  vigneto  diventa  un  tessuto  non  interrotto  di  radici,  che  per- 
mette alle  fillossere  di  estendersi  e  moltiplicarsi  con  grande  facilità. 
NeWHérault,  per  esempio,  in  un  solo  anno  —  il  1878  —  la  super- 
ficie invasa,  da  ettari  57  mila  divenne  di  104  mila  gettando  un  grande 
allarme  nell'Europa  viticola;  e  notisi  che  si  trattava  di  vigneti  non 
soltanto  invasi,  ma  a  dirittura  distrutti.  Ma  nell'Hérault  le  viti  sono 
ad  lm,50  in  tutti  i  sensi. 

Anche  le  piccole  invasioni  fillosseriche  italiane  stanno  a  provare 
ciò  che  qui  diciamo.  Facciamo  infatti  un  parallelo  fra  il  circondario 
di  Riesi  —  a  viticoltura  intensiva  —  e  la  zona  lombarda  (Valma- 
drera  e  Ci  vate)  a  viticultura  estensiva  :  troveremo  differenze  degne 
di  rimarco.  Nell'agro  riesino  si  contano  in  media  4500  ceppale  per 
ettare  e  la  macchia  fillosserica  vi  si  dilata  rapidamente  e  continua- 
mente: e  così  mentre  nel  1880  si  avevano  nella  provincia  di  Calta - 
nissetta  23  ettari  infetti,  se  ne  ebbero  43  nel  1881  e  94  nel  1882. 
Invece  in  Lombardia,  ove  fra  i  filari  intercedono  grandi  spazii  di 
terreno  coltivato  a  granturco  o  altro,  mentre  a  Valmadrera  e  Ci  vate 
nel  1879  vi  erano  21  ettari  infetti,  nel  1880  si  contavano,  in  vici- 
nanza  ed  in  dipendenza  di  questi,  sole  5  are;  nel  1881  sole  10  are; 
nel  1882  sole  are  3.  Lo  stesso  accadde  ad  Agrate. 

Ora,  chi  non  vede  che  se  a  Riesi  vi  fossero  non  4000  ma  10  mila 
piante  ad  ettare,  come  nei  già  citati  vigneti  di  Giuliano  va  (Teramo) 
dell'onorando  Senatore  De  Vincenzi,  l'invasione  si  sarebbe  estesa 
con  una  rapidità  anche  maggiore?  In  simili  casi  come  lottare  contro 
l'invasione  stessa?  Né  il  metodo  distruttivo,  nò  il  curativo  sarebbero 
utilmente  applicabili  e  converrebbe  affrettarsi  a  ripiantare  specie  ame- 
ricane resistenti. 

Diciamo  questo  non  già  per  concludere  che  siano  da  adottarsi  gli 
interfilari-campi,  se  così  possiamo  chiamarli,  di  Valmadrera  ed  Agrate; 
tutt' altro  anzi!  Ma  perchè  il  viticultare  rifletta  che  le  vigne  troppo 
fitte  oggi  presentano  un  inconveniente  di  più,  ed  un  grave  inconve- 
niente. 


CAPITOLO  XII 


Concimazione   dei  vigneti. 


§  1.  Si  debbono  concimare  i  vigneti?  —  §  2.  Produzione  del  legno  e  produzione 
del  frutto:  qualità  o  quantità?  —  §  3.  Il  letame  di  stalla  e  le  viti  —  §4,  Gli 
escrementi  umani  e  l'orina  —  §  5.  Il  guano  —  §  6.  La  pollina  —  §  7.  Il 
sangue  e  le  carni  —  §  8.  Lana,  pellami,  corna,  crisalidi,  panelli  ecc.  —  §  9.  I 
soverscii  e  loro  vantaggi  —  §  10.  Utilizzazione  degli  avanzi  delle  viti  — 
§  11.  Giunchi,  alghe,  piante  resinose  ecc.  —  §  \2.  Calce,  gesso,  marna  ecc. 
—  §  13.  Terra  vergine,  terra  bruciata  e  limo  —  §  14.  I  composti  e  loro  grande 
utilità  —  §  15.  I  sali,  i  perfosfati  ed  i  concimi  chimici  —  §  16.  Le  ceneri  — 
§  17.  I  concimi  antisettici  e  loro  valore  —  §  18.  Varii  modi  di  adoperare  i 
concimi  per  le  viti. 


§  1.  Si  debbono  concimare  i  vigneti?  —  Accingendoci  a 
studiare  la  importantissima  quistione  della  concimazione  dei  vigneti, 
ci  facciamo  anzitutto  la  domanda  se  sia  o  non  utile  somministrare 
loro  ingrasso,  e  ciò  perchè  un  antico  adagio  dice  che  la  vite  non 
ha  bisogno  di  concimi;  questa  massima  è  tuttodì  scrupolosamente 
seguita  dalla  maggior  parte  dei  viticultori,  ma  con  loro  danno,  es- 
sendo pochi  i  casi  in  cui  essa  possa  prendersi  alla  lettera.  Infatti  vi 
sono  vigneti  che  non  hanno  realmente  bisogno  di  concime,  o  piut- 
tosto vigneti  i  cui  prodotti  perderebbero  le  preziose  qualità  onde 
vanno  rinomati  qualora  si  volesse  spingerne  la  produzione  a  più  alto 
limite:  con  che  però  non  intendiamo  di  dire  che  non  vi  siano  vigneti 
concimati  i  quali  diano  scelti  vini,  perchè  ci  accadrà  anzi  di  citarne 
parecchi  in  questo  capitolo. 

In  generale  però  si  può  affermare  che,    dato  un   concime  appro- 


436  CAPITOLO  XII 


priato,  nessun  vigneto  vi  ha  che  non  ne  possa  ritrarre  un  reale 
vantaggio  senza  detrimento  alcuno  della  qualità.  E  questo  possiamo 
affermare  oggi,  dietro  i  progressi  della  chimica  agraria,  la  quale  ha 
richiamato  l'attenzione  dei  viticultori  sulla  convenienza  grande  che 
vi  ha  nell'usare  i  concimi  minerali  nei  vigneti. 

Non  è  molto  difficile  dimostrare  che  è  un  errore  grossolano  quello  di 
credere  che  la  vite  non  abbisogna  di  concime;  invero  ciò  equivarrebbe 
a  dire  che  la  vite  nulla  prende  al  terreno,  o  che  i  suoi  frutti,  come 
accade  spesso  dei  suoi  rami  e  delle  sue  foglie,  sono  ridonati  al  terreno 
siccome  avviene  quando  si  sovescia  una  pianta.  L'uva  invece,  e  non 
di  rado  anche  i  rami  e  le  foglie,  sono  esportati  dal  podere,  e  con 
essi  si  sottrae  azoto,  fosforo,  calce  e  potassa  al  terreno.  Né  vale  il 
dire  che  le  pioggie  recano  al  terreno  stesso  ammoniaca,  nonché  po- 
tassa e  calce  sotto  forma  di  solfati;  perchè  1'  analisi  chimica  ha  di- 
mostrato che  si  tratta  di  quantità  assai  piccole,  troppo  piccole  perchè 
si  possa  tenerne  calcolo:  basti  il  dire  che  sovra  1  milione  di  chilo- 
grammi d'acqua  di  pioggia  soli  25  chilogrammi  stanno  a  rappresen- 
tare le  materie  solide  (sali  ammoniacali,  solfati,  cloruro  ecc.):  po- 
niamo pure  che  un  ettare  di  terreno  riceva  con  questo  mezzo  100 
chilogrammi  di  cotali  materie  solubili,  ognuno  intende  però  che  non 
si  può  parlare  di  restituzione  di  fosfati,  potassa,  calce  e  azoto,  se  si 
tien  calcolo  di  quanto  prende  annualmente  al  terreno  un  vigneto  di 
un  ettare  di  superfìcie.  Dei  fosfati,  per  quanto  ne  sappiamo,  nessun 
chimico  ha  mai  trovato  traccie  nelle  acque  piovane,  e  quell'impor- 
tante elemento  che  è  la  potassa  (v.  pag.  226)  vi  è  contenuto  in  pro- 
porzioni troppo  tenui:  infine  secondo  Barrai  un  ettare  di  terreno  a 
Parigi  riceverebbe  annualmente  mediante  le  pioggie  63  chilogrammi 
di  acido  azotico,  15  chilog.  di  ammoniaca,  31  chilog.  di  calce,  9  di 
magnesia  e  13  di  cloro  (1),  vale  a  dire  quantità  assai  piccole  di 
principii  utili  alle  piante. 

La  vite  dal  canto  suo  prende  ogni  anno,  per  la  formazione  dei 
suoi  tralci,  delle  foglie,  dei  grappoli  e  del  mosto,  una  certa  quantità 
di  potassa,  di  calce,  d'acido  fosforico  e  di  magnesia,  come  già  dicevamo 
a  pag.  334,  nonché  di  sostanze  azotate,  accennate  a  pag.  215  stu- 
diando la  chimica  della  vite.  Anche  la  vite  quindi  esaurisce  il  suolo; 
è  però  vero  che  questo   esaurimento  è    lento,  perchè    questa  pianta 


(1)  Nelle  vicinanze  dei  mari  le  actjue  piovane  contengono   relativamente  molto 
cloruro  di  sodio  (sale  marino), 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  437 

potendo  svolgere  un  ampio  sistema  radicale,  massime  nei  terreni 
sciolti  o  scassati,  può  approfittare,  per  la  sua  nutrizione;  di  un  grande 
cubo  di  terra.  Ad  ogni  modo  viene  un  momento  in  cui  1'  aggiunta 
di  appropriato  concime  riesce  assai  vantaggiosa,  ed  è  su  questo  che 
vogliamo  insistere;  i  molti  fatti  che  citeremo  nei  paragrafi  seguenti 
lo  dimostreranno  in  modo  evidente;  del  resto  anche  gli  antichi  am- 
mettevano questo  esaurimento,  e  Teofrasto  infatti  raccomanda  di 
rinnovare  la  terra  alle  radici  delle  viti  almeno  ogni  dieci  anni. 

§.  2.  Produzione  del  legno  e  produzione  del  frutto:  Qua- 
lità o  quantità  ?  —  Abbiamo  già  detto  a  pag.  377  che  il  concime 
pel  vigneto  deve  variare  secondochè  si  tratta  di  favorire  la  produ- 
zione legnosa  o  quella  dell'  uva:  infatti  il  legno  e  le  foglie  conten- 
gono, se  così  possiamo  dire,  molto  azoto  e  poca  potassa,  mentre  il 
frutto  contiene  molta  potassa  e  poco  azoto.  Vuol  dire  adunque  che 
ogniqualvolta  il  viticultore  si  troverà  nel  caso  di  dover  favorire  la 
produzione  della  parte  legnosa  (come  sempre  nei  nuovi  piantamene 
o  trattandosi  di  vigneti  esausti)  dovrà  adoperare  concimi  azotati  sul 
tipo  del  letame  di  stalla  o  dei  superfosfati  ammoniacali;  mentre  vo- 
lendo spingere  la  fruttificazione  si  varrà  preferibilmente  di  ingrassi 
potassici,  sul  tipo  della  cenere  o  dei  superfosfati  misti  a  cloruro  di 
potassa  e  sostanze  calcari.  È  singolare  che  questi  precetti,  che  la  chi- 
mica agraria  ha  sanzionato  da  non  molti  anni,  sono  pur  essi  antichissimi: 
Magone  Cartaginese  e  più  tardi  Columella  (1)  suggerivano  il  le- 
tame misto  alle  vinaccie  nelle  buche  dei  nuovi  piantamenti  per 
«  chiamar  fuori  nuove  barboline  dalle  radici  »,  e  molti  scrittori  an- 
tichi consigliano  la  cenere  per  le  viti  adulte. 

Ma  vi  è  un  limite  nella  somministrazione  di  ingrasso  alla  vite,  che 
non  conviene  oltrepassare,  perchè  allora  la  qualità  sarebbe  così  poco 
pregevole  da  non  compensare  la  spesa  fatta  per  la  concimazione 
stessa:  vi  sono  vigneti  pei  quali  la  maggior  convenienza  risiede  nella 
produzione  di  uva  scelta  e  di  vini  scelti  anziché  di  molta  uva  e  di 
molto  vino;  altri  invece  —  e  questi  sono  i  più  —  si  prestano  es- 
senzialmente alla  produzione  dei  vini  usuali  da  pasto  di  grande  con- 
sumazione, ond'  è  che  in  essi  può  spingersi  a  più  elevato  limite  la 
produzione  dell'uva  e  quindi  l'uso  dei  concimi.  Il  signor  Ladrey  os- 


(1)  Agricoltura  di   Lucio  G.  M.    Columella  —  volg\    di    B.   Del    Bene,   Milano, 
1850.  Voi.  I,  p.  166. 


438  CAPITOLO  XII 


serva  (1)  che  «  in  Borgogna  i  vigneti  meglio  favoriti  non  danno 
più  che  un  prodotto  mediocre  dal  momento  in  cui  furono  concimati 
nella  stessa  maniera  dei  vigneti  comuni  »  e  noi  lo  crediamo  perchè 
ne  abbiamo  esempii  anche  in  Italia:  nel  Basso  Monferrato  in  quei 
Comuni  vitiferi  ove  si  è  spinta  molto  la  produzione,  la  qualità  non 
è  più  quella  dei  tempi  passati,  ma  il  guadagno  netto  per  ettare  è 
certamente  maggiore,  essendo  i  vini  comuni  i  più  ricercati. 

Volendo  spingere  la  quantità  senza  pregiudizio  della  qualità,  è  in- 
dispensabile usare  concimi  minerali  moderatamente  azotati,  cioè  misti 
a  sostanze  organiche  od  a  sali  ammoniacali  e  nitrici:  volendosi  tut- 
tavia adoperare  concimi  azotati,  si  scelgano  almeno  quelli  a  lenta 
decomposizione,  acciocché  non  agiscano  troppo  energicamente,  ma 
sempre  si  avverta  a  mescolarli,  non  fosse  altro,  con  terra,  facendo 
un  composto.  (Veggasi  il  §  14).  Se  invece  si  crederà  più  opportuno 
di  ottenere  molta  uva  per  fabbricare  vini  usuali,  allora  si  potranno 
adoperare  concimi  più  potenti,  come  diremo  qui  appresso. 

Ma,  ci  chiediamo,  in  generale  è  egli  più  conveniente  mirare 
alla  qualità  od  alla  quantità?  Secondo  alcuni  agronomi,  fra  cui 
il  Prof.  G.  Cantoni  (2),  al  colle  converrà  sempre  mirare  alla 
qualità,  mentre  al  piano  può  essere  talora  conveniente  di  produrre 
molto  non  essendo  sempre  possibile  avere  la  qualità.  A  provare  la  sua 
tesi  il  Prof.  Cantoni  cita  la  seguente  tabella  presa  ad  enologi  francesi: 


VALORE 

Quantità  d'uva                       Prodotto 

complesssivo 

di  un                             di 

per  ettaro 

del  prod. 

ettolitro                    un,  litro 

Chg.  10,000           Ettol.     50 

L.  3000 

L.  60           Cent.  60 

»     20,000              »      100 

»   3000 

»  30             »      30 

»     40,000              »      200 

»  3000 

»    15             »      15 

»     60,000              »      300 

»  3000 

»    10             »      10 

Pongasi  di  vendere  il  vino 

pel  valore  dell'alcool  che  contiene: 

Varietà             Prodotto 

Valore          Per  100 

Valore 

di    uva           per  ettaro 

del    vino       di  alcool 

al  litro                complessivo 

Chasselas   Ett.  250  a  L.  10 

L.  2500      2,5 

a  L.  1,20      L.     600 

Gamay          »    150        »  20 

»  3000       6,0 

a    »  1,20       »  1080 

Pineau          »      75        »   50 

»  3750     15,0 

a    »  1,20       »  1350 

(1)  Op.  cit.  p.  256. 

(2)  II  vino;  Conferenze:  pag.  193. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  439 


«  Dunque,  conclude  il  Prof.  Cantoni,  la  quantità  ingombra,  e  la 
qualità  rende  di  più  anche  quando  si  dovesse  vendere  il  vino  sol- 
tanto per  l'alcool  che  contiene.  » 

Senonchè,  a  nostro  avviso,  bisogna  distinguere  fra  quantità  e 
quantità;  si  possono  produrre  100  ettolitri  di  vino  ad  ettare  ed  avere 
pur  tuttavia  un  prodotto  di  buona  qualità,  del  valore  commerciale  di 
40  lire  l'ettolitro,  che  è  il  prezzo  medio  de)  vino  usuale  che  l'Italia 
vende  all'estero;  ora  ciò  è  preferibile  al  produrre  soli  50  ettolitri  di 
vino  migliore,  ad  esempio  da  L.  60;  poiché  si  avrebbe: 

100  ettol.  a  L.  40    .     .     .     L    brutte  4000 
50      »      a  L.  60    .     .     .  id.        3000 

E  questo  senza  tener  conto  della  assai  maggiore  facilità  che  si  trova 
nell'esitare  i  100  ettol.  di  vino  comune  a  petto  dei  50  di  vino  scelto: 
di  questa  agevolezza  nel  vendere,  tutti  i  nostri  viticultori  debbono 
oramai  aver  riconosciuto  l'importanza;  ed  è  per  questo  che  tanto  si 
diffonde  in  paese  la  produzione  dei  vini  di  grande  consumazione,  a 
simiglianza  di  quanto  accade  in  Spagna,  in  Austria,  in  Ungheria  e 
nella  stessa  Francia. 

Ma  quando  la  produzione  raggiunge  certi  limiti  elevatissimi,  per  e- 
sempio  i  300  ettolitri  dei  vini  da  bruciare  (distillare)  che  si  ottenevano 
nell'Hérault  prima  della  fillossera,  allora  stanno  i  calcoli  del  Prof.  Can- 
toni; tanta  quantità  ingombra  realmente:  se  essa  costa  tanto  poco  al 
viticultore  (1)  da  poterla  vendere  in  ragione  di  L.  5  l'ettol.  o  poco 
più,  allora  la  distilleria  ne  trae  suo  prò,  fabbricando  un  eccellente 
spirito  di  vino;  ma  in  caso  diverso  la  vendita  riesce  difficilissima,  ed 
è  anche  più  diffìcile  la  buona  conservazione  d'un  vino  così  povero  di 
alcool. 

Concluderemo  infine  dicendo,  col  sig.  Marès,  che  «  allorquando  si 
tratterà  di  produrre  dei  vini  comuni  da  consumarsi  nel  primo  od  al 
più  nel  secondo  anno,  ed  ai  quali  si  chieggono  piuttosto  proprietà 
igieniche  alimentatrici  e  fortificanti  che  non  finezza  di  profumo,  sarà 
sempre  conveniente  usare  concimi  adattati,  perchè  col  loro  uso  mo- 
derato si  spingerà  la  quantità  ad  un  limite  relativamente  elevato 
senza  nuocere  molto  alla  qualità.  »  —  Spesso  si  riuscirà  a  duplicare  il 
prodotto  dell'uva,  con  grande  beneficio  del  coltivatore,  che  potrà  smer- 


(1)  Nell'Hérault  si  produceva  allora  il  vino  a  circa  L.  4  l'ettolitro. 


440  CAPITOLO  XII 


ciare  più  facilmente  il  suo  vino  a  prezzi  moderati,  e  dei  consuma- 
tori che  troveranno  a  loro  disposizione  vino  sano  a  prezzi  conve- 
nienti: ma  questi  risultati  non  si  possono  guari  ottenere  senza  il 
soccorso  del  concime. 

§  3.  Il  letame  di  stalla  e  le- viti.  —  In  alcuni  paesi  viticoli 
si  ritiene  fermamente  che  il  miglior  concime  per  le  viti  sia  lo  stal- 
latico; in  altri  si  rifugge  nel  modo  più  assoluto  dall'adoperare  questo 
ingrasso  nei  vigneti;  in  altri  ancora  lo  si  usa  solamente  mescolato  con 
sostanze  minerali.  Ora,  qual'  è  fra  tutti  questi  sistemi  il  più  razio- 
nale? 

Non  si  può  rispondere  a  questa  domanda  senza  fare  alcune  distin- 
zioni; per  esempio  se  il  terreno  è  magro,  se  è  compatto  e  se  le  viti 
sono  meschine,  una  buona  letaminazione  seguita  da  una  vangatura 
a  20  centimetri  per  sotterrare  il  concime,  gioverà  molto  a  far  svi- 
luppare convenevolmente  la  parte  legnosa  e  fogliacea  delle  viti,  senza 
di  cui  non  è  possibile  la  fruttificazione.  Se  invece  il  terreno  sarà  fer- 
tile per  natura  e  pure  si  letaminerà,  le  uve  riesciranno  di  qualità 
scadente  e  di  facile  putrefazione  alle  prime  pioggie  del  settembre, 
ed  il  vino  aspro  e  poco  alcoolico,  come  abbiamo  visto  spesso  a  ve- 
rificarsi in  alcuni  locali  del  Basso  Monferrato  ove  i  vigneti  si  con- 
cimano con  letame  ogni  biennio.  In  quanto  all'uso  del  letame  misto 
a  sostanze  minerali,  lo  crediamo  quasi  sempre  proficuo,  ripetendo  però 
la  concimazione  soltanto  ogni  due  o  tre  anni,  a  seconda  delle  con- 
dizioni fisico-chimiche  del  terreno. 

In  generale  però  nei  vigneti  che  producono  vini  rinomati  per  la 
loro  finezza,  non  sarebbe  conveniente  la  concimazione  col  letame;  è 
bensì  vero  però  che  si  hanno  talune  eccezioni,  ma  è  anche  vero  che 
in  simili  casi  non  si  adopera  mai  il  letame  solo.  Per  esempio  nel- 
l'Ermitage  vi  si  uniscono  sostanze  minerali,  e  sulle  rive  del  Reno 
si  fanno  dei  composti  di  letame  e  terra  basaltica  (1),  coi  quali  si 
concimano  i  vigneti  ogni  due  anni  nell'interfilarc,  spendendovi  circa 
400  lire  per  ettare  nel  solo  concime  (100  metri  cubi  ad  ettare).' 

E  noto  che  vi  sono  varie  specie  di  letame;  pei  vigneti  esse  non  hanno 
,  tutte  lo  stesso  valore.  Il  letame  di  vacca  essendo  meno  attivo  degli 


(1)  Vi  si  uniscono  anche  cenere,  graspi  e  urina.  Questa  terra  basaltica,  siccome 
proveniente  da  roccie  basaltiche,  ò  ricca  di  silice,  calce  e  ferro  ma  povera  di  po- 
tassa; essa  agisce  quindi  piuttosto  fisicamente  dando  porosità  al  terreno  del  vigneto. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  441 

altri  e  più  ricco  di  potassa,  è  il  preferibile  specialmente  nei  terreni 
leggeri  e  sciolti  ove  la  sua  azione  può  durare  più  di  quanto  non 
durerebbe  quella  del  letame  di  cavallo  o  di  montone.  Questi  stal- 
latici sono  invece  raccomandabili  pei  terreni  argillosi  e  forti;  il  le- 
tame degli  ovini  è  specialmente  raccomandabile  perchè  ha  un'azione 
fertilizzante  che  dura  non  meno  di  tre  anni,  e  perchè  favorisce  molto 
la  fruttificazione,  come  si  è  osservato  nella  Francia  meridionale  ove 
abbondano  gli  animali  da  lana. 

L'urina  è  molto  eccitante  e  non  conviene  mai  adoperarla  da  sola 
nei  vigneti;  si  debbono  sempre  fare  dei  composti  (§  14)  che,  innaf- 
fiati con  essa,  riescono  ottimi. 

Veniamo  ora  alla  dose  del  letame.  Già  abbiamo  accennato  in  ge- 
nere alle  condizioni  nelle  quali  si  potrà  spingere  alquanto  la  quantità 
dello  stallatico;  anzitutto  devono  tenersi  a  calcolo  la  feracità  natu- 
rale od  acquisita  del  terreno  ed  i  prodotti  che  si  vogliono  ottenere. 
Nelle  nostre  vigne  italiane  —  parlando  in  generale  —  si  potrebbero 
adottare  le  dosi  seguenti: 

Per  ettare  di  vigneto  specializzato 
(circa  4000  piante  ad  ettare) 

Nelle  terre  ottime      miriagrammi  300  ogni  biennio 
»           buone               .»  500  » 

»  mediocri  »  1000  » 

»  cattive  »  1500  » 

Ripetiamo  però  che  sarà  sempre  molto  preferibile  di  mescolare  il 
letame  a  terra,  cenere,  vinaccie  ecc.  riducendo  quindi  anche  di  metà 
le  dosi  qui  sopra  indicate.  Attribuendo  intanto  al  letame  il  valore 
di  L.  10  la  tonnellata  avremo  per  dette  concimazioni: 

Nelle  terre  ottime      L.  30  per  ettare  ad  ogni  biennio 

»  buone       »  50  »  » 

»  mediocri  »  100  »  » 

»  cattive      »  150  »  » 

A  titolo  di  confronto  diremo  che  nella  Francia  meridionale  si  ado* 
perano  ogni  tre  anni  nei  terreni  buoni  2200  miriagrammi  di  letame 
di  stalla  ordinario  per  ettare  (4400  piante)  cioè  5  chilogrammi  per 
ceppaia;  alcuni  ne  adoperano  ben  4000  miriagrammi  (1),  e  certo  allora 


(1)  H.  Marès  op.  cit.  pag.  328. 


442  CAPITOLO  XII 


ottengonsi  prodotti  assai  elevati,  ma  si  hanno  soltanto  vini  da  di- 
stillare. 

Nell'opera  del  Dr.  Guyot  (1)  si  legge  questo  precetto  dell'emi- 
nente scrittore  francese:  «  Nelle  terre  più  ingrate,  per  mantenere  il 
vigneto  in  buona  produzione  basta  un  chilogramma  di  letame  di 
stalla  per  metro  quadrato  e  per  anno  se  vi  sono  10  mila  ceppaie 
ad  ettare  —  2[3  di  chilogramma  per  m.  q.  se  vi  sono  5  mila  cep- 
paie, ed  1[3  se  vi  sono  2500  ceppaie.  Questa  letaminazione  deve 
farsi  ogni  tre  anni,  e  per  conseguenza  a  triplici  razioni  di  30,000, 
20,000  e  10,000  chilogrammi  per  ettare;  è  una  spesa  di  450,  300 
e  150  lire  da  dividersi  per  tre,  mentre  usando  la  terra  vergine  si 
spendono  sole  50  lire  all'anno  ».  Da  questo  precetto  appare  che  il 
Dr.  Guyot  nel  suo  lungo  viaggio  in  Francia  ha  egli  pure  toccato 
con  mano  i  vantaggi  della  terra  vergine  nella  concimazione  dei  vi- 
gneti, come  diremo  meglio  al  §  13.  In  quanto  alle  dosi  di  letame 
che  il  Guyot  consiglia,  noi  le  riteniamo  assolutamente  eccessive, 
(tanto  più  che  egli  non  fa  cenno  di  composti)  e  perciò  sempre  dan- 
nose alla  qualità  del  prodotto  e  spesso  anche  alla  quantità.  Provo- 
cando mercè  tanto  concime  un  soverchio  sviluppo  legnoso,  diminuisce 
senza  dubbio  la  produzione  del  frutto;  si  ha  rigoglio,  ma  non  fe- 
condità. 

Ma  l'uso  esclusivo  dello  stallatico  presenta  un  altro  inconveniente, 
dovuto  a  ciò  che  questo  concime  è  male  equilibrato,  ond'  è  che  vo- 
lendo restituire  al  terreno,  con  tutto  1'  azoto  esportato  coi  raccolti, 
anche  tutto  l'acido  fosforico  e  tutta  la  potassa  colla  calce,  conver- 
rebbe adoperarlo  a  dosi  esorbitanti;  ma  in  questo  caso  si  introdur- 
rebbe nel  terreno  un  eccedente  di  acido  fosforico,  di  potassa  e  di 
calce,  che  andrebbe  a  costituire  un  capitale  infruttifero  messo  nel 
suolo  senza  vantaggio  alcuno. 

Vediamo  come  ciò  accade:  —  supponendo  un  vigneto  costituito 
da  5000  piante  e  della  superficie  di  un  ettare,  la  esportazione  (me- 
diante l'uva  e  le  parti  erbacee  e  legnose)  dell'azoto,  della  potassa, 
della  calce  e  dell'  acido  fosforico  sarebbe  ogni  anno  la  seguente, 
prendendo  una  media  di  molte  analisi  e  supponendo  un  prodotto  di 
50  ettolitri  di  vino: 


(1)  Elude  des  vignobles  de  Francc  voi.  Ili,  G3G. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  443 

da  un  ettare 

Azoto chilogr.  10 

Potassa         .         .        .         .  »       45  (1) 

Calce »       25 

Acido  fosforico     ...  »       15 

Ora  supponiamo  che  il  viticultore  adoperi,  nel  suddetto  vigneto, 
esclusivamente  del  letame  di  stalla;  questo  concime  ha  la  seguente 
composizione  media: 

Azoto chilog.  0,41  \  per  ogni  100  chili  di 

Potassa »       0,51  (     peso  brutto  (79,30 

Calce »       0,57  (     rappresenterebbero 

Acido  fosforico     .     .  »      0,20  ]     l' acqua). 

Se  il  viticultore  volesse  con  questo  stallatico  restituire  al  suolo  del 
suo  vigneto  tutto  V  azoto  esportato  coi  50  ettolitri  di  vino  suddetti 
nonché  col  legname  e  fogliame,  dovrebbe  naturalmente  adoperarne, 
ogni  anno,  'kg.  2439,  perchè  in  questa  quantità  si  contengono  i 
10  kg.  d'azoto  esportati  dai  prodotti  del  vigneto.  Ma  chilog.  2439  di 
stallatico  contengono  soltanto  chilog.  12,43  di  potassa,  laddove  la 
quantità  esportata  annualmente  ammonta  a  chilog.  45;  —  inoltre 
chilog.  2439  di  letame  contengono  soltanto  chilog.  13,80  di  calce, 
mentre  se  ne  esportano  ogni  anno  chilog.  25,  e  soli  chilog.  4,87  di 
acido  fosforico,  quando  invece  la  vite  ne  ha  consumati  15.  È  quindi 
naturale  che  bisognerebbe  adoperare  una  maggior  quantità  di  stal- 
latico. —  Ora  supponiamo  che  la  dose  si  aumenti  in  modo  da  re- 
stituire al  terreno  tutti  i  45  chilog.  di  potassa:  siccome  100  chilog. 
di  letame  ne  contengono  0,51,  così  ne  occorrerebbero  nientemeno 
che  8823  chilog.  ogni  anno:  ma  allora  il  viticultore  cadrebbe  in  un 
altro  inconveniente,  qrìello,  come  dicevamo  più  sopra,  di  introdurre 
nel  suolo  un  eccedente  di  azoto,  d'  acido  fosforico  e  di  potassa,  il 
che  rappresenterebbe  un  capitale  quasi  infruttifero  anticipato  al  ter- 
reno. Infatti  chilog.  8823  di  stallatico  contengono  36  chilog.  di  azoto, 
mentre  alla  vite  bastano  10;  —  50  chilog.  di  calce,  laddove  baste- 


(1)  Boussingault  dà  quantità  minori;  ma  egli  studiò  la   produzione   di  un  vi- 
gneto che  produceva  soli  30  ettolitri  di  vino  ad  ettare. 


444  CAPITOLO  XII 


rebbero  25;  —  e  17  chilogrammi  d'acido  fosforico,  quando  15  sareb- 
bero sufficienti.  Riassumendo,  in  questo  caso  si  avrebbe: 

Azoto       Potassa       Calce     Acido  fosfor 

Esportazione  col  prodotto         10  45  25  15 

Restituzione  col  letame  36  45  50  17 


Equilibrio     ...     —  45  —  — 

Eccedente  di  concimi     26  —  25  2 

Avevamo  quindi  ragione  di  chiamare  il  letame  un  concime  male 
equilibrato,  come  già  lo  dissero  altri;  per  equilibrarlo  non  vi  ha  mezzo 
migliore  della  mescolanza  coi  concimi  minerali  ricchi  di  potassa,  calce 
e  fosfati,  cioè  di  farne  dei  composti. 

§.  4.  Gli  escrementi  umani  e  l'orina.  —  Gli  escrementi  u- 
mani  sono,  come  è  noto,  un  eccellente  concime,  specialmente  se 
sparsi  allo  stato  liquido;  ma  assolutamente  non  sono  consigliabili  pei 
vigneti,  qualora  si  volessero  adoperare  da  soli,  come  si  fa  sui  campi 
e  sui  prati.  Riesciranno  invece  assai  utili  mescolati  a  sostanze  mi- 
nerali, cioè  nei  composti  di  terra,  gesso  o  calce,  cenere  ed  avanzi 
in  genere  del  podere.  Questi  composti  di  escrementi  umani  possono 
poi  spargersi  alla  dose  di  50,  100  ed  anche  200  quintali  per  ettare, 
più  o  meno  a  seconda  delle  condizioni  in  cui  si  trova  il  vigneto. 
Cogli  escrementi  umani  da  soli  si  ottiene  un  vino  di  qualità  molto 
scadente,  ma  anche  valendosi  dei  composti  non  si  deve  abusare  nella 
quantità  di  questo  cessino,  perchè  taluni  pretendono  che  possa  co- 
municare all'uva  un  sapore  men  che  grato: 

Anche  le  urine,  come  già  abbiamo  detto,  non  si  debbono  adoperare 
da  sole  nei  vigneti,  ma  mescolate  ad  altre  sostanze.  Esse  sono  più  rioche 
in  azoto  del  letame,  o  diremo  meglio  della  parte  solida  del  letame:  in- 
fatti 100  parti  di  stallatico  cavallino  secco  contengono  2,21  di  azoto, 
mentre  le  urine  ne  contengono  12,50  pure  allo  stato  secco.  Di  questa 
ricchezza  il  viticultore  deve  tenere  calcolo,  perchè  potrà  trarne  partito 
per  provocare  nei  vigneti  indeboliti  un  forte  sviluppo  legnoso.  Le  urine 
sono  anche  relativamente  ricche  in  fosfati,  onde  si  dovrà  scrupolo- 
samente evitarne  la  dispersione,  perchè  rappresentano  un  prezioso  con- 
cime anche  per  le  viti:  ma  bisogna  saperle  preparare  conveniente- 
mente, non  dovendosi  mai  usarle  da  sole. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  445 

Accade  talvolta  che  si  raccolgono  le  urine  in  apposite  vasche  per 
conservarle;  allora  esse  fermentano,  o  per  meglio  dire  1'  urea  si 
trasforma  in  carbonato  d'ammoniaca,  che  è  volatilissimo:  disperden- 
dosi questo  sale  ammoniacale,  le  orine  finiscono  per  diventare  quasi 
prive  di  azoto  e  perciò  perdono  in  grande  parte  il  loro  pregio.  Per 
evitare  questo  disperdimento,  si  debbono  aggiungere  grammi  50  di 
gesso  per  ogni  100  litri  di  urina,  rimescolando  spesso  la  massa  per 
facilitare  lo  scioglimento  del  gesso:  gioverebbe  pure  una  uguale  dose 
di  solfato  di  ferro  o  di  soda:  questi  solfati  (il  gesso  è  solfato  di  calce) 
provocano  la  trasformazione  del  carbonato  d'  ammoniaca  in  solfato 
d'ammoniaca,  che  non  è  volatile,  e  così  si  evita  ogni  perdita.  Con 
queste  urine  si  bagneranno  i  composti,  che  poi  si  potranno  adoperare 
con  molto  vantaggio  nei  vigneti  alle  dosi  indicate  di  50,  100  od 
anche  200  quintali  per  ettare,  più  o  meno  a  seconda  della  natura 
fisico- chimica  del  terreno. 

§  5.  Il  guano.  —  Questo  concime  si  può  dire  che  è  noto  a 
tutti  i  coltivatori;  anni  sono,  quando  non  erano  ancora  esauriti  i  fa- 
mosi depositi  delle  isole  Cianca,  il  guano  costituiva  un  ingrasso  po- 
tentissimo, perchè  conteneva  la  enorme  quantità  di  14  chilogr.  d'a- 
zoto su  100  di  concime,  col  20  0\q  di  fosfato  di  calce  ed  il  7  0\q 
di  sali  alcalini.  Ma  oggi  il  guano  ha  peggiorato  di  molto,  e  ben  lo 
sanno  i  coltivatori:  le  migliori  qualità  è  raro  contengano  il  7  0\q  di 
azoto,  mentre  se  ne  trovano  in  commercio  enormi  quantità  a  titolo 
assai  basso,  spesso  inferiore  al  4  0[q  per  l'azoto.  —  Studiando  questo 
concime  in  quanto  può  venire  usato  pei  vigneti,  diremo  che  quello 
molto  azotato  non  è  conveniente  da  solo,  non  soltanto  per  la  soverchia 
quantità  d'azoto,  ma  per  la  sua  povertà  in  potassa:  è  per  questo 
che  si  usa,  dai  più  esperti,  mescolarlo  con  cenere  (v.  §  16). 
Mercè  questa  miscela  il  guano  diventa  un  ottimo  concime  per  i 
vigneti,  tanto  più  che  non  comunica  nessun  sapore  speciale  al- 
l'uva. 

Secondo  noi  la  dose  del  guano  —  se  è  di  buona  qualità,  cioè  con 
almeno  il  5  0[q  di  azoto  ed  il  18  0[q  di  fosfato  di  calce  —  non 
deve  eccedere 

grammi  100  per  ceppaia  nelle  terre  buone 
»       200  »  »  mediocri 

»       300  »  »  sterili 


446  CAPITOLO  XII 


supponendo  che  si  tratti  di  ceppaie  normali  e  non  di  viti  a  pergolato, 
perchè  allora  la  dose  vuol  essere  almeno  doppia.  Se  poi  si  fosse  me- 
scolato il  guano  colla  cenere  o  col  cloruro  di  potassa,  oppure  col 
solfato  di  potassa  nella  dose  di  2[3  di  guano  ed  1[3  di  sostanza  al- 
calina, allora  le  dosi  potrebbero  essere  le  seguenti,  secondo  le  nostre 
osservazioni: 

grammi  150  per  ceppaia  nelle  terre  buone 
»       250  »  »  mediocri 

»        350  »  »  sterili 

Ripetiamo  che  questa  miscela  è  assolutamente  da  preferirsi  all'im- 
piego del  guano  da  solo. 

§  6.  La  pollina.  —  La  pollina  e  la  colombina,  cioè  gli  escre- 
menti dei  polli  e  dei  colombi,  ed  i  cacherelli  in  genere  dei  volatili, 
costituiscono  un  concime  potente  per  provocare  la  formazione  della 
parte  legnosa  della  vite,  ma  non  sono  guari  raccomandabili  quando  si 
tratta  di  spingere  la  fruttificazione:  è  stato  osservato  che  pel  loro  uso 
non  solo  l'uva  riesce  poco  pregevole,  ed  il  vino  troppo  ricco  di  sostanze 
azotate  e  però  poco  serbevole,  ma  che  talvolta  contrae  eziandio  un 
sapore  poco  gradito.  Il  Conte  Oudart  è  di  questo  avviso,  e  ne  scon- 
siglia l'uso.  In  ogni  caso,  chi  volesse  adoperare  simili  ingrassi,  av- 
verta a  farli  passare  nei  composti  più  volte  accennati  e  di  cui  di- 
remo fra  poco  in  disteso;  il  loro  mescuglio  colla  cenere  è  molto 
lodato  da  qualche  viticultore,  e  noi  lo  crediamo  utile. 

La  colombina  contiene  in  media  dal  7  all'  8  0[Q  di  azoto  ;  tutti 
questi  escrementi  dei  volatili  sono  molto  eccitanti  e  diremo  brucianti, 
per  cui  non  si  debbono  mai  mettere  a  diretto  contatto  delle  radici 
della  vite.  In  generale  convengono  ai  vigneti  che  si  trovano  in  ter- 
reni freddi  e  umidi;  nei  suoli  secchi  e  sciolti  sarebbero  troppo  ener- 
gici. In  nessun  caso  poi,  a  nostro  avviso,  se  ne  dovrebbe  spargere 
più  di  10  quintali  ad  ettare  di  vigneto,  e  sempre  coll'av vertenza  di 
mescolarli  prima  con  altri  10  quintali,  di  cenere,  o  terra,  o  gesso, 
o  calce,  e  di  adoperarli  soltanto  per  la  produzione   di  vini  comuni. 

§  7.  Il  sangue  e  le  carni.  —  È  noto  che  il  sangue  è  una 
sostanza  molto  ricca  di  azoto;  Payen  e  Boussing aidt  hanno  tro- 
vato nel  sangue  dei  macelli,  3  0[q  di  azoto  e  81  0[q   d'  acqua;   ma 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  447 

quando  il  sangue  è  disseccato  allora  viene  a  contenere  da  14  a  15 
per  100  di  azoto,  cioè  più  del  famoso  guano  di  Cincha,  oggi  esau- 
rito. Ciò  premesso  è  evidente  che  non  si  potrà  usarlo  tale  e  quale 
nei  vigneti,  perchè  certo  si  provocherebbe  uno  sterile  sfarzo  di  ve- 
getazione, ed  i  prodotti  sarebbero  poco  pregevoli  e  sovratutto  poco 
serbevoli. 

È  quindi  indispensabile  o  innaffiare  col  sangue  i  composti,  oppure 
trattarlo  colla  calce  viva,  mettendo  da  otto  a  dieci  chili  di  calce 
per  ogni  30  chili  di  sangue;  si  forma  così  una  massa  dura  che  si 
polverizza  e  che  si  può  adoperare  nei  vigneti,  specialmente  se  si  ha 
bisogno  di  stimolare  la  vegetazione.  Volendo  però  completare  questo 
ingrasso,  bisognerebbe  aggiungervi  del  superfosfato  d'ossa  e  del  clo- 
ruro di  potassa,  mettendo 

Sangue  disseccato  e  mescolato  con  terra   (50  0[q)  quintali  6 
Superfosfato  ........       2 

Cloruro  di  potassa »       1 

ed  adoperando  questi  9  quintali  su  un  ettare  di  vigneto  specializ- 
zato, con  5000  piante  in  media.  I  risultati  sarebbero  ottimi. 

È  pericoloso  adoperare  il  sangue  da  solo,  specialmente  se  dovesse 
venire  a  diretto  contatto  colle  radici  della  vite.  Infatti  quando  esso 
si  decompone  nel  terreno  sviluppa  un  calore  considerevole,  ciò  che 
può  nuocere  molto  alle  radici  stesse.  Le  prove  fatte  sulla  canna  da 
zucchero  lo  confermano,  ed  è  per  questo  che  noi  abbiamo  consigliato 
di  mescolare  il  sangue,  trattato  colla  calce,  col  50  0[q  di  terra,  pro- 
curando di  fare  un  mescuglio  completo,  che  si  spagerà  poi  nel  vi- 
gneto collocandolo  in  fossette  scavate  nell'interfìlare. 

Le  carni  sono  esse  pure  molto  ricche  di  azoto;  allo  stato  secco 
contengono  più  del  12  0[Q  di  azoto,  oltre  al  fosfato  di  calce.  Perciò  bi- 
sogna farne  dei  composti  con  calce  e  terra,  scavando  buche  abba- 
stanza profonde  per  impedire  il  dissotterramento.  Con  4  quintali 
di  carne  si  può  fare  un  composto  sufficiente  per  un  ettare  di  vi- 
gneto, mescolandoli  però  con  8  quintali  di  calce  e  12  di  terra  vergine. 

§.  8.  Lana,  pellami,  corna,  crisalidi,  panelli,  ecc.  —  I  ri- 
tagli di  lana  appartengono  al  novero  dei  concimi  molto  azotati; 
infatti  contengono  dal  10  al  18  Ojq  di  azoto,  e  Foecc  li  dice  anche 
ricchi  di  acido  fosforico.  Essi  costituiscono  quindi  un  ottimo  concime, 


448  CAPITOLO  XII 


benché  di  lenta  decomposizione:  il  loro  uso  nei  vigneti  è  molto  an- 
tico, specialmente  nella  Francia  meridionale,  ove  si  impiegano  alla 
dose  di  5  ettogrammi  per  ogni  pianta,  vale  a  dire  (nell'Hérault)  22 
quintali  ad  ettare  vitato:  il  loro  effetto  dura  talvolta  anche  sei  anni. 
Se  ne  raccomanda  specialmente  V  uso  nei  terreni  aridi,  esposti  alla 
siccità  e  argillosi,  perchè  quivi  agiscono  anche  fisicamente  renden- 
doli più  soffici:  è  così  che  si  fa  in  Provenza.  Nei  terreni  sciolti  e 
sabbiosi  la  loro  azione  è  però  meno  duratura,  ma  in  compenso  più 
pronta.  Per  adoperarli  bene  è  necessario  dividerli  con  cura  o  trin- 
ciarli e  spargerli  poi  uniformemente  nel  vigneto,  sotterrandoli  a 
20  centimetri  di  profondità  colla  vanga  o  coli'  aratro:  si  possono 
anche  gettare  nel  succo  del  letame,  oppure  mescolarli  al  letame 
stesso  come  faceva  Dombasle  (12  quintali  di  detriti  e  36  quintali 
di  letame).  Questo  miscuglio  sarebbe  sufficiente  per  due  ettari  di 
vigneto. 

I  pellami,  cioè  la  rasatura  delle  pelli  ed  i  ritagli  di  cuoio  co- 
stituiscono un  concime  di  azione  lentissima  e  perciò  di  poca  efficacia; 
il  sig.  Amelie  Bei,  che  ne  fece  l'esperimento  nei  vigneti,  trovò  poca 
differenza  fra  quelli  così  concimati  e  quelli  non  concimati  del  tutto. 
I  ritagli  di  cuoio  contengono  bensì  il  9  0[q  di  azoto,  cioè  quanto  la 
colombina  secca  e  certi  guani,  ma  essendo  di  decomposizione  estre- 
mamente lenta,  questo  azoto  ha  un'  azione  troppo  poco  palese.  Noi 
abbiamo  provato  a  trattarli  coll'acido  solforico,  ma  i  risultati  furono 
poco  soddisfacenti;  crediamo  pertanto  che  non  meritino  molta  con- 
siderazione, anche  facendoli  passare  nei  composti  per  facilitarne  la 
decomposizione.  Alcuni  usano  mettere  le  rasature  nel  pozzo  nero,  e 
innaffiare  con  questo  miscuglio  i  composti,  che  poi  adoperano  nel 
piantamento  del  vigneto  nei  terreni  freschi  e  umidi. 

Le  corna,  le  unghie,  ecc.  contengono  molto  azoto,  circa  il  16  0[q; 
le  raschiature  di  corno  ne  contengono  circa  il  14,  ma  sono  prefe- 
ribili perchè  in  istato  di  grande  divisione,  e  quindi  agiscono  più  pron- 
tamente. È  sempre  conveniente  mescolarle  a  stallatico  e  sostanze 
minerali  prima  di  spargerli  nel  vigneto:  la  dose  può  variare  da  6  a 
12  quintali  per  ettare,  secondo  la  maggiore  o  minore  fertilità  del 
suolo.  Le  raschiature  non  si  potrebbero  però  usare  da  sole  per  molti 
anni  di  seguito;  esse  ecciterebbero  troppo  la  pianta,  la  quale  esau- 
rirebbe il  terreno  di  potassa;   Giusto  Liebig   (1)  narra   alcuni   fatti 


(1)  C 'hi 'mica  organica  ecc.  pag.   108. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  449 


interessanti  a  questo  proposito,  ed  è  quindi  indispensabile  alternarle 
con  concimi  potassici  e   fosfatati. 

Anche  i  capelli  ed  i  peli  sono  molto  azotati  (16  Ojo),  e  lo  stesso 
dicasi  delle  piume  (15  0[q);  ma  si  tratta  sempre  di  sostanze  a  de- 
composizione lentissima,  per  quanto  non  così  lenta  come  quella  delle 
corna  e  dei  pellami.  È  utile  mescolarle  ad  altre  sostanze,  specialmente 
all'urina  od  al  pozzo  nero,  e  bagnare  i  composti,  che  poi  si  spar- 
geranno nei  vigneti  a  vegetazione  debole,  per  provocare  un'ampia 
formazione  del  legno:  ottenuto  questo  risultato,  si  diminuirà  questa 
concimazione  azotata,  per  dare  la  preferenza  a  quella  potassica  e  fo- 
sfatata.  Taluni  adoperano  nei  vigneti  anche  il  pelo  delle  conce,  cioè 
la  lana  ed  il  pelo  delle  pelli  destinate  alla  concia:  siccome  si  ado- 
pera la  calce  per  levarli,  così  si  ha  un  miscuglio  che  è  un  discreto 
concime:  ma  si  deve  usare  misto  a  pozzo  nero  e  terra. 

Le  crisalidi  dei  bachi  da  seta  sono  molto  adoperate  nei  vi- 
gneti di  alcuni  locali  dell'Italia  Superiore;  esse  contengono  il  10  0[q 
di  azoto,  quando  sono  secche,  e  perciò  possono  costituire  un  concime 
potente,  tanto  più  che  sono  di  pronta  azione.  Per  non  danneggiare 
il  prodotto  nella  sua  qualità  ed  avere  vini  serbevoli,  cioè  non  troppo 
ricchi  di  sostanze  azotate,  bisogna  farne  dei  composti  con  calce  o 
gesso  e  terra  vergine  mettendo  4  quintali  di  crisalidi  secche,  6  di 
calce  o  gesso  e  10  di  terra:  con  questi  20  quintali  si  possono  con- 
cimare abbastanza  bene  quattro  mila  piante  di  viti  usuali.  Tale  conci- 
mazione sarebbe  veramente  completa,  se  alla  massa  si  unisse  un  quin- 
tale di  cloruro  di  potassa  del  titolo  80°,  cioè  col  50  0[Q  di  ossido 
potassico.  Quanto  diciamo  delle  crisalidi  si  applica  al  letto  dei  bachi 
da  seta,  che  contiene  però  solo  il  3  0[q  di  azoto;  converrà  quindi 
adoperarne  una  dose  almeno  doppia. 

I  panelli,  o  focaccie  di  semi  oleaginosi,  sono  concimi  ottimi  pei 
vigneti  perchè  oltre  d>\Y azoto  contengono  anche  dell'acido  fosforico: 
in  media  contengono  il  4  0[q  di  azoto  ed  il  2  0[q  di  acido  fosforico. 
Si  adoperano  alla  dose  di  20  a  30  quintali  per  ogni  ettaro  di  vigneto 
specializzato.  Nella  Francia  meridionale  se  ne  fa  un  impiego  abba- 
stanza esteso,  riducendoli  prima  in  polvere  grossolana  mediante  mu- 
lini: si  è  osservato  che  essi  agiscono  più  prontamente  dello  stallatico, 
favorendo  sia  la  vegetazione,  che  la  fruttificazione.  I  panelli  si  ado- 
perano specialmente  nei  vigneti  stanchi,  e  si  ripete  la  concimazione 
ogni  due  anni. 

Altre  sostanze,  come  i  residui  di  colla  (1  0[q  d'azoto),  il  residuo 
O.  Ottavi,   Trattato  eli  Viticoltura.  30 


450  CAPITOLO  XII 


dell'estrazione  dell'olio  dalle  arringhe  o  tangrum  (8  0[q),  i  residui  dei 
pesci  specialmente  del  merluzzo,  delle  sardine  e  delle  arringhe  (11  0[q) 
e  le  loro  ossa  (3  0[Q  —  più  il  53  0[Q  di  fosfato  di  calce)  sono  pure 
concimi  che  si  possono  adoperare  nei  vigneti,  sempre  quando  se  ne 
facciano  dei  composti.  I  residui  di  pesce  convengono  specialmente 
alle  terre  calcari,  ma  la  loro  azione  dura  appena  un  anno. 

Lo  stesso  dicasi  del  nero  animale,  che  si  ottiene  abbruciando  le 
ossa  in  un  vaso  chiuso,  e  che  si  adopera  nelle  fabbriche  e  nelle  raf- 
finerie dello  zucchero:  tanto  il  nero  delle  fabbriche  che  quello  delle 
raffinerie  sono  sostanze  concimanti,  benché  di  valore  diverso.  Infatti 
il  nero  delle  fabbriche  è  ricco  di  fosfati  ma  non  contiene  azoto,  e  si 
adopera  perciò  mescolato  agli  avanzi  di  pesce,  al  letame  ed  agli  e- 
scrementi  umani;  invece  il  nero  delle  raffinerie  contiene,  oltre  al  fo- 
sfato di  calce  (55  Ojq  in  media),  anche  azoto  (1  1[2  Ojo).  Contiene 
pure  del  carbonato  di  calce  (10  0[q  circa),  ond'  è  che  mescolato  a 
sali  potassici,  costituisce  un  buon  concime  pei  vigneti.  Bisogna  però 
evitare  assolutamente  di  adoperarlo  allo  stato  fresco,  perchè  nuoce- 
rebbe alle  radici:  se  ne  facciano  quindi  dei  composti  nei  quali  il  nero 
possa  neutralizzare  la  sua  acidità.  È  pure  necessario  badare  bene 
alle  contraffazioni,  perchè  si  trova  in  commercio  anche  un  falso  nero 
animale  composto  di  sabbia  e  argilla,  cui  si  dà  un  bel  colore  nero. 

§  9.  I  soverscii  e  loro  vantaggi.  —  I  soverscii  costituiscono 
un  eccellente  concime  per  le  viti,  quando  occorre  di  rianimare  la 
vegetazione  di  piante  estenuate  e  non  si  può,  per  circostanze  spe- 
ciali, adoperare  lo  stallatico  o  altro  concime  attivo.  La  concimazione 
col  soverscio  costa  poco  e  non  si  hanno  a  sostenere  spese  di  tra- 
sporto, le  quali  spesso  oltrepassano  il  valore  del  concime  stesso.  Le 
regioni  calde  in  ispecie  ne  possono  trarre  grande  giovamento:  ivi  si 
potrebbero  seminare  tra  le  file  delle  viti  alla  volata,  ed  alle  prime 
piogge  autunnali,  i  lupini  (200  litri  ad  ettare),  i  quali,  anche  non 
sotterrandoli,  vi  nasceranno  per  bene  (1);  al  successivo  aprile  od  ai 
primi  di  maggio  le  pianticelle  avranno  raggiunto  ad  un  dipresso  l'al- 
tezza di  due  o  tre  palmi.  Allora  si  aprirà,  dapprima  col  mezzo  d'un 


(1)  Già  Palladio  (L.  IX,  C.  II)  consigliava  il  soverscio  di  lupini  in  vigneti 
magri  con  ceppate  sfinite.  Egli  dice  che  non  si  deve  mai  adoperare  letamo,  che 
guasterebbe  il  vino,  ma  solo  lupini.  In  Francia  nel  Lot-et-Garonne  se  ne  fa  uso 
soventi  volte. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  451 

aratro  e  nel  mezzo  dell'  interfilarc,  un  solco  profondo  da  25  a  30 
centimetri,  vi  si  caccieranno  dentro  i  fusti  di  quella  leguminosa, 
ben  inteso  dopo  di  averli  recisi;  poscia  si  comprimeranno  accurata- 
mente pestandoli,  in  ultimo  si  ricopriranno  con  terra. 

Questa  concimazione  è  pregevole  di  molto  e  giova  non  poco  a  rinvi* 
gorire  le  viti  estenuate.  Buonissima  pratica  è  altresì  quella  di  vangare 
1'interfilare  e  sotterrare  nel  tempo  istesso  l'erba  destinata  al  soverscio: 
così  invece  di  vangare  il  suolo  in  febbraio  od  in  marzo,  non  si  ha 
che  ad  attendere  l'aprile  od  al  più  il  principiar  del  maggio,  sove- 
sciando allora  man  mano  che  si  opera  la  vangatura,  coll'avvertenza 
di  far  scendere  bene  al  basso  le  fronde  del  lupino,  comprimendole 
colla  vanga  stessa.  Il  soverscio  di  lupino  ripetuto  ogni  tre  anni  nelle 
terre  di  poco  buona  qualità,  basta  a  prevenire  V  estenuamene  dei 
ceppi:  nelle  terre  migliori  si  potrà  aspettare  anche  cinque  o  sei  anni 
prima  di  soversciare  di  nuovo  questa  leguminosa. 

Invece  del  lupino  si  possono  seminare,  nella  stessa  stagione,  del 
trifoglio  incarnato,  della  veccia,  delle  fave,  della  segale,  delle  rape 
o  dei  ravettoni:  ciò  che  però  vien  più  raccomandato  si  è  un  mi- 
scuglio di  tutte  queste  piante  o  di  alcune  fra  esse,  a  seconda 
della  natura  delle  terre.  Per  esempio,  nelle  terre  forti,  fave, 
rape  e  ravettoni;  —  nelle  granitiche,  lupini  invece  di  fave;  — 
nelle  leggere  la  segale;  —  nelle  calcari  e  nelle  siliceo-argillose,  la 
veccia,  l'incarnato,  ecc.  Così,  volendo  dare  alcune  dosi,  si  spargeranno 
10  chilog.  ad  ettare  di  incarnato,  2  di  rape  (1)  e  3  o  4  di  ravet- 
toni: questo  miscuglio  è  in  generale  uno  dei  più  utili  per  i  vi- 
gneti. 

Dopo  la  vendemmia,  quando  si  voglia  preparare  erba  da  soverscio 
primaverile,  si  spargono  i  semi  di  dette  piante  senz'  altro  sul  duro 
suolo,  e  poscia  vi  si  fa  passare  sopra  un  estirpatore  (od  uno  sca- 
rificatore, se  il  terreno  è  assai  arido  e  secco)  tirato  da  un  cavallo 
o  da  una  coppia  di  buoi,  a  seconda  della  larghezza  dell'interfilarc 

Per  tempo  in  primavera  si  vedranno  crescere  le  rape  e  i  ravet- 
toni. Nelle  regioni  calde  può  dirsi  che  raggiungono  la  massima  loro 
altezza  nei  primi  giorni  dell'aprile;  invece  nelle  regioni  settentrionali 
della  penisola  non  si  arriva  a  questo  punto  che  verso  il  finir  dello 
stesso  mese,  prima  o  dopo  a  seconda  delle  annate.  Per  verità,  se 
l'inverno  è  mite,  il  ravettone,  che  vien  presto  assai,  si  mostra  a  di- 


(1)  Invece  delle  rape  si  possono  usare  i  rafani, 


452  CAPITOLO  XII 


screta  altezza  nell'  Italia  superiore,  già  nel  mese  di  marzo,  e  ciò  tal- 
volta anche  a  dispetto  della  natura  argillosa  del  terreno. 

Più  sopra  abbiamo  consigliato  di  spargere  i  semi  delle  rape,  dei 
ravettoni  e  del  trifoglio  incarnato  sul  duro  suolo,  cioè  senza  veruna 
lavorazione  (aratura)  precedente:  la  ragione  di  questo  nostro  con- 
siglio sta  in  ciò  che  non  lavorando  il  suolo,  questo  si  riscalda  assai 
più  prontamente  ai  primi  tepori  della  primavera,  locchè  giova  mol- 
tissimo all'incremento  delle  erbe  confidatevi.  I  semi  suddetti  sono  del 
resto  assai  tenui,  e  l'estirpatura  basta  a  sotterrarli  quanto  occorre; 
un  sotterramento  più  profondo  loro  nuocerebbe,  come  è  a  tutti  noto. 

Insistiamo  sul  soverscio  composto  di  trifoglio  incarnato,  rape  e 
ravettoni,  perchè  ci  pare  che  si  possa  raccomandare  per  tutte 
le  regioni  italiane:  sono  piante  che  resistono  ai  freddi  invernali 
e  che  crescono  con  rapidità  ai  primi  tepori  primaverili,  per  cui 
si  possono  soversciare  le  fronde  in  aprile,  all'incirca,  al  momento  dei 
lavori  nelle  vigne;  l'incarnato  si  coltiva  sotto  ogni  clima  del  nostro 
paese,  e  lo  stesso  deve  dirsi  delle  rape;  è  pure  estesa,  massime  nel- 
l'alta Italia,  la  coltura  del  ravettone.  Valiamocene  adunque. 

Nulla  diremo  della  pratica  del  soversciare,  perchè  assai  facile: 
solo  noteremo  che  tutti  consigliano  di  sotterrare  le  frondi  a  20  cen- 
timetri almeno  di  profondità,  onde  richiamare  al  basso  le  radici  ed 
avere  il  suolo  più  fresco  durante  la  stagione  estiva,  cosa  questa  es- 
senzialissima.  È  la  stessa  profondità  che  consigliava  Gnyot  per  il  sot- 
terramento del  letame,  benché  egli  fosse  un  viticultore  più  del  Nord 
che  del  Sud  della  Francia. 

§  10.  Utilizzazione  degli  avanzi  delle  viti.  —  Da  tempi  assai 
remoti  i  viticultori  hanno  pensato  a  concimare  i  vigneti  cogli  avanzi 
stessi  delle  viti;  questi  avanzi  sono  le  foglie,  i  sarmenti  e  le  vi- 
naccie.  Sarà  utile  studiarli  separatamente. 

Le  foglie  o  si  lasciano  cadere  di  per  sé  stesse  o  si  fanno  rac- 
cogliere dalle  donne  e  dai  ragazzi,  come  consigliava  Olivier  de 
Serres  (1):  in  questo  caso  si  deve  attendere  che  la  vendemmia 
sia  finita  e  poscia  si  fa  un  composto  con  terra  e  fogliame  che  si 
sparge  a  suo  tempo  negli  interfilari  sotterrandolo  a  circa  20  cen- 
timetri di  profondità.  Dobbiamo  però  osservare  che,  a  nostro  avviso, 
non  conviene  sfogliare  i  vigneti  neppure  dopo  la  raccolta  delle  uve, 


(1)  Théàtre  d'agriculture,  L.  III. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  453 

e  ne  diremo  ampiamente  le  ragioni  al  Cap.  XIV:  si  lascino  quindi 
cadere  le  foglie  di  per  sé  stesse,  soversciandole  poscia  colla  vanga 
o  coll'aratro.  È  vero  che  le  foglie  (pag.  215)  contengono  una  certa 
quantità  di  azoto  e  di  acido  fosforico,  ma  è  evidente  che  esse  sole 
non  basterebbero  a  mantenere  il  terreno  del  vigneto  in  uno  stato 
di  soddisfacente  fertilità,  e  che  sarà  sempre  necessario  ricorrere  ai 
concimi  prodotti  fuori  del  podere,  per  reintegrare  il  suolo  della  po- 
potassa  esportata  col  vino  e  non  restituita  colle  foglie. 

I  sarmenti  si  debbono  adoperare  preferibilmente  tagliuzzati.  Ca- 
tone consigliava  di  mettere  questi  pezzetti  nelle  fosse  o  nelle  buche 
scavate  per  sotterrarvi  il  concime  per  le  viti:  invece  Plinio  voleva 
che  si  abbruciassero  prima  i  tralci  e  poi  se  ne  usasse  la  cenere.  In 
Italia  vi  ha  chi  si  giova  di  questa  maniera  di  concimazione,  e  cosi 
pure  in  Francia,  e  senza  dubbio,  chimicamente  parlando,  i  sarmenti 
costituiscono  un  buon  concime.  Ma  conviene  saperli  adoperare.  Anzi- 
tutto si  debbono  tagliuzzare  a  pezzetti  lunghi  non  più  di  0m,12, 
perchè  si  è  osservato  che  tagliandoli  a  lunghezze  maggiori  (25  cm.) 
sotterrati  che  siano,  danno  getti  che  si  vedono  spuntare  abbastanza 
numerosi  dalla  superficie  del  suolo.  La  loro  decomposizione  nel  ter- 
reno, specialmente  se  si  tratta  di  sarmenti  non  già  erbacei  ma  le- 
gnosi, è  molto  lenta  e  si  può  calcolare  in  media  che  essi  durano 
dieci  anni;  è  per  questo  che  alcuni  usano  di  tagliuzzarli  prima,  poscia 
schiacciarli,  infine  mescolarli  a  terra  innaffiata  con  orina  o  pozzo  nero 
per  facilitarne  la  decomposizione.  Il  sig.  T.  Carnevale  ne  fece  felice 
esperimento  nei  suoi  vigneti  dell' Isola  di  Lipari  facendo  prima  pas- 
sare i  tralci  tagliuzzati  nella  concimaia  ed  adoperando  poscia  questo 
concime:  questo  metodo  è  certamente  il  preferibile. 

Le  vinaccie  distillate  si  adoperano  su  vastissima  scala  quali  con- 
cime pei  vigneti  in  Francia  ed  in  Italia:  nonostante  la  distillazione  e 
l'estrazione  del  cremore,  esse  contengono  tuttavia  azoto  e  potassa, 
nonché  acido  fosforico  quando  non  siansi  separati  i  vinacciuoli.  Secondo 
Marès  un  chilogramma  di  vinaccia  distillata  conterrebbe  9  grammi 
di  azoto  e  4  di  potassa  delle  ceneri  —  mentre  secondo  Boussin- 
gault  un  chilo  di  stallatico  normale  conterrebbe  soltanto  4  gr.  di 
azoto,  e  5  fra  potassa  e  soda  delle  ceneri.  Inoltre  già  sappiamo 
(pag.  225)  che  le  vinaccie  abbruciate  contengono  per  ogni  100  grammi 
di  cenere,  il  10  0[q  di  acido  fosforico  il  41  0[q  di  potassa,  ed  il 
7  0[Q  di  calce. 

Le  vinaccie    si    adoperano    alla  dose    di  250   a  300   quintali    per 


454  CAPITOLO  XII 


ettare  di  vigneto  specializzato  (1)  dandone  da  8  a  10  chlog.  per  cep- 
paia  normale:  però  non  possiamo  consigliare  l'impiego  delle  vinaccie 
direttamente,  cioè  senza  far  loro  subire  una  speciale  preparazione,  perchè 
{a  loro  azione  sarebbe  assai  lenta.  Noi  usiamo  conservare  le  vinaccie, 
anche  se  distillate,  per  somministrarle  al  bestiame;  e  questo  è  cer- 
tamente uno  fra  i  mezzi  più  economici  per  utilizzarle  e  per  trasfor- 
marle poscia  in  concime  pei  vigneti;  ma  pochi  sono  quelli  che  sap- 
piano conservare  le  vinaccie  già  esaurite  del  loro  alcool  (2)  :  per 
questo  bisognerà  allora  stratificare  le  vinaccie  nella  fossa  del  letame, 
collo  stesso  stallatico,  innaffiando  tratto  tratto  la  massa  coi  colaticci; 
così  si  attiverà  la  decomposizione  della  vinaccia.  È  anche  ottimo  in- 
grasso un  terricciato  (o  composto)  fatto  con  vinaccia,  cenere,  cal- 
cinaccio, terra  vergine  e  un  po'  di  concio  umano  o  di  letame,  il  tutto 
salato  con  sale  agrario;  si  ha  così  un  concime  non  troppo  azo- 
tato, per  cui  l'uva  non  dà  un  mosto  troppo  ricco  di  albuminoidi,  ed 
infine  si  viene  ad  avere  un  vino  più  serbevole  e  di  gusto  più  franco. 
Il  viticultore  adunque,  abbia  o  non  bestiame,  deve  utilizzare  sul  pro- 
prio fondo  le  vinaccie,  perchè  ove  le  vendesse  alle  distillerie  per  non 
più  riacquistarle,  esaurirebbe  il  terreno  de'  suoi  vigneti  in  propor- 
zione dei  principii  esportati  colle  vinaccie  stesse:  quantunque  le  vi- 


(1)  Nell'Hérault  se  ne  impiegano  anche  350  quintali. 

(2)  Il  nostro  metodo  è  il  seguente  : 

Entro  grossi  bigoncii  poniamo,  per  ciascuno,  359  miriagrammi  di  vinaccie 
ancor  calde  comperate  alla  distilleria  ad  un  soldo  al  miriagramma,  142  miria- 
grammi di  foglie  di  viti  (quelle  dei  tralci  che  già  avevano  portato  frutti),  più  6 
miriagrammi  di  stoppia  trinciata  col  trincia  paglia.  1  bigoncii  li  riempiamo  nel 
seguente  modo:  prima  uno  strato  alto  1|2  decimetro  circa  di  vinaccie,  poi  altro 
uguale  d'un  miscuglio  di  foglia  e  stoppia,  indi  una  salatura  piuttosto  abbondante, 
infine  una  compressione  accuratissima  ed  energica,  poiché  da  essa  dipende  in 
gran  parte  l'esito  dell'operazione:  indi,  da  capo  uno  strato  di  vinaccie,  con  sopra 
il  solito  miscuglio,  eppoi  il  sale  ed  una  nuova  pestatura,  e  così  sino  a  riempire 
il  bigoncio,  il  quale  ricopriamo  con  molta  cura  con  un  decimetro  e  più  di  terra 
argillosa  inumidita.  Dopo  lo  giorni  (in  ottobre)  poniamo  mano  a  questo  foraggio- 
conserva,  che  è  mangiato  avidamente  dai  buoi  e  dai  cavalli  durante  21  giorni  di 
seguito;  il  foraggio  è  sanissimo  fino  all'ultimo,  e  ce  ne  serviamo  per  qualche  mese 
avendo  altri  serbatoi.  Ecco  quindi  risolto  un  importantissimo  problema,  poiché 
ognun  vede  quale  grande  risparmio  permetta  l'uso  di  questo  eccellente  foraggio. 

In  un  esperimento  di  confronto  che  facemmo  ponendo  solamente  le  vinaccie  ed 
il  sale  pastorizio,  dopo  15  giorni  trovammo  un  mangime  guasto,  che  gettammo 
nel  letamaio.  Bisogna  quindi  unirvi  le  foglie  e  la  stoppia:  per  ora  non  sapremmo 
dare  una  soddisfacente  spiegazione  del  perche. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  455 

naccie  distillate,  considerando  la  cosa  in  modo  assoluto,  contengano 
meno  azoto,  meno  fosforo  e  meno  potassa  di  quelle  non  per  anco 
distillate,  pure  usandole  come  concime  unitamente  alle  suddette  so- 
stanze complementari,  si  impedisce  fino  ad  un  certo  punto  l'esauri- 
mento del  vigneto. 

Dalle  distillerie  si  potrebbero  del  resto  acquistare  anche  ['liquidi 
residui  dalla  fabbricazione  del  cremor tartaro,  i  quali  secondo  le  ana- 
lisi del  compianto  nostro  collega  Doti.  I.  Macagno,  abbandonano  un 
residuo  contenente,  allo  stato  secco,  il  27,3  0[q  di  azoto,  il  7  0[q 
&'  acido  fosforico  ed  il  0,6  0[q  di  potassa.  Ogni  100  litri  dei  detti 
liquidi  possono  dare  6  chili  di  deposito,  cioè  di  un  concime  prezioso, 
ma  pur  troppo  affatto  trascurato.  Facciamo  voti  perciò  affinchè  le 
distillerie  in  grande  pensino  a  preparare  i  detti  depositi  per  metterli 
poi  in  commercio. 

§  11.  Giunchi,  alghe,  piante  resinose,  ecc.  —  Il  viticoltore 
ha  pensato  di  trarre  partito,  per  la  concimazione  della  vite,  anche 
delle  piante  che  crescono  abbondanti  nelle  vicinanze  de'  suoi  vigneti. 
Infatti  presso  gli  stagni,  e  nella  Francia  meridionale  sulle  rive  del 
Rodano  ed  a  Saint-Gilles,  si  ricopre  il  suolo  del  vigneto  di  giunchi 
(biodi)  ed  altre  simili  piante  da  paduli.  Questa  copertura  esercita 
una  mediocre  azione  concimante,  ma  preserva  il  suolo  dai  tristi  ef- 
fetti della  siccità  e  perciò  è  molto  apprezzata  dai  pratici. 

Presso  i  grandi  stagni,  come  sul  litorale  di  quello  di  Thau,  e  nelle 
coste  alternativamente  coperte  e  scoperte  dalle  maree,  si  adoperano 
eziandio  le  alghe  (piante  marine  dette  anche  varechj:  fra  esse  vi 
sono  dei  fucus  che  contengono,  allo  stato  di  essicazione  naturale  al- 
l'aria,  l'I  0[o  di  azoto,  ed  il  9  0[q  fra  potassa  e  soda.  Il  signor 
Marès,  che  ha  fatto  qualche  osservazione  su  tale  concimazione,  as- 
severa che  mentre  essa  non  produce  alcuna  alterazione  di  sapore 
nei  vini  bianchi,  rende  invece  cattivo  quello  dei  vini  rossi  (1)  del 
che  non  è  facile  dare  una  plausibile  spiegazione. 

In  alcuni  paesi  — per  esempio  nel  Bordolese—  si  adoperano  eziandio 
per  concimare  i  vigneti,  Y  erica,  la  ginestra,  il  ginepro,  il  bossolo: 
nella  Stiria  Inferiore  il  pioppo,  il  salice,  Y  ontano,  il  faggio:  nelle 


(1)  Le  vigne  delle  isole  di  Noirmoutiers  e  di  Re,  che  sono  concimate  quasi 
•  annualmente  con  varech,  producono  vini  così  cattivi,  che  servono  appena  a  fare 
aceto:  sono  questi  i  così  detti  vins  de  la  flotte. 


456  CAPITOLO  XII 


Alpi  marittime,  nel  Nizzardo  e  nel  Tirolo  il  susino  di  macchia  o 
prugnolo,  la  frangola,  la  Rosa  di  macchia  o  canina,  il  rovo,  ecc.: 
infine  le  fascine  di  pini  giovani,  di  cui  si  loda  tanto  Odart.  Tutti 
questi  vegetali  sono  di  lentissima  decomposizione  e  perciò  là  dove  si 
usano  si  ha  la  precauzione  di  non  adoperare  che  i  rami  e  le  parti  meno 
legnose,  e  che  perciò  contengono  maggior  quantità  di  succhi:  è  evi- 
dente che  sotterrate  nel  vigneto,  neh'  interfilare,  in  fosse  profonde, 
esse  si  decompongono  più  prontamente.  Questa  maniera  di  conci- 
mazione —  che  dopo  tutto  è  alquanto  povera  —  si  adopera  spe- 
cialmente nei  terreni  argillosi  al  momento  in  cui  si  pianta  la  vigna, 
mantenendo  così  soffice  il  terreno  e  nello  stesso  tempo  concimandolo 
alquanto.  Gli  è  ciò  che  si  fa  eziandio  nel  Basso  Monferrato  quando 
si  pratica  l'arrotto  (pag.  370)  e  con  ottimo  risultato,  perchè  alle  fa- 
scine di  vite,  di  olmo  o  di  rovere  si  suole  unire  lo  stallatico. 

Le  felci  potrebbero  adoperarsi  con  vantaggio  per  concimare  i  vi- 
gneti, perchè  sono  ricche  di  potassa;  inoltre  prese  allo  stato  verde 
contengono  nelle  foglie  il  2  0\q  di  azoto.  Un  soverscio  nel  vigneto 
stesso  potrebbe  bastare  per  attivarne  una  pronta   decomposizione. 

§  12.  Calce,  marna,  gesso,  ecc.  —  La  calce  è  un  prezioso 
ammendamento  pei  vigneti,  come  già  dicevamo  a  pag.  228,  ed  è 
adoperata  a  questo  scopo  da  tempi  remotissimi,  poiché  molti  autori 
antichi  ne  parlano.  La  dose  deve  variare  a  seconda  della  natura 
del  terreno;  se  ne  possono  spargere  40,  80  o  anche  100  quintali  ad 
ettare  nelle  terre  affatto  sprovviste,  adoperandola  sempre  allo  stato 
polverulento  ed  aspergendone  non  solo  l' interfilare  ma  le  stesse  cep- 
pale se  esse  sono  devastate  da  insetti  o  crittogame:  si  coprirà  poi, 
cioè  si  sotterrerà  quella  sparsa  sul  terreno,  con  una  lavorazione  pos- 
sibilmente in  autunno  od  in  principio  dell'inverno.  Così  si  otterrà  un 
completo  miscuglio  della  calce  col  terreno.  Dopo  tre  anni  dall'impiego 
della  calce  sarà  indispensabile  concimare  il  vigneto  con  un  composto 
azotato  o  ricco  di  potassa  e  fosfati,  perchè  la  calce,  specialmente  se 
viene  adoperata  a  dose  alta,  stimola  molto  il  suolo  e  lo  esaurisce. 
La  marna  (miscuglio  di  carbonato  di  calce,  argilla  e  silice)  si 
adopera  pure  nei  vigneti  da  tempi  remotissimi:  ne  parlano  Plinio  e 
Varrone  con  molta  lode.  Essa  si  applica  con  profitto  a  terreni  po- 
veri di  calcare,  cioè  su  terre  argillose  oppure  silicee,  nonché  ai  ter- 
reni acidi  e  torbosi.  Nella  Gironda  (Bordolese)  se  ne  fa  un  uso 
abbastanza  esteso,  specialmente  per  ridonare  vigore  ai  vigneti  este- 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  45* 


nuati;  perchè  la  marna  agisce  come  ammendamento  e  come  concime, 
cioè  eziandio  chimicamente  pel  calcare  che  mette  a  disposizione  della 
vite  (Boussingault).  La  quantità  di  marna  che  si  deve  adoperare 
non  si  può  precisare  per  ogni  vigneto;  in  generale  però  basteranno 
100  metri  cubi  per  ettare  di  vigneto  specializzato  (un  metro  cubo 
di  marna  pesa  in  media  15  quintali)  e  questo  ammendamento  avrà 
un'azione  duratura  per  cinque  anni  almeno.  Guyot  (1)  asserisce  che 
la  marnatura  vale  tanto  quanto  la  letaminazione,  e  ne  spinge  la  dose 
a  me.  125  ogni  quinquennio,  locchè  equivale  ad  una  discreta  spesa, 
massimamente  là  dove  la  marna  si  deve  estrarre  da  luoghi  lontani 
dal  vigneto.  Non  conviene  inoltre  scordare  che  la  marna  esaurisce 
essa  pure  il  suolo  a  lungo  andare,  per  cui  non  sarebbe  possibile  fare 
a  meno  sempre  dei  concimi  azotati,  fosfatati  e  potassici  ;  ciò  è  tanto 
vero  che  nei  paesi  dove  è  molto  in  uso  la  marnatura,  si  è  osser- 
vato che  la  sopportano  più  copiosa  e  molto  più  a  lungo  i  terreni 
ricchi  che  non  quelli  poveri. 

Il  modo  di  usare  la  marna  è  abbastanza  semplice  :  si  sparge  sul 
finire  dell'autunno  nel  vigneto  e  si  lascia  esposta  al  freddo;  in  pri- 
mavera si  sotterra  procurando  di  mescolarla  alla  terra  stessa. 

Quanto  dicemmo  della  marna  si  applica  anche  alla  creta,  che  è 
un  carbonato  di  calce  il  quale  esposto  all'aria  va  in  polvere,  appunto 
come  la  marna.  Si  usa  con  profitto  per  correggere  i  terreni  argil- 
losi deficienti  di  calcare. 

Il  gesso  (solfato  di  calce)  è  un  concime  e  non  un  ammendamento:  esso 
è  poco  usato  come  ingrasso  pei  vigneti:  pure  le  esperienze  fatte  con  esso 
diedero  buoni  risultati,  ed  il  Conte  Oclart  asserisce  che  il  gesso  cotto, 
ridotto  in  fina  polvere,  e  mescolato  allo  stallatico,  non  solo  provoca 
una  abbondante  formazione  di  tralci,  ma  eziandio  una  copiosa  frut- 
tificazione. La  dose  del  gesso  è  assai  variabile:  infatti  alcuni  la  li- 
mitano a  pochi  quintali  per  ettare,  altri  ne  spingono  la  dose  oltre 
i  10  quintali.  Converrà  quindi  che  il  viticultore  faccia  prima  un 
saggio  con  poca  quantità,  per  esempio  4  quintali,  misti  ad  altri  con- 
cimi fosfatati  ed  azotati,  per  determinare  quale  sia  la  dose  più  con- 
veniente pel  suo  terreno. 

§  13.  Terra  vergine,  terra  bruciata  e  limo.  —  Per  noi  la 
terra  vergine  altro  non  è  che  quella  parte  del  suolo  agrario  che 


(1)  Op.  cit.  voi.  Ili,  pag.  630. 


458  CAPITOLO  XII 


non  fu  ancora  vivificata  dagli  agenti  atmosferici,  e  quindi  non  venne 
tuttavia  sfruttata  dalle  piante.  Essa  è  della  stessa  natura  dello  strato 
attivo  sovrastante,  mentre  il  sottosuolo  su  cui  riposa  è  ben  diffe- 
rente. Quando  lo  strato  attivo  è  di  piccolo  spessore,  essendo  tutto 
usufruttato  dalla  vegetazione,  e  nel  caso  nostro  dalla  vite,  non  vi  ha 
strato  inerte  o  terra  vergine  sotto  di  esso,  ma  invece  si  incontra 
subito  il  sottosuolo  (1).  Senonchè  quasi  dovunque  lo  strato  inerte 
esiste,  specialmente  là  dove  il  terreno  è  mal  lavorato  e  rimosso  a 
poca  profondità:  ed  è  per  questo  che  quasi  ovunque  si  può  trarre 
grande  partito  dalla  terra  vergine. 

Premesse  queste  brevi  spiegazioni,  per  evitare  le  oramai  viete  ob- 
biezioni che  si  fanno  alla  utilizzazione  dello  strato  inerte,  diremo  che 
la  terra  vergine  è  tanto  più  pregevole  quanto  più  è  pregevole  lo 
strato  attivo  sovrastante;  ond'  è  che  si  spiega  benissimo  come  i  vi- 
gneti di  terreni  di  buona  natura  ma  esausti,  riprendano  nuovo  vi- 
gore non  appena  si  estrae  la  terra  vergine  dal  disotto  e  si  porta 
all'aria  acciò  la  vivifichi,  ed  a  contatto  delle  radici,  le  quali  vi  tro- 
vano in  copia  elementi  utili  alla  vegetazione.  Ma  anche  le  terre  ver- 
gini di  mediocre  valore  sono  utilizzabili,  e  la  pratica  ha  dimostrato 
che  mescolandovi  stallatico,  o  cenere,  o  concimi  potassici,  si  possono 
ottenere  risultati  rimarchevoli. 

La  terra  vergine  è  ben  lungi  adunque  dall'avere  una  composizione 
uniforme  dovunque,  e  perciò  è  molto  vario  il  suo  potere  fertilizzante: 
certo  però  essa  costituisce  in  moltissimi  casi  uno  fra  i  più  preziosi 
concimi  per  le  viti,  sia  per  accrescere  entro  giusti  limiti  la  produ- 
zione legnosa,  sia  per  stimolare  la  fruttificazione,  sia  sovratutto  per 
ottenere  uva  di  qualità  pregevolissima. 

Abbiamo  fatto,  varii  anni  or  sono,  alcuni  saggi  per  vedere  quale 
differenza  vi  fosse,  riguardo  ai  principii  maggiormente  utili  per  le  piante 
(azoto,  fosfati,  potassa),  fra  la  terra  vergine  esposta  o  non  all'azione 
dell'aria;  ecco  i  risultati: 


(1)  Secondo  noi  il  terreno  si  divide  nel  modo  seguente,  agronomicamente  par- 
lando: 


1°  Suolo  agrario 


Terra,  attiva  perchè  lavorata; 

Terra  inerte  o  vergine  perchè  intatta; 


2°  Sottosuolo; 

\\°  Strato  impermeabile; 

■V  Sfrato  acquifero. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  459 

Principii  utili  (1) 

Terra  vergine  presa  a  45  cent,  di  prof,  non  esposta  all'aria  .     .     .     .     gr.  0,037  0[0 

»  »  »  lasciata  all'aria  per  6  mesi      .      »    0,093  » 

Strato  arabile  dello  stesso  campo,  concimato  l'anno  prima    ....      »    0,063  » 

Da  un  nostro  vigneto  del  podere  Cardello  prelevammo  tre  cam- 
pioni di  terra  che  all'analisi  (2)  diedero  i  seguenti  risultati: 

Sostanze  Sostanze 

solubili  insolubili 

Terra  vergine  presa  a  50  cent,  di  prof,  non  esposta  all'aria  .  gr.    9,74  gr.  89,21 
»                 »                   »                 esposta  all'aria  in  e- 

state  ed  autunno     .  »    17,99  »    81,07 

Strato  arabile  dello  stesso  vigneto »    18,24  »    81,08 

È  notevole  la  povertà  di  sostanze  solubili  nel  terreno  inerte;  ed  è 
pure  notevole  che  esso  tuttavia  è  più  ricco  di  elementi  utili  alle  piante, 
e  solo  ha  duopo  di  essere  esposto  all'azione  degli  agenti  atmosferici 
per  rendersi  attivo.  Riguardo  all'  azoto  i  dettagli  di  detta  analisi  ci 
dicono  quanto  segue: 

Azoto  sotto  forma 
di  acido  nitrico 

Terra  vergine  a  0,50 gr.  traccie 

»  portata  alla  superfìcie  durante  6  mesi »       0,15 

Terra  arativa »       0,71 

Questa  maggior  ricchezza  d'azoto  dello  strato  arativo  è  dovuta 
sia  alle  concimazioni,  sia  all'azione  dell'atmosfera.  In  quanto  alle  ma- 
terie organiche  non  si  trovò  grande  differenza  fra  le  tre  terre. 
Uacìdo  fosforico  invece  abbondò  nella  terra  vergine  non  esposta 
all'aria,  appunto  perchè  non  sfruttata  dalle  piante. 

L'uso  della  terra  vergine  quale  ingrasso  è  adunque  razionale  anche 
considerato  scientificamente  :  i  risultati  pratici  sono  dal  canto  loro 
completi,  e  sono  numerosi  i  viticultori  che  già  ne  traggono  un  reale 
partito  sia  in  Italia  che  fuori.  I  Francesi  chiamano  terrage  questa 
maniera  di  concimazione  e  ne  fanno  i  più  grandi  elogi.  Il  Dr.  Guyot, 
come  già  abbiamo  accennato  più  sopra,  ne  è  addirittura  entusiasta: 
egli  vuole  che  si  scavino  fosse  profonde  per  estrarre  la  terra  ver- 
gine e  spargerla  attorno  ai  ceppi,  e  se  manca  un  buon  strato  inerte 


(1)  Analisi  del  Prof.  Del  Pozzo  di  Vercelli. 

(2)  »        del  oompianto  Dr.  Macagno. 


460  CAPITOLO  XII 


consiglia  di  prendere  questa  preziosa  terra  anche  fuori  del  vigneto; 
consiglia  pure  di  piantare  i  vigneti  preferibilmente  nelle  vicinanze  di 
ricche  miniere  di  terra  vergine,  se  così  possiamo  dire,  per  utilizzarle 
come  concime,  e  vorrebbe  che  nelle  vigne  stesse  si  consacrassero 
alcuni  tratti  unicamente  all'  estrazione  della  terra  vergine,  da  ado- 
perarsi ogni  cinque  anni  alla  dose  di  250  metri  cubi  per  ettare  di 
vigneto  specializzato.  Con  questa  concimazione,  conclude  Gnyot  «  la 
vigna  è  largamente  provvista  (1)  ».  La  spesa  egli  la  calcola  in  L.  1 
al  metro  cubo  compresa  l' estrazione  e  lo  spargimento,  cioè  L.  250 
Tettare  in  cinque  anni,  ossia  infine  a  L.  50  per  anno,  mentre  la  le- 
taminazione  costa  circa  il  doppio. 

L'eminente  viticultore  sig.  Marès,  parlando  in  modo  speciale  dei 
vigneti  del  Mezzodì  della  Francia,  loda  egli  pure  X  uso  delle  terre 
vergini,  e  dice  (2)  che  col  loro  mezzo  si  ridona  il  perduto  vigore 
alle  vigne  spossate,  pur  conservando  tutta  la  finezza  della  qualità 
nei  prodottti;  e  questa  è  cosa  di  grande  momento.  Olivier  de  Serres 
è  talmente  convinto  della  utilità  di  questa  maniera  di  concimazione, 
che  dice  essere  ben  raro  che  la  terra  adoperata,  anche  se  poco  pre- 
gevole, non  abbia  dato  buoni  risultati:  purché  si  tratti  di  terra  ri- 
posata, cioè  vergine,  e  l'esito  sarà  ottimo.  Il  sig.  Petit  Lafitle,  stu- 
diando la  viticoltura  del  Bordolese,  accenna  al  largo  uso  che  vi  si 
fa  delle  terre  vergini  come  concime  per  quei  rinomati  vigneti,  por- 
tandole spesso  da  luoghi  relativamente  lontani;  il  paesello  di  HurCj 
ad  esempio,  è  come  una  enorme  miniera  di  pura  terra  vergine  che 
è  molto  ricercata  da  anni  ed  anni,  cosicché  quella  località  presenta 
oggi  un  aspetto  dei  più  curiosi  e  strani,  colle  sue  immense  escava- 
zioni che  fanno  parere  il  villaggio  quasi  come  sollevato  da  qualche 
sconvolgimento  terrestre. 

Abbiamo  detto  che  anche  in  Italia  l'uso  delle  terre  vergini  nei 
vigneti  è  abbastanza  diffuso;  non  lo  è  però  come  si  meriterebbe,  e 
certo  ove  una  pratica  così  razionale  ed  economica  si  diffondesse  mag- 
giormente, si  vedrebbe  rapidamente  migliorare  la  produzione  non 
soltanto  in  quanto  a  quantità,  ma  eziandio  relativamente  alla  qualità; 
e  molti  vigneti  oggi  concimati  con  soverchio  letame  o  concime  a- 
zotato,  i  quali  producono  vini  troppo  ricchi  di  sostanze  albuminoidi 
e  perciò  di  diffìcile  conservazione  e  di  sapore  non  netto,  produrreb- 


(1)  Op.  cit.  pag.  035,  636. 

(2)  Op.  cit.  pag.  330. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  461 

bero  invece  vini  di  gran  lunga  migliori  e  serbevoli.  Stimiamo  utile 
accennare  ad  alcune  fra  le  più  belle  pratiche  italiane,  riguardo  al- 
l'uso della  terra  vergine  nei  vigneti. 

A  Gussago  (Brescia)  si  è  introdotto  forse  da  più  secoli  la  bella 
pratica  di  alternare  ogni  due  anni,  o  meglio  ogni  anno,  la  terra 
posta  al  pedale  delle  viti.  Ciò  si  fa  aprendo  in  autunno  negli  inter- 
fìlari  una  fossa  larga  e  profonda  60  centimetri,  estraendone  la  terra 
smossa  ed  allargandola  fin  sotto  le  viti  stesse.  Al  successivo  aprile, 
o  in  maggio,  si  vanga  il  suolo  in  pieno  e  si  ottura  la  detta  fossa. 

In  Valle  San  Martino  (Bergamo)  si  tengono  le  viti  sopra  ban- 
chine orizzontali,  cotanto  apprezzate  nella  Svizzera,  e  per  ridonare 
vigore  e  fecondità  alle  viti  si  è  adottata  la  bella  usanza  di  scassi- 
narne ogni  otto  o  dieci  anni  la  scarpa.  Cotale  scassinatura  scende 
sino  a  60  centimetri  di  profondità  e  si  innoltra  sino  al  piede  delle 
viti  (e  anche  al  di  là)  poste  sulla  banchina  a  circa  30  centimetri 
dall'orlo  della  scarpa  suddetta.  Nel  fare  questa  operazione  si  rispet- 
tano per  quanto  si  può  le  radici,  ma  pur  molte  si  fanno  a  pezzi, 
onde  le  viti  ne  soffrono  un  po'  al  primo  anno:  ma  colla  fecondità 
che  acquista  il  suolo  per  la  scassinatura  suddetta,  anch'esse  si  fanno 
feconde  e  tanto  che,  per  parecchi  anni  di  seguito,  il  prodotto  che 
se  ne  ricava  risulta  essere  due  volte  maggiore  di  prima. 

Nel  Vogherese  usano  alcuni  valenti  viticultori  di  aprire  in  giugno 
tra  i  filari  una  fossa  larga  75  centim.  per  estrarvi  una  fitta  di  vanga 
di  terra  vergine,  che  poi  essi  gettano  al  pedale  delle  viti;  il  prodotto 
dell'uva  si  accresce  di  molto  con  questa  concimazione.  Ciò  si  fa  spe- 
cialmente per  rinvigorire  le  ceppaie  vecchie  e  quasi  sfinite. 

In  quel  di  Milazzo  e  di  Messina  si  pratica  un  lavoro  profondo 
ogni  due  anni  lungo  gli  interfilari,  appunto  per  portare  alla  super- 
ficie la  terra  vergine;  non  è  raro  si  scenda  alla  profondità  di  70 
centimetri. 

Infine,  questi  esempii  si  potrebbero  moltiplicare  d'assai;  ma  bastino 
gli  accennati  a  dimostrare  che  quasi  in  ogni  regione  d'Italia  si  uti- 
lizza la  terra  vergine  a  prò  dei  vigneti. 

Parlando  dei  composti,  nel  paragrafo  seguente,  diremo  come  si 
debba  trarre  partito  di  questa  terra  nella  loro  formazione. 

La  terra  bruciata  è  pure  un  eccellente  concime  pei  vigneti.  Non 
parliamo  delle  ceneri  propriamente  dette,  di  cui  ci  occuperemo  al 
§  16,  ma  della  pura  terra  torrefatta:  è  questa  una  pratica  nota  in 
Italia  col  nome  di   debbio,    ed  in   Francia  con   quello  di   écobuage. 


462  CAPITOLO  XII 


Il  debbio  si  raccomanda  specialmente  per  migliorare  le  terre  vergini 
di  natura  poco  buona,  le  quali,  dopo  essere  state  così  cotte,  oltre  a 
divenire  più  ricche  in  sostanze  utili  per  la  vite,  cioè  in  sostanze  più 
prontamente  assimilabili,  acquistano  un  maggior  potere  assorbente, 
si  fanno  più  porose,  infine  diventano  un  utile  concime  minerale. 

L'abbruciamento  nei  dintorni  di  Savigliano,  Fossano,  ecc.  si  pra- 
tica nel  modo  seguente:  si  dispone  la  terra  a  guisa  di  fossetta,  entro 
cui  si  mette  il  combustibile,  e  sopra  altra  terra  per  lo  spessore  di 
50  centimetri,  lasciando,  in  questa  specie  di  ampio  canale,  varie  boc- 
chette (ogni  4  metri)  per  dar  fuoco  al  combustibile  e  dargli  aria. 
In  poche  ore  la  parte  superiore  si  deprime  e  il  fuoco  tenta  uscire 
da  tutte  le  parti.  Allora  si  fanno  cadere  entro  il  canale,  con  tri- 
denti, tutte  le  piote  superiori  per  modo  a  riempirlo,  e  si  aggiungono 
tosto  nuove  piote  per  contenere  il  fuoco.  Continuasi  così  finché  cessi 
la  probabilità  che  la  fiamma  si  renda  visibile.  Ventiquattro  o  anche 
trentasei  ore  dopo,  il  fuoco  tenta  di  nuovo  di  uscire  da  ogni  banda. 
Allora  si  scopre  questo  in  fretta  con  tridenti  a  uncino,  si  allarga  un 
po'  la  fossetta  alla  parte  superiore,  tirando  da  banda  le  piote  non 
ancora  abbruciate,  e  ciò  finché  si  scuopra  il  fu  jco  vivo  sul  quale 
si  pongono  nuove  piote  e  si  continua  poi  per  altre  24  ore  a  ve- 
gliare acciò  il  medesimo  non  esca  dalle  connessure  delle  dette  piote, 
otturandole  subito  con  altre.  Si  tornano  allora  a  scoprire  le  fossette 
sino  al  fuoco  vivo,  per  modo  a  formare  una  lunga  culla,  che  si 
riempie  colle  ultime  piote  e  colla  terra  non  abbruciata;  si  ricopre  infine 
il  tutto  colla  terra  ardente  tolta  alla  fossetta,  e  l'operazione  è  termi- 
nata. Si  lasciano  raffreddare  i  mucchi,  poi  si  coprono  ben  bene  con  terra 
perchè  non  si  disperdano  i  gaz  utili,  né  si   sciolgano  quelli  solubili. 

La  spesa  del  debbio  per  ettare  si  valuta  a  L.  40,  compresa  la 
legna  e  V  opera  di  8  persone,  di  cui  due  coi  tridenti  ad  uncino,  due 
altre  colle  zappe  per  aprire  le  fossette  e  quattro  per  riempirle.  In 
quest'opera  però  non  è  compreso  il  trasporto  e  lo  spargimento  della 
terra  cotta  sul  suolo.  La  terra  così  bruciata  si  sparge  infine  nel  vi- 
gneto, come  si  fa  della  terra  vergine,  ed  alla  stessa  dose. 

Il  limo  è  pure  adoperato  come  concime  pei  vigneti,  e  lo  stesso 
dicasi  dello  spurgo  dei  fossi,  tanto  usato  nel  Bordolese  (ove  è  detto 
transport  des  sentiers).  I  vigneti  così  fertili  di  Bolzano  sono  con- 
cimati, da  molto  tempo,  col  limo  dei  due  fiumicelli  Eisack  e  Talfer, 
che  si  diramano  appunto  in  quelle  località:  il  limo  dell'Eisack  è  ricco 
di  calce,  quello  di  Talfer  contiene  molta  potassa;  ambedue  poi  con- 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  463 

tengono  un  po'  d'  acido  fosforico.  Dobbiamo  però  avvertire  che  a 
Bolzano  non  si  adopera  il  limo  solo;  avvertentemente  invece  si  usa 
mescolarlo  al  letame  od  al  cessino.  Si  ha  così  il  miscuglio  di  un  con- 
cime potassico  con  uno  azotato,  il  che  spiega  la  fertilità  di  quei  vigneti. 

§  14.  I  composti  e  loro  grande  utilità.  —  Più  volte  nei 
paragrafi  precedenti  abbiamo  parlato  dei  composti  o  terricciati,  sic- 
come quelli  che  rappresentano  il  miglior  concime  per  la  vigna,  tanto 
per  rapporto  alla  quantità  come  per  la  qualità  del  prodotto.  Si  può 
affermare  che  dovunque  si  ottengono  vini  scelti  si  fa  uso  essenzial- 
mente di  composti  per  concimare  i  vigneti,  ed  in  questi  composti  è 
sempre  l'elemento  minerale  che  predomina,  o  sotto  forma  di  terra,  o 
di  calce,  o  di  gesso. 

Nei  terricciati  però  (da  non  confondersi,  come  fanno  alcuni,  col  ter- 
riccio) entrano  pure  a  far  parte  del  mescuglio  tanto  i  concimi  ve- 
getali quanto  quelli  animali;  generalmente  si  è  la  terra  vergine  che 
rappresenta  il  concime  inorganico.  I  terricciati  si  possono  fare  anzi 
con  sola  terra  vergine.  Esaminiamo  gli  uni  e  gli  altri. 

I  veri  composti  da  noi  si  usa  di  farli  con  mescugli  di  terra,  ce- 
nere, letame  o  escrementi  umani,  calcinacci,  ecc.  che  si  rivoltano 
generalmente  in  maggio  e  settembre,  sia  per  mescolarvi  aria,  sia 
per  amalgamare  meglio  i  varii  ingredienti:  si  ha  inoltre  l'avvertenza 
importante  di  non  lasciarli  asciugare  di  troppo,  e  perciò  si  tengono 
alquanto  umidi  versandovi  sopra  orine,  cessino  liquido,  acqua  di  la- 
vature od  alla  peggio  acqua  semplice.  Tutto  ciò  favorisce  la  nitri- 
fìcazione,  onde  il  composto  si  arricchisce  di  azoto  allo  stato  assimi- 
labile (nitrato  di  potassa  o  di  soda)  oltre  alla  calce  ed  al  fosfato,  se 
si  ha  l' avvertenza  di  mescolarvi  del  superfosfato  di  calce  (d'ossa  o 
di  minerali).  Ecco  alcuni  esempii  di  buoni  terricciati: 

Letame  di  stalla 

Escrementi  umani 

Terra  vergine 

Calcinaccio 

Spurgo  di  fossi  o  vinaccie 


oppure: 


Letame  di  stalla 

Escrementi  umani  o  meglio  vinaccie 

Terra  vergine 

Perfosfato  di  calce 

Gesso 


464  CAPITOLO  XII 


oppure  ancora: 

Avanzi  vegetali  d'ogni  specie 

Perfosfato  di  calce 

Gesso 

Terra  vergine 

Le  dosi  è  inutile  fissarle  a  priori,  poiché  non  sempre  il  viticultore 
ha  a  sua  disposizione  quella  determinata  quantità  di  ingredienti  che 
occorrono  per  un  dato  composto:  ad  ogni  modo,  per  un  ettare  ad 
esempio  di  vigneto  specializzato  ed  alquanto  esausto,  sarà  conveniente 
spargere  un  terricciato  così  composto: 

Letame  di  stalla  2  o  3  metri  cubi 
Oppure  escrementi  umani  4000  litri 
Con  terra  vergine  40  o  50  metri  cubi 
E  superfosfato  di  calce  200  chili. 

oppure: 


Cenere 
Calcinaccio 

quintali  10 
»        20 

Guano  o  sangue 
Superfosfato 

»  2 
»          2 

Allorquando  si  vuol  fare  il  terricciato  di  sola  terra  vergina,  allora 
basta  farne  dei  mucchi  che  si  debbono  rivoltare  molto  di  frequente 
per  mescolarvi  molta  aria;  si  provoca  così  una  vera  nitrificazione  e 
si  cangia  la  terra  vergine  in  un  buon  concime  ricco  di  azoto  mine- 
rale, cioè  di  nitrati. 

Sarà  sempre  molto  utile,  infine,  unire  il  sale  agrario  ai  composti, 
come  diremo  al  paragrafo  seguente. 

§  15.  I  sali,  i  perfosfati  ed  i  concimi  chimici.  —  Per  sali 
noi  intendiamo  specialmente  il  nitrato  di  potassa,  il  nitrato  di  soda, 
il  solfato  d'ammoniaca,  il  cloruro  di  potassa,  il  solfato  di  po- 
tassa ed  il  cloruro  di  sodio  o  sale  marino,  che  sono  quelli  più 
usati  per  fare  miscele  concimanti. 

Il  nitrato  di  potassa  deve  contenere  13  Ojo  di  azoto  e  44  0[q  di 
potassa;  è  prezioso  per  le  viti,  contenendo  sia  l'azoto  che  la  potassa 
allo  stato  prontamente  assimilabile.  Il  nitrato  di  soda  deve  contenere 
15  0(0  di  azoto,  ma  agronomicamente  parlando  è  inferiore  al  nitrato 
potassico.  Il  solfato  d'ammoniaca  vuole  essere  azotato  al  20  0[q;  esso 
rappresenta  una    preziosa  fonte    di  azoto   assimilabile.    Il  cloruro  di 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  465 

potassa  deve  contenere  circa  il  50  0[q  di  potassa,  se  raffinato,  ed  è 
per  noi  la  fonte  più  apprezzabile  della  potassa  per  i  vigneti.  È  però 
pregevole  anche  il  solfato  di  potassa.  Infine  il  sale  agrario  è  essen- 
zialmente uno  stimolante  del  terreno,  ed  è  perciò  assai  utile  mesco- 
larlo ai  terricciati,  come  si  pratica   da  molto  tempo    in  alcuni  paesi. 

La  dose  di  tutti  questi  sali  varia  sensibilmente  col  variare  dei  ter- 
reni; in  generale  però  essi  non  si  adoperano  da  soli,  ma  mescolati 
fra  di  loro,  secondo  le  forinole  del  sig.  Ville  che  accenneremo  fra 
poco. 

I  perfosfati  o  superfosfati  di  calce  sono  l'unica  sorgente  di  a 
cido  fosforico  di  pronta  assimilazione  che  sia  a  disposizione  dell'agri- 
coltore; essi  si  preparano  trattando  le  ossa  e  certi  minerali  (fosforiti 
ecc.)  coll'acido  solforico.  Sono  preziosi  anche  per  la  vite,  come  già 
accennavamo  a  pag.  227.  Se  puri,  contengono  dal  18  al  20  0[q  di 
acido  fosforico  anidro. 

I  concimi  chimici  risultano  dall'unione  dei  sali  suaccennati  col  per- 
fosfato di  calce:  —  con  essi  il  coltivatore  può  spargere  nel  suo  vigneto 
quel  concime  che  desidera,  ora  con  predominio  della  potassa,  ora  con 
predominio  dell'  azoto,  oppure  del  fosfato  a  seconda  del  caso.  La 
spesa  di  mano  d'opera  pel  trasporto  e  lo  spargimento  è  lieve,  e  si 
è  certi  di  accrescere  il  prodotto  dell'uva  senza  nuocere  menomamente 
alla  qualità.  Giorgio  Ville  ci  diede  pel  primo  le  formo! e  di  simili 
concimi  chimici:  eccone  due  adattate  appunto  ai  vigneti;  a  lato  vi 
segneremo  il  costo,  secondo  i  prezzi  che  si  praticano  oggi  in  Italia: 


Superfosfato  di  calce 

quintali 

6 

L. 

108 

Nitrato  di  potassa 

» 

5 

». 

275 

Gesso     .... 

» 

4 

» 

8 

Dose  per  ettare 

quintali 

15 

Spesa  per  ettare     . 

L. 

391 

Superfosfato  di  calce 

quintali 

4 

L. 

72 

Nitrato  di  potassa 

» 

2 

» 

110 

Nitrato  di  soda 

» 

3 

» 

105 

Gesso     .... 

» 

3 

» 

6 

Dose  per  ettare 

quintali 

12 

Spesa  per  ettare     . 

L. 

293 

O.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura,  31 


466  CAPITOLO  XII 


Il  sig.  Ville  ha  ottenuto  ottimi  risultati  dall'uso  di  queste  miscele: 
più  tardi  il  sig.  Saint-Pierre  fece  accurate  prove  a  sua  volta,  le 
quali  ebbero  pure  esito  felice:  infine  ora  l'uso  dei  concimi  chimici  nei 
vigneti  si  può  dire  che  si  diffonde  continuamente,  in  ispecie  là  dove, 
per  la  concimazione  dei  vigneti  stessi,  riescirebbe  assai  malagevole 
e  quasi  impossibile  il  trasportarvi  concimi  poco  concentrati,  e  di 
grande  volume,  come  il   letame  di  stalla,  il  cessino,    i  composti  ecc. 

Noi  pure  abbiamo  fatto  numerose  esperienze  sui  concimi  chimici  ap- 
plicati nei  vigneti,  ed  abbiamo  constatato  che  là  dove  il  terreno  è 
discreto  riguardo  a  fertilità  non  è  necessario  adoperare  12  a  15 
quintali  ad  ettare  come  consiglia  Ville.  Spesso  bastano  5  a  6  quin- 
tali ogni  due  anni.  Le  formule  Ville  si  possono  poi  variare  a  se- 
conda dei  casi,  sovratutto  introdocendovi  il  cloruro  di  potassa  ed 
il  solfato  di  ammoniaca. 

Il  sale  agrario  (da  non  confondersi  col  sale  pastorizio)  si  adopera, 
come  già  dicemmo,  nei  composti,  per  renderli  più  efficaci.  Noi  lo  u- 
siamo  alla  dose  di  7  quintali  per  ogni  terricciato  composto  di  60 
metri  cubi  di  terra  vergine  e  10  a  15  di  letame  o  altre  sostanze 
azotate. 

§  16.  Le  ceneri.  —  Sin  dai  tempi  antichi  gli  scrittori  di  geor- 
gica  raccomandarono  l'uso  delle  ceneri  quali  concimi  pei  vigneti,  e 
questo  dimostra  che  già  sin  d'allora  si  era  riconosciuta  la  benefica 
influenza  esercitata  dalla  potassa  sulla  vite.  Le  ceneri  possono  es- 
sere lisciviate  o  non;  le  prime  sono  certo  più  ricche  di  alcali  (po- 
tassa e  soda),  ma  non  per  questo  sono  da  sprezzarsi  quelle  lisciviate, 
perchè  l'analisi  ci  dimostra  che  oltre  a  contenere  ancora  una  ap- 
prezzabile quantità  di  potassa  e  soda,  contengono  eziandio  fosfato  di 
calce,  carbonato  di  calce  e  la  maggior  parte  dei  silicati  alcalini,  co- 
sicché per  questi  componenti  esse  non  differiscono  dalle  ceneri  vergini: 
infine  hanno  il  vantaggio  di  costare  molto  meno.  Si  trovano  a  com- 
perare in  copia  non  solo  nelle  lavanderie,  ma  nelle  fabbriche  ove  si 
lavorano  la  potassa  ed  il  nitro. 

Vi  sono  varie  specie  di  cenere:  fra  tutte  la  preferibile  è  quella  di 
legno,  come  è  noto.  E  fra  i  varii  legni  il  più  ricco  in  potassa  ed 
acido  fosforico  è  quello  dei  sarmenti  di  vite:  secondo  le  analisi  di 
Berzélius,  Berthier,  Saussure  ecc.,  ecco  le  proporzioni  di  potassa 
e  soda  contenute  nelle  ceneri  delie  seguenti  piante: 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  467 


Quercia    .     .     .       9,44  p.  0[Q         Paglia  di  segale    .     .     .     17,03  p.  0{() 
Olmo  ....     24,68       »                 Id.     d'avena.     .     .     .     27,87       » 
Pino    ....     15,48       »  Vite 43,67       » 

E  secondo  Berthier   la   proporzione    di    acido   fosforico   esistente 
nella  parte  insolubile  di  varie  ceneri  sarebbe  la  seguente: 


Quercia    . 

.     da    8  a  70  p.  0[oo 

Gelso    . 

.     da  18  a  116  p.  Ojqo 

Castagno  . 

»    19  »  —      » 

Larice  . 

.      »    54  »     57       » 

Pino     .     . 

.      »    10  »  50      » 

Vite .     . 

.      »    78  »  432       » 

La  preferenza  quindi  si  deve  dare  alle  ceneri  della  vite,  perchè 
sono  le  più  ricche  sia  in  potassa  che  in  acido  fosforico,  raccoglien- 
dole con  cura  per  adoperarle  come  concime  nei  vigneti  stessi.  La 
dose  non  deve  eccedere  i  20  ettolitri  ad  ettare  ogni  quattro  anni 
circa,  perchè  si  è  osservato  che  la  cenere  è  uu  potente  stimolante 
del  terreno  il  quale,  ove  si  eccedesse,  si  estenuerebbe  in  breve  tempo. 
Infatti,  secondo  l'opinione  già  avanzata  da  Thaér,  i  carbonati  al- 
calini delle  ceneri  facilitano  la  decomposizione  delle  sostanze  orga- 
niche del  terreno. 

Inoltre  la  cenere  è  sempre  preferibile  usarla  nei  composti,  ed  in 
ogni  caso  non  si  deve  mai  metterla  a  contatto  diretto  colle  radici, 
poiché,  appunto  per  la  sua  alcalinità,  nuocerebbe  alle  loro  parti  più 
tenere,  esercitando  un'azione  disorganizzatrice. 

Oltre  alle  ceneri  di  legna,  abbiamo  le  ceneri  di  carbon  fossile, 
quelle  di  torba,  ecc.  che  sono  pure  utilizzabili  pei  vigneti,  benché 
non  abbiano  una  ricchezza  in  potassa  uguale  alle  prime  (da  1  a  3  Ojq.) 

Appendice.  —  La  fuliggine.  Non  ci  consta  che  questa  sostanza 
si  adoperi  quale  concime  nei  vigneti;  pure  potrebbe  con  profitto  en- 
trare nei  composti  perchè  vi  porterebbe  azoto,  potassa  ed  acido  fo- 
sforico. Se  ne  potrebbero  usare  in  media  da  15  ettolitri  a  20  per 
ogni  ettare  di  vigneto  specializzato,  contenente  4000  a  5000  piante; 
si  dovrebbe  mescolarla  con  terra,  vinaccie,  ceneri  ecc.,  così  da  for- 
mare circa  50  metri  cubi  di  composto.  Una  simile  concimazione,  in 
terreni  di  media  fertilità,  basterebbe  per  due  anni. 

§  17.  I  concimi  antisettici  e  loro  valore.  —  I  viticultori 
attribuiscono  proprietà  antisettiche  a  certi  concimi,  perchè  infatti  al- 
cuni fra  di  essi,  se  non  uccidono  realmente  gli  insetti  parassiti  del 
vigneto,  almeno  ne  li  allontanano.  Ne  diremo  poche  parole  a  titolo 
di  curiosità. 


468  CAPITOLO  XII 


Ai  panelli  di  colza,  ad  esempio,  si  attribuisce  la  proprietà  di  uc- 
cidere a  dirittura  Yeumolpe,  per  l'olio  essenziale  che  si  forma  in  di- 
screta quantità  nel  terreno  con  essi  concimato:  questo  olio  sarebbe 
Y  essenza  di  senape,  lì  sig.  Paolo  Thénard  fece  al  riguardo  accu- 
rate esperienze,  con  panelli  preparati  alla  temperatura  di  80°  ado- 
perati alla  dose  di  12  quintali  per  ettare;  anzitutto  fece  ridurre  il 
panello  in  polvere,  che  fu  poi  sparso  nel  vigneto  dalla  metà  di  feb- 
braio alla  metà  di  marzo,  cioè  ai  momento  del  primo  lavoro.  Egli  fece 
fare  lo  spargimento  alla  volata,  ed  il  vignaiuolo  copriva  subito  il 
panello  colla  zappa.  La  larva  dell'eumoìpe  vive  sulle  radici,  alle  quali 
cagiona  talvolta  gravi  danni;  ma  sotto  l'azione  dell'essenza  di  senape 
del  panello,  muore.  Il  sig.  Thénard  ripetè  le  sue  prove  durante 
molti  anni,  e  sempre  con  esito  felice. 

Anche  il  panello  di  ricino,  secondo  le  molte  esperienze  fatte  a 
Flayose  (nel  Varo)  dal  sig.  V.  Raynaud,  godrebbe  di  speciali  pro- 
prietà insettifughe. 

Contro  la  fillossera  vennero  poi  ideati  innumerevoli  concimi  an- 
tisettici, i  quali  pur  troppo  non  diedero  risultati  apprezzabili.  Il  sig. 
Rogiers  però  sostiene  di  aver  ottenuto  buon'esito  nel  Gard  mercè 
l'uso  della  fuliggine  alla  dose  di  mezzo  chilogramma  per  ogni  ceppo 
fillosserato,  ed  applicata  in  una  fossa  scavata  attorno  al  ceppo  stesso: 
l'odore  empireumatico  della  fuliggine  avvelenerebbe  il  suolo  e  con 
esso  le  fillossere,  ciò  che  però  noi  non  crediamo.  Ci  vuole  ben  altro 
per  asfissiare  questi  afidi  ! 

Non  neghiamo  tuttavia  che  si  possano  combinare  miscele  conci- 
manti le  quali  godano  della  proprietà  di  fugare  certi  insetti:  i  viti- 
cultori  ne  hanno  tratto  profitto  da  tempi  assai  remoti,  e  gli  scrittori 
latini  di  georgica  ci  dicono  ad  esempio  che,  contro  le  larve  che  in- 
festano le  radici  della  vite,  è  utile  adoperare  un  miscuglio  di  «  bi- 
tume, zolfo  e  morchia  »  e  via  dicendo.  Anzi,  se  risaliamo  ai  tempi 
della  tradizione  biblica,  troviamo  ivi  pure  indicati  i  concimi  antiset- 
tici, come  sarebbe  ad  esempio  un  miscuglio  di  aceto  forte  e  cenere  da 

applicarsi  sulle  radici  delle  viti Non  vi  ha  adunque  realmente  nulla 

di  nuovo  sotto  il  sole! 

§  18.  Varii  modi  di  adoperare  i  concimi  per  le  viti.  — 

Ci  rimane  a  studiare  in  qual  modo  debbonsi  usare  i  concimi  nei  vi- 
gneti, per  averne  buoni  risultati,  e  nello  stesso  tempo  per  non  re- 
care nocumento  alle  viti  stesse  quando  —  come  accade  spesso  — 
si  adoperano  ingrassi  di  natura  caustica. 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI  469 

Anzitutto  stabiliremo  siccome  regola  generale  che  i  concimi  non 
vanno  mai  posti  a  diretto  contatto  col  sistema  radicale  della 
vite:  fra  quest'ultimo  e  l'ingrasso  dovrà  sempre  intercedere  un  pic- 
colo strato  di  terra,  che  si  farà  scendere  sulle  radici  medesime  dopo 
scavata  la  buca,  e  prima  di  somministrare  la  occorrente  dose  di  in- 
grasso. 

In  secondo  luogo  si  dovrà  sempre  procurare  di  fare  la  conci- 
mazione del  vigneto  allorquando  la  vegetazione  è  in  riposo, 
vale  a  dire  da  novembre  a  marzo;  tenendo  calcolo  che  è  preferibile 
il  periodo  da  novembre  a  gennaio  al  periodo  da  gennaio  a  marzo. 
Questo  è  tanto  più  vero  nei  paesi  caldi,  ove  1'  inverno  è  per  così 
dire  la  sola  stagione  nella  quale  cada  una  certa  quantità  di  pioggia; 
è  quivi  molto  conveniente  che  vengano  le  piogge  quando  già  sia 
stato  concimato  il  vigneto,  specialmente  se  si  sono  adoperati  con- 
cimi chimici  o  cenere  o  altri  ingrassi  minerali,  cui  1'  acqua  giova 
molto,  rendendoli  di  più  facile  assimilazione.  Certo  però,  se  si  usano 
concimi  molto  pronti,  si  può  fare  la  concimazione  anche  nel  mese 
di  marzo  ed  ottenerne  tuttavia  buoni  risultati  nella  vendemmia  dello 
stesso  anno,  specie  riguardo  alla  buona  formazione  del  legno  per  la 
fruttificazione  avvenire.  Le  gemme  in  questo  caso  si  formano  in  con- 
dizioni favorevoli,  i  loro  serbatoi  si  arricchiscono  di  molte  sostanze 
utili,  onde  si  ha  poi  una  copiosa  vendemmia  l'anno  successivo.  In 
generale  però  è  sempre  preferibile  concimare  i  vigneti  sul  tardo  au- 
tunno, come  or'  ora  consigliavamo. 

In  terzo  luogo  si  dovrà  aver  cura  di  sotterrare  i  concimi  almeno 
a  20  o  25  cent,  di  profondità,  sia  perchè  le  radici  siano  allettate 
a  stare  in  basso  nel  suolo  (ove  è  maggiore  la  frescura  ed  ove  perciò 
possono  trovare  1'  umidità  che  è  loro  indispensabile),  sia  perchè  le 
mal'  erbe  non  profittino  dei  concimi  stessi. 

Ciò  premesso,  diremo  che  i  concimi  si  possono  sotterrare  in  buche, 
oppure  in  fosse,  oppure  anche  in  fori,  ed  infine  a  scasso  ge- 
nerale. Il  sistema  delle  buche  conviene  specialmente  alle  viti  di 
grandi  dimensioni  (pergolati,  ecc.);  esso  consiste  nello  scavare  at- 
torno alla  ceppaia  una  buca  profonda  20  o  25  centimetri,  tanto 
da  scoprire  le  prime  radici,  e  larga  quanto  si  vuole;  entro  di  essa 
si  mette  il  concime,  dopo  aver  coperto  leggermente  le  radici  con 
terra.  Abbiamo  detto  a  bello  studio  che  le  buche  possono  farsi  lar- 
ghe a  piacimento,  perchè  si  è  visto  in  pratica  che  questo  allarga- 
mento, se  così  possiamo  chiamarlo,  dell'antica  buca  in  cui  fu  pian- 


470  CAPITOLO  XII 


tata  la  vite,  giova  molto  alla  vite  stessa,  cosicché  spesso  anche  senza 
concime  se  ne  ottengono  rimarchevoli  risultati  (V.  §  13,  Terra  ver- 
gine).  Il  viticultore  vedrà  quindi  a  seconda  delle  speciali  circostanze 
in  cui  si  trova,  fino  a  che  punto  gli  converrà  di  tenere  ampia  la 
buca:  in  generale  si  adotti  la  larghezza  di  un  metro. 


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Fig.  107. 

Le  buche  si  possono  anche  fare  attorno  ai  singoli  ceppi,  nei  vi- 
gneti specializzati,  a  guisa  di  tanti  circoli  (fig.  107):  è  questo  il  si- 
stema che  seguono  molti  viticultori  della  Francia  Meridionale,  benché 
costoso.  A  tal'  uopo  si  opera  una  vera  scalzatura  delle  ceppaie  a  18 
centimetri  di  profondità,  durante  la  quale  si  libera  il  pedale  dai  getti 
parassiti  che  indebolirebbero  la  pianta:  gettato  il  concime  nella  buca 
si  sotterra.  Questa  concimazione  costa  L.  10  ogni  1000  ceppaie, 
vale  a  dire  circa  45  lire  V  ettare  per  la  sola  spesa  occorrente  all'a- 
pertura delle  buche,  perchè  le  ceppaie  sono  distanti  lm,50  l'una  dal- 
l'altra. 

Il  sistema  delle  fosse  aperte  lungo  i  filari,  cioè  negli  interfìlari,  è 
il  preferibile  specialmente  se  si  tratta  di  vigneti  specializzati.  Tali 
fosse  possono  avere  una  larghezza  variabile  a  seconda  dell'ampiezza 
dell'interfilarc;  se  questo  è  molto  grande,  non  conviene  fare  la  fossa 
nella  parte  mediana,  ma  è  preferibile  fare  due  fosse  lateralmente  al 
filare,  alla  distanza  di  circa  40  centimetri  dai  ceppi.  Ogni  filare  ver- 
rebbe così  a  trovarsi  fra  due  fossette  distanti  fra  di  loro  circa  80 
centimetri.  La  profondità  delle  fosse  deve  essere  di  almeno  20  o  25 
centimetri;  in  esse  si  metterà  il  concime,  ricoprendolo  poscia  con  terra. 
Come  si  vede,  rimane  un  tratto  di  40  cent,  tanto  al  disopra  quanto 
al  disotto  del  filare  in  cui  non  vi  ha  concime,  e  questo  perchè  è  mu- 
tile mettere  l'ingrasso  presso  al  ceppo  ove  non  vi  sono  radici  d'as- 
sorbimento (v.  pag.  89  e  90). 


CONCIMAZIONE  DEI  VIGNETI 


471 


Un  ottimo  sistema  di  concimare  i  vigneti  è  quello  indicato  dalla 
fig.  108:  nell'interfilarc  si  apre  un  fosso  profondo  40  o  50  centimetri 
nel  quale  si  mettono  i  concimi,  i  quali  poscia  si  coprono  con  terra  presa 
scalzando  le  ceppaie.  Ciò  si  fa  in  autunno.  È  noto  che  questa  scal- 


Fig.  108. 

zatura  è  molto  giovevole  alla  vite,  come  diremo  in  disteso  al  capi- 
tolo XV,  perchè  giova  ad  immagazzinare  le  acque  piovane  autun- 
nali ed  iberni,  specialmente  nei  paesi  caldi  ed  aridi.  Al  sopraggiun- 
gere dei  primi  calori  si  rincalzano  le  ceppaie,  appianando  il  vigneto. 

11  sistema  dei  fori  consiste  nel  praticare  con  appositi  foraterra 
dei  buchi  attorno  ai  ceppi,  ed  a  collocarvi  dentro  la  necessaria  quan- 
tità di  concime.  È  evidente  che  questo  metodo  non  può  adottarsi  se 
non  quando  si  usano  concimi  polverulenti  o  liquidi.  A  tal  uopo  si 
adopera  un  palo  di  ferro  (fig.  109)  oppure  altro  foggiato  come  la 
fig.  110  se  il  terreno  è  poco  consistente.  Se  invece  il  terreno  è  duro, 
conviene  valersi  del  palo  a  vangile,  cioè  con  due  stecche  (fig.  Ili) 
sulle  quali  l'operaio  poggia  il  piede  per  infìggerlo  nel  suolo:  le  due 
stecche  debbono  essere  poste  all'altezza  di  almeno  40  centimetri  dalla 
punta  del  palo.  Il  concime  si  misura  abbastanza  esattamente  con  un 
cucchiaio  (fig.  112)  facendo  prima  una  prova  per  vedere  quanti 
grammi  di  ingrasso  può  contenere.  Si  possono  praticare  quattro  fori 
attorno  ad  ogni  pianta,  oppure  anche  soli  due,  dividendo  la  dose  del 
concime  in  quattro  oppure  in  due  parti. 

Infine  il  sistema  di  concimare  il  vigneto  a  scasso  generale  con- 
siste nello  spargere  i  concimi  uniformemente  nell'interfilarc,  come  si 
farebbe  in  un  campo,  e  poscia  sotterrarli  con  uno  scasso  generale 
alla  profondità  di  20  a  25  centimetri.  Quasi  tutto  il  terreno  del  vi- 
gneto viene  ad  essere  così  ingrassato,  fatta  eccezione  per  una  striscia 
di  40  centimetri  circa  di  spessore  sia  da  un  lato  che  dall'altro  del 
filare  —  in  tutto  80  cent,  circa  —  nella  quale,  come  dicevamo  or 
ora,  è  inutile  spargere  concime.  Alcuni  obbiettano  che  questo  sistema 
è  costoso;  invece   noi  lo  troviamo    molto  economico,    perchè  si  può 


472 


CAPITOLO  XII 


benissimo  spargere  il  concime  prima  del  lavoro  primaverile  del  vi- 
gneto, e  sotterrarlo  facendo  questo  lavoro  stesso  colla  zappa,  colla 
vanga  o  coll'aratro:  con  una  sola  spesa  si  compirebbero  cosi  due  im- 
portanti operazioni  nel  vigneto.  È  vero  però  che  ciò  non  può  dirsi 
nel  caso  della  concimazione  fatta  in  autunno.  Un'  altra  obbiezione 
vien  fatta  alla  concimazione  che  diremo  alla  volata,  ed  è  questa:  se 
il  lavoro  che  si  fa  per  sotterrare  il  concime  non  è  abbastanza  pro- 
fondo, si  provoca  la  formazione  delle  radici  superficiali,  che  sono 
troppo  soggette  a  soffrire  gli  ardori  del  caldo  se  il  terreno  non  è  te- 


Fig.  109. 


Fig.  no. 


Fi-    111. 


Fiff.   11-'. 


nuto  sempre  smosso;  di  più,  si  favorisce  la  moltiplicazione  delle  male 
erbe.  Questa  obbiezione  è  seria,  ma  appunto  per  evitare  gli  accen- 
nati inconvenienti  abbiamo  consigliato  di  portare  il  concime,  colla 
lavorazione,  a  20  o  25  centimetri  di  profondità,  onde  chi  non  cre- 
derà di  dover  fare  questo  scasso,  farà  meglio  ad  adottare  il  sistema 
delle  fosse  o  quello  delle  buche;  a  meno  che  non  voglia  sotterrare 
il  concime  in  due  volte,  la  prima  a  marzo  con  una  leggera  zappa- 
tura, la  seconda  a  maggio  con  una  vangatura  più  profonda,  por- 
tandolo così  a  maggior  profondità  nel  terreno. 


CAPITOLO  XIII 


Potatura   secca 


§  1 .  Definizioni  —  §  2.  Scopo  della  potatura  secca  —  §  3.  Potatura  povera,  ricca 
e  ricchissima:  potatura  di  allevamento  e  di  produzione  —  §4.  Quando  si  debba 
potare  e  quando  convenga  anticipare  la  potatura  —  §  5.  La  potatura  in  due 
tempi  —  §  6.  La  potatura  secca  e  la  varietà  del  vitigno  —  §  7.  Strumenti 
per  potare  —  §  8.  Modo  di  eseguire  la  potatura:  esempii  pratici  —  §  9.  La 
succisione  delle  viti. 


§  1.  Definizioni.  —  I  viticultari  chiamano  potatura  secca  quella 
che  si  fa  in  autunno,  nell'inverno  od  in  principio  di  primavera  espor- 
tando le  parti  legnose  e  secche  della  vite,  e  questa  è  la  vera  pota- 
tura. Chiamano  invece  potatura  verde  il  complesso  di  quelle  opera- 


Fig.  113. 

zioni  le  quali,  come  la  scaccliiatura  e  la  cimatura,  hanno  per  iscopo 
di  favorire  la  fruttificazione  e  moderare  il  soverchio  sviluppo  erbaceo 
della  vite  mediante  la  esportazione  di  alcune  parti  verdi  della  vite 
stessa.  La  prima  potatura  si  pratica  da  ottobre  ad  aprile;  la  se- 
conda da  maggio  a  settembre. 


474 


CAPITOLO  XIII 


Dicesi  capo  a  fratto  il  tralcio  frutticoso;  il  capo  a  frutto  si  dice  che 
è  potato  corto  quando  gli  si  lasciano  poche  gemme,  talvolta  anche 
soltanto  una  o  due.  Allora  i  capi  prendono  eziandio  il  nome  di  speroni 
o  cornetti  frutticosi:  la  fig.  113  mostra  una  ceppaia  che  porta  uno 
sperone  frutticoso  con  due  sole  gemme.  Nel  calcolare  il  numero  delle 
gemme  si  terrà  calcolo  soltanto  delle  così  dette  gemme  franche, 
cioè  di  quelle  che  hanno  sopra  di  sé  un  internodo  intatto  e  col  suo 
intermezzo  legnoso,  per  essere  stata  tagliata  nel  mezzo  la  gemma 
terminale:  la  gemma  che  ha  sopra  di  sé  una  semplice  porzione  di 
internodo  quasi  sempre  fallisce,  come  già  abbiamo  detto  a  pag.  127 
ove  b  fig.  31  sarebbe  una  gemma  franca,  a  differenza  della  gemma 
a  di  assai  dubbia  riuscita. 

Ma  una  ceppaia  può  essere  potata  a  molti  speroni  di  due  gemme,  ed 
allora  la  potatura  benché  corta  è  ricca,  mentre  nel  caso  della  fig.  113 
dicesi  anche  potatura  povera.  La  fig.  114  ci  porge  un  esempio  di 
potatura  corta  ma  ricca. 


Fig.  114 


Allorquando  alla  vite  si  lascia  un  vero  tralcio  a  frutto,  si  ha  la 
potatura  lunga  (fig.  115):  in  questo  caso  si  lascia  alla  ceppaia  uno 
sperone  (fig.  115  B)  che  serve  a  dare  due  o  più  getti,  fra  cui  il 
potatore  può  scegliere  il  tralcio  frutticoso  alla  potagione  successiva. 
Siccome  il  tralcio  lungo  A  è  quello  che  dà  l'uva,  si  chiama  capo  a 
frutto  o  tralcio  frutticoso;  e  poiché  lo  sperone  B  ci  dà  invece  i 
tralci  per  Tanno  successivo,  vien  chiamato  capo  a  legno  o  sperone 
legnoso  (1).  Nell'Italia  centrale  il  sistema  di  potatura  indicato  nella 


(1)  Columella  lo  chiama  la  guardia,  e  così  lo  chiamano  anche  alcuni  scrittori 
moderni,  perchè  lo  sperone  da  legno  è  come  la  guardia  della  produzione  avvenire. 


POTATURA  SECCA 


47f 


fìg.  115,  con  uno  sperone  da  un  lato  ed  un  tralcio  frutticoso  ricurvo 
dall'altro,  è  detto  a  capovolto.  Quando  la  vite  è  potata  in  questa 
guisa,  il  potatore  fa  all'atto  della  potatura  secca    tre  operazioni;  la 


Fig.  11; 


prima  consiste  nell'esportare  il  tralcio  che  ha  dato  frutto  {colpo  del 
passato);  la  seconda  nell'accomodare,  accorciandolo  alquanto,  uno  dei 
getti  dello  sperone  per  poscia  distenderlo  a  frutto  {colpo  del  pre- 
sente)', la  terza  infine  nel  potare  o  speronare  a    due  occhi  almeno 


Fior.  116. 


altro  fra  i  getti  dello   sperone  primitivo,    il  più  basso,    appunto  per 
avere  un  nuovo  sperone  {colpo  dell'avvenire)  (1). 


(1)  Queste  efficaci  espressioni  le   dobbiamo  all'egr.  Prof.  Courtois  di  Chartres. 


476  CAPITOLO  XIII 


Allorquando  una  ceppaia  si  allunga  di  troppo,  è  bene  abbassarla; 
a  tal'uopo  si  alleva  uno  sperone  collocato  in  basso  sulla  ceppaia 
stessa,  potandolo  a  due  gemme:  questo  sperone  è  detto  sbassatolo, 
appunto  perchè  si  taglia  il  vecchio  legno  sovrastante  alla  sua  inser- 
zione e  la  ceppaia  rimane  allora  abbassata  quanto  conviene. 

Infine  la  potatura  può  essere  mista,  cioè  e  con  capi  corti  e  con 
capi  lunghi:  la  fìg.  116  ce  ne  porge  un  esempio,  mostrandoci  una  pianta 
di  vite  con  tre  speroni  a  due  gemme  A  ed  un  tralcio  lungo  B.  Tal- 
volta ancora  invece  di  un  solo  tralcio  lungo  se  ne  lasciano  due,  come 
si  vede  nella  fìg.  117. 

Studiando  al  Cap.  XXII  varii  sistemi  di  viticoltura,  accenneremo 
alle  svariate .  forme  che,  nell'atto  della  potatura  secca,  si  infliggono 
alla  vite  (piramide,  ombrello,  cordoni  speronati,  ecc.)  la  quale  tutte 
le  sopporta  abbastanza  bene,  specialmente  se  non  le  manca  il  sus- 
sidio o  di  buon  terreno  o  di  appropriato  concime. 

§  2.  Scopo  della  potatura  secca.  —  Abbiamo  detto,  studiando 
la  fisiologia  della  vite,  che  fra  il  sistema  aereo  e  quello  sotterraneo 
della  pianta  deve  sempre  esistere  una  cotale  armonia,  se  si  vogliono 
ottenere  copiosi  frutti,  di  buona  qualità,  e  se  si  vuole  impedire  il  troppo 
precoce  esaurimento  delle  ceppaie.  Or  bene,  egli  è  appunto  per  con- 
seguire consimili  risultati  che  ogni  anno  si  pratica  la  potatura  secca 
delle  viti. 

Ma  questa  operazione,  pure  tanto  utile,  è  essa  realmente  indispen- 
sabile? Ci  facciamo  una  simile  domanda,  pensando  che  in  alcuni  paesi 
(per  esempio  in  certi  locali  della  Valle  d'  Aosta)  si  usa  di  lasciare 
liberamente  sfogare  la  vite  senza  mai  reciderle  tralci  secchi,  come 
si  fa  generalmente;  ma  allora  il  piantamento  vuol  essere  assai  rado  (1), 
eppoi  si  richiedono  ottime  ed  annuali  conciìnazioni ,  perchè  il  si- 
stema radicale  si  fa  ampiissimo  (essendo  rispettato  il  sistema  aereo). 
Oltre  a  ciò  nei  paesi  caldi  non  si  potrebbe  adottare  questo  sistema, 
perchè  con  tralci  lunghissimi  la  sava  subirebbe  un  eccesso  di  elabo- 
razione, e  le  gemme  ascellari  si  organizzerebbero  male,  onde  l'anno 
dopo  darebbero  poca  uva.  Ciò  è  confermato  da  numerosi  fatti,  e  non 
ammette  dubbii:  il  fogliame  stragrande  per  verità  cagionerebbe  una 
evaporazione  assai  grande  e  dannosa  sia  alle  gemme  come  ai  frutti 


(1)  Ecco  un  esempio  che  togliamo  da  un  caso  pratico:  filari  a  5  metri  e  piante 
a  25  metri  l'una  dall'altra.  Queste  enormi  distanze  sono  indispensabili. 


POTATURA  SECCA  477 


pendenti.  Lo  provammo  noi  in  Ajaccio,  e  ce  lo  provano  i  pergoli 
siciliani  paragonati  alle  viti  potate  basse.  Il  sistema  della  vite  libera, 
cioè  non  mai  potata,  potrebbe  adunque  consigliarsi  per  prova  nella 
sola  Italia  settentrionale  ed  in  luoghi  freschi,  e  sovratutto  non  sog- 
getti a  lunghe  siccità;  con  esso  si  otterrebbe  certo  moltissima  uva, 
e  siccome  quelle  viti  mettono  un  po'  più  tardi  in  primavera,  così 
andrebbero  anche  meno  soggette  ai  danni  delle  brine. 

Ma  le  condizioni  climatologiche  che  si  richiedono  per  potere  adot- 
tare quel  sistema  di  coltura  non  si  trovano  tanto  facilmente;  d'altra 
parte  le  annate  calde  e  secche  sono  frequentissime  anche  neh"  Italia 
superiore,  ed  in  questo  caso  le  viti  libere  soffrirebbero  assai,  come 
dicevamo  or'  ora  parlando  dei  paesi  del  Mezzodì.  Potando  invece  la 
vite  annualmente,  si  evitano  questi  inconvenienti,  e  non  v'  ha  lo 
stretto  bisogno  sovraccennato  della  concimazione  annuale.  Il  sistema 
radicale  delle  nostre  viti  è  perciò  limitato,  e  spesso  pur  troppo  anche 
meschino  colà  dove  non  si  concima  mai  il  vigneto;  or  bene,  potando 
annualmente  noi  veniamo  a  porre  il  sistema  aereo  in  armonia  con 
quello  sotterraneo,  e  questa  armonia  sappiamo  che  non  deve  in  nes- 
suna maniera  rompersi,  se  pure  non  si  vuole  pregiudicare  grave- 
mente la  fruttificazione. 

Certo  però  non  bisogna  eccedere  nel  potare,  e  bisogna  anche  po- 
tare a  tempo  debito.  Studiamo  bene  questi  importantissimi  punti. 

§  3.  Potatura  povera,  ricca  e  ricchissima:  potatura  d'al- 
levamento e  di  produzione.  —  Già  sappiamo  che  la  tendenza  na- 
turale della  vite  è  quella  di  espandersi  allungando  quasi  senza  limite 
i  suoi  tralci;  ne  abbiamo  parlato  in  disteso  a  pag.  179,  ed  abbiamo 
concluso,  coli"  appoggio  della  fisiologia  vegetale  e  della  stessa  viti- 
coltura pratica,  che  in  generale  devesi  preferire  la  potatura  ricca  a 
quella  povera.  La  prima  esaurisce  il  suolo,  ed  a  questo  si  può  prov- 
vedere; ma  la  seconda  esaurisce  la  pianta,  ed  allora  non  è  quasi 
possibile  rimediarvi. 

È  un  fatto  irrefutabile  che  un  eccesso  nella  potatura,  per  cui  si 
riduce  la  vite  ad  una  ceppaia  con  uno  o  due  speroni  ad  una  o  due 
gemme,  rende  la  pianta  vecchia  e  spossata  in  poco  tempo,  perchè 
essendo  meschini  i  suoi  rami,  diventano  meschine  anche  le  sue  radici. 
Ma  in  viticoltura  sono  poche  le  regole  assolute,  ed  anche  a  quanto  qui 
diciamo  si  possono  muovere  obbiezioni.  Infatti  nei  paesi  caldi  e  dove 
il  terreno  è  piuttosto  magro,  se  le  ceppaie  sono  alquanto  vecchie,  è 


478  CAPITOLO  XIII 


assolutamente  indispensabile  potare  povero,  per  esempio  anche  ad  un 
solo  sperone  con  due  gemme  (fig.  113);  i  pochi  grappoli  che  porta  allora 
la  pianta,  ricevono  dall'  apparato  radicale  quella  quantità  di  umido 
che  loro  abbisogna  e  possono  maturare,  laddove  se  la  potatura  fosse 
ricca  e  fossero  molti  i  grappoli,  senza  dubbio  gli  acini  soffrirebbero  per 
l'asciutto,  rimarrebbero  di  piccolo  volume  ed  essicherebbero  piuttosto 
che  maturare.  Nelle  suddette  condizioni  si  può  anche  adottare  la 
potatura  corta  ma  ricca  indicata  dalla  fig.  114  se  le  condizioni  di  fer- 
tilità del  suolo  lo  comportano.  Il  tralcio  lungo  in  simili  condizioni 
non  è  raccomandabile;  noi  lo  abbiamo  esperimentato  in  Corsica  ma 
con  cattivo  esito,  perchè  molti  grappoli  del  tralcio  rimanevano  con 
acini  piccoli,  che  maturavano  molto  a  stento,  per  deficienza  di  umore. 

La  potatura  corta  a  speroni  è  pure  raccomandabile  là  dove  le  viti 
sono  tenute  molto  fìtte,  in  terre  non  troppo  feraci:  ce  ne  porge  un 
esempio  la  Svizzera,  nel  Cantone  di  Vaud,  ove  si  potano  le  piante 
a  cornetti  di  2  gemme,  lasciandone  4  per  ceppaia.  Ma  queste  cep- 
paie  sono  collocate  a  soli  50  centina,  l'una  dall'altra  in  tutti  i  sensi, 
cioè  alla  minima  distanza  possibile.  È  facile  intendere  che  queste  viti 
sono  poco  rigogliose,  onde  non  si  ha  a  temere  1'  aborto  dei  fiori  in 
primavera:  infatti  la  produzione  oscilla  intorno  a  100  ettolitri  per 
ettare. 

Al  contrario  la  potatura  a  speroni  nei  paesi  ove  l'umido  abbonda, 
o  per  lo  meno  non  fa  difetto,  e  dove  le  piante  sono  vigorose,  è  ge- 
neralmente da  condannarsi;  perchè  se  l'umore  copioso  non  trova  un 
lungo  tralcio,  ma  solo  dei  cornetti,  affoga  come  suol  dirsi  i  grappo- 
lini,  che  si  cangiano  in  viticci  (pag.  96).  Qualora  in  queste  condi- 
zioni si  volessero  potare  le  viti  a  speroni,  converrebbe  abbondare 
non  solo  nel  numero  di  questi,  portandoli  anche  a  10  o  15  per  cep- 
paia, ma  lasciare  loro  anche  4  o  5  gemme  franche  per  caduno:  inoltre 
saranno  allora  indispensabili  le  cimature,  di  cui  parleremo  nel  Ca- 
pitolo seguente,  per  forzare  la  produzione  del  frutto,  poiché  con  questo 
sistema  di  potatura  si  serbano  alla  vite  solo  le  gemme  inferiori  dei 
tralci,  generalmente  non  feconde  (veggansi  le  pag.   198  e  199). 

È  un  fatto  però  che  nei  vigneti  dell'  Italia  settentrionale  conviene 
adottare  di  preferenza  la  potatura  a  tralcio  lungo,  specialmente  per 
ottenere  molta  uva:  taluni  anzi  potano  non  già  ad  uno,  ma  a  due 
tralci  frutticosi,  e  ne  ottengono  prodotti  assai  elevati,  provvedendo 
però  alla  opportuna  concimazione  per  non  esaurire  troppo  presto  le 
ceppaie.  Questa  potatura  ricchissima  si  può  solo  adottare  colà  dove 


POTATURA  SECCA  479 


le  viti  sono  molto  vigorose,  poiché  in  questo  caso  conviene  abbon- 
dare nel  numero  dei  capi  a  frutto.  In  taluni  piantamenti  a  piramidi, 
a  file  distanti  4  metri  e  colle  piante  a  2  metri  l'una  dall'altra,  ab- 
biamo talvolta  contato  oltre  a  100  speroni  con  tre  gemme;  e  nelle 
viti  maritate  ad  alberi  è  noto  che  i  tralci  frutticosi  sono  talvolta  in 
numero  anche  di  10  a  15,  e  tutti  assai  lunghi,  come  ci  mostra  la 
fig.  118.  Qui  il  sistema  radicale  è  molto  ampio  ed  ha  a  sua  disposi- 
zione un  grande  cubo  di  terra,  e  perciò  la  pianta  non  soltanto  può 
sopportare  la  potatura  ricchissima,  ma  la  richiede.  In  caso  diverso, 
cioè  con  potatura  povera,  si  verificherebbe  il  quasi  totale  aborto  dei 
fiori  ed  il  prodotto  fallirebbe  pressoché  totalmente. 


Fig. 118. 


La  potatura  assai  ricca  è  pure  indispensabile  per  le  viti  giovani 
e  robuste  le  quali  crescono  in  terreni  pingui,  con  sottosuolo  imper- 
meabile e  perciò  umidicci:  così  si  fraziona  il  succo  fra  molte  gemme, 
e  non  si  ha  a  temere  cotanto  la  trasformazione  dei  grappoli  in  vi- 
ticci. Certo  però  dove  la  potatura  è  molto  lunga  conviene  mante- 
nere fertile  il  suolo;  in  caso  diverso  la  pianta  si  estenua  presto,  ed 
è  per  questo  che  si  suol  dire  che  la  potagione  lunga  logora  la 
vite,  poiché  esaurisce  il  suolo. 

Ma  la  potatura  deve  altresì  variare  secondochè  si  tratta  della  ^o 
tatura  di  allevamento  o  di  quella  di  produzione. 

Chiamasi  di  allevamento  la  potatura  che  si  pratica  sulle  viti  nei 
primi  anni  del  loro  piantamento:  lo  scopo  del  viticultore  intelligente 


480  CAPITOLO  XIII 


deve  essere  allora  quello  di  coadiuvare  la  costituzione  di  una  pianta 
forte,  robusta  e  con  buon  apparato  radicale,  e  non  già  di  ottenere  tosto 
un  prodotto;  or  bene,  questo  risultato  non  si  può  ottenerlo  colla  po- 
tatura troppo  corta  e  povera,  come  tanti  usano,  tagliando  la  pianta, 
al  primo  anno,  ad  un  solo  sperone  con  due  occhi.  Questa  mutila- 
zione irrazionale  della  giovine  pianta  nuoce  molto  al  sistema  radi- 
cale, onde  la  ceppaia  adulta  rimane  per  sempre  poco  vigorosa:  ciò  è 
tanto  vero  che  coloro  i  quali  nei  primi  anni  potano  le  piantine  molto 
ricche,  oppure  non  le  potano  affatto,  ottengono  ceppaie  di  molta  ro- 
bustezza e  fertilità  nonché  di  lunga  durata,  perchè  le  radici  hanno 
potuto  espandersi  liberamente.  Al  primo  anno  adunque  si  poti  ricco, 
con  almeno  due  speroni  di  tre  gemme;  al  secondo  anno  poi  si  poti 
a  quattro  speroni,  oppure  a  due  getti,  ma  lunghi,  se  la  vite  vuole 
educarsi  a  tralcio  frutticoso. 

Al  terzo  od  al  quarto  anno,  a  seconda  del  modo  con  cui  fu  fatto  il 
piantamento  e  delle  condizioni  di  fertilità  del  terreno  e  di  vigore  del 
vigneto,  incomincierà  la  potatura  di  produzione,  la  quale  ha  per 
iscopo  di  favorire  la  produzione  del  frutto  senza  però  danneggiare 
la  pianta  nella  sua  longevità;  su  di  che  già  abbiamo  parlato  lunga- 
mente nelle  pagine  che  precedono. 

§  4.  Quando  si  debba  potare  e  quando  convenga  antici- 
pare la  potatura.  —  La  scelta  del  momento  più  opportuno  per 
effettuare  la  potatura  ha  molta  importanza,  specialmente  per  quanto 
riguarda  la  produzione  copiosa  dell'uva;  spesso  accade  che  il  rac- 
colto è  mediocre  o  scarso  perchè  le  ceppaie  furono  potate  in  mo- 
menti non  indicati  dalle  loro  condizioni  speciali.  Vediamo  pertanto 
di  esaminare  questo  importante  punto. 

Una  regola  generale  non  si  potrebbe  fissarla,  perciò  ci  converrà 
distinguere.  È  evidente  che  anche  in  questo  caso  il  viticultore  deve 
tener  calcolo  del  clima,  del  suolo  e  del  vigore  delle  viti;  nei  climi 
poco  caldi  e  là  dove  le  terre  sono  di  buona  natura  ed  i  ceppi  vi- 
gorosi e  giovani,  conviene  potare  tardi,  per  permettere  all'abbon- 
dante umore  che  viene  dal  suolo  di  frazionarsi  in  molti  rami,  senza 
di  che,  vale  a  dire  ove  la  pianta  fosse  già  potata,  affogherebbe  i 
grappoli  nascenti  (aborto  dei  fiori).  Si  è  appunto  per  ovviare  a  que- 
sto grave  inconveniente  che  il  Dr.  Guyot,  il  sig.  F.  Lacoste  ed  altri 
scrittori  francesi  consigliano  di  tardare  a  potare  anche  in  presenza 
dei  primi  germogli;  questo  consiglio  però  lo  indirizzano  in  modo  spe- 


POTATURA  SECCA  481 


ciale  ai  viticultari  della  Francia  Settentrionale,  cioè  di  climi  freschi, 
mentre  ben  differente  consiglio  danno  gli  scrittori  della  Francia  Me- 
ridionale. Guyot  (1)  dice,  ad  esempio,  che  la  vite  deve  essere  po- 
tata nella  quindicina  che  precede  il  suo  movimento  vegetativo,  rite- 
nendo che  è  meglio  ritardare  che  anticipare;  il  potare  durante  l'in- 
verno o  prima  fa  abortire  i  fiori  {caldure).  Marès  (2)  invece,  par- 
lando del  Mezzodì  della  Francia,  consiglia  la  potatura  anticipata,  a 
partire  dal  15  novembre  e  venendo  non  oltre  il  15  marzo,  per  e- 
vitare  che,  colla  potatura  tardiva,  la  vite  perda  umore,  ciò  che  la 
indebolirebbe  di  molto,  specialmente  se  le  ceppaie  sono  attempate. 

Infine,  se  è  vero  che  in  alcune  condizioni  di  clima  e  di  vitigno 
«  tarda  potatura  dà  poco  legno  e  molta  uva  »  come  dice  un  vec- 
chio adagio,  è  eziandio  vero  che  la  potatura  anticipata  di  tutte  le  viti 
vecchie,  nodose,  non  molto  robuste,  poste  in  terreni  aridi  ed  in  clima 
pure  arido,  «  dà  molta  uva  »  e  prepara  anche  «  buon  legno  »  per 
la  potatura  successiva. 

In  nessun  caso  poi  il  viticultore  deve  prendere  a  guida  della  po- 
tatura le  fasi  della  luna:  non  è  vero  che  potando  in  luna  nuova  si 
abbiano  tralci  più  vigorosi,  e  che  potando  nella  luna  di  febbraio  si 
ottenga  poca  uva,  mentre  se  si  pota  in  marzo  se  ne  ottiene  molta,  e 
via  via.  La  Quintinye,  il  vecchio  ortolano  di  Luigi  XIV,  dopo  trentanni 
di  osservazioni  sull'influenza  della  luna,  ne  trasse  la  convinzione  che 
tutti  i  precetti  i  quali  furono  dati  dai  così  detti  vecchi  pratici,  altro  non 
sono  che  «  sciocchezze  da  ortolano  di  poca  abilità  ».  E  così  tutti 
coloro  —  noi  pure  compresi  —  i  quali  fecero  esperienze  di  confronto 
sull'influenza  della  luna  sulla  potatura,  si  convinsero  pienamente  che 
nulla  vi  ha  in  ciò  di  serio.  Chi  pota  in  marzo  ottiene  più  uva  che 
non  chi  pota  in  febbraio,  non  già  per  la  varia  influenza  della  luna, 
ma  perchè  la  potatura  tardiva  è  più  conveniente  nei  paesi  setten- 
trionali ove  appunto  è  in  voga  quel  precetto,  e  ne  abbiamo  detto 
or'ora  le  ragioni. 

Riassumendo,  ripeteremo  che 

1°  La  vite  estenuata  e  vecchia  si  deve  potare  in  autunno, 
cioè  subito  dopo  la  vendemmia,  quando  le  foglie  sono  ancora  ai- 
quanto  verdi  e  continua  qualche  movimento  nei  succhi;  questi  succhi 


(1)  Op.  cit.  voi.  Ili,  pag.  633. 

(2)  Op.  cit.  pag.  321. 

0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura,  32 


482  CAPITOLO  XIII 


vengono  così  usufruitati  a  beneficio  delle  gemme  frutticose  dei  tralci 
uviferi,  i  quali  appunto  per  ciò  non  si  debbono  sfogliare. 

2°  La  vite  in  condizioni  quasi  normali,  cioè  non  troppo  ri- 
gogliosa, ma  nemmeno  spossata,  si  deve  potare  più  tardi;  nel 
verno,  ad  esempio. 

3°  Infine  la  vite  giovane  e  robusta  si  deve  potare  fardi  in 
primavera,  ma  sempre  prima  nei  paesi  caldi  che  non  nei  freddi. 
Queste  viti  rigogliose,  che  crescono  su  terre  feraci,  massime  se  si 
trovano  nell'Italia  superiore  ove  la  primavera  è  spesso  umida  assai, 
è  indispensabile  che  piangano  molto,  se  pur  si  vogliono  evitare  i  gra- 
vissimi danni  dell'aborto,  di  cui  discorreremo  più  innanzi. 

Da  quanto  qui  dicemmo,  si  deduce  poi  che  le  viti  poste  in  terre 
aride,  quelle  dei  climi  assai  caldi  o  esposte  al  sud  o  coltivate  sui 
poggi,  o  composte  di  vitigni  molto  feraci  e  produttivi,  debbono  po- 
tarsi prima  che  non  le  viti  poste  in  terre  fertili,  quelle  dei  climi 
mediani  o  freschi,  o  esposte  al  nord,  o  coltivate  nelle  piane,  o  com- 
poste di  vitigni  di  produzione  scarsa,  a  lunghi  internodi  e  che  sof- 
frono per  le  primavere  umide.  Quando  poi  una  vite  avesse  sofferto, 
o  avesse  portato  troppa  uva,  o  avesse  avuto  per  vicini,  negli  inter- 
filari,  il  frumento,  la  segale,  ecc.,  o  peggio  le  male  erbe,  e  non  si 
fosse  vangata  o  zappata  che  una  sol  volta,  essa  dovrà  potarsi  prima  che 
non  la  vite  la  quale  abbia  vegetato  in  condizioni  normali;  e  ciò  perchè 
avvantaggi  un  po'  nell'  autunno,  e  non  pianga  troppo  in  primavera, 
perdendo  quel  succo  di  cui  ha  tanto  bisogno  e  che  in  essa  non  è 
sicuramente  esorbitante. 

§  5.  La  potatura  in  due  tempi.  —  L'aborto  dei  fiori,  che 
alcuni  con  espressione  tolta  dal  francese  dicono  la  colatura,  arreca 
ogni  anno  gravi  danni  in  moltissimi  locali  italiani,  non  esclusi  varii 
della  stessa  regione  Calabro-Sicula:  l'eccesso  di  umore  primaverile  è 
la  causa  principale  di  questo  grave  malore,  che  non  è  raro  dimezzi 
a  dirittura  il  prodotto,  particolarmente  negli  anni  umidi.  —  Per  ov- 
viare a  tanta  perdita  di  prodotto  noi  andiamo  consigliando,  da  molti 
anni  a  questa  parte,  la  potatura  in  più  tempi,  generalmente  in  due. 
Colla  prima  potatura  (che  si  opera  tra  dicembre  e  marzo)  si  pu- 
lisce la  vite  e  la  si  digrossa,  liberandola  dal  legno  inutile,  ma  rispet- 
tando tuttavia  due  o  tre  tralci  frutticosi,  che  si  conservano  intatti 
in  tutta  la  loro  lunghezza.  Colla  seconda  potatura  (che  si  fa  al  muo- 
versi della  vegetazione,  quando  già  si  mostrano  i  grappoli  ni  nascenti) 


POTATURA  SECCA  483 


si  termina  la  potatura  stessa,  o  raccorciando  tutti  i  tralci  che  si 
erano  lasciati,  o  esportandone  uno  o  due,  per  serbarne  uno  solo,  od 
in  casi  speciali  conservandoli  intatti  tutti  quanti.  Con  questo  sistema 
oltre  ad  impedire  l'aborto,  si  ottiene  anche  un  altro  vantaggio:  suppo- 
niamo infatti  che  sopraggiunga  una  forte  brina;  siccome  nei  tralci 
lunghi  —  specialmente  se  verticali  —  si  sviluppano  prima  le  gemme 
della  punta,  queste  saranno  le  più  danneggiate;  ma  quelle  della  base 
rimarranno  intatte,  per  cui  colla  seconda  potatura  si  raccorcieranno 
i  tralci  esportando  la  parte  guasta  e  serbando  quella  intatta,  le  cui 
gemme  sbuccieranno  più  tardi. 

Si  chiederà  perchè  non  fare  a  dirittura  la  potatura  tardiva  in  una 
sola  volta,  con  che  si  ovvierebbe  benissimo  ai  danni  dell'aborto.  Ri- 
spondiamo che  la  potatura  in  due  tempi  conviene  specialmente  alle 
viti  di  mezzano  vigore  che  sono  le  predominanti  nel  nostro  paese; 
a  queste  viti  recherebbe  nocumento  una  perdita  troppo  grande 
di  succo  in  principio  di  vegetazione,  ond'è  che  è  necessario  impedire 
l'aborto  dei  fiori  senza  tuttavia  privare  la  pianta  di  una  troppo  grande 
quantità  di  umore.  Gli  è  ciò  che  si  ottiene  potando  in  due  tempi, 
per  moderare  il  soverchio  frazionamento  del  succo  al  ridestarsi  della 
vegetazione  come  accadrebbe  qualora  si  aspettasse  a  sgrossare  e  po- 
tare poco  tempo  prima  del  movimento  del  succo. 

La  potatura  in  due  tempi  fu  adottata  con  vantaggio  sia  nel  Mez- 
zodì d'Italia,  ove  potasi  la  vite  a  speroni,  come  nel  Settentrione  ove 
potasi  a  tralcio  lungo;  sono  in  particolar  modo  le  viti  giovane  e  vigorose 
che  ne  avvantaggiano,  specialmente  allorquando  l'aprile  ed  il  maggio 
corrono  piuttosto  umidi.  In  questi  casi  il  grappolo  non  si  trasforma 
in  viticcio  e  nello  stesso  tempo,  mercè  quella  potatura  in  due  riprese, 
non  si  danneggia  la  pianta  con  un  soverchio  pianto. 

§  6.  La  potatura  secca  e  la  varietà  del  vitigno.  —  Si  ri- 
tiene generalmente  che  la  potatura  secca  debba  anche  variare  a  se- 
conda della  varietà  del  vitigno,  e  questo  è  esatto  quando  la  vite  si 
lascia  crescere  con  alquanta  libertà,  un  po'  secondo  il  suo  istinto 
naturale,  cioè  non  si  cimano  i  tralci  né  le  femminelle.  In  tal  caso  è 
chiaro  che  bisognerà  potare  lungo  o  corto  a  seconda  che  insegna 
l'esperienza  dei  viticoltori,  i  quali  sanno  benissimo  che,  ad  esempio, 
il  nebbiolo  o  spanna  vuole  lunghi  tralci  uviferi.  Ma  se  la  vite  è  e- 
ducata  bassa,  e  se  il  vigore  suo  è  concentrato  negli  speroni  frutticosi, 
allora  non    è  più    necessario    far  distinzione    fra  vitigno    e  vitigno. 


484 


CAPITOLO  XIII 


Cosi,  mercè  le  cimature  graduali  dei  tralci  uviferi  e  dei  rimessiticci, 
al  vigneto  sperimentale  il  Cardello  (1)  si  riuscì  a  far  fruttificare  il 
suddetto  nebiolo  potandolo  a  speroni  con  sole  2  o  3  gemme,  cioè 
con  potatura  cortissima. 

Abbiamo  già  detto  a  pag.  186  che  è  possibile  provocare  un  rac- 
corciamento  degli  internodii  delle  viti,  e  che  ad  una  minor  lunghezza 
dei  medesimi  corrisponde  una  maggior  fecondità  nelle  gemme  uvi- 
fere; gli  è  colle  cimature  graduali,  di  cui  parleremo  nel  capitolo  se- 
guente, che  si  ottiene  questo  raccorciamento  dei  meritalli,  ed  allora 
anche  un  vigneto  che  usualmente  richiede  la  potatura  lunga,  può 
potarsi  corto.  Per  concedere  in  questo  caso  uno  sfogo  alle  piante 
giovani  e  robuste,  si  possono  lasciare  parecchi  speroni  frutticosi,  a- 
dottando  quella  che  al  §  1  abbiamo  chiamato  potatura  corta  ma  ricca, 
ed  agli  speroni  si  possono  eziandio  lasciare  anche  più  di  quattro 
gemme  per  caduno. 

§  7.  Strumenti  per  potare.  —  Lo  strumento  che  si  adopera 
per  potare  esercita  una  non  piccola  influenza  sull'esito  della  potatura 
stessa:  generalmente  si  usano  il  pennato  o  falcetto  (fig.  119)  oppure 


Fig.  119. 


la  forbice  fig.  120  (forbicione  o  tenaglia  (2)  );  per  fare  grossi  tagli, 


Fig.  120. 


(1  |  Questo  podere,  dirotto  da  mio  padre  G.  A.  Ottavi,  trovasi  presso  Casal  Mon- 
ferrato,  ed  è  specialmente  dedicato  agli  studii  viticoli. 
(2)  Alcuni  chiamano  il   forbicione  sècatore,  dal    francese  sécateur, 


POTATURA  SECCA  485 


come  quando  si  abbassa  una  ceppaia,  si  adopera   la  sega    a   mano 

(fig.  121). 

Deve  preferirsi  la  forbice  al  falcetto?  La  quistione  è  controversa, 
ma  a  noi  pare  di  poterla  risolvere  bene  facendo  qualche  distinzione. 
Colla  forbice  la  potatura  procede  certo  più  speditamente,  ed  è  facile, 
per  chi  ben  inteso  sappia  adoperarla,  spaccare  in  due  orizzontal- 
mente T  ultima  gemma  franca  con  un  internodio  aperto,  cioè  senza 
tramezzo  legnoso  (pag.  127):  colla  forbice  è  anche  assai  più  facile 


Fig.  121. 

rimondare  la  vite  dai  vecchi  viticci  e  dai  getti  laterali  del  tralcio 
frutticoso  o  degli  speroni  senza  offendere  le  gemme  ascellari.  Ma 
spesso  accade  che  il  potatore  inesperto  colla  forbice  guasta  e  quasi 
diremmo  lacera  le  fibre  legnose,  cagionando  ai  tralci  altrettante  fe- 
rite molto  pericolose:  questo  si  verifica  sempre  allorquando  la  forbice 
è  mal  costrutta  ;  è  invece  necessario  che  la  lama  tagliente  sia  non 
solo  bene  affilata,  ma  che  combaci  perfettamente  coll'altro  pezzo  al 
disopra  del  calcagno. 

Col  falcetto  i  tagli  risultano  netti;  è  vero  che  sono  obliqui,  ma 
questo  è  un  vantaggio,  perchè  così  l'acqua  non  può  fermarsi  sulla 
ferita  stessa  e  provocarne  il  marcimento. 

Gli  autori  antichi  lodano  tutti  il  pennato;  Columella  descrive  il 
vero  pennato  (op.  cit.  221)  colla  sua  penna  o  cresta  tagliente  posta 
dietro  la  lamina  quale  tuttora  adoperasi  in  molti  paesi  vitiferi;  egli 
vuole  che  sia  molto  tagliente  per  non  offendere  la  vite  con  ferite 
«  scabre  e  disuguali  »,  e  consiglia  di  non  mai  adoperarlo  «  menan- 
dolo a  colpi,  bensì  sempre  tirandolo  »,  ed  è  quanto  fanno  i  bravi 
potatori  per  avere  i  tagli  a  superficie  perfettamente  omogenea. 

Gli  scrittori  moderni  italiani  sono  quasi  tutti  partigiani  della  for- 
bice ;  i  pratici  eziandio  la  adottarono  in  gran  parte,  pure  riconoscendo 
che  il  falcetto  ben  adoperato  è  ottimo  strumento.  Anche  gli  scrit- 
tori francesi  consigliano  la  forbice  :  Marès  (op.  cit.  323)  scrive  che 
dappertutto  nella  Francia  Meridionale  si  abbandonò  l'uso  del  pennato 
per  adottare  la  tanaglia,  che  egli  dice  «  più  comoda  più  speditiva  e 


486  CAPITOLO  XIII 


meno  pericolosa  ».  Guyot  (1)  è  dell'avviso  che  si  debba  sempre  pre- 
ferire la  forbice  «  malgrado  l'opinione  contraria  emessa  da  viticul- 
tori  valenti  e  da  professori  di  albericoltura  d'  una  antorità  inconte- 
stabile ».  Giustamente  soggiunge,  1'  eminente  scrittore,  che  questi 
professori  hanno  ragione  in  quanto  il  falcetto  viene  adoperato  da 
persone  abili  come  loro  stessi  :  ma  quando  si  tratta  di  potare  molte 
piante  di  viti  coll'opera  di  operai  presi  qua  e  là,  e  generalmente  poco 
esperti,  nulla  vi  ha  di  meglio  della  forbice  perchè,  a  parere  di  Gu- 
yot, «  anche  se  si  lacera  il  legno,  la  vite  è  talmente  robusta  che 
quasi  non  ne  soffre  »,  ciò  che  però  non  vuoisi  prendere  troppo  alla 
lettera. 

Noi  siamo  partigiani  della  forbice,  a  patto  che  sia  bene  costrutta, 
bene  affilata  e  bene  adoperata;  ma  è  assai  più  facile  impratichirsi 
con  essa  che  non  col  pennato.  Tuttavia  il  potatore  deve  sempre 
portare  seco  una  lama  tagliente  per  lisciare  le  ferite  irregolari. 

Infine  pei  grossi  tagli  si  deve  adoperare  la  sega  (fìg.   121). 

§  8.  Modo  di  eseguire  la  potatura:  esempii  pratici.  — 

Scelta  una  giornata  serena,  il  potatore  armato  dei  suoi  istrumenti 
si  recherà  nel  vigneto  ;  l'osservazione  ha  dimostrato  che,  per  quanto 
si  può,  non  si  deve  potare  in  giornate  umide  o  nebbiose,  o  col  vento. 
Il  freddo  non  nuocerebbe,  ma  l' umido  pare  che  sì;  alcuni  però  te- 
mono molto  i  grandi  freddi,  che  dicono  assai  dannosi  alle  ferite. 
Olivier  de  Serres  scrive  che  si  deve  potare  nei  giorni  «  non  impor- 
tunati né  da  pioggie  né  da  nebbie  ».  Infine  un  tempo  secco  è  il 
preferibile. 

Giunto  nel  vigneto,  il  potatore  può  trovarsi  dinnanzi  a  differenti 
casi,  secondo  i  quali  taglierà  piuttosto  in  un  modo  che  in  un  altro. 
Indicare  tutti  questi  casi,  sarebbe  come  descrivere  qui  i  numerosi 
sistemi  di  potatura  ed  allevamento  delle  viti  ideati  dai  viticultori;  al 
Cap.  XXII  descriveremo  i  principali  fra  di  essi,  onde  qui  ci  limite- 
remo a  dare  qualche  esempio  pratico  di  potatura,  scegliendo  i  casi 
più  comuni  in  cui  può  trovarsi  il  potatore. 

1°)  Premettiamo  che  se  egli  si  trova  innanzi  una  parte  di  vite 
come  nella  fig.  122  e  vuole  potarlo  ad  uno  sperone  solo,  deve  sce- 
glie re  il  più  basso,  tagliando  in  a  b  ed  a  b,  così  da  avere  il  cornetto 
a  due  gemme  della  fìg.   123. 


(1)  Cullar*'  de  la  vigne  et  vinification  (2m(   èdition)  150. 


POTATURA  SECCA 


487 


2°)  Supponiamo  che    il    potatore   abbia    a   tagliare   una    pianta 
molto    rigogliosa   e  giovane  (quale   sarebbe  indicata  dalla  fig.    124) 


Fkr.  li 


Fio-.  123. 


soggetta  all'aborto  dei  fiori  in  primavera.  In  questo  caso  è  neces- 
sario potarla  lunga  ed  alta:  per  questo  egli  sceglierà  il  tralcio  frut- 
ticoso  C  0,  piuttostochè  il  tralcio  F  od  E  —  e  farà  uno  sperone 
del  tralcio   più   basso  D.   Poterà  quindi  nei   punti   G,  E,  F  e  D,   e 


Fig.  124. 


avrà  il  risultato  indicato  dalla  fig.  125.  La  scelta  dello  sperone  basso 
è  importante,  perchè  dandoci  i  getti  per  la  potatura  successiva,  im- 
pedirà che  la  pianta  si  allunghi  di  troppo. 

Se  invece  la    vite    fosse  poco  robusta    e  di  mediocre    rigoglio,  si 


488 


CAPITOLO  XIII 


conserverà  per  esempio  il  tralcio  frutticoso  E  (fig.  123)  esportando 
F  C  e  G,  ma  conservando  lo  sperone  D. 

3°)  Se  il  potatore  non  può  trovare  o  sullo  sperone  od  alla  base 


Fig.  125. 


del  tralcio   frutticoso    un   bel  tralcio  a    frutto,  come  è    indicato  per 
esempio  nella   fig.  126,  allora  potrà  potare  tutti  i   getti  a   speroni 
come  nella  fig.  127  lasciando  intatto  il  vecchio  tralcio  frutticoso. 
4°)  Supponiamo  infine    che  il    potatore  abbia  innanzi  a    sé  una 


Fig.  126. 


vecchia  pianta,  e  che  egli  voglia  abbassarla:  ciò  accade  spesso  ed  è 
operazione  importante,  perchè  la  vite  abbassata  è  come  ringiovanita. 
Prendiamo  la  ceppaja  fig.  128  in  cui  la  parte  vecchia  è  eccessiva;  il 
potatore  prenderà  il  tralcio  frutticoso   non  già  dallo    sperone,  bensì 


POTATURA  SECCA 


489 


dal  ceppo  stesso  A,  cioè  nella  parte  più  bassa  lasciata  fin  dalla  prima 
potatura,  segnata  con  1  nel  disegno;  ed  il  getto  dello  sperone  del- 
l'anno avanti  lo  reciderà  nuovamente  (4  fìg.  128):  indi  colla  sega  a 


Fiff.  127. 


mano  (pag.  485)  taglierà  tutto  il  legno  lasciato  nella  seconda,  nella 
terza  e  nella  quarta  potagione  (2,  3,  4  fìg.  128)  per  cui  la  vite  rin- 


Fig    128. 


gio vanita  prenderà  l'aspetto  della  fìg.   129  ove  S  è  il  tralcio  frutti- 
coso  e  2  lo  sperone. 


§  9.  La  succisione  delle  viti.  —  Allo  scopo  di  dar  vigore 
alla  vite  si  usa  spesso,  se  non  sempre,  nella  Italia  meridionale  ed  in 
Sicilia,  più  di  rado  assai    nel  centro  e  neh"  alta  Italia,    succidere  la 


490 


CAPITOLO  XIII 


vite,  cioè  far  il  taglio  all'orba  sotto  terra.  È  questa  una  operazione 
per  cui  si  scalza  la  pianta  e  si  taglia  sul  vecchio,  circa  a  due  occhi 
sotto  il  getto  più  basso,  e  così  quasi  a  mezzo  palmo  sotto  la  super- 
ficie del  suolo,  operando  quando  essa  è  nel  suo  terzo  anno  di  vita. 


Fig.  129. 


Accade  allora  che  la  pianta,  pel  suo  prepotente  bisogno  di  espan- 
dersi, caccia  lunghissimi  getti;  ma  questi  getti  che  diventano  poi  le 
branche  madri  destinate  alla  fruttificazione,  partono  da  occhi  che  sono 
vicinissimi  alle  radici;  infatti  partono  per  così  dire  di  sotto  il  suolo, 
perchè  le  ceppaje  rimangono  quasi  dentro  una  conca.  Ora  in  questi 
getti  verticali,  o  almeno  diritti,  e  senza  nodosità,  la  linfa  scorre  in 
fretta,  non  si  elabora,  quasi  diremmo  non  si  concentra,  ed  è  notis- 
simo che  allora  si  hanno  pochi  grappoli,  a  cagione  della  colatura  dei 
fiori,  i  quali  abortiscono  ed  il  grappolino  si  muta  in  un  viticcio  o 
capreolo  fcircelloj.  Ciò  però  non  succede  nei  tralci  ricurvi.  In  breve, 
diremo  che  lo  studio  delle  leggi  naturali  della  viticultura  conduce  alla 
conclusione  che  la  vite  non  deve  mai  succidersi,  nulla  essendovi 
nella  fisiologia  vegetale  che  giustifichi  tale  barbaro  processo.  Gli 
è  a  cagione  di  essa  che  anche  in  paesi  caldissimi,  come  la  Sicilia  ed  il 
Brindisino,  si  hanno  a  lamentare  gravi  danni  per  lo  abortimento  dei 
fiori,  mentre  parrebbe  che  la  colatura  non  dovesse  danneggiare  se 
non  le  viti  dell'alta  e  media  Italia. 

Ecco  come  si  opera  la  succisione  in  Sicilia,  e  precisamente  a  Fa- 


POTATURA  SECCA 


491 


vara  nell'Agrigentino  (1):  essa  si  pratica  al  secondo  o  terzo  inverno 
dal  piantamento  del  magliolo  e  si  incomincia  coli' incavadclori,  cioè 
col  ridurre  a  cavalli  la  terra  scavandola  profondamente  intorno  alle 
giovani  ceppaie,  (le  quali  restano  sprofondate  ciascuna  nel  centro  di 
una  conca  propria)  e  coll'accumularla  in  filari  come  quando  si  cava 
la  terra  da  un  fossato.  Poscia  si  succide.  La  fig.  130  rappresenta  ap- 


Fig.  130. 


punto  una  vite  succisa:  L  L  indica  il  livello  antico  della  superfìcie 
della  vigna,  prima  àeWincavaddori;  C  C  C  C  è  la  sezione  della  conca, 
S  S  segna  un  piccolo  scalzamento  per  tagliare  le  radici,  che  reste- 
rebbero superficiali  col  nuovo  livello  del  suolo  della  conca;  T  mostra 
infine  il  punto  del  taglio,  cioè  della  succisione.  —  La  fig.  131  mostra 
in  G  G  G  i  getti  venuti  dopo  la  succisione,  che  i   siciliani  chiamano 


(1)  Dobbiamo  questi  dettagli  all'illustre  ampelografo  Barone  Antonio    Mendola 
già  ricordato  in  questo  libro. 


41)2 


CAPITOLO  XIII 


getti  in  selvaggio;  questi  tralci  si  potano  in  T  T  T;  le  gemme  più 
alte  e  prossime  al  taglio  1  1  1  si  sopprimono,  e  restano  quindi  le  sole 
gemme  2  2  2  per  la  futura  vegetazione.  Dice  il  Barone  Mendola  che 


Fig.  131. 


la  vite  succisa  qualche  volta  perisce,  d'ordinario  getta  tralci  sterili 
ma  vigorosi,  più  o  meno  secondo  il  loro  numero  e  F  indole  del 
vitigno. 


CAPITOLO  XIV 


Potatura    verde 


§  1.  Definizioni  —  §  2.  Scacchiatura  —  §  3.  Cimatura  dei  germogli  uviferi  — 
§  4.  Cimatura  delle  femminelle:  sfemminellatura  —  §  5.  Cimatura  e  soppres- 
sione dei  viticci  —  §  6.  Sfogliatura  o  spampinatura  —  §  7.  Cimatura  e  dira- 
damento dei  grappoli.  I  secondi  grappoli  —  Appendice.  La  curvatura  estiva 
dei  tralci. 


§  1.  Definizioni.  —  Il  grave  disaccordo  che  esiste  fra  gli  scrit- 
tori di  viticoltura  per  quanto  ha  tratto  alla  potatura  verde,  dipende 
sovratutto  dal  non  essere  d'accordo  nelle  definizioni,  onde  molti  chia- 
mano scacchiatura  ciò  che  altri  dicono  cimatura  e  via  dicendo,  È 
per  questo  che  vogliamo  premettere  qualche  definizione,  non  foss'altro 
perchè  si  intenda  chiaramente  quanto  stiamo  per  dire. 

La  potatura  verde  già  l'abbiamo  definita  a  pag.  473:  essa  com- 
prende tutte  quelle  operazioni  che  si  fanno  in  primavera,  in  estate 
ed  in  autunno  sulle  viti,  esportando  talune  parti  dei  tralci  erbacei  op- 
pure dei  frutti,  sia  per  favorire  la  fruttificazione  presente  sia  per 
giovare  alla  futura.  Queste  operazioni  sono  le  seguenti: 

1°)  La  scacchiatura  (spollonatura,  stralciatura,  stallatura,  mon- 
datura) la  quale  consiste  nel  ripulire  la  ceppaia  dai  polloni  che  essa 
porta,  i  quali  non  solo  sono  sterili  ma  si  appropriano  una  parte  della 
linfa  destinata  alle  produzioni  utili  della  pianta,  e  perciò  sono  anche 
detti  succhioni.  La  scacchiatura  può  anche  estendersi  ai  getti  sterili 
della  base  del  tralcio  frutticoso,  come  diremo  al  §  2; 

2°)  La  cimatura   (svettatura,  mozzatura,    castrazione,  spunta- 


494  CAPITOLO  XIV 


tura),  mercè  cui  si  esporta  soltanto  la  estremità  dei  getti  uviferi,  op- 
pure una  porzione  di  essi  serbando  solo  un  certo  numero  di  gemme 
sopra  l'ultimo  grappolo,  oppure  anche  la  cima  delle  femminelle  e  degli 
stessi  viticci; 

3°)  La  sfemminellatura ,  che  altro  non  è  se  non  la  soppres- 
sione delle  femminelle  o  nepoti; 

4°)  La  sfogliatura  o  spampinatura,  la  quale  consiste  nel  le- 
vare una  parte  delle  foglie  per  iscoprire  i  grappoli  poco  tempo  prima 
della  vendemmia. 

Premesse  queste  spiegazioni,  veniamo  ai  dettagli. 

§  2.  Scacchiatura.  —  a)  La  scacchiatura  sul  vecchio  ceppo 
si  pratica  in  giugno,  luglio  ed  agosto,  e  costituisce  una  vera  spol- 
lonatura,  poiché  colle  dita  si  tolgono  via  tutti  quei  polloni  inutili, 
veri  parassiti,  i  quali  nascono  sul  ceppo  o  vecchio  tronco  della  vite. 
Li  chiamiamo  a  bello  studio  parassiti,  perchè  infatti  crescono  a 
danno  dei  getti  superiori,  i  quali  o  hanno  uva,  o  sono  destinati  a 
dare  tralci  frutticosi  per  l'anno  che  segue:  oltre  di  ciò  non  portano 
proprio  verun  frutto  salvo  in  qualche  vite  a  pergolato,  e  rare  volte; 
(nei  nostri  paesi  meridionali).  I  suddetti  polloni  non  servono  adunque 
a  nulla,  salvo  il  caso  in  cui  volendosi  abbassare  la  pianta  sul  ceppo, 
quasi  per  ringiovanirla,  si  vogliano  potare  un  anno  dopo  a  due  o  tre 
gemme.  Allora  i  getti  di  queste  ultime  darebbero  frutti  1'  anno  ap- 
presso, e  quindi  si  potrebbe  benissimo  recidere  tutta  la  parte  sopra- 
stante del  vecchio  tronco. 

La  scacchiatura  non  deve  praticarsi  così  all'impensata:  per  sapersi 
regolare  in  modo  convenevole,  bisogna  riflettere  anzitutto  allo  stato 
della  vite.  Una  pianta  robusta  sente,  lo  dicemmo  già  più  volte,  un 
prepotente  bisogno  di  svolgersi  in  molti  pampini  e  di  dar  così  corso 
alla  sovrabbondanza  dei  propri  umori;  in  una  parola,  di  sfogare  il 
suo  stato  pletorico.  L' osservazione  ci  insegna  che  quando  il  si- 
stema aereo  della  pianta  non  può  smaltire  tutto  quanto  gli 
viene  apprestato  dal  sistema  sotterraneo,  ne  soffrono  i  fruiti. 
Così  una  vite  vigorosa  scacchiata  inconsideratamente  finisce  col  non 
portare  che  uve  le  quali  maturano  a  grande  stento:  gli  acini  si  fanno 
bensì  turgidi  per  l'eccesso  degli  umori  che  ad  essi  affluiscono,  ma 
non  è  raro  rimangano  verdi  e  non  maturino  affatto.  In  presenza  di 
una  simile  sovrabbondanza  di  succo  acquoso  è  naturale  che  non  av- 
vengano se  non  troppo  lentamente  ed  a  disagio  quelle  trasformazioni, 


POTATURA    VERDE  495 


quei  processi  chimici  cioè,  per  cui  la  cellulosa,  la  pectina,  la  fecola, 
ecc.,  si  vanno  man  mano  mutando  in  glucosio,  e  per  cui  scompaiono 
quasi  tutti  gli  acidi  liberi  (tartarico,  malico,  citrico,  ecc.)  che  ab- 
bondano nelle  uve  acerbe.  L'  acqua  è  bensì  indispensabile  al  sarco- 
carpo  dei  frutti  acciò  questi  maturino,  ma  non  vuole  essere  né  de- 
ficiente, né  eccedente.  Premesse  queste  osservazioni,  e  tenendo  conto 
dei  fatti  osservati  in  proposito,  ne  deduciamo  che:  1°  la  scacchiatura 
in  luglio  od  agosto  non  si  deve  praticare  nelle  vigne  assai  gio- 
vani (cioè  al  1°  o  2°  anno)  e  deve  essere  limitatissima  al  3°;  deve 
poi  essere  tanto  più  moderata  quanto  più  la  vite  è  giocane,  ri- 
gogliosa e  ricca  di  umore;  2°  essa  non  deve  praticarsi  del  tutto 
con  viti  robustissime  e  decisivamente  pletoriche;  3°  infine  trat- 
tandosi di  viti  vecchie,  spossate,  deboli,  cioè  in  condizioni  vege- 
tative opposte  alle  precedenti,  quella  riesce  una  pratica  di  in- 
contestabile vantaggio  pei  frutti  pendenti,  nonché  per  le  gemme 
che  dovranno  dare  buoni  pampini  fruttiferi  Vanno  dopo.  In  tal 
caso  non  si  ha  un  eccessivo  frazionamento  del  succo  in  un  soverchio 
numero  di  pampini;  anzi  Y  umore  converge  ai  frutti,  che  crescono 
veramente  perfezionati,  ed  alle  dette  gemme,  che  si  fanno  turgide 
ed  ottime  per  la  futura  vegetazione. 

b)  Ma  la  scacchiatura  si  suol  estendere  anche  al  taglio  di  quei 
getti  che  non  portano  uva,  locchè  si  fa  da  varii  viticoltori  quando 
l'uva  incomincia  a  fiorire,  rispettandone  talvolta  uno  o  due,  nel  caso, 
che  già  citammo  più  sopra,  in  cui  si  volesse  abbassare  la  pianta  o  co- 
munque avere  uno  sperone  frutticoso  al  momento  della  potatura  in- 
vernale o  secca.  A  questa  scacchiatura  si  applicano  assai  bene  i 
principii  sovra  enunciati. 

§  3.  La  cimatura  dei  germogli  uviferi.  —  a)  Cimatura 
prima  della  fioritura.  Nei  nostri  vigneti  ad  alberello  abbiamo 
adottato  da  parecchi  anni  la  svettatura  graduale,  o  castratura,  pra- 
ticata prima  della  fioritura,  per  provocare  un  raccorciamento  degli 
internodii  (pag.  184)  concentrare  la  fecondità  nelle  prime  gemme  dei 
tralci  e  poter  così  educare  la  vite  bassa  e  senza  sostegni.  Per  otte- 
nere questi  resultati  si  deve  adunque  cimare  all'incirca  in  tre  volte 
e  sempre  prima  della  fioritura',  la  prima  volta  si  svetteranno,  ope- 
rando coll'unghia,  i  tre  o  quattro  getti  più  alti,  supposta  una  vite  ad 
alberello  (fig.  132  A  A  A).  (Nella  fig.  133  P  P  P  indicano  la  castra- 
tura in  una  vite  alla  Guyot).  —  Ciò  accadrà  quando  sia  spuntata  la 


496 


CAPITOLO  XIV 


quarta  o   quinta    foglia   sopra   l'ultimo   grappolo.  La  seconda  volta, 


Fig.   132. 


cioè  circa  8  giorni  dopo,    si  cimeranno  i  tre  o  quattro  germogli  la- 
sciati intatti  la  prima  volta  e  che  avranno  avuo  tempo  di  allungarsi, 


133. 


crescendo  in    media  di  3  a  5  centimetri  ogni  giorno;  i  germogli  ci- 
mati da  prima  non  si  toccheranno  più.  Dopo  altri  otto  giorni   circa 


POTATURA    VERDE  497 


si  svetteranno  quei  germogli  (gli  ultimi)  che  saranno  cresciuti  nel 
frattempo,  mentre  i  primi  cimati  avranno  già  cacciato,  accanto  alle 
piccole  gemme  ascellari,  delle  femminelle  lunghe  uno  o  più  decimetri. 
Questa  è  la  cimatura  razionale  che  noi  seguiamo  da  oltre  un  de- 
cennio con  pieno  successo. 

Sono  tanto  piccole  le  offese  che  con  tale  metodo  di  cimatura  si 
reca  al  sistema  aereo  della  pianta,  che  la  radice  non  ne  soffre  punto, 
per  cui  la  vite  non  solo  non  ne  risente  danno,  ma  ne  ritrae  tutti 
quei  vantaggi  che  sono  la  conseguenza  di  una  ben  intesa  cimatura; 
cioè  la  fecondazione  delle  gemme  ascellari  che  debbono  nel  venturo 
anno  darci  i  germogli  uviferi,  nonché  il  rassodamento  dei  tralci,  i 
quali  sostengono  e  nutrono  meglio  i  grappoli  che  portano,  e  giovano 
altresì  al  raccolto  futuro.  Colla  cimatura  graduale  poi  non  vi  ha  mai 
arresto  nella  vegetazione,  tanto  più  se  si  riflette  che,  come  già  no- 
tammo, alla  terza  svettatura  dei  germogli  uviferi,  i  primi  cimati  sono 
già  muniti  delle  loro  femminelle,  che  sono  cotanto  giovevoli  al  pro- 
cesso di  nutrizione  della  vite,  pel  richiamo  di  umori  che  fanno  dalla 
terra  verso  le  parti  aeree  del  vegetabile,  e  per  altro  motivo  che  già 
abbiamo  indicato  a  pag.  196.  Col  detto  sistema  infine,  lasciandosi  un 
conveniente  sviluppo  al  sistema  aereo  della  pianta,  lo  si  lascia  pure  indi- 
rettamente al  sistema  sotterraneo,  massime  se  questo  è  favorito  da 
opportuno  scasso  del  terreno,  per  cui  la  longevità  della  vite  è  assi- 
curata. 

Anche  le  esperienze  scientifiche  concludono  in  favore  di  questa  cima- 
tura graduale.  Il  compianto  Dr.  Ippolito  Macagno  ha  fatto,  come  già  ab- 
biamo accennato,  accurate  ricerche  sull'ufficio  delle  foglie  della  vite;  tali 
ricerche,  se  ci  restringiamo  al  solo  zucchero  che  è  il  più  importante  fra 
i  prodotti  della  vite  stessa,  hanno  condotto  alle  seguenti  conclusioni: 
1°  che  nelle  foglie  della  vite  vi  sono  quantità  considerevoli  di  glu- 
cosio, ivi  preparato  a  vantaggio  dei  grappoli  sottostanti;  2°  che  il 
glucosio  abbonda  principalmente  nelle  foglie  della  punta  dei  tralci 
frutticosi,  cioè  nelle  foglie  estreme  del  germoglio  uvifero,  mentre  si 
trova  in  quantità  minore  nelle  foglie  situate  inferiormente  rispetto 
ai  grappoli  del  tralcio  stesso,  nonché  in  quelle  che  sono  destinate 
unicamente  alla  produzione  legnosa;  3°  che  in  conseguenza  di  ciò  le 
sfogliature  (non  le  cimature)  fatte  in  giugno,  luglio,  ecc.  mercè  le 
quali  si  scacchia,  cioè  si  esporta  tutto  quanto  sta  al  disopra  della 
terza  o  quarta  foglia  oltre  l'ultimo  grappolo,  sono  generalmente  no- 
cive alla  vite,  che  dà  allora  poca  uva  ed  uva  mal  matura  e  poco 
0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura.  33 


498  CAPITOLO  XIV 


zuccherina;  4°  che  la  piena  luce  solare  attiva  la  funzione  delle  foglie, 
e  quindi  aiuta  potentemente  la  maturanza  dell'uva,  oltre  ad  aver 
aiutato  dapprima  la  fioritura,  impedendo  che  i  grappolini  si  trasfor- 
massero in  viticci. 

Orbene,  colle  cimature  graduali  sovra  descritte,  si  ottengono  i  se- 
guenti risultati  che  sono  in  perfetta  relazione  colle  quattro  suddette 
conclusioni  del  Dr.  Macagno:  1°  non  si  priva  la  vite  di  alcuna 
delle  sue  foglie;  2°  si  provoca  la  comparsa  di  molte  foglie  al  disopra 
dei  grappoli,  cioè  di  molte  foglie  estreme,  essendo  tali  appunto  le 
femminelle  di  cui  parlammo  più  sopra;  3°  si  rendono  superflue  le 
scacchiature  estive  che  sono  generalmente  dannevoli;  4°  si  scoprono 
i  grappoletti  nascenti,  facendo  loro  godere  la  piena  luce  solare  ed 
impedendone  l'aborto. 

Dunque,  non  sfogliature  o  scacchiature  o  potature  estive,  ma 
seynplici  svettature  o  cimature  primaverili  e  graduali,  prima 
della  fioritura,  perchè  con  esse  non  si  esportano  foglie. 

b)  Cimatura  dopo  la  fioritura,  ossia  estiva.  Mercè  questa 
svettatura  si  sopprimono  colle  unghie  le  estremità  dei  germogli  nati 
dagli  speroni,  dai  tralci  a  frutto,  nonché  dai  getti  primaverili:  una 
tale  soppressione  si  deve  fare  a  cinque  foglie  al  disopra  del  grappolo 
quando  questo  è  unico  sopra  il  pampino,  e  a  due  foglie  sopra  il  più 
alto  locato  lorchè  i  grappoli  son  più  d'uno:  se  il  pampino  non  ha  frutti, 
si  mozza  sopra  la  seconda  o  la  terza  foglia,  ed  è  questo  il  caso 
delle  femminelle  (o  germogli  estivi  nati,  all'  ascella  delle  foglie,  sui 
pampini  cresciuti  in  primavera).  Cimando  che  cosa  avviene?  Le  già 
esposte  nozioni  di  fisiologia  vegetale  applicata  alla  vite  ce  lo  dicono: 
—  il  succo  nutritore  cangia  per  così  dire  di  destinazione  ed  invece 
di  continuare  a  coadiuvare  allo  sviluppo  del  sarmento,  si  porta  verso 
il  frutto  e  ne  lo  avvantaggia  molto  sensibilmente,  come  è  noto  a 
tutti  i  bravi  viticultori;  gli  acini  si  fanno  più  grossi  ed  in  definitiva 
maturano  molto  meglio,  dando  un.  mosto  ricco  in  gulcosio  e  non  ec- 
cessivamente agresto. 

Ma  è  facile  il  comprendere  che  anche  la  cimatura  estiva  non  con- 
viene ad  ogni  vite  qualunque  sia  la  sua  età  e  la  sua  potenza  ve- 
getativa; in  viticoltura  più  che  in  ogni  altra  parte  dell'  economia 
agraria  bisogna  andare  ben  guardinghi  nel  dettare  massime  generali. 
Dunque  noi  faremo  delle  distinzioni  e  diremo  che: 

Se  la  vite  non  è  veramente  troppo  rigogliosa,  le  è  sempre 
utile  la   cimatura  dei  getti  che  V  anno    appresso  dovranno  di- 


POTATURA.  VERDE  499 


stendersi  a  frutto;  respingendosi  così  il  succo  verso  le  gemme  sot- 
tostanti queste  si  consolidano  viemeglio  ed  è  un  fatto  constatato 
che  l'anno  dopo  sono  fecondissime: 

Se  la  pianta  è  vecchia,  debole  e  non  molto  rigogliosa,  è  opera 
di  grande  utilità  lo  spuntare  secondo  le  dette  regole  i  pampini 
dei  tralci  frutticosi  affine  di  respingere  i  succhi  verso  i  frutti  e 
provocarne  l'ingrossamento:  ma  se  la  pianta  ha  molto  vigore  è 
spesso  miglior  partito  di  non  cimare,  a  ?neno  che  V  estate  non 
trascorresse  soverchiamente  secca  e  la  pianta  non  avesse  esu- 
beranza di  umore,  anzi  ne  difettasse. 

Del  resto,  lo  ripetiamo,  è  molto  arduo  dettare  regole  generali  su 
questo  delicato  argomento  delle  cimature;  staremmo  per  dire  anzi 
che  è  impossibile.  Sono  troppi  gli  elementi  di  cui  conviene  tener  cal- 
colo prima  di  affermare  con  sicurezza  che  la  cimatura  è  utile  oppure 
nociva,  ond'è  che  spesso  si  leggono  consigli  perfettamente  opposti  di 
valenti  viticultori. 

Infatti  bisogna  anzitutto  considerare  1'  età  ed  il  vigore  delle  cep- 
pale, poscia  il  sistema  di  coltivazione  della  vite,  se  a  speroni  o  tralcio 
lungo  o  ad  alteni  ecc.,  indi  ancora  la  varietà  del  vitigno,  il  clima 
locale,  e  la  natura  delle  terre,  se  pingui,  o  aride,  o  umide,  e  via 
via,  infine  se  le  viti  hanno  bisogno  di  molto  o  di  poco  sfogo,  il  che 
ha  grande  importanza  nei  rapporti  colla  cimatura. 

Dai  molti  studii  fatti  su  questa  operazione  della  potatura  verde  (1) 
non  è  possibile  ricavare  norme  generali,  appunto  per  la  influenza  di 
tutti  questi  fattori.  Il  viticultore  deve  pertanto  fare  le  proprie  os- 
servazioni sui  proprii  vigneti,  perchè  da  esse  soltanto  potrà  dedurre 
quale  via  gli  convenga  di  seguire. 

§  4.  Cimatura  delle  femminelle:  sfemminellatura.  —  Ab- 
biamo già  detto  lungamente  a  pag.  196  quale  importante  ufficio  com- 
piano le  femminelle  o  nepoti  nelle  funzioni  vegetative  della  vite:  si 
devono  dunque  cimare,  o  peggio  esportare  del  tutto? 

Già  sappiamo  che  la  vite  ha  un    imperioso  bisogno    di  estendersi 


(1)  Esperienze  del  Prof.  G.  A.  Ottavi  (Giornale  II  Coltivatore  dal  1870  in  qua) 
—  Contributo  allo  studio  della  potatura  verde  in  Italia  (Rivista  di  Vit.  ed  En. 
di  Conegliano  1880)  —  Esperienze  del  Dr.  Macagno  {Giornale  Vinicolo  1878)  — 
Esperienze  del  Prof.  Soldani  di  Macerata  (Riv.  di  Conegliano  1882)  —  Esperienze 
dei  Dr.  Casoria  e  Savastano  (Annuario  della  Scuola  Sup.  di  Portici  1884)  — 
Nane  Gastaldo  del  Dr.  Bellati  ecc.  ecc. 


500  CAPITOLO  XIV 


in  molti  rami  (1);  cimando  adunque  anche  le  femminelle,  e  peggio 
le  sotto- femminelle,  cioè  svettandole,  si  impedisce  o  almeno  si  inceppa 
quello  sfogo,  e  l'osservazione  ha  dimostrato  che  la  vite  allora  ne 
soffre  ed  in  20  o  25  anni  si  fa  decerpita  anche  se  aiutata  col 
concime.  Però  cimando  le  femminelle  si  cagiona  un  arresto  nel  mo- 
vimento del  succo  nutritore,  e  questo  arresto  va  a  tutto  beneficio 
delle  gemme  ascellari;  l'osservazione  infatti  ci  dice  a  questo  ri- 
guardo che  l'anno  dopo  si  ottiene  molta  uva.  Ma  continuando  si 
esaurisce  la  pianta,  del  che  conviene  tenere  grande  calcolo.  Infine 
cimando  le  femminelle  la  pianta  viene  ad  avere  un  minor  volume 
di  fogliame,  ed  è  per  questo  che  allora  l'uva  matura  a  stento. 

La  pratica  illuminata  ha  cercato  di  ovviare  a  questi  inconvenienti 
della  cimatura  delle  femminelle  e  sotto- femminelle,  a  fine  di  poter 
godere  del  vantaggio  che  la  cimatura  stessa  ci  offre  colla  feconda- 
zione delle  gemme  ascellari;  ed  ecco  come.  Anzitutto  non  si  devono 
mai  strappare  le  femminelle,  togliendole  per  intero,  perchè  con  esse 
si  strapperebbe  la  gemma  ascellare,  e  l'anno  dopo  non  s'avrebbe  più 
traccia  di  uva.  Le  cimature  poi  (anche  qui  semplici  svettature)  si 
facciano  in  due  o  tre  tempi,  come  dicemmo  pei  tralci  uviferi,  ma  si 
lasci  per  di  più  intatta  la  femminella  più  alto  locata  d'ogni  germoglio. 
Oppure  non  si  cimino  che  le  femminelle  più  alte  e  lunghe,  tanto  lunghe 
da  ricurvarsi  verso  il  suolo,  lasciando  intatte  le  altre.  In  ogni  caso 
si  operi  tra  giugno  e  luglio.  Però  si  cimino  a  due  o  tre  foglie  quelle 
poche  femminelle  che  spuntano  presso  le  gemme  che  dovranno  dar 
frutto  l'anno  dopo,  e  ciò  per  meglio  fecondarle.  Alla  potagione  si 
sopprimeranno  quei  mozziconi. 

Adunque  la  cimatura  parziale  e  moderata  delle  femminelle, 
mentre  non  arreca  verun  danno  né  alla  longevità  della  vite,  né 
ai  frutti  pendenti,  giova  assai  alla  fruttificazione  avvenire.  Noi 
la  pratichiamo  eziandio  quindici  giorni  prima  della  vendemmia  per  sco- 
prire le  uve  degli  alberelli  (fig.  134  A  A  A). 

In  quanto  alle  sotto-femminelle  premetteremo  che  esse  spuntano 
sulle  prime:  taluni  usano  cimarle,  ma  quasi  sempre  si  va  allora  in- 
contro agli  inconvenienti  di  cui  dicemmo  testé,  anzi  questi  si  aggra- 
vano. Per  rimediarvi  si  è  praticato  con  successo  il  sistema  di  espor 


(1)  Guyot,  dopo  aver  visitato  tutta  la  Francia  viticola,  ha  concluso,  a  questo 
riguardo,  colle  seguenti  giustissime  parole  «  L'espansione  che  si  lascia  prendere 
alla  vite  accresce  la  sua  fecondità  e  ne  accresce  pure  il  vigore  e  la  durata  ». 


POTATURA  VERDE 


501 


tare  del  tutto  la  prima  femminella  a  partire  dal  punto  su  cui  spunta 
su  di  essa  la  seconda;  così  si  vengono  a  lasciar  intatte  le  seconde 
femminelle.  Però  questi  tagli  nuociono  sempre  all'  economia  della 
pianta  e  sono  appena  tollerabili  in   quei  casi  in  cui    si  hanno  vi- 


A    A  A    A     A         ^ 


Fig.  131. 


tigni  che  mal  s'adattano  alla  potatura  corta  e  che  solo  con  siffatte 
cimature  e  ricimature  si  arrendono  a  dar  uva,  fecondandosi  così 
molto  bene  le  gemme  ascellari  basso  locate. 


§  5.  Cimatura  e  soppressione  dei  viticci.  —  Abbiamo  già 
detto  a  pag.  98  che  secondo  alcuni  esperimentatori,  cimando  per 
tempo  quella  diramazione  del  viticcio  che  porta  alla  base  una  piccola 
scaglia,  cioè  la  più  lunga,  l'altra  diramazione  si  trasforma  in  grap- 
polo: per  riuscire  in  questo  intento  bisogna  cimare,  o  tagliare  del 
tutto,  il  filamento  suddetto  appena  è  nato  o  almeno  poco  dopo.  Altri 
consiglia,  appena  cimato  il  viticcio,  di  esportare  il  pampino  della 
vite  che  è  più  vicino  al  capreolo  lasciato  intatto.  Tutto  ciò  merita 
tuttavia  più  ampia  conferma. 


Ì02  CAPITOLO  XIV 


Veniamo  alla  soppressione  dei  viticci.  —  Questa  pratica  ha  molti 
fautori,  ma  taluno  la  ritiene  assolutamente  dannosa.  Visitando  le 
vigne  del  suburbio  di  Roma,  abbiamo  appreso  da  quei  viticoltori 
che  nei  primi  giorni  di  maggio  essi  usano  generalmente  scacchiare  i 
capreoli;  questa  ripulitura  la  praticano  anche  sul  futuro  tralcio  a  frutto, 
per  non  privare  le  gemme  ascellari  d'una  certa  quantità  di  succo,  perchè 
è  facile  intendere  che  i  capreoli  sottraggono  alla  vite  una  quantità 
non  piccola  di  succo  nutritore,  specialmente  quando  sono  molto  nu- 
merosi come  accade  spesso.  Secondo  quei  viticultori  la  soppressione 
dei  viticci  giova  all'ingrossamento  dei  grappoli. 

Anche  nell'Alta  Italia  vi  sono  viticultori  che  sopprimono  i  capre- 
oli,  e  se  ne  lodano.  Il  sig.  Tagliacarne  P.  da  Castelnuovo  Seri  via 
toglie  i  viticci  nel  mese  di  giugno,  comprendendo  in  questa  scac- 
chiatura  anche  i  viticci  del  grappolo  (pag.  96:  fig.  7  ci).  Il  signor 
Priora  A.  da  Tortona  segue  pure  questa  pratica,  e  da  varii  anni, 
mozzando  i  capreoli  a  mezzo  centimetro  dal  loro  punto  di  inserzione, 
operando  alcuni  giorni  prima  della  fioritura  ;  ma  egli  sopprime  sol- 
tanto i  viticci  dei  grappoli,  e  con  ciò  ottiene  un  ingrossamento  negli 
acini  così  rapido  da  essere  apprezzabile  dopo  sole  30  ore,  ed  inoltre 
impedisce  l'aborto  dei  fiori.  Invece  il  signor  Anelli  A.  da  Grottam- 
mare  nelle  Marche  in  un  suo  esperimento  fatto  nel  1873  non  ebbe 
risultati  apprezzabili,  poiché  non  si  potè  notare  nessuna  differenza 
fra  i  grappoli  dei  pampini  privati  dei  viticci  e  quelli  dei  pampini 
intatti  :  egli  quindi,  in  una  sua  lunga  memoria  (1),  sconsiglia  reci- 
samente la  soppressione  dei  viticci  perchè  a  suo  avviso  essi  giovano 
non  solo  siccome  organi  di  prensione  ma  altresì  a  perfezionare  le 
gemme  per  l'anno  futuro,  il  che  però  non  avrebbe  valore  trattandosi 
dei  viticci  di  grappolo. 

Noi  crediamo  che  non  si  debbano  affrettare  troppo  i  giudizii  sia 
in  favore  che  contro  la  mozzatura  dei  capreoli;  è  necessario  istituire 
esperienze  accurate  e  proseguirle  per  un  certo  periodo  di  anni  per 
vedere  eziandio  quale  influenza  possa  esercitare  cotale  soppressione 
sulla  economia  generale  della  pianta.  Né  vale  il  dire  che  i  capreoli 
non  possono  esercitare  influenza  alcuna  sui  grappoli  perchè  sono  col- 
locati superiormente  ai  grappoli  stessi;  gli  è  precisamente  perchè  stanno 
sopra  i  grappoli  che  attirano  a  sé  con  forza  il  succo,  come  accade 
delle  estremità  dei  tralci  in  generale,  onde  si  consiglia  infatti  di  ci- 


(1)  Vedi  II  Coltivatore  1883,  Voi.  II. 


POTATURA  VERDE  503 


marie   o  ripiegarle  per   moderare   Y  ascensione  troppo   rapida  della 
linfa. 

Certo  è  però  che  nelle  viti  pletoriche,  la  soppressione  dei  viticci 
anziché  impedire  l'aborto  dei  fiori  potrebbe  provocarlo  ;  in  ogni  caso 
si  avverta  a  tagliare  i  viticci  a  poca  distanza  dalla  loro  inserzione 
e  non  mai  a  stracciarli,  perchè  così  adoperando  si  guasterebbe  la 
gemma  ascellare. 

§  6.  Sfogliatura  o  spampinatura.  —  Questa  operazione  può 
giovare  e  può  essere  dannosa,  a  seconda  del  momento  in  cui  è  fatta. 
Noi  sappiamo  che  nelle  foglie  si  prepara  il  glucosio,  che  poi  emigra 
nei  grappoli;  sappiamo  però  che  questa  produzione  cessa  quando  l'uva 
ha  raggiunto  la  sua  maturità.  La  sfogliatura  troppo  precoce  reche- 
rebbe dunque  un  danno  grave  alle  vigne;  d'altra  parte  è  un  fatto 
ben  accertato  questo,  che  nei  paesi  caldi  e  nelle  annate  secche 
l'uva  deve  maturare  aU ombra,  cioè  non  deve  essere  esposta  troppo 
direttamente  ai  cocenti  raggi  solari.  (1)  Adunque  non  si  pratichi  la 
sfogliatura  se  non  nei  dieci  o  dodici  giorni  che  precedono  la  ven- 
demmia, scoprendo  solo  un  po'  i  grappoli;  si  deve  insomma  sfogliare 
moderatamente  e  parzialmente.  Così  le  femminelle,  che  si  saranno 
soltanto  cimate  in  parte  ed  in  parte  si  saranno  lasciate  intatte, 
si  potranno  allora  svettare,  sfogliando  leggermente  appunto  con  tale 
svettamento. 

In  quanto  alla  sfogliatura  dopo  la  vendemmia,  Y  esperienza  ci 
dice  che  non  è  da  raccomandarsi,  generalmente  parlando,  perchè 
le  foglie  in  autunno  recano  pure  giovamento  alla  gemme 
ascellari  che  debbono  darci  uva  nell'anno  successivo.  Si  lasci  dun- 
que che  le  foglie  cadano  da  sé,  tanto  più  dietro  il  riflesso  che  i 
contadini  strappano  le  foglie  (per  far  presto)  recando  così  grave  of- 
fesa a  quelle  preziose  gemme.  Del  resto  le  foglie  non  cadranno 
naturalmente,  se  non  quando,  per  il  noto  fenomeno  della  re- 
trocessione degli  umori,  i  loro  materiali  utili  si  saranno  con- 
centrati nei  tralci:  sarà  quindi  tanto  di  guadagnato  per  la  frutti- 
ficazione avvenire. 


(1)  Dalle  ricerche  del  dottor  Richter  (Accademia  delle  Scienze  di  Vienna, 
seduta  del  19  giugno  1879),  risulta  che  la  luce  diretta  si  trasforma  in  calore. 
Ma  se  il  calore  oltrepassa  un  certo  limite,  l'uva  non  matura  più. 


504 


CAPITOLO  XIV 


§  7.  Cimatura  e  diradamento  dei  grappoli.  I  secondi  grap- 
poli. —  La  cimatura  o  spuntatura  dei  grappoli  si  fa  in  alcuni  paesi 
allo  scopo  di  ottenere  acini  più  voluminosi,  specialmente  per  il  com- 
mercio delle  uve  da  tavola. 

Ma  per  riuscirvi  è  anzitutto  necessario  operare  su  vitigni  speciali, 
adattati  specialmente  a  questa  produzione  (V.  Cap.  XXV).  Le  fig.  135 
e  136  mostrano  in  che  consista  questa  spuntatura,  che  è  sempre  ac- 
compagnata dalla  rimondatura  del  grappolo  da  tutti  gli  acini  guasti. 


Fig.  135. 


Il  taglio  si  fa  quando  gli  acini  hanno  il  volume  di  grossi  pallini, 
cioè  quando  hanno  raggiunto  1[4  della  loro  grossezza  normale  :  si 
incomincia  allora,  colle  forbici,  a  togliere  gli  acini  più  brutti,  oppure 
si  recide  a  dirittura  la  punta  del  grappolo  (fig.  135),  ciò  che  si  può 
fare  anche  prima  della  fioritura  sui  grappoli  che  già  si  mostrano 
troppo  lunghi.  Dopo  quindici  giorni  si  fa  un  altro  taglio  alla  punta 
del  grappolo,  e  sempre  si  osserva  che  gli  acini  che  rimangono  pren- 
dono uno  sviluppo  rimarchevole  senza  che  il  grappolo  ne  soffra  me- 
nomamente. Spesso  ciò  basterà  ;  ma  se  si  volesse  dopo  altri  quindici 
giorni  fare  un  terzo  taglio,  si  verrebbero  ad  avere  granelli  d'  uva 
enormi  (fig.  136). 

Il  viticoltore  deve  pertanto,  secondo  le   condizioni   delle  sue   viti, 


POTATURA  VERDE 


505 


decidere    quando  gli   convenga  di   sospendere    i    tagli.    Con   queste 
cure  riescirà  di  certo  ad  ottenere  bellissima  uva  da  tavola. 

Nel  Jura  vi  ha  l'abitudine  di  fare  una  cimatura  consimile  :  prima 
della  fioritura  si  taglia  la  punta  di  tutti  quei  grappoli  di  chasselas 
e  di  mondense  i  quali  si  allungano  di  troppo  e  che  verosimilmente 
porterebbero  acini  poco  zuccherini;  con  ciò  si  ottengono  grappoli 
non  solo  di  conformazione  assai  diversa,  ma  altresì  molto  più  pre- 


Fiff.  136. 


giati  e  più  ricchi  di  succo  ;  Guyot  calcola  1'  aumento  del  mosto  al 
triplo  (1).  Sarebbe  bene  fare  esperimenti  al  riguardo.  Nei  dintorni 
di  Parigi  invece  di  cimare  i  grappoli  si  esportano,  colle  forbici,  gli 
acini  poco  belli,  ciò  che  si  fa  eziandio  da  alcuni  viticultori  italiani. 
Veniamo  ora  al  diradamento  dei  grappoli;  è  questa  una  buona  pra- 
tica allorquando  la  vendemmia  si  presenta  oltremodo  copiosa,  perchè 
allora  giova  a  rendere  i  rimanenti  grappoli  più  zuccherini.  Però  dob- 
biamo fare  qualche  riserva  a  questo  proposito;  data  una  vigna  gio- 
vine, bene  zappata  e  mantenuta  fresca  nel  suo  sistema  sotterraneo, 
cioè  una  vigna  ricca  di  umore  ed  in  terreno  non  adusto,  noi  pen- 
siamo, dietro  l'osservazione  di  molti  fatti,  che  anche  non  diradando 
si  avrebbero  ottimi  grappoli,  perchè  quella  pianta  sarebbe  certamente 
in  grado  di  provvedere  a  tutti  i  suoi  frutti.  Ma  se  il  vigneto  si  trova 


(1)  Guyot  op.  cit,  voi.  II  pag.  38; 


506  CAPITOLO  XIV 


in  terre  aride,  se  l'estate  nella  regione  trascorre  secchissima,  se 
l'esposizione  è  a  solatìo,  se  le  piante  sono  un  po'  vecchie  e  vennero 
lasciate  molto  ricche  di  tralci,  e  quindi  vennero  alquanto  stancate, 
in  questo  caso  il  diradamento  sarà  certamente  giovevole,  perchè 
è  meglio  avere  una  mediocre  quantità  d'uva  ben  maturata,  che  non 
molta,  ma  aspra  e  ricca  di  acidi,  la  quale  ci  darebbe  un  vino  povero 
di  alcool  e  scadente  quasi  come  un  vinello. 

Ad  ogni  modo  il  diradamento  non  deve  effettuarsi  senza  sani  cri- 
terii  direttivi.  Anzitutto  si  deve  sempre  aspettare  che  i  frutti  abbiano 
tutti  quanti  allegato,  e  la  ragione  è  ovvia.  I  frutti  poi  si  devono 
togliere  preferibilmente  in  punta,  e  ben  inteso  sempre  i  più  min- 
gherlini ;  così  il  succo  vien  cacciato  indietro  come  nel  caso  di  una 
cimatura  energica. 

I  secondi  grappoli,  detti  anche  «  grappoli  di  S.  Giovanni  »  o  pro- 
priamente racemi,  spuntano  in  principio  di  estate  sulle  femminelle. 
È  legge  fissa  che  quanto  più  una  vite  ha  grappoli  su  di  sé, 
tanto  più  essi  maturano  male;  qualora  poi  riuscissero  a  ma- 
turare bene,  ne  soffrirebbe  la  pianta,  la  quale  in  brevi  anni 
si  estenuerebbe;  è  perciò  che  si  usa  dai  più  diligenti  di  togliere  tutti 
questi  secondi  grappoli  al  loro  nascere,  tanto  più  perchè  generalmente 
maturano  male  assai,  (1)  e  possono  guastare  il  vino  delle  prime  uve, 
vale  a  dire  delle  mature;  il  viticoltore  che,  in  condizioni  normali 
del  suo  vigneto,  vi  attribuisse  importanza,  mostrerebbe  di  ignorare 
che  essi  crescono  a  tutto  detrimento  dei  veri  grappoli. 


(1)  Vi  sono  però  delle  eccezioni,  ma  sono  rarissime. 


APPENDICE 


La  curvatura  estiva  dei  tralci. 


La  curvatura  dei  tralci,  o  piegatura,  non  potrebbe  propriamente 
parlando  trovar  posto  fra  le  operazioni  della  potatura  verde;  tuttavia 
ne  parliamo  qui  a  guisa  di  appendice  perchè  essa  pure  ha  per  iscopo 
di  rendere  più  fecondo  il  tralcio  a  frutto  per  la  successiva  vendemmia. 

Premetteremo  che  la  ricurvatura  si  può  solo  applicare  nel  caso 
di  viti  potate  lunghe,  o  ad  ombrello,  non  essendo  praticabile  colle 
viti  a  speroni:  —  non  per  questo  essa  tralascia  di  essere  una  fra  le 
più  utili  pratiche  della  viticultura  razionale. 

La  pratica  ci  insegna  che  se  si  piega  orizzontalmente  a  prima- 
vera un  tralcio  frutticoso,  il  succo  subisce  un  rallentamento  nel 
suo  moto,  ed  i  bottoni  si  costituiscono  allora  assai  bene,  facen- 
dosi turgidi  e  fecondi,  mentre  i  tralci  diritti  o  verticali,  danno 
sempre  pochissimi  frutti.  Ecco  adunque  perchè  è  tanto  utile  la  ri- 
curvatura dei  tralci  stessi. 

Le  cimature  graduali  cagionando  esse  pure  un  arresto  nel  movi- 
mento della  sava,  giovano  a  raggiungere  lo  stesso  intento,  ma  non 
sono  scevre  da  inconvenienti;  laddove  la  curvatura  non  può  assolu- 
tamente recare  il  più  piccolo  nocumento  alle  viti. 

In  Toscana  la  piegatura  è  praticata  artificialmente  ogni  anno  e  si 
effettua  sul  finire  di  giugno.  È  pure  praticata  in  Monferrato,  nell'A- 
stigiano ed  ovunque  con  successo,  massimamente  se  le  viti  sono 
vigorose.  Pelle  viti  deboli  o  vecchie  essa  sarebbe  però  superflua;  ma 
per  certi  vitigni  (bonarda,  grignolino)  essa  è  indispensabile.  Volen- 
dosi praticarla,  si  devono  anzitutto  recidere  i  capreoli  o  viticci  ai  tralci 
frutticosi  che  dovranno  servire  per  il  prossimo  anno,  e  poscia  lasciare 
che  da  sé  si  facciano  penzoloni  od  orizzontali,  salvo  poi  ad    appog- 


508 


APPENDICE 


giarli  agli  altri  tralci  vicini,  però  senza  far  ombra,  perchè  la  luce 
solare  lor  giova  assai. 

È  certo  che  la  mercè  di  questa  ricurvatura  le  gemme  si  fanno  più 
feconde,  e  si  ottiene  da  esse  buona  copia  d'uva  anche  se  l'an- 
nata precedente  fu  piovosa  ad  esuberanza,  e  perciò  poco  favorevole 
alla  formazione  di  bottoni  ascellari  turgidi  e  fertili.  (V.  capo  VII). 

Abbiamo  detto  più  sopra  che  la  piegatura  può  praticarsi  anche 
nelle  viti  ad  ombrello  (fig.  137);  con  questo  sistema  (V.  capo  XXII) 


Fig    137. 


i  pampini  sono  distanti  dal  suolo  anche  più  di  1  metro  e  mezzo,  tale 
essendo  l'altezza  del  fusto,  onde  si  fanno  penzoloni  di  per  sé  stessi 
e  si  ricurvano.  La  cimatura  per  essi  non  è  più  necessaria  ed  il  pro- 
dotto in  uva  è  molto  abbondante.  Noi  abbiamo  in  esperimento  questo 
sistema,  e  sin'ora  ne  siamo  molto  soddisfatti. 

Diremo  infine  che  la  curvatura  dei  tralci  non  esclude  però  del 
tutto  la  cimatura.  Le  esperienze  fatte  dal  1880  in  qua  dal  sig.  G. 
Martinetti  da  Castell'Alfero  (Asti)  lo  dimostrano  bene;  questo  distinto 
viticoltore,  cima  i  getti  uviferi  in  fin  di  maggio,  rispettando  i  futuri 
capi  a  legno;  in  fin  di  giugno  cima  le  femminelle,  ed  un  mese  dopo 
ricima  incora  i  rimessiticci  più  lunghi,  cimando  nello  stesso  tempo  i 
futuri  capi  a  frutto  sin'allora  rispettati.  Ma,  appena  fatta  questa  ci- 


LA  CURVATURA  ESTIVA  DEI  TRALCI  509 

matura,  piega  ad  arco  gli  stessi  capi  a  frutto  dalla  parte  meglio  so- 
leggiata del  suo  vigneto.  Egli,  con  questo  sistema,  ha  le  sue  gemme 
sempre  molto  feconde,  com'è  facile  a  spiegarsi;  prova  ne  sia  che  il 
prodotto  medio  oscilla  intorno  ai  100  ettolitri  di  vino  ad  ettare. 

Raccomandiamo  quindi  la  curvatura  estiva  dei  tralci  per  quanto 
essa  è  compatibile  col  sistema  di  viticultura  che  si  è  adottato.  I  ri- 
sultati non  potranno  mancare. 


CAPITOLO  XV 


Lavori  colturali  nel  vigneto. 


1.  Se  si  debba  dare  la  preferenza  ai  lavori  od  al  concime  —  §  2.  Le  arature, 
loro  vantaggi  e  come  praticarle  —  §  3.  Vangature  —  §  4.  Zappature  ed  estir. 
pature  —  §  5.  Scalzatura  e  rincalzatura  —  §  6.  Lo  scasso  periodico,  l'arrotto 
ed  il  circonfussuro  —  §  7.  La  distruzione  delle  male  erbe. 


§  1.  Se  si  debba  dare  la  preferenza  ai  lavori  od  al  con- 
cime. —  Il  quesito,  che  qui  ci  proponiamo  anzitutto  di  risolvere,  ci 
pare  di  molta  importanza,  perchè  trattasi  di  vedere  se  il  viti  cultore, 
il  quale  voglia  coltivare  razionalmente  i  proprii  vigneti  di  recente 
impianto,  oppure  migliorare  quelli  già  esistenti  nel  podere,  debba  e- 
sordire  piuttosto  dai  lavori  che  dai  concimi.  Già  conosciamo  Fazione 
dei  concimi  nei  vigneti;  ma  quella  dei  lavori  è  assai  più  complessa. 
Invero  essi  esercitano  un'azione  fisica,  un'azione  chimica,  un'azione 
fisiologica  ed  un'azione  agronomica. 

L'azione  fisica  è  noto  che  consiste  nel  disgregare  il  terreno,  smi- 
nuzzandone la  superficie,  onde  vi  si  mescola  molta  aria;  diminuisce 
così  la  sua  conduttività  termica  interna,  ed  il  terreno  si  fa  coibente 
cioè  meno  atto  a  scaldarsi  sotto  gli  ardori  estivi. 

L'azione  chimica  consiste  nelle  trasformazioni  utili  che  subisce  il 
terreno,  e  specialmente  lo  strato  inerte,  messo  a  contatto  cogli  a  • 
genti  atmosferici,  onde  vi  ha  specialmente  formazione  di  nitrati,  come 
dimostrarono    Wol/f  e  Boussing ault  (v.  pag.  177),  cotanto  utili  alla 


LAVORI  COLTURALI  NEL  VIGNETO  511 

vite  non  solo  perchè  composti  di  azoto  e  potassa  o  soda,  ma  perchè 
questi  corpi  si  trovano  in  uno  stato  di  pronta  assimilazione. 

L'azione  fisiologica  che  esercitano  i  lavori  nel  vigneto  sulle  viti 
è  la  conseguenza  delle  azioni  fisica  e  chimica;  il  suolo  mantenendosi 
più  fresco,  le  radichette  esercitano  più  attivamente  la  loro  azione 
assorbitrice  perchè  si  trovano  in  presenza  di  una  quantità  d'acqua 
sufficiente;  inoltre  il  suolo  essendo  più  ricco  in  sostanze  utili,  le  ra- 
dichette stesse  si  moltiplicano  e  si  ramificano  in  copia  (pag.  176)  onde 
il  sistema  radicale  della  vite  s'accresce  notevolmente. 

Infine  l'azione  agronomica  consiste  nella  distruzione  delle  male  erbe, 
le  quali  sono  cotanto  dannose  al  vigneto,  inquantochè  gli  sottraggono 
e  alimento  e  frescura,  provocano  V  aborto  dei  fiori  e  pare  facilitino 
l'azione  funesta  delle  crittogame. 

Ora,  ciò  posto,  a  noi  pare  che  si  debba  sempre  dare  la  preferenza 
ai  lavori  anziché  ai  concimi,  e  questo  specialmente  perchè  se  i  la- 
vori sono  insufficienti  l'azione  dei  concimi  è  menomata  sensibilmente 
ed  in  gran  parte  va  a  profitto  delle  cattive  erbe.  Abbiamo  visto  più 
d'una  volta  vigneti  concimati  ma  lavorati  in  modo  insufficente,  i 
quali  producevano  poco  e  andavano  d'anno  in  anno  deperendo,  no- 
nostante la  concimazione  triennale  o  biennale;  ma  non  ci  è  mai  ac- 
caduto di  trovare  vigneti  colturati  a  dovere  i  quali  si  mostrassero 
avari  dei  loro  frutti  verso  l'intelligente  viticultore  o  che  accennas- 
sero ad  invecchiare  precocemente;  e  questo  perchè  il  lavoro  è  anche 
concime,  mentre  il  concime  non  esercita  altra  azione  all'infuori  di 
quella  chimica,  fatta  eccezione  per  lo  stallatico;  ma  neppure  questo 
ingrasso  può  escludere  il  lavoro. 

L'azione  complessa  ed  efficacissima  dei  lavori  non  può  però  essere 
indefinita  per  un  dato  vigneto;  bisognerebbe  supporre  che  quanto  si 
esporta  ogni  anno  dal  terreno  fosse  reintegrato  a  sufficienza  mercè 
l'azione  del  lavoro  stesso.  Ma  ciò  non  è,  ed  il  terreno  grado  grado 
va  estenuandosi.  Abbiamo  già  detto  che  questo  estenuamento  è  assai 
meno  sensibile  nel  vigneto  che  non  nel  campo  e  nel  prato,  perchè  le 
radici  della  vite  utilizzano  un  grande  cubo  di  terra,  del  che  abbiamo 
già  discorso  a  pag.  436;  tuttavia  anche  gli  strati  inerti  del  terreno, 
portati  alla  superfìcie,  si  estenuano  e  viene  infine  il  momento  nel 
quale  il  viticultore  deve  associare  al  lavoro  il  concime  per  mante- 
nere la  produzione  ad  un  livello  rimuneratore  e  per  serbare  vigore 
alle  sue  viti  affaticate  dalle  numerose  raccolte  precedenti. 

È  però  sempre  vero  che  si  deve  esordire  dalla  cultura,  che  vuol 


512  CAPITOLO  XV 


essere  frequente  ed  accuratissima;  e  questo  è  il  consiglio  che  diamo 
con  intimo  convincimento  al  viticultore  il  quale  abbia  mezzi  limitati  e 
voglia  migliorare  i  proprii  vigneti;  l'aumento  dei  prodotti  così  otte- 
nuto gli  permetterà  in  seguito  agevolmente  di  associare  al  lavoro  il 
concime. 

§  2.  Le  arature;  loro  vantaggi  e  come  praticarle.  —  Non 

sono  passati  molti  anni  da  che  si  incominciò  ad  estendere  l'uso  del- 
l'aratro nella  lavorazione  dei  vigneti;  prima  non  solo  non  si  usava 
questa  maniera  di  culturare,  ma  si  riteneva  fermamente  fosse  dan- 
nosa tanto  al  terreno  quanto  alle  piante. 

Oggi  però,  che  per  le  arature  delle  vigne  si  sono  inventati  spe- 
ciali aratri,  i  viticultori  sono  pressoché  tutti  convinti  della  utilità  delle 
lavorazioni  coll'aratro,  sia  dal  lato  economico,  sia  dal  lato  agricolo. 
Che  se  in  alcuni  locali  non  si  adopera  ancora  l'aratro,  si  è  soltanto 
per  la  natura  estremamente  tenace  del  terreno,  cui  conviene  lavo- 
rare a  vanga;  a  meno  che  non  vi  si  riesca  con  speciali  aratri  all'a- 
mericana, di  cui  diremo  fra  poco,  oppure  adottando  il  sistema  di  van- 
gare profondamente  per  il  primo  anno,  e  poscia  arare  tutti  gli  anni 
senza  interruzione,  nel  qual  caso  il  terreno  non  si  fa  mai  così  duro 
come  quando  si  lavora  rare  volte  ed  a  piccola  profondità. 

Le  arature,  oramai  adottate  in  quasi  tutti  i  paesi  viticoli  d'Europa, 
rappresentano  il  sistema  più  economico  per  culturare  il  vigneto;  è 
vero  che  la  vanga  fa  un  lavoro  più  perfetto,  ma  esso  è  anche  no- 
tevolmente più  costoso.  D'altronde  colla  scarsezza  della  mano  d'opera 
che  tutti  lamentano,  è  giocoforza  valersi  dell'aratro,  specialmente  nei 
vigneti  specializzati  oramai  predominanti,  a  meno  che  non  si  voglia 
rinunciare  a  tutti  i  beneficii  che  sono  la  conseguenza  d'una  accurata 
lavorazione  dei  vigneti.  Si  aggiunga  che  questa  lavorazione  bisogna 
compierla  in  determinati  momenti,  ond'ò  che  conviene  utilizzare  il 
tempo  con  strumenti  ad  azione  più  rapida  di  quanto  non  lo  sia  la 
vanga;  è  chiaro  che  l'aratro  risolve  bene  questo  importante  problema. 

Infine  è  noto  che  lo  sforzo  costante  di  tutti  coloro  che  si  occu- 
pano di  studii  viticoli,  è  quello  di  trovar  modo  di  produrre  l'ettolitro 
di  vino  al  minor  prezzo  possibile  compatibilmente  colla  sua  qualità 
e  commerciabilità;  or  bene,  per  conseguire  questo  resultato,  che  per- 
metterebbe, come  dicevamo  altra  volta,  di  democratizzare  vieppiù  l'uso 
del  vino,  conviene  non  solo  spingere  la  produzione  a  più  alto  livello, 
ma  eziandio  diminuire  le  spese  di  mano  d'  opera.  E  qui  pure  viene 
in  nostro  aiuto  l'aratro. 


LAVORI   COLTURALI  NEL  VIGNETO  513 

Ma  vediamo  più  precisamente  quale  differenza  vi  sia  tra  il  costo 
della  lavorazione  coll'aratro  e  quella  a  braccia. 

In  Piemonte  si  può  calcolare  che  la  lavorazione  di  un  ettare  di 
vigneto  specializzato  costi  L.  120  se  fatta  a  mano,  e  L.  90  se  fatta 
cogli  animali;  sarebbero  dunque  in  media  L.  30  di  risparmio  per 
ettare. 

Il  Prof.  Caruso  studiando  la  stessa  quistione  al  podere  La  Cava 
presso  Pisa,  trovava  quanto  segue: 

1.  Coltratura,  tra  febbraio,  marzo  e  anche  aprile;  di- 

cende  8,  a  L.  1,12 L.     8,96 

2.  Vangatura  dei  prodini  o   striscie    sode    presso    le 

viti  e  sbarbettature;  opre  22,  a  L.  1  .         .         .      »    22,00 

3.  Prima  aratura  nella  prima  metà  di  giugno,  scan- 
sando il  tempo  della  fioritura;  dicende  6,  a  L.   1,12 

4.  Zappatura  dei  prodini,  come  sopra,  opre  16,  a  L.  1 

5.  Seconda  aratura  tra  luglio  ed  agosto;  dicende  6, 
a  L.   1,12 

6.  Zappatura  dei  prodini,  come  sopra,  opre  16,  a  L.  1 

7.  Apertura  degli  acquai  in  settembre  opra  1,  a  L.  1 

Totale   L.  77,40 

Il  costo  della  lavorazione  a  mano  di  un  ettaro  di  vigna  alla  Cava  è  di 
L.  115;  eppertanto  coll'aratro  si  risparmiano  annualmente  L.  37,60 
per  ettaro. 

Ma  bastino  questi  dati,  che  si  potrebbero  moltiplicare  agevolmente, 
per  dimostrare  la  convenienza  economica  eli  culturare  i  vigneti  cogli 
aratri. 

Che  poi  l'aratro  sia  nocivo  alle  viti,. questo  è  inesatto,  e  molti  vi- 
ticultari oramai  lo  potrebbero  attestare;  certo  non  conviene  spingere 
l'aratura  troppo  addosso  ai  filari,  e  noi  usiamo,  appunto  per  rispet- 
tare le  radici,  lasciare  una  striscia  di  centimetri  50  d'altezza  sia  al 
disopra  che  al  disotto  d'ogni  filare,  non  rotta  dall'aratro,  ma  invece 
vangata  o  zappata  dopo  l'aratura.  E  così  a  poco  presso  fanno  tutti 
coloro  che  si  giovano  dell'aratro.  Qualora  però  fosse  il  caso  di  vi- 
gneto mal  colturato  per  lo  addietro,  e  quindi  colle  viti  a  radici  su- 
perficiali quanto  i  lavori  fatti,  sarà  prudente  non  solo  eseguire  l'a- 
ratura dal  novembre  al  marzo  allorquando  le  piante  sono  in  riposo, 

O.  Ottavi.   Trattato  di  Viticoltura  34 


» 

6,72 

» 

16,00 

» 

6,72 

» 

16,00 

» 

1,00 

514  CAPITOLO   XV 


ma  eziandio  arare,  per  il  primo  anno,  soltanto  da  un  lato  del  filare; 
l'anno  dopo  si  completerà  il  lavoro  eseguendolo  anche  dall'altro  lato, 
ma  poi  si  proseguirà  ogni  anno  a  culturare  il  vigneto.  Con  queste 
avvertenze  si  recheranno  assai  lievi  offese  alle  radici. 

Veniamo  ora  ad  esaminare  come  e  con  quali  strumenti  debbansi 
praticare  le  arature  nei  vigneti.  A  tal  uopo  furono  escogitate  molte 
foggie  di  aratri,  ora  ad  uno  ed  ora  a  due  animali  equini  o  bovini, 
a  tiro  fisso  od  a  tiro  sciolto  e  via  dicendo,  le  quali  si  adattano  alle 
differenti  condizioni  dei  vigneti;  diremo  qui  delle  principali  e  meglio 
rispondenti  all'atto  pratico. 

Ma  anzitutto  noteremo  che  non  è  quasi  possibile  adoperare  gli 
aratri  là  dove  l'inclinazione  del  suolo  è  maggiore  del  10  per  cento; 
in  simili  condizioni  bisogna  anzitutto  disporre  il  terreno  a  banchine, 
come  dicevamo  a  pag.  364.  Data  quindi  questa  condizione,  nonché 
una  sufficiente  distanza  fra  le  ceppaie  e  la  regolarità  dei  filari,  si 
potranno  adottare  gli  aratri. 

Lasciando  da  parte  l'antichissimo  aratro  romano  (fig.  138)  ancora 


Fig.  138, 


oggi  molto  adoperato  specialmente  nell'Italia  e  nella  Francia  del  Mez- 
zodì, noteremo  fra  i  più  stimati  gli  aratri  Vernette,  di  cui  vi  hanno 
varii  numeri,  cioè  il  55,  il  57  ed  il  59.  Il  Prof.  Cerletti,  che  li  ha 
esperimentati  alla  Scuola  viticola  di  Oonegliano,  così  ne  parla: 

«  La  fig.  139  rappresenta -un  semplice  aratrino  dì  acciaio  che  può 
essere  tirato  da  un  bue  o  da  un  cavallo,  che  si  approfonda  nel  ter- 
reno da  10  a  13  centimetri,  capovolgendo  una  zolla  di  terra  larga 
da  25  a  30  centim.:  senza  speciale  disposizione  ma  solo  col  piegare 
a  destra  e  a  sinistra,  ristrumento  può  essere  spinto  fino  alla  distanza 
di  10  centimetri  dalle  ceppaie  delle  viti.  La  profondità  alla  quale 
lavora  ristrumento  vien  regolata  da  una  piccola  vite  che  preme  sul- 
l' asta  d'  attacco.  Il  maneggio  dell'  istrumento  è  semplicissimo  e  di 
nessuna  fatica;  fin  dal  primo  giorno  fu  condotto  dagli  allievi  del  corso 
inferiore  della  Scuola  e  senza  affaticarsi  ne  son  diventati  essi  stessi 


LAVORI  COLTURALI   NEL  VIGNETO 


5] 


i  guidatori.  Le  prime  esperienze  diedero  che  questo    aratrino  a  pa- 
rità di  tempo  fa  all'incirca  come  13  zappatori. 


■    :' 


Kiir.  139. 


La  figura  140  rappresenta  una  scarificatrice  a  5  denti  che  serve  a 
suddividere  il  terreno  quando  sia  a  motte  troppo  grosse  a  modo  di 


Piff.  140. 


un  erpice,  fenderlo  e  renderlo  accessibile  all'aria  nei  periodi  di  sic- 
cità successi  a  piogge  insistenti    e  prolungate:    lavora  una    lama  di 


516 


CAPITOLO  XV 


terra  larga  60  centimetri  e  profonda  10;  fa  10  filari  di  84  metri 
di  lunghezza  all'ora  passando  una  volta  innanzi  e  un'  altra  indietro 
in  ciascun  filare  (larghezza  dei  filari  1,30  metri).  I  tre  pezzi  di  ri- 
cambio indicati  nella  figura  si  possono  con  somma  facilità  sostituire 
ai  5  denti  e  allora  il  nuovo  istrumento  che  si  ottiene  è  una  zappa 
a  cavallo  eccellente  per  recidere  le  radici  delle  male  erbe  e  sollevare 
e  render  poroso  il  terreno  senza  capovolgerlo;  esso  può  lavorare  in 
terreno  leggero  una  lama  larga  fin  90  centimetri  e  in  un'ora  muove 
15  filari  lunghi  84  metri  e  larghi  1,30. 

Finalmente  la  fìg.  141  ci  dà  l'idea  di  un  piccolo  e  robustissimo  aratro 
per  terreni  molto  compatti  o  ghiaiosi;  il  modo  brusco  col  quale  ri- 
muove la  terra  mette  facilmente  a  nudo  le  radici  delle  male  erbe 
che  facilmente  si  disseccano;  per  di  più  lascia  un  solco  che  favorisce 
un  più  pronto  smaltimento  delle  acque  (1). 


essane;. 


Fig.  111. 


Questo  può  lavorare  per  una  profondità  di.  20  centimetri,  ma  vi- 
cino  ai  ceppi  sarebbe  eccessiva,  quindi  convien  meglio  regolarla  a 
8  o  10  centimetri.  Lo  stesso,  se  susseguito  da  un  robusto  aratro 
ordinario,  può  servire  d'inverno  per  fare  un  profondo  solco  alterna- 
tivamente fra  i  filari  di  viti  onde  seppellirvi  il  concime.  In  tal  modo 
lo  stallatico  va  totalmente  a    profitto  della  vite  e  non    avviene  mai 


(1)  Si  può  trasformare   questo  aratro  in  una  zappa   a   cavallo  (bineuse)  molto 
maneggevole,  mediante  la  lama  diricambio  a  forma  di  V  che  si  vede  nella  fig.  141. 


LAVORI  COLTURALI   NEL  VIGNETO 


di  portar  colle  lavorature  annuali  il  concime  alla  superficie  e  favo- 
rire lo  sviluppo  delle  male  erbe.  » 

Gli  strumenti  accennati  per  la  loro  semplicità,  solidità  e  facile  ma- 
neggio, corrispondono  perfettamente  allo  scopo,  e  la  miglior  prova 
ne  è  la  diffusione  a  migliaia  ch'essi  hanno  avuto  in  quest'ultimi  anni 
specialmente  nel  mezzodì    della  Francia  (1). 

La  fig.  140  rappresenta  il  così  detto  n.  55  —  la  fig.  139  il  n.  57  — 
141  il  n.  59.  —  Nella  fig.  142  si  vede  come  si  attacca  il 


e  la  fig 


Fig.  1 12. 

cavallo,  con  un  semplicissimo  attiraglio  in  legno:  il  cavallo  viene  al- 
lacciato alle  stanghe  col  mezzo  di  apposite  fìbbie,  e  tira  dal  collare: 
si  può  benissimo  però  invece  del  cavallo,  attaccare  un  bue. 

Volendo  fare  lavori  più  profondi,  si  potrebbero  adottare  gli  aratri 
fissi  o  volta-orecchio  all'  americana.  Cogli  aratri  detti  n.  18  1[2 
ad  orecchia  fissa  (fig.  143)  oppure  col  così  detto  doppio  zero  (00)  a 


Fisr.  143. 


volta-orecchia  s;mile  alla  fig.  144,  si  fa  un  ottimo  lavoro,  capovolgendo 
bene  la  terra,  assai  meglio  che  non  cogli  aratri  Vergnette.  L'aratro 


(1)  L'Agenzia  Enologica  Italiana  di  Milano  può  fornire  dritti  aratri. 


518 


CAPITOLO  XV 


00  è  preferibile  per  Je  terre  inclinate;  si  sa  che  con  queste  terre  si 
farebbe  un  cattivo  lavoro  se  si  volesse,  come  si  dice,  trarre  in  su 
la  terra;  è  quindi  giuocoforza  una  volta  si  e  l'altra  no,  tornare  in- 


ni. 


dietro  a  vuoto  coll'aratro,  cioè  senza  lavorare;  di  qui  una  perdita  di 
tempo  non  indifferente:  invece  cogli  aratri  volta  orecchia  questa  perdita 
non  si  verifica  più  perchè  si  lavora  sempre  andando  e  venendo, 
avendo  essi  l'orecchia  mobile  che  si  può  adattare  ora  sul  fianco  de- 
stro, ora  sul  fianco  sinistro  dell'aratro.  Il  maneggio  degli  aratri  volta- 


Fig.  145. 


orecchia  è  semplicissimo:  si  regolano  come  ogni  altro  aratro:  giunti 
che  si  è  in  fondo  al  solco  si  leva  l'uncino  che  tiene  l'orecchia  fissa 


LAVORI  COLTURALI  NEL  VIGNE  TO- 


SI 9 


al  bure,  e  a  mezzo  dei  manici  si  alza  l'aratro  appoggiando  al  suolo  la 
punta  del  bure;  l'orecchia  allora  si  fa  penzoloni,  e  con  una  viva  scossa 


Fig.  146. 


Fig.  147. 


laterale  si  fa  passare  dall'altra  parte  dell'aratro,  la  si  fissa  di  nuovo 
coll'uncino,  e  si  lavora  come  se  si  avesse  a  fare  con  un  aratro  ad 
orecchia  immobile.  Per  i   lavori   di  una   profondità   maggiore   di  18 


>2Ò 


CAPITOLO  XV 


centimetri  vi  sono  gli  aratri  19  ì\2  (fig.  145),  il  CI  (fig.  146)  ad  orecchia 
fìssa,  e  gli  aratri  Bl  e  CI  (fig.  147)  a  volta-orecchia.  Con  essi  si  può 
scendere  a  25  centimetri,  e  col  CI  anche  a  28:  questi  aratri  CI  spe- 
cialmente sono  di  una  grande  solidità;  trovino  pure  il  terreno  ar- 
gilloso e  compatto  quanto  si  vuole,  essi  lo  squarciano  e  ne  capovol- 
gono le  zolle  in  modo  perfetto.  Vi  furono  estati  secchissime  (come  per 
esempio  quella  del  1873),  nelle  quali  nessun  aratro  potè  vincere 
come  il  CI  la  compattezza  della  terra  (1). 

Per  approfondire  i  solchi  tracciati  dai  suddetti  aratri  si  può  far 
passare,  come  noi  usiamo,  il  ripuntatore  del  quale  demmo  la  fi- 
gura a  pag.  367. 

Un  aratro  per  vigneti  di  cui  si  lodano  molto,  da  parecchi  anni,  i 
viticultori  del  Mezzodì  della  Francia,  è  quello  del  sig.  Barrai  d'Agde 
(fig.  148)  ad  orecchio  fìsso,  tutto  di  ferrose  con  una  punta  mobile 


Fiff.  1 18. 


che  si  può  far  sporgere  più  o  meno  dalla  estremità  anteriore  del  vo- 
mere. Il  disegno  indica  esattamente  la  forma  dell'orecchia  della  bure 
e  della  stegola.  Il  tiro  si  effettua  per  mezzo  dell'  attiraglio  fig.  149 
ove  y  indica  una  vite  di  pressione,  ed  x  x  due  fasciature  in  ferro. 


(1)  Tutti  questi  arati-i  si  possono  trovare  presso  l'Ufficio  del  Coltivatore  in  Ca- 
sal monte  rrato. 


LAVORI  COLTURALI  NEL  VIGNETO  521 

Il  sig.  Marès  (op.  cit.)  loda  molto  l'aratro  Barrai,  perchè  solido  e 
nello  stesso  tempo  leggero,  ed  inoltre  perchè  ha  l'orecchia  disposta 
in  guisa  tale  da  offendere  il  meno  possibile  gli  speroni  e  le  branche 
delle  ceppaie. 


Via.  149. 


Molti  altri  aratri  vennero  ideati  pei  vigneti,  quali  l'aratro  Mes- 
sager,  quello  di  Souchu-Pinet,  entrambi  ad  orecchio  mobile,  quelli 
di  Neukomm,  di  Sack  ecc.,  polivomere  l'aratro  Hugues  (1)  ecc. 
Ma  certo  quelli  sovra  descritti  stanno  fra  i  migliori,  specialmente  per- 
chè all'atto  pratico  hanno  corrisposto  assai  bene. 

§  3.  Vangature.  —  La  vangatura  è  operazione  importantissima 
del  vigneto,  non  solo  perchè  concentra  per  così  dire  la  freschezza  nel 
terreno  e  lo  libera  dalle  male  erbe,  ma  eziandio  perchè  lo  fertilizza 
assai  più  dell'aratro  e  della  zappa:  la  vanga  infatti  suol  dirsi  che  ha 
la  punta  d'oro,  perchè  con  essa  si  capovolge  bene  la  fetta  di  terra, 
e  si  porta  all'azione  fertilizzatrice  degli  agenti  atmosferici  (calore, 
luce,  elettricità,  umido)  la  terra  inerte;  questa  si  bonifica  e  la  vi* 
gna  ne  trae  poi  grande  profitto,  come  è  noto  a  moltissimi  viticul- 
tori  di  tutte  le  terre  italiane.  Il  dottor  Guyot,  il  signor  F.  Lacoste 
ed  altri  scrittori  francesi,  sconsigliano  invece  di  smuovere  profonda- 
mente il  suolo  attorno  ai  ceppi  delle  viti,  ed  hanno  ragione  nei  loro 
paesi  più  al  nord,  più  freschi  assai  del  nostro,  e  dove  si  abbisogna 
d'un  terreno  duro  e  buon  couduttore  del  calorico;  infatti,  nelle  terre 
dure  e  pestate  come  nelle  carreggiate,  Guyot  otteneva  la  sua  mi- 
glior uva,  purché  però  ripulisse  il  suolo  dalle  male  erbe.  Adunque 
chi  teme  i  freschi  estivi  (nessuno  'però  o  ben  pochi  in  Italia  si 
trovano  in  tali  condizioni)  non   vanghi,   ma    chi  teme  i  calori 


(1)  Il  Prof.   C.  Hugues  ha  pubblicato    una   memoria   Sugli  aratri  pei   vigneti 
ove  trovansi  alcuni  dettagli  su  queste  foggie  di  aratri. 


S22 


CAPITOLO  XV 


vanghi  profondamente  almeno  una  volta  l'anno.  Si  noti  però  che 
coi  lavori  superficiali,  il  terreno  del  vigneto  si  esaurisce  più  pron- 
tamente, e  conviene  perciò  (come  ben  faceva  Gnyot)  ingrassarlo  di 
frequente  e  nulla  coltivare  nell'interfilarc;  questo  più  pronto  esauri- 
mento è  naturale,  dal  momento  che  il  viticoltore  ha  a  sua  disposi- 
zione una  minor  quantità  di  terra  arabile,  che  la  vite  non  tarda 
molto  a  sfruttare. 

Colla  vangatura  profonda  si  spezzano  molte  radichette  della  vite; 


Fiff.  151 


ma  ciò  accade  soltanto  colà  dove  il  terreno  si  lavora  usualmente  a 
poca  profondità:  infatti  nei  vigneti  non  mai  vangati,  le  radi- 
chette si  portano  a  poca  distanza  dalla  superfìcie  del  suolo, 
in  cerca  di  maggior  copia  d'aria  e  fors  anche  di  principii  as- 


LAVORI  COLTURALI   NEL  VIGNETO 


523 


sìmilàbili.  Diciamo  fors' anche,  perchè  non  è  ammessa  da  tutti  la 
ricerca  dell'alimento  da  parte  delle  radici.  Nel  caso  di  radichette 
superficiali,  si  deve  vangare  il  suolo  (o  ararlo)  dal  novembre  al 
marzo,  quando  il  succo  è  in  riposo,  ma  soltanto  da  un  lato  del  filare 
di  viti;  così  le  piante  soffrono  assai  poco;  l'anno  dopo  si  farà  il  la- 
voro profondo  dall'altro  lato.  Ma  poi  bisognerà  vangare  tutti  gli 
anniW  vigneto,  acciò  le  barboline  radicellari  non  abbiano  a  risalire  alla 
superficie.  L'operazione  si  deve  fare  dopo  la  potatura  e  dopo  gli  altri 
lavori  (palatura,  allacciatura)  che  spesso  protraggonsi  sino  all'aprile: 
cosi  si  evita  di  far  pestare  dagli  opranti  il  suolo  vangato.  Ma  la 
vangatura  si  può  fare  anche  in  autunno,  prima  dei  forti  geli,  perchè 
si  sa  che  essa  giova  alle  viti  estenuate  crescenti  in  terre  forti  o 
compatte.  Concludendo,  la  vangatura  si  deve  fare  prima  del  forte 
risveglio  vegetativo  di  primavera  (e  così  prima  del  maggio), 
perchè  in  caso  diverso  si  spezzerebbero  troppe  radichette  novelle 
delle  viti  e  queste  ne  soffrirebbero  molto. 

La  vanga  può  avere  varie  foggie:  la  più  comune  è  quella  indicata 
dalla  fig.  150:  —  è  preferibile  però  quella  a  punta  fig.  151  molto  usata 
nel  Lucchese.  Alcuni  si  lodano  di  quella  foggiata  come  la  fig.  152  n.  1, 
che  si  potrebbe  dire  a  due  punte,  quale  si  usa  nella  Francia  Meri- 


Fig.  152. 


dionale;  infine  per  le  terre  compatte  o  sassose  conviene  la  vanga  bi- 
dente o  tridente  fig.  152  n.  2. 


§  4.  Zappature  ed  estirpature.  —  Le  zappature  o  sarchia- 
ture hanno  principalmente  per  iscopo  di  distruggere  le  male  erbe, 
tenendo  culturato  e  smosso  il  terreno  del  vigneto,  acciò  non  si  faccia 


524 


CAPITOLO  XV 


troppo  conduttore  del  calore,  ed  il  sistema  radicale  della  vite  non 
abbia  a  soffrire  il  soverchio  asciutto.  A  questo  si  aggiunga  che 
il  terreno  zappettato  si  copre  di  più  abbondante  rugiada,  il  che  giova 
pure  alla  vite,  specialmente  quando  già  porta  uva:  questa  allora  si 
ingrossa,  d'onde  il  vecchio  adagio  che  «  chi  zappa  la  vigna  in  agosto, 
riempie  la  cantina  di  mosto.  »  Un  terreno  zappato  evapora  in  24 
ore  circa  8  grammi  di  acqua  per  decimetro  quadrato,  laddove  se  è 
duro  ne  evapora  oltre  a  13  grammi,  e  ciò  a  parità  di  condizioni: 
è  facile  quindi  intendere  come  gli  acini  ingrossino  sensibilmente  se 
il  vigneto  è  culturato  nell'estate,  del  che  abbiamo  già  parlato  a  lungo 
a  pag.  209. 

La  zappatura  deve  farsi  due  volte;  la  prima  tra  il  maggio  ed  il 
giugno,  dopo  la  vangatura  di  marzo  od  aprile,  e  l'altra  in  agosto.  La 
pratica  insegna  che  è  utilissimo  fare  questa  zappatura  un  giorno  o 
due  dopo  cessate  le  pioggie  primaverili,  e  ripeterla  se  queste  si  aves- 
sero a  ripetere:  così  si  evitano  gli  inconvenienti  che  sono  la  conse- 
guenza dell'  avere  pestato  il  terreno  per  causa  delle  pioggie  stesse, 
e  dell'averlo  altresì  coperto  di  male  erbe,  come  accade  appunto  dopo 
le  pioggie. 

Zappando  in  estate,  si  avverta  però  a  non  toccare  le  uve,  perchè 
urtando  le  viti  durante  i  giorni  di  grande  calore  e  di  afa  si 
scottano  le  uve,  cioè  si  induce  una  specie  di  essicamento  precoce, 
per  cui  gli  acini  maturano  assai  incompletamente.  Questo  feno- 
meno non  fu  ancora  spiegato,  ma  è  un  fatto  costante. 

Vi  sono   molte  foggie  di  zappe;  la  zappa  croata  (fig.  152  n.°  3), 


MONTICELLI 


Fig.  153. 


quella  a  cuore  (n.°  4),  la  doppia  (n.°  5),  Ila  zappa  a  mezzo  cuore 
(fig.  153  n.°  (>),  quella  a  bidente  larga  (fig.  153  n.°  7),  la  zappa  renana 


LAVORI  COLTURALI   NEL  VIGNETO 


525 


(fig.  153  n.°  8)  e  quella  a  bidente  stretta  (fig.  153  n.°  9).  Esse  si  adat- 
tano alle  varie  condizioni  in  cui  può  trovarsi  il  terreno  del  vigneto  (1). 
Veniamo  ora  alle  estirpature:  —  esse  hanno  sulle  zappature  il  van- 
taggio di  costare  meno,  ma  tuttavia  non  sempre  sono,  solo  per  questo, 
da  preferirsi.  Coll'estirpatore  si  fanno  presto  i  lavori  superficiali,  ma 
conviene  attendere  a  culturare  il  terreno  dopo  le  pioggie  di  pri- 
mavera e  quando  l'interfilare  sia  già  stato  arato,  nel  qual  caso  col- 
l'estirpatura  si  sminuzza  assai  bene  la  terra:  in  generale  sarà  ottima 
cosa  fare  almeno  due  estirpature,  una  tra  il  maggio  ed  il  giugno, 
l'altra  in  agosto.  In  una  giornata  di  lavoro  noi  abbiamo  estirpatati 
talora  anche  2  ettari  di  vigneto  specializzato  a  filari  distanti  3  metri, 
mediante  l'estirpatore  casalese  (fig.   154)  tirato  da  un  paio  di  buoi;  in 


Fig.  154. 


media  in  una  giornata  si  può  sempre  zappare  un  ettare  di    vigneto 
con  questo  istrumento. 

Tutti  questi  lavori  culturali  dei  vigneti  si  completano  a  vicenda, 
ond'  è  che  in  generale  non  conviene  attenersi  ad  uno  solo  fra  di 
essi.  Noi  seguiamo  infatti,  e  con  molto  successo,  il  sistema  seguente: 
in  aprile,  quando  è  ultimato  ogni  lavoro  di  potatura,  lavoriamo 
gli  interfilari  coll'aratro,  a  20  o  25  centimetri  di  profondità;  in  maggio 


(1)  Tutti  questi  strumenti  per  la  lavorazione  dei  vigneti  si  possono  comperare 
presso  la  stimata  Agenzia  Enologica  di,  Milano, 


526  CAPITOLO   XV 


vanghiamo  a  25  centimetri  tutto  quel  terreno  del  vigneto  dove  non 
fu  possibile  far  passare  1'  aratro,  cioè  il  filare  stesso;  in  giugno  e 
luglio  pratichiamo  due  estirpature  od  anche  tre  se  il  vigneto  lo  ri- 
chiede. Nella  seconda  quindicina  di  luglio  ariamo  l'interfìlare  a  25  o 
30  centimetri  di  profondità  rincalzando  i  filari,  per  cui  rimane  come 
un  fosso  nel  mezzo  dell'interfilarc,  indi  zappiamo  il  terreno  non  arato; 
infine  seguono  due  estirpature.  Con  questo  sistema,  quantunque  il 
terreno  del  vigneto  sia  molto  propenso  a  coprirsi  di  male  erbe,  non 
si  dà  loro  tregua,  ed  il  vigneto  stesso  è  sempre  culturato  in  modo 
assai  soddisfacente.  La  spesa  di  questi  lavori  è  poi  compensata  ad 
usura  dal  prodotto,  che  è  in  media  di  100  ettolitri  di  vino  ad  ettare. 

§  5.  Scalzatura  e  rincalzatura.  —  Abbiamo  accennato  or'ora 
a  queste  operazioni;  è  pregio  dell'opera  entrare  nei  dettagli,  perchè 
sono  esse  pure  assai  giovevoli  ai  vigneti,  specialmente  nei  climi  aridi. 
Consistono  nello  smuovere  in  autunno  la  terra  attorno  al  pedale 
delle  viti  e  indi  toglierla  per  farne  come  un  cumulo  lungo  T  in- 
terfilarc (scalzare),  per  poscia  rimetterla  a  suo  posto  in  maggio,  ac- 
cumulandone anzi  alquanta  attorno  alle  ceppaie  stesse,  onde  rimane 
poi  un  solco  nel  mezzo  dell'interfilarc  (rincalzare).  In  autunno,  cioè 
in  novembre  e  dicembre,  scalzando  si  recidono  bensì  le  radici  super- 
ficiali, ma  la  pianta  non  ne  soffre  menomamente  perchè  è  in  riposo; 
anzi  questa  sbarbettatura  è  molto  raccomandata  da  moderni  (1)  ed  anche 
da  antichi  scrittori.  Intanto  nella  fossa  o  conca  che  rimane  aperta  si 
immagazzinano  le  acque  piovane,  cosa  molto  utile  nei  paesi  caldi;  queste 
acque  penetrano  nel  terreno  a  non  poca  profondità,  e  durante  gli 
ardori  estivi,  quasi  diremmo,  risalgono  per  capillarità  negli  strati  su- 
periori a  totale  vantaggio  della  vite.  Là  dove  le  terre  sono  inclinate, 
cotali  conche  diventano  una  necessità,  poiché  senza  di  esse  l'acqua  pio- 
vana andrebbe  quasi  tutta  perduta;  ed  è  certamente  per  questo  che 
in  molti  locali  del  Monferrato,  della  Sicilia  e  della  Francia  meridio- 
nale la  scalzatura  è  praticata  da  molto  tempo.  Si  aggiunga  inoltre 
che  mercè  cotale  scalzatura  il  terreno  della  fossa  o  della  conca,  e- 


(1)  Il  Prof.  Caruso  (Quistioni  urgenti  di  viticoltura,  Messina  1871,  pag.  55) 
dice  che  è  utile  sbarbettare  scalzando  la  vite,  porche  «  le  radici  superficiali  sof- 
frirebbero il  seccore  ed  il  caldo  dei  climi  meridionali,  come  il  freddo  ed  il  gelo 
dei  climi  freddi,  per  cui  non  si  appongono  Itone  gli  scrittori  che  dicono  inutile 
lo  sbarbettamento.  »  Anche  in  Monferrato  si  pratica  la  sbarbettatura. 


LAVORI  COLTURALI   NEL  VIGNETO  527 

sposto  ai  freddi  dell'  inverno,  si  sfiora  e  però  i  lavori  culturali  di 
primavera  riescono  molto  più  agevoli;  infine  questa  stessa  terra  si 
bonifica  mercè  il  contatto  cogli  agenti  atmosferici.  Le  nuove  radi- 
chette  che  escono  a  primavera  dalle  radici  principali,  non  possono 
a  meno  di  dirigersi  all'  ingiù,  causa  la  scalzatura,  ed  è  per  questo 
che  non  dapprima  soffrono  i  geli,  e  poscia  durante  i  calori  estivi 
non  soffrono  neppure  l'arsura,  onde  la  vite  porta  frutti  ben  nutriti 
e  ricchi  di  succo. 

Noteremo  tuttavia  che  la  scalzatura  non  si  deve  praticare  là  dove 
il  suolo  è  umidiccio  per  natura,  cioè  basso,  e  soggetto  ai  forti  geli. 

In  maggio,  come  già  abbiamo  detto,  si  farà  la  rincalzatura,  tanto 
utile  là  dove  il  soverchio  ardore  estivo  nuoce  alle  ceppaie.  Il  cumulo 
di  terra  che  viene  a  circondare  il  pedale  delle  piante,  mantiene  più 
fresca  la  terra  entro  cui  le  radici  compiono  il  loro  ufficio,  e  perciò 
i  grappoli  vengono  provvisti  della  quantità  di  umido  che  loro  è  in- 
dispensabile per  ingrossare  e  maturare. 

Quanto  dicemmo  sin  qui  si  riferisce  in  modo  speciale  ai  climi  caldi. 
Nei  climi  temperati  si  usa  invece  di  scalzare  a  primavera  e  rin- 
calzare in  autunno.  Nel  rinomato  Médoc  (Bordolese)  si  fa  la  scal- 
zatura in  marzo  e  la  rincalzatura  in  maggio  (1);  ma  Guyot  dice 
che  in  quella  regione,  come  nelle  altre,  queste  operazioni  sono  inu- 
tili, e  solo  si  fanno  per  vecchia  costumanza.  Anzi  egli  soggiunge  (2) 
che  sono  nocive  se  fatte  in  primavera,  allorquando  la  pianta  è  in  succo, 
e  noi  lo  crediamo  fermamente,  e  conclude  infine  coir  affermare  che 
«  dovunque  ove  le  culture  piane  furono  sostituite  alla  scalzatura  e 
rincalzatura,  il  vigore  e  la  fertilità  delle  vigne  aumentarono  ». 
Ma,  lo  ripetiamo,  questo  si  riferisce  ai  climi  temperati:  pei  climi 
caldi  le  operazioni  dello  scalzare  d'autunno  e  rincalzare  in  primavera, 
sono  ottime  e  commendevoli,  come  dicevamo  più  sopra. 

§  6.  Lo  scasso  periodico,  l'arrotto  ed  il  circonfussuro.  — 

Da  Teofrasto  in  poi,  tutti  coloro  che  si  sono  occupati  con  giusti 
criterii  della  coltura  delle  vite,  hanno  ammesso  che  il  rinnovare  di 
tanto  in  tanto  la  terra  al  piede  delle  ceppaie  è  operazione  di  grande 
importanza,  perchè  il  vigneto  quasi  diremmo  ringiovanisce,  il  prodotto 
dell'uva  aumenta  e  la  qualità  si  fa  assai  pregevole  per  ricchezza  di 


(1)  Guyot  op.  cit.  voi.  I,  pag.  444 

(2)  Id.  p.  445, 


528  CAPITOLO   XV 


principio  dolce.  Gli  è  per  questo  ne  è  opera  tanto  commendevole 
lo  scasso  profondo  degli  interfìlari,  ad  ogni  sesennio  od  anche  ad  ogni 
decennio,  a  seconda  dei  casi.  Citeremo  al  riguardo  alcuni  fatti. 

Sui  colli  di  Casale,  e  massime  a  Casorzo,  Montemagno,  ecc.  è  molto  in 
uso  siffatto  scasso.  Il  distinto  viticoltore  sig.  cav.  Montiglio,  nelle  di  lui 
vecchie  vigne  di  Altavilla  lo  faceva  operare  a  due  o  a  tre  fitte  di  vanga 
in  quasi  tutto  l' interfilare  (largo  da  5  a  6  metri)  e  ciò  senza  ba- 
dare se,  così  operando,  faceva  a  pezzi  molte  radici.  Or  con*  ciò 
e  con  alcune  giovani  vigne  da  lui  piantate  (in  gran  parte  però  an- 
cora improduttive)  da  81  carri  d'uva  salì  in  sette  anni  a  240.  (vedi 
Coltivatore  voi.  IX,  p.  23). 

A  Canneto  (Voghera)  lo  scasso  suddetto  dell'interfilarc  si  dice  cui- 
turone  e  si  pratica  soltanto  ogni  20  anni  a  75  centimetri  di  pro- 
fondità. Costa  200  giornate  d'uomo  ad  ettare  compresa  la  striscia 
occupata  dai  filari,  la  quale  non  si  tocca.  Al  primo  anno  la  vite  soffre 
un  po'  e  non  ripiglia  vigore  che  al  successivo  autunno.  Al  secondo 
si  ottiene  2[3  d'  un  prodotto  ordinario  ed  al  terzo  anno  il  prodotto 
è  normale.  Esso  aumenta  poi  sempre  per  altri  setti  anni,  infine  de- 
cresce sino  al  ventesimo,  e  allora  si  torna  da  capo  col  colturone. 
(V.   Coltivatore  voi.  XIV,  pag.  269). 

In  Valle  S.  Martino  (Bergamo)  dove  la  vite  è  coltivata  sopra 
banchine  orizzontali,  si  opera  lo  scasso  ogni  otto  o  dieci  anni  e  solo 
sulla  scarpa  della  banchina.  Con  questo  vi  si  duplica  il  prodotto 
dell'uva  per  parecchi  anni  di  seguito.  (V.  Coltivatore  volume  XII, 
pag.  302). 

Noi  pure  pratichiamo  lo  scasso  a  50  cent,  di-  profondità  ogni  se- 
sennio all'  incirca,  e  tosto  otteniamo  un  notevole  accrescimento  di 
prodotto,  che  col  vitigno  barbera  tocca  i  130  ettol.  ad  ettare. 

Ma  il  forte  aumento  del  prodotto  va  decrescendo  man  mano  che 
il  terreno  va  indurendosi;  e  così,  là  dove  si  pratica  lo  scasso  ogni 
10  anni,  dal  5°  anno  al  10°  la  produzione  segue  una  scala  discen- 
dente, ond'è  che  è  più  conveniente  praticare  uno  scasso  sesennale 
a  50  centim.  di  profondità,  che  non  uno  decennale  ad  un  metro. 

Per  poter  praticare  lo  scasso  bisogna  che  gli  mterfilari  siano  larghi 
almeno  tre  metri.  Quando  la  loro  larghezza  non  è  superiore  agli  otto 
metri,  l'operazione  dovrebbe  abbracciare  l'interfilare,  però  solo  sino 
a  sessanta  o  ottanta  centim.  da  ambi  i  lati  delle  viti  stesse;  si  lascia 
dunque  una  striscia  intatta  di  120  centim.  almeno.  L' operazione 
vuoisi  fare  nel  verno,  allorché  i  succhi    sono  in  riposo  e  la  vite  in 


LAVORI  COLTURALI  NEL  VIGNETO  529 

istato  di  torpore.  Di  più ,  per  essere  certi  di  non  recar  danno 
alle  medesime,  o  questo  almeno  lievissimo,  l' operazione  dovrà  farsi 
un  anno  da  una  parte  del  filare  e  un  anno  dall'altra,  onde  a  questo 
modo  la  vite  non  soffrirà  che  al  primo  anno. 

Con  interfilari  più  larghi,  ad  esempio  di  15  o  20  metri,  lo  scasso 
laterale  può  essere  limitato  a  due  o  tre  metri  di  larghezza  per  parte, 
e  si  può  ripigliare  alcuni  anni  dopo  estendendolo  cosi  di  altri  due  o 
tre  metri  e  così  di  seguito,  finché  un  po'  alla  volta  tutto  l'interfilare 
venga  cosi  scassato.  Ciò  giova  immensamente  anche  alle  cereali 
e  ai  foraggi  ivi  coltivati,  massime  nelle  terre  che  non  abbiano  ghiaia 
o  sabbia  a  poca  profondità  (nel  quale  caso  non  sarebbe  d' altronde 
necessario  lo  scasso  alla  vite),  ovvero  tufo  magro  ed  arido. 

Che  se  i  filari  di  viti  si  trovassero  a  una  distanza  ancor  maggiore, 
com'è  nelle  viti  maritate  ad  alberi,  ovvero  se  non  convenisse,  per 
altri  riguardi,  lo  scasso  graduale,  gioverebbe  almeno  praticarvi  ogni 
otto  o  dieci  anni  il  circonfussuro. 

A  tal  uopo  si  squarcia  la  terra  al  pedale  della  vite  e  del  suo  ma- 
rito alla  profondità  di  30  o  40  cent,  e  per  un  raggio  quanto  si  può 
maggiore,  indi  si  ingrassa  un  po'  e  si  ricolma  colla  stessa  terra  o 
meglio  con  altra,  avvertendo  a  versare  sotto  quella  che  era  sopra, 
e  sopra  quella  che  era  sotto.  È  un'operazione  anche  questa  che  sorte 
un  buonissimo  effetto  e  la  si  pratica  con  grandissimo  profitto  da 
alcuni   pochi  meridionali  per  gli  olivi. 

Infine  con  distanze  minori  di  4  metri  è  meglio  limitarsi  all'apertura 
d'un  fossatello  in  mezzo  al  filare,  largo  e  profondo  sessanta  ad  ottanta 
centimetri,  in  fondo  ad  esso  porre  una  fila  di  fascine,  poi  (potendolo) 
un  po'  di  letame  e  quindi  colmare  colla  terra  estrattane.  È  questa 
la  fogna,  detta  arrotto  nel  Basso  Monferrato,  dove  clà  ovunque  e 
sempre  buonissimi  risultati.  Costa  però  più  dello  scasso  reale,  perchè 
occorrono  molte  fascine  e  molto  letame.  La  spesa  infatti  supera  spesso 
le  L.  1000  ad  ettare,  mentre  quella  del  detto  scasso,  operandolo 
con  due  puntate  di  vanga,  sale  appena  a  300  o  400  lire,  e  a  600 
o  800  con  tre  puntate. 

Del  modo  di  praticare  lo  scasso  abbiamo  già  parlato  a  pag.  357, 
e  dell'arrotto  abbiamo  fatto  cenno  a  pag.  370.  Rimandiamo  ivi  il  lettore. 

§  7.  La    distruzione    delle   male    erbe.    —   La  vite   vuole 
che  il  terreno  su  cui  essa  vegeta  sia  nudo  d'ogni    vegetazione;  già 
ne  abbiamo  fatto  cenno  a  pag.  431.  Le  male  erbe  non  debbono  quindi 
O,  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura,  35 


530 


CAPITOLO  XV 


aver  tregua  nel  vigneto,  perchè  non  solo  si  appropriamo  una  parte 
notevole  delle  sostanze  utili  che  si  trovano  nel  terreno,  e  di  cui  do- 
vrebbe giovarsi  la  sola  vite,  ma  perchè  provocano  eziandio 
l'aborto  dei  fiori,  come  hanno  potuto  osservare  tutti  coloro 
che  si  occupano  con  amore  di  viticultura. 

Gli  è  coi  lavori  culturali  sovra  descritti  che,  perseve- 
rando, si  riesce  a  distruggere  le  male  erbe.  Fra  queste 
la  più  comune  e  temibile  è  la  così  detta  gramigna  fjpa- 
nicum  dactylon  Linn.^  chiendent  dei  Francesi;  non  di 
rado  si  trova  pure  il  pabio  (panicum  sanguinale  Linn.)7 
con  altre  numerose  piante  erbacee  (tir siimi,  raphanus, 
polygomun,  ecc.J  delle  quali  è  inutile  fare  qui  la  enu- 
merazione. Per  distruggere  la  gramigna,  allorquando  è 
molto  estesa  nel  vigneto  perchè  non  culturato  come  si 
conviene,  è  necessario  che  l'aratore  od  il  vangatore  siano 
seguiti  da  un  ragazzo  il  quale  dovrà  togliere  con  cura 
tutte  le  piante  di  gramigna  sradicate  dall'aratro  o  dalla 
vanga;  senza  questa  precauzione  si  disseminerebbero  pel 
vigneto  le  radici  della  mal'  erba.  Nel  Mezzogiorno  della 
Francia,  là  dove  la  gramigna  è  molto  estesa,  le  si  muove 
una  guerra  implacabile;  ogni  due  anni  in  estate,  durante 
il  periodo  di  calma  che  precede  la  vendemmia,  gli  uomini 
la  sradicano  colla  zappa  a  bidente,  procurando  di  svellere 
anche  le  radici  le  più  profonde:  nelle  estati  molto  calde 
si  riesce  ugualmente  a  farla  perire  tagliandola  come  si 
suol  dire  fra  due  terre,  precisamente  nel  momento  in  cui 
il  terreno  è  più  riscaldato. 

E  prudenza  raccogliere  con  cura  la  gramigna  e  poscia, 
essicata  che  sia,  abbruciarla;  la  cenere  si  adopererà  come 
concime  pel  vigneto.  La  gramigna  non  ben  secca,  messa 
nei  composti,  può  provocare  una  nuova  invasione,  qua- 
lora si  adoperino  questi  composti  stessi  come  ingrassi 
negli  interfilari. 

Ma  per  distruggere  completamente  le  cattive  erbe,  non 
bastano  sempre  gli  strumenti  sovra  descritti,  perchè  non 
si  giunge  con  essi  sotto  le  piante,  cioè  nei  filari  medesimi 
delle  viti:  neppure  colla  zappa  ciò  può  sempre  farsi  age- 
volmente, ed  inoltre  si  corre  rischio,  lavorando  nelle  ore 
più  calde,  di  toccare  le   uve   cagionando    loro   la  scotta-      mg.  i", 


\N 


LAVORI  COLTURALI  NEL  VIGNETO  531 

tura  (vedi  Cap.  XXVII).  Per  questo  venne  ideato  uno  speciale 
arnese  detto  paletta  (fig.  155),  il  quale  altro  non  è  che  un  badile  ri- 
curvo, a  lungo  manico.  Il  disegno  ne  dà  tutte  le  dimensioni;  la  pa- 
letta è  leggera,  e  perciò  anche  un  ragazzo  potrebbe  adoperarla  spin- 
gendola in  tutti  i  sensi  sotto  gli  interfìlari  e  recidendo  la  gramigna 
a  due  dita  sotto  terra,  senza  toccare  menomamente  i  grappoli.  Questo 
arnese  ha  sempre  dato  in  pratica  ottimi  risultati. 


CAPITOLO  XV[ 


I  Sostegni  per  le  viti. 


§  1.  Importanza  dell'argomento  —  §  2.  I  pali  come  sostegno.  Metodi  di  conser- 
vazione dei  pali  —  §  3.  La  canna  come  sostegno  —  §  4.  Coltura  della  canna. 
Propagazione  sotterranea  della  canna  —  §5.  Terreno  e  concime.  Piantamento 
—  §  6.  Cure  annuali.  Raccolto  —  §  7.  Reddito  d'un  canneto  specializzato  — 
§  8.  Il  fil  di  ferro  come  sostegno  per  le  viti  —  §  9.  Applicazioni  del  sistema 
a  fil  di  ferro  —  §  10.  Altri    sostegni  per  le  viti. 


§  1.  Importanza  dell'argomento.  —  Parlando  dei  sistemi  spe- 
ciali di  coltura  della  vite  vedremo  come  si  soglia  affermare  essere  mi- 
gliore di  tutti  quello  detto  a  ceppata  bassa,  o,  più  comunemente,  ad  al- 
berello senza  sostegno  —  adottato  da  tempi  immemorabili  nelle  pro- 
vinole meridionali  d'Italia,  ed  in  Francia,  specialmente  nel  diparti- 
mento dell'  Hérault.  Di  questa  superiorità  vedremo  anche  le  ragioni, 
le  quali  si  riferiscono  in  modo  particolare  alla  migliore  elaborazione 
dei  succhi  nella  vite  potata  a  speroni,  ed  alla  indiscutibile  conve- 
nienza economica.  Ma  il  dire  che  al  sistema  ad  alberello  si  compete 
il  primato  su  tutti  gli  altri,  non  vuol  dire  disgraziatamente  che  esso 
sia  sempre  il  preferibile.  Troppo  numerosi  sono  invece  i  casi  in  cui 
il  clima,  il  terreno,  la  natura  del  vitigno  amante  delia  potatura  lunga, 
l'esposizione,  la  somma  dei  gradi  di  temperatura  in  una  data  regione, 
rendono  necessario  uno  Mei  molti  altri  sistemi,  nei  quali  sempre,  con 
maggiore  o  minore  economia,  si  appoggia  la  vite  ad  un  tutore,  sia 
questo  di  legno,  di  ferro  o  di  pietra  Se  si  aggiunge  poi  che  il  si- 
stema ad  alberello  ha  esso  pure,  nei  primi  cinque  o  sei  anni,  bisogno 


I  SOSTEGNI  PER  LE  VITI  533 

dei  sostegni,  che  mille  circostanze  possono  opporsi  nelle  contingenze 
della  pratica  ad  un  radicale  cangiamento  nel  sistema  di  viticoltura, 
si  avrà  dimostrata  l'utilità  di  occuparsi  di  questo  argomento.  Pre- 
messo ciò  entriamo  in  materia. 

Esiste  una  questione  dei  sostegni,  questione  grave  di  economia 
rurale,  sorta  in  seguito  al  rapidissimo  estendersi  della  viticoltura  in 
questi  ultimi  anni.  Da  più  d'un  ventennio  assistiamo  al  dissodamento  di 
molti  pascoli,  al  diboscamento  di  estese  colline,  seguito  questa  dalla 
diminuzione  dei  pali,  il  cui  valore  aumentò  in  pochi  anni  in  modo 
esorbitante.  Nel  medesimo  tempo  le  agevolezze  dei  trasporti  rendendo 
più  facile  il  commercio,  fecero  ribassare  notevolmente  il  prezzo  del 
vino  in  molte  provincie;  ecco  adunque  il  viticultore-produttore  alle  prese 
con  una  crisi  incipiente.  Egli  si  vede  diminuito  il  compenso  delle  sue 
fatiche,  ed  aumentato  assai  il  prezzo  di  produzione,  per  le  malattie, 
per  l'aumento  della  mano  d'opera,  e  moltissimo  come  abbiamo  detto 
per  la  spesa  dei  sostegni  la  quale  si  poteva  dire  prima  quasi  indif- 
ferente. Non  insistiamo  su  di  ciò,  sono  fatti  ormai  troppo  noti  per 
non  doverli  più  a  lungo  dimostrare. 

Una  cosa  però  abbastanza  strana  e  della  quale  si  deve  incolpare 
solo  l'inerzia  dei  proprietarii,  è  questa,  che  mentre  il  prezzo  dei  so- 
stegni sempre  aumenta  e  si  fa  sentire  da  un  ventennio  assai  grave 
nei  bilanci  che  i  viticultori  si  fanno  annualmente,  si  pensi  così  poco 
a  diminuire  questa  spesa.  Il  Piemonte  e  la  Lombardia  hanno  diversi 
sistemi  di  viticultura  in  cui  l'armatura  del  vigneto  è  quanto  mai 
complessa  e  pesante;  informino  quelli  del  Pinerolese,  dell'Astigiano, 
informi  quello  di  Broni  e  di  Stradella  i  cui  colossali  filari  danno  al 
forestiere  che  li  vede  dalla  ferrovia  l'idea  di  fantastiche  costruzioni. 

Orbene  gli  è  solo  l'anno  scorso  che  abbiamo  udito  parlare  di  mo- 
dificazioni, di  semplificazioni.  Nell'autunno  1883  il  Comizio  di  Vo- 
ghera premiava  alcuni  vigneti  in  cui  il  proprietario  sperimentava  ra- 
dicali modificazioni  al  costosissimo  sistema  Stradellese;  vi  fu  chi  pro- 
pose di  sostituire  nel  sistema  Casalese  all'ultima  fila  di  canne  un  filo 
di  ferro,  e  vi  fu  chi,  meglio  informandosi  alle  esigenze  di  questo 
sistema,  propose  che  questo  filo  di  ferro  si  sostituisse  invece  alla 
fila  di  canne  posta  nel  mezzo;  nell'Astigiano  pure  si  comincia  a  pro- 
vare una  modificazione  al  sistema  locale,  e  sempre  coll'aiuto  del  fìl 
di  ferro.  La  vera,  radicale  innovazione,  che  sostituisce  ai  pali  e  alle 
canne  la  spalliera  col  fil  di  ferro,  e  risolve  così  bene  il  problema 
dal  lato  economico,  si  viene  pure  accennando  qua  e  là,    ma   lenta- 


534  CAPITOLO  XVI 


mente,  dietro  gli  splendidi  esempi  del  Boschiero,  del  Gurrieri,  del 
Toscanelli,  del  Giotti  e  di  altri,  e  dopo  alcune  pubblicazioni  escite 
in  questi  ultimi  anni  (1). 

Questo  capitolo  si  occuperà  dei  diversi  sostegni  della  vite  accen- 
nando specialmente  ai  più  economici. 

§  2.  I  pali  come  sostegno.  Metodi  di  conservazione  dei 

pali.  —  Cominciamo  dai  pali  di  legno.  Essi  secondo  noi  costitui- 
scono il  sostegno  più  costoso  di  tutti,  e,  colla  canna,  il  più  altera- 
bile. Pochissime  ormai  sono  le  provincie  italiane  in  cui  l'armatura 
del  vigneto  si  faccia  esclusivamente  coi  pali:  citeremo  quella  di  Na- 
poli nella  quale,  come  leggemmo  sugli  Atti  dell'inchiesta  agraria, 
vi  è  sempre  tanta  ricerca  che  la  produzione  della  provincia  non  basta; 
citeremo  il  Novarese,  il  Bergamasco,  la  Sardegna  dove  esistono  an- 
cora estesi  boschi  di  castagni,  e  dove  la  palina  non  è  salita  ancora 
ai  prezzi  esorbitanti  che  abbiamo  nelle  altre  provincie. 

In  generale  invece  i  pali  si  adoperano  misti  alle  canne,  o  alla  testa 
dei  filari,  o,  in  quelli  col  fil  di  ferro,  piantati  ogni  i,  6,  10  metri 
a  sostegno  dei  fili  stessi. 

I  pali  possono  essere  di  pioppio,  di  salice,  di  castagno,  di  rovere, 
d'acacia  ecc.  Quelli  di  pioppo  hanno  un  legno  leggero,  fino,  resi- 
stente, non  hanno  però  una  durata  tale  da  compensarne  il  costo; 
quelli  di  salice  hanno  presso  a  poco  i  medesimi  pregi  ed  i  medesimi 
difetti;  quelli  di  rovere  sono  migliori,  quantunque  costino  anch'essi 
assai,  e  siano  sensibili  alle  alternative  di  secco  e  d'umido;  la  prefe- 
renza assoluta  vuoisi  dare  infine  ai  pali  di  castagno  e  d'acacia  Un 
buon  palo  di  castagno  soffre  poco  l'umido  e  nel  terreno,  convenien- 
temente trattato  coi  processi  di  conservazione  che  vedremo,  può  du- 
rare sino  a  15-20  anni.  L'acacia  (robinia)  offre  pur  essa  pali  di 
molta  durata  e  stabilità,  che  l'agricoltore  può  senza  grandi  difficoltà 
produrre  in  appezzamenti  isolati  dalle  sue  tenute,  avendo  cura  di 
sceglierli  lontani  dai  campi  e  dai  prati,  i  quali  potrebbero  essere  tosto 
invasi  dalle  serpeggianti  radici  della  robinia. 

Tutti  i  pali,  se  si  vuole  che  resistano  un  pezzo,  debbono  essere 
preparati  convenientemente.  La  prima  avvertenza  che  si  deve  avere 


(1)  Vedi  V.  Sini.  —  Di  un  nuovo  modo  di  educar  le  viti  nel  Monferrato,  Vi- 
nicolo Italiano,  anno  1876  —  e  l'opera  I  sostegni  per  Ir  viti  «li  E.  Oliavi.  1884, 
2a  edizione. 


I  SOSTEGNI  PER  LE  VITI 


535 


per  il  taglio  dei  pali  che  devono  servire  di  sostegno  alle  viti  si  è 
quella  di  tagliarli  un  anno  prima  di  farne  uso,  e  di  toglier  loro 
subito  la  corteccia. 

Ciò  fatto  si  fanno  subire  ai  pali  uno,  o  meglio  due,  dei  molti  pro- 
cessi di  conservazione  che  dagli  autori  vennero  proposti.  Questa  idea 
di  adottare  contemporaneamente  due  processi  di  conservazione  è  sorta 
da  poco,  ma  pare  abbia  già  avuto  dai  fatti  una  splendida  conferma; 
si  tratta  in  sostanza  di  sostituire  ai  trattamenti  semplici  i  tratta- 
menti complessi. 

Vediamo  prima  i  semplici,  diremo  in  seguito  quali  fra  di  essi  si 
possano  insieme  combinare  con  successo. 

A)  Spalmatura  dei  pali  con  sostanze  resinose.  Abbiamo  l'olio 
di  lino,  l'olio  lourde  dei  Francesi,  che  è  un  prodotto  della  distilla- 
zione del  catrame  di  gas,  il  creosoto  di  torba  o  di  lignite,  e  varii 
altri  olii  minerali.  Abbiamo  poi  miscele  speciali  come  la  seguente: 


Catrame 

Chil.  50 

Sale  comune 

»       3 

Vetriolo  verde  (solfato  di  ferro) 

»       5 

Allume  ...... 

»       3 

Colofonio  (pece  greca)    . 

»     13 

La  miscela  si  fonde  al  fuoco,  e  vi  si  immerge  il  legname  per  un 
quarto  d'ora,  in  capo  al  quale  si  tolgono  i  pali,  e  si  sparge  su  di 
essi  una  polvere  composta  di 


Polvere  di  scorie  di  carbon  fossile  bruciato    .  Chil.  50 

Solfato  di  ferro  pesto     .....  »  5 

Calce »  15 

Vetro  polverizzato ......  »  20 


Recentemente  il  giornale  Y  Obstgartner  (il  Frutteto)  dava  la  se- 
guente ricetta: 

Facciansi  bollire  in  una  caldaia:  15  chil.  di  goudron  del  gas,  10 
chil.  di  resina  d'America  e  3  chil.  e  mezzo  di  grascia  ordinaria,  fin- 
ché tutta  la  mischianza  sia  ben  liquefatta.  Allora  si  aggiungano  2 
chil.  di  gesso  e  2  di  terra  creta  ben  polverizzata.  Quando  questa 
composizione  sia  ben  mescolata,  vi  si  immerge  la  parte  dei  pali  che 
deve  essere  interrata,  e  prima  che  il  preparato  si  dissecchi,  si  rotola 


536  CAPITOLO  XVI 


nella  sabbia,  la  quale  si  incorpora   nel  composto    e    ne   aumenta   la 
durezza. 

Colle  dosi  suindicate  si  possono  preparare  circa  1000  pali  con  una 
spesa  di  6  franchi. 

B)  Carbonizzazione  dei  pali.  È  un  metodo  più  spiccio  e  più 
economico,  quantunque  non  garantisca  ai  pali  una  grande  durata. 
L'azione  della  carbonizzazione  è  duplice:  elimina  completamente  l'u- 
midità, e  scomponendo  fino  ad  una  certa  profondità  la  sostanza  le- 
gnosa, ricopre  il  legno  d'uno  strato  di  carbone  che  agisce  di  per  sé 
stesso  come  antisettico.  Si  scortecciano  i  pali,  si  accende  un  gran 
fuoco  e  si  carbonizza  quindi  la  parte  destinata  a  penetrare  in  terra. 

C)  Trattamento  dei  pali  col  vetriolo  bleu  o  solfato  di  rame. 
Si  può  fare  a  freddo  o  a  caldo.  Si  preparano  vasche  apposite  in  ce- 
mento, oppure  si  utilizzano  vecchi  tini  o  tinozze,  contenenti  la  solu- 
zione ramica,  ed  ivi,  nel  sistema  a  freddo,  si  tengono  tuffati  i  pali 
per  una  quindicina  di  giorni  —  tuffati  completamente  se  è  possibile, 
o  in  caso  contrario  capovolgendoli  dopo  qualche  giorno.  La  propor- 
zione del  vetriolo  nella  soluzione  è  di  2  chilog.  circa  per  100  litri 
d' acqua. 

I  pali  trattati  col  solfato  di  rame  durano  un  certo  numero  d'anni, 
poi  cominciano  a  screpolarsi,  ad  alterarsi  per  l'umido,  ecc.  ed  allora 
possono  essere  utilizzati  come  combustibile. 

Tanto  nel  trattamento  a  freddo,  come  in  quello  a  caldo,  è  meglio 
assai  adoperare  i  pali  verdi  che  non  i  secchi,  perchè  nel  primo  caso 
T  assorbimento  della  soluzione  ramica  avviene  con  maggior  facilità 
lungo  i  vasi  del  legno.  Ed  ecco  ora  come  si  opera  il  trattamento  a 
caldo:  —  si  fa  la  soluzione  del  vetriolo  nella  proporzione  del  2,50 
p.  0[Q,  vi  si  tuffano  i  pali  e  vi  si  aggiunge  poi  tant'  acqua  bollente 
che  basti  per  elevarne  la  temperatura  a  65°  centigradi  circa;  indi  la 
si  lascia  raffreddare  a  29°  e  l'operazione  è  finita:  occorrendo  la  si 
ripete.  Si  conosce  che  l'operazione  è  riuscita,  dal  colore  giallognolo 
che  prende  il  tessuto  legnoso  quando  è  ben  bene  imbevuto. 

Siccome  il  succo  dei  pali  verdi  si  mescola  al  liquido  e  lo  diluisce, 
e  quindi  bisogna  aggiungere  man  mano  del  vetriolo,  nasce  spontanea 
la  domanda:  quale  sia  la  quantità  totale  del  vetriolo  necessaria  per 
una  conciatura?  Essa  dipende  dal  numero  dei  pali  da  conciare  e 
dalla  larghezza  e  profondità  del  tinello.  Una  buona  norma  pratica 
è  quella  di  aggiungere  qualche  cristallo  di  solfato  alla  soluzione 
ogni  volta  che  si  concia  una  nuova  quantità  di  pali. 


I  SOSTEGNI  PER  LE  VITI  53? 

DJ  Trattamento  col  vetriolo  verde  o  solfato  di  ferro.  Esso 
pure  è  consigliato  dagli  autori,  ma  Fazione  del  vetriolo  verde  è  assai 
più  debole  di  quella  del  vetriolo  bleu. 

E)  Immersione  dei  pali  nel  latte  di  calce.  Quando  si  sospende 
della  calce  caustica  in  acqua  si  ha  quello  che  volgarmente  chiamasi 
latte  di  calce.  Le  esperienze  di  Houet  sui  pali  tuffati  per  qualche 
minuto  in  questo  liquido  diedero  ottimi  risultati. 

F)  Piantamento  dei  pali  capovolgendoli.  Piantando  i  pali  nella 
direzione  opposta  a  quella  in  cui  hanno  vegetato,  si  contribuisce  cer- 
tamente alla  loro  miglior  conservazione.  Infatti,  capovolgendo  il  palo, 
si  capovolge  tutto  il  sistema  di  circolazione  del  succo  e  della  capil- 
larità, e  l'umidità  del  terreno  non  potrà  più  salire,  mentre  quella 
proveniente  dall'atmosfera  tenderà  al  contrario  a  discendere. 

Quale  dei  sistemi  accennati  è  il  migliore?  Non  sapremmo  dirlo, 
a  ciascuno  di  essi  singolarmente  si  attribuiscono  insuccessi,  mentre, 
come  abbiamo  avvertito,  la  combinazione  di  due  trattamenti  riuniti 
diede  i  più  soddisfacenti  risultati.  Ond'  è  che  chiuderemo  questo  pa- 
ragrafo, dicendo  che  i  metodi  migliori  di  conservare  i  pali  sono: 

1°  La  carbonizzazione  seguita  dall'incatramatura  con  una  delle 
miscele  più  sopra  ricordate; 

2°  Il  trattamento  duplice  del  solfato  di  rame  e  del  latte  di  calce. 
Quest'ultimo  dovrà  seguire  immediatamente  il  trattamento  col  solfato. 

§  3.  La  canna  come  sostegno.  —  La  canna  (arundo  donaoc) 
è  assai  conosciuta  dalla  Sicilia  al  Piemonte,  e  specialmente  appunto 
in  queste  due  regioni:  dopo  le  provincie  di  Alessandria  e  di  Palermo, 
le  parti  d'Italia  ove  trovansi  molte  canne  sono  il  Genovesato,  il  Na- 
poletano, le  Maremme,  la  Sardegna.  È  il  sostegno  più  economico  tra 
quelli  che  l'agricoltore  può  prodursi;  la  coltura  di  questa  grami- 
nacea vorrebbe  perciò  essere  più  diffusa  assai  di  quello  che  noi  sia 
presentemente,  e  non  dubitiamo  che  la  canna  non  tarderà  a  far 
dimenticare  i  pali,  eguagliando  col  numero  la  resistenza  loro,  e  vincen- 
doli per  la  sua  grande  economia.  —  I  filari  appoggiati  ora  completa- 
mente ai  pali  devono  essere  tosto  o  tardi  sostenuti  quasi  totalmente 
da  canne  nei  sistemi  in  cui  il  tralcio  lungo  si  distende  verso  1'  in- 
terfilarc, e  dal  fìl  di  ferro  nei  sistemi  a  spalliera.  A  questo  punto 
saranno  condotti  i  viticultori  o  dal  ragionamento  che  segue,  o  più 
tardi  dall'eloquenza  dei  fatti  e  dalla  necessità. 

Il  ragionamento  è  questo:  un  canneto  specializzato   può   dare  per 


538  Capitolo  xvi 


ettare  comodamente  40  mila  canne,  che,  computando  anche  1'  am- 
mortizzazione della  spesa  di  primo  impianto,  la  concimazione,  la 
sfrondatura,  il  taglio  ed  il  trasporto  delle  canne,  il  fitto,  ecc.  co- 
stano circa  400  lire:  però  da  queste  conviene  sottrarne  L.  80  per 
200  miriag.  di  foglia,  e  circa  L.  80  per  altre  8000  piccole  canne;  restano 
dunque  L.  240  da  dividersi  fra  le  40,000  canne  suddette;  sono  dun- 
que 0,006  ciascuna.  Siccome  si  ritiene  che  12  canne  valgano  un  buon 
palo,  così  12  canne  costerebbero  L.  0,072,  cioè  meno  di  10  cente- 
simi. Un  buon  palo  di  castagno  alto  2ra,50  e  del  diametro  di  0m,05 
costa  almeno  12  centesimi;  un  buon  palo  d'acacia  di  m.  4  e  del  dia- 
metro di  0,04  costa  circa  10-15  centesimi.  Le  canne  dunque  sono 
un  sostegno  più  economico  dei  pali. 

§  4.  Coltura  della  canna.  Propagazione  sotterranea  della 
canna.  —  Rarissimi  sono  i  trattati  di  viticoltura  che  dedichino  qual- 
che pagina  alla  coltura  della  canna;  ora  siccome  l'uso  principale  di 
questa  graminacea  è  quello  di  farne  sostegni  per  la  vite,  è  naturale 
che  di  preferenza  in  un  trattato  di  viticoltura  si  spenda  qualche  parola 
per  dare  le  nozioni  fondamentali  sul  di  lei  modo  di  propagazione  e  sulla 
coltura.  È  quello  che  faremo  ora  brevemente,  non  consentendoci  l'in- 
dole del  libro,  l'estenderci  assai  su  questo  punto;  e  perciò  rimandiamo 
quelli  che  volessero  una  monografìa  completa  sulla  canna,  al  libro 
T  sostegni  per  le  viti  di  Edoardo  Ottavi. 

La  conoscenza  della  propagazione  sotterranea  della  canna  è  in  li 
spensabile  a  chi  vuol  apprenderne  la  coltura  razionale.  L'agricoltore 
che  conosce  in  qual  modo  si  formino  sotterra  gli  occhi,  in  qual  di- 
rezione di  preferenza  si  allunghino,  sotto  quali  condizioni  e  in  quali 
epoche  diano  le  migliori  canne,  1'  agricoltore  infine  che  conosce  la 
teoria  della  propagazione  sotterranea  della  canna,  si  trova  condotto 
naturalmente  e  senza  sforzo  d'ingegno  alla  conoscenza  delle  applica- 
zioni pratiche. 

Partiamo  dall'occhio  di  canna,  quella  parte  cioè  di  rizoma  o  cep- 
paia  sotterranea  dalla  quale  spuntano  i  culmi  aerei.  L'occhio  o  bar- 
bocchio  è  composto  di  una  o  più  gemme,  e  trovasi  all'estremità  del 
fusto  sotterraneo,  fusto  che  ha  l'aspetto  di  radice,  come  nel  mughetto 
e  nella  gramigna.  L'occhio  di  raro  è  isolato,  nelle  condizioni  normali 
è  sempre  composto  di  tre  gemme,  una  più  grande  mediana,  e  le  altre 
più  piccole  ai  due  lati.  Commercialmente  lo  si  intende  così,  e  così 
lo  intendiamo  noi  pure  nella  teoria   della  propagazione   della  canna. 


t  SOSTEGNI  PER  LE  VITI  539 

Da  ogni  gemma  spunta  e  cresce  una  canna,  ma  in  epoche  diverse. 
Vi  sono  canne  che  in  aprile  cominciano  a  spuntare  e  si  fanno  poi 
alte  in  maggio;  ve  ne  sono  altre  che  spuntano  più  tardi  assai,  in 
luglio,  e  non  raggiungono  il  loro  sviluppo  completo  che  in  agosto  : 
le  prime  si  chiamano  maggenghe,  e  spuntano  dalle  gemme  centrali 
degli  occhi  (m  fig.  156),  le  altre  si  chiamano  agostane,  e  spuntano  dalle 
gemme  più  piccole  e  laterali  fa'  a")  le  quali  nel  frattempo  si  sono 
allungate  e  allontanate  dalla  gemma  centrale.  Le  canne  maggenghe 
sono  più  sottili,  ma  più  robuste  assai  delle  agostane. 


/    i 


/ 

Fig.  156. 

Mentre  i  culmi  aerei  si  vengono  formando,  sotterra  il  rizoma  si 
allunga,  e  si  allunga  mediante  un  sistema  di  biforcazioni.  Alla  base 
di  ogni  agostana  e  innanzi  ad  essa  partono  e  si  allargano  ad  angolo 
due  diramazioni,  alla  testa  delle  quali  saranno  due  occhi  come  quelli 
della  fig.  157  a  b.  Come  si  vede  adunque  il  sistema  che  diremo  radicale 
della  canna  si  moltiplica  assai  e  rapidamente.  Teoricamente  da  un 
occhio  (3  gemme)  dopo  un  anno  se  ne  hanno  quattro  (12  gemme), 
e  quindi  se  il  raccolto  del  canneto  è  nel  primo  anno  di  3  canne, 
nel  secondo  è  di  12. 

Se  si  calcola  in  questo  modo  il  prodotto  del  terzo  e  del  quarto 
anno,  si  giungerà  a  cifre  elevate  e  che  in  pratica  non  si  avverano. 
Perchè?  Perchè  gli  occhi  non  trovando  spazio  e  nutrimento  neces- 
sario si  accavalcano,  si  danneggiano  a  vicenda  e  molti  periscono. 

Ecco  adunque  la  prima  applicazione  pratica  che  si  può  dedurre 
dalla  nostra  teoria:  procurare  che  il  raccolto  reale  si  accosti  per 
quanto  è  possibile  al  teorico,  in  altre  parole  procurare  al  maggior 
numero  possibile  di  occhi  e  spazio  e  nutrimento. 


o40 


CAPITOLO  xvi 


Lo  spazio  lo  procureremo  togliendo  sempre  dal  terreno  le  ceppaie 
vecchie  ed  esaurite,  quelle  ove  sono  le  cicatrici  delle  canne  tagliate. 
Il  nutrimento  lo  daremo  coi  concimi  e  coi  lavori. 


Fig-.   157. 


§  5.  Terreno  e  concime,  piantamento.  —  La  canna  ama  i 
siti  freschi,  non  umidi  né  acquitrinosi.  Alcuni  credono  e  stampano 
che  le  canna  prosperano  nelle  paludi,  ma  costoro  confondono  le  do- 
mestiche (amndu  donax)  colle  palustri  (arundo  phragmites).  Il 
miglior  terreno  per  la  canna  è  il  siliceo-argillo-calcare,  i  terreni  tu- 
facei, granitici,  argillosi  sono  pur  buoni  purché  scassinati  profonda- 
mente. 

II  concime  vuol  essere  di  pronta  assimilazione,  ma  non  composto 
soverchiamente  di  principii  organici.  Il  Dr.  Mina  Palumbo  nota  in 
una  sua  memoria  come  negli  orti  le  canne  vengon  su  lunghe  e  grosse 
ma  meno  resistenti  (canni  maschi  in  Sicilia).  Il  letame  completato 
coi  perfosfati  d'ossa  è  buono,  la  poudrette  o  polverina  pure,  come 
quella  che  contiene  una  quantità  sufficiente  d'acido  fosforico. 


I  SOSTEGNI  PER  LE  VITI  541 

L'epoca  della  concimazione  varia.  Noi  consiglieremmo  di  fare  questa 
operazione  in  più  riprese.  Ottima  cosa  è  intanto  1'  aggiunta  d'  una 
parte  del  concime  all'  epoca  dello  scasso,  e  buona  anche,  in  minor 
quantità,  all'epoca  del  piantamento.  —  La  concimazione  in  copertura 
con  concime  e  terra  si  fa  nell'autunno,  per  proteggere  dal  gelo  gli 
occhi,  quando,  in  previsione  d'un  inverno  rigido  che  potrebbe  dan- 
neggiar le  canne,  si  fa  il  taglio  in  novembre.  È  bene  concimare  al- 
l'epoca del  raccolto,  e  anche  quando  nella  zappatura  estiva  si  tolgono 
le  vecchie  ceppaie,  mettendo  il  concime  al  posto  lasciato  dalle  cep- 
pale stesse. 

Il  piantamento  si  fa  con  occhi  e  barbocchi  (ovuli  in  Sicilia,  e  al- 
trove talloni,  bulbi,  radici),  oppure  con  pezzetti  di  canna  tagliuzzati 
o  canne  intiere  sotterrate,  poiché  la  canna  a  ciascun  nodo  del  fusto 
aereo  ha  una  piccola  gemma  rudimentale  capace  anch'essa  di  svilup- 
parsi. In  quest'ultimo  caso  però  si  perde  per  lo  meno  un  anno. 

Abbiamo  due  sistemi  di  piantamento,  quello  a  filari  che  è  il  più 
comune,  e  quello  a  cespugli.  L'epoca  del  piantamento  essendo  il  mese 
di  marzo,  talvolta  prima,  talvolta  dopo,  secondo  la  stagione,  è  buona 
cosa  preparare  il  terreno  sin  dall'autunno  precedente.  Nel  sistema  a 
filari  si  aprono  adunque  tante  fosse  a  6,  7,  10  metri,  profonde  quasi 
un  metro  e  larghe  un  metro  pure,  e  si  lasciano  così  aperte.  Da  un 
lato  del  fosso  si  getta  la  terra  vergine,  dall'altro  quella  dello  strato 
arabile.  —  È  meglio  tenere  tra  i  filari  piccola  distanza  e  specializzare 
il  canneto;  pochissimo  risultato  si  avrebbe  dal  grano  o  dalle  civaie 
seminate  neli'  interfilarc.  Giunta  la  primavera  si  riempiono  le  fosse 
sino  ai  tre  quarti  della  profondità  totale,  poi  si  mettono  gli  occhi, 
collocandoli  verso  la  linea  mediana  della  fossa  in  due  file  distanti 
l'una  dall'altra  30  centim.  e  gli  occhi  pure  distanti  l'uno  dall'altro 
di  30  centim.  ma  alternati.  Poi  si  aggiunge  un  po'  di  terra  fina, 
buona,  di  quella  dello  strato  arabile,  poi  un  po'  di  concime,  e  infine 
si  riempie  del  tutto  con  terra  vergine. 

Al  sistema  delle  fosse  è  naturalmente  preferibile  quello  dello  scasso 
reale,  e  in  tal  caso  il  piantamento  si  fa  poi  in  buche  profonde  circa 
20  centimetri,  buche  che  si  aprono  all'  epoca  del  piantamento,  e  si 
coprono  subito  dopo.  Facendo  il  piantamento  su  terreno  scassato 
non  è  necessaria  l' aggiunta  di  concime,  essa  si  farà  con  maggior 
profitto  all'epoca  della  zappatura  d'agosto. 

L'altro  metodo  di  piantare  il  canneto  è  quello  a  cespugli  —  il 
terreno  si  prepara   collo  scasso,  e  poi  in  primavera    si  piantano  gli 


542  CAPITOLO  XVI 


occhi  in  modo  da  avere  poi  dei  cespugli  di  canne,  che  distino  l'uno 
dall'altro  di  3  metri  in  tutti  i  sensi.  —  A  piantare  un  cespuglio  ba- 
stano tre  occhi  che  si  collocano  ai  tre  vertici  d'un  piccolo  triangolo 
che  abbia  30  centimetri  di  lato- 

§  6.  Cure  annuali.  Eaccolto.  —  Nel  primo  anno  basta  una 
zappatura  in  maggio  o  giugno  e  la  caccia  continua  alle  mal'erbe, 
specialmente  nei  mesi  caldi,  mandando  a  raccoglierle  anche  colle 
mani.  Nel  secondo  appena  fatto  il  taglio  (febbraio-marzo)  si  fa  una 
zappatura  generale,  ed  un'altra  la  si  fa  poi  in  agosto.  Non  si  dimen- 
tichi la  solita  caccia  alle  malerbe,  e  si  dia  in  agosto  una  piccola  in- 
calzatura alle  canne,  operazione  che  gioverà  moltissimo  agli  occhi  per 
l'anno  venturo.  Al  terzo  anno  si  può  alla  zappatura  d'agosto  sostituire 
una  vangatura,  colla  quale  si  sopprimono  le  cannette  sottili  e  deboli;  fa- 
cendo questo  lavoro  in  luglio,  si  libererà  il  canneto  da  inutili  cannuccie 
e  si  favorirà  invece  assai  il  raccolto  delle  agostane.  —  L'incalzatura 
la  si  faccia  in  settembre  accumulando  ai  piedi  delle  canne  da  25  a 
35  centimetri  di  terra.  Quest'operazione  protegge  gli  occhi  dal  gelo 
invernale,  e  siccome  con  essa  si  abbassa  l'interfilare,  giova  al  pronto 
scolo  delle  acque  di  pioggia  e  di  neve. 

Ma  in  questi  tre  anni  si  saranno  già  accumulate  nel  terreno  molte 
ceppaie  esaurite  le  quali  toglieranno  lo  spazio  ai  nuovi  occhi.  Questi 
allora  si  estenderanno  dalla  parte  dove  si  presenterà  loro  del  terreno 
libero,  cioè  verso  l'interfilare,  ed  ecco  perchè  i  canneti  trascurati 
pare  che  camminino.  Ciò  non  conviene  all'agricoltore  che  vuol  man- 
tenere regolare  la  forma  del  filare  o  del  cespuglio  e  per  questo  co- 
minciando dal  terzo  anno  bisogna  esportare  le  vecchie  ceppaie  e  ri- 
petere poi  quest'operazione  o  annualmente  o  radicalmente  quando  si 
veda  il  filare  diradarsi,  prodursi  inesso  dei  vani,  crescere  delle  cannettine. 
I  vani  nel  filare  accusano  immancabilmente  la  presenza  d'una  cep- 
pala infeconda  la  quale,  se  pur  porta  una  qualche  gemmerella,  dà 
le  cannuccie  meschine  che  abbiamo  detto.  Orbene  l'operazione  si  fa 
o  collo  zappone  all'  epoca  del  taglio,  o  d'estate.  Ivi  un  uomo  svel- 
lendo le  cannucce  collo  zappone  porta  via  anche  un  pezzetto  di  questa 
ceppaia;  gli  altri  lavoratori  poi  colla  vanga  la  tolgono  del  tutto  dal 
terreno.  Così  si  lascia  libero  lo  spazio  ai  nuovi  occhi,  e  concimando 
nei  vani  lasciati  dalle  ceppaie  si  farà  sì  che  essi  dirigeranno  le  loro 
diramazioni  nuove  non  più  verso  l'interfilare  ma  verso  il  filare  stesso 
che  loro  presenta  terreno    smosso,  libero    e  ricco    di  elementi  ferti- 


I  SOSTEGNI  PER  LE  VITI 


543 


lizzanti.  —  Ed  ecco  mantenuta  intatta  la  forma  del  filare,  ecco  re- 
golato l' allargamento  del  canneto.  Un'  operazione  buona  da  farsi 
quando  il  canneto  comincia  ad  invecchiare  è  di  aprire  ad  uno  dei 
lati  di  esso  (il  superiore  nei  canneti  di  collina,  quello  a  mezzogiorno 
nei  canneti  di  pianura)  un  fossatello  largo  e  profondo  25  cent,  che 
si  riempirà  poi  di  buona  terra  con  concime.  Questo  strato  sarà  tosto 
invaso  dagli  occhi  e  allora  l'agricoltore  penserà  a  restringere  il  filare 
dal  lato  opposto. 

Veniamo  al  raccolto  —  Nel  primo  anno,  eccezione  fatta  per  le 
canne  cresciute  su  scasso  reale,  si  avrà  un  raccolto  di  cannucce  non 
ancora  buone  a  servir  di  sostegno:  le  si  tagliano  tuttavia  egualmente 
che  volendole  lasciare  non  diventerebbero  più  robuste,  bensì  mettereb- 
bero dei  rimessiticci  e  danneggerebbero  le  vere  canne  del  secondo  anno. 
Il  taglio  si  fa  con  una  zappettina  ben  tagliente  (a  b  fìg.  158)  e  con  cura, 
per  non  svellere  la  ceppaia  sotterranea  non  ancor  bene  assodata  nel 


Fig    158. 


terreno.  Al  secondo  anno  si  adoperi  di  preferenza  uno  zappone  ben 
tagliente,  perchè  spesso  la  zappettina  invece  di  tagliare  le  canne  le 
spacca.  Il  colpo  dato  alla  base  della  canna  deve  portar  via  anche 
un  pezzettino  di    ceppaia.  Prima    si  scalza   ai  piedi  della    canna,  un 


544 


CAPITOLO  XVI 


ragazzo  abbraccia  otto  o  dieci  canne  piegandole  leggermente,  e  un 
uomo  collo  zappone  le  taglia.  Ogni  canna  ha  alla  sua  base  un  occhio 
piuttosto  sviluppato  che  conviene  esportare  perchè  darebbe  una  brutta 
maggenga.  Il  taglio  si  fa  adunque  in  modo  da  esportare  anche  questa 
gemma  (v.  la  fig.   158  v  vecchio  n  nuovo). 

Raccolte  le  canne  le  si  ammucchiano  e  si  serbano  possibilmente 
al  coperto;  non  potendo  si  ammonticchiano  a  schiena  d'asino  aggiun- 
gendo poi  un  po'  di  paglia  e  coprendo  il  tutto  con  terra. 

§  7.  Reddito  di  un  canneto  specializzato.  —  Nel  primo 
anno  si  può  calcolare  sopra  un  raccolto  ad  ettare  di  9000  canne, 
delle  quali  un  migliaio  solo  possono  in  qualche  modo  servire  a  so- 
stener le  viti.  Nel  secondo  anno  pure  il  raccolto  non  sarà  ancora 
rimuneratore,  nel  terzo,  in  cui  il  canneto  è  in  pieno  prodotto  si  può 
raggiungere  comodamente  la  cifra  di  50,000  canne  dalle  quali  10,000 
piccole  e  di  scarto. 

La  spesa  d'impianto  del  canneto  si  può  stabilire  così  (1): 


Far  le  fosse         ...... 

L. 

320,50 

Riempirle  e  piantare  occhi 

» 

97,25 

Acquisto  3200   occhi  a   L.  3  il  100  (prezzo 

medio)      ....... 

» 

96  — 

Sei  quintali  concimi  chimici 

» 

168  — 

Sarchiatura           ...... 

» 

20,15 

Sfogliatura 

» 

4,50 

Taglio  delle  prime  cannette 

» 

5,25 

Spese  generali      ...... 

» 

35  — 

Totale  L.  746,65 


Le  spese  al  terzo  anno  sono  le  seguenti: 

Per  taglio  .... 

Concimazione,  6  quintali  concime 
Zappatura  .... 

Sfrondatura        .... 
Trasporto  canne  e  foglie   . 
Spese  generali    .... 


L. 

76,10 

» 

168  — 

» 

57,95 

» 

51,75 

» 

13,25 

» 

60  — 

(1)   V.   E.  Ottavi  op.  cit. 


L.     457  05 


I  SOSTEGNI  PER  LE  VITI  545 

Riporto  L.     457,05 
Ed  aggiungiamo  anche  l'ammortizzazione 
in  settantesimi  (un  buon  canneto  dura  anche 
100  anni)  delle  spese  di  primo  impianto         .  »        10,65 

L.     467,70 

Prodotti. 

40,000   canne   al  prezzo  medio  di  L.  2,75 

al  cento L.  1100  — 

Canne  piccole  circa  10,000         ...»  150  — 

300  miriagr.  foglia  pel  bestiame         .         .          »  89  — 

L.   1339  — 
e  togliendo  la  spesa  in    »     467,70 

Abbiamo  il  benefìcio  netto  L.     871,30 

Nei  colli  del  Basso  Monferrato  il  raccolto  principale  dopo  quello 
dell'uva  è  quello  delle  canne.  La  cifra  di  L.  2,75  al  cento  è  salita 
in  questi  ultimi  anni  a  3  e  nel  1884  anche  a  L.  4  il  cento. 

§  8.  Il  filo  di  ferro  come  sostegno  delle  viti.  —  Nel  1823 
un  curato  lombardo  fece  pel  primo  la  proposta  di  adottare  il  fìl  di 
ferro  nelle  vigne.  L'idea  attecchì,  se  ne  fecero  propugnatori  in  se- 
guito insigni  scrittori  francesi,  ed  ora  i  sistemi  di  viticoltura  a  fìl  di 
ferro  sono  conosciuti  e  adottati  in  larga  scala  in  Italia  e  in  Francia. 

Oltre  al  sistema  Guyot  e  agli  altri  sistemi  a  spalliera  e  contro- 
spalliera che  ci  vennero  dalla  Francia,  abbiamo  di  già  in  Italia  di- 
versi sistemi  speciali  italiani  di  viticoltura  col  fìl  di  ferro;  abbiamo 
poi  l'applicazione  del  fìl  di  ferro  a  sistemi  vecchi  italiani,  per  esempio 
il  Casalese,  e  ne  vedremo  qualche  esempio. 

Il  fìl  di  ferro  permette  di  realizzare  una  notevole  economica  nei 
pali  e  nelle  canne,  in  certi  sistemi  italiani  anzi  la  canna  è  totalmente 
bandita;  non  ci  sono  che  i  pah  per  sostegno  dei  fili.  L'economia  di 
tal  sistema  non  ha  dunque  bisogno  di  dimostrazione. 

Il  fìl  di  ferro  da  adoperarsi  in  viticoltura  è  ricoperto  da  un  sot- 
tile strato  di  zinco  che  lo  difende  dall'ossidazione  (filo  zincato  o  gal- 
vanizzato: è  di  diverse  grossezze,  in  generale  si  adottano  i  numeri 
O.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  36 


546 


CAPITOLO  XVI 


dal  12  al  16.   Dura  comodamente  dodici  anni,  ma  non  è  raro  il  caso 
che  lar,durata  si  prolunghi  sino  a  30  anni.  Non  pare  confermato  il 


fatto  accennato  da  alcuni  che  i  fili   di    ferro    producano  un    precoce 
ingiallimento  nei   pampini. 

Si  dice  pure  che  il  filo  produca,  là  dove  tocca  i  pampini,  delle  scot- 


I  SOSTEGNI  PER  LE  VITI  547 

tature  durante  i  grandi  calori  estivi.  Ciò  non  accade  più  quando  i 
tralci  si  dispongono  orizzontalmente  sul  filo  stesso  senza  strette  le- 
gature, perchè  i  viticci  pensano  essi  a  fissare  i  pampini  medesimi. 
Certo  però  che  per  le  viti  non  fornite  di  robusti  viticci  i  fili  di  ferro 
non  sono  molto  a  raccomandarsi. 

I  prezzi  medii  del  fìl  di  ferro  sono  di  L.  60  al  Mg.  pel  N.  14; 
L.  58  pel  N,  15;  L.  56  pel  N.  16  al  quintale. 

Quando  si  voglia  applicare  ad  un  filare  di  viti  il  filo  di  ferro,  o- 
perazione  che  si  fa  d'inverno,  si  comincia  a  fissare  fortemente  ai 
due  estremi  di  quello  due  forti  pali  detti  di  testata:  ad  essi  si  rac- 
comanda e  si  lega  il  fil  di  ferro.  Da  alcuni  per  rendere  il  filare  più 
saldo  si  usa  fermare  i  fili  a  terra  mediante  grosse  pietre  (fig.  159). 

Per  tendere  bene  il  fil  di  ferro  ci  vogliono  apposite  macchinette, 
quali  sono  il  roidisseur  (fig.  160),  il  tenditojo  Panizzardi  (fig.  161), 
quello  Arrighetti  (fig.  162),  quello  a  carrucole,  quello  Barbero-Delodi 
che  sono  tutti  di  semplice  congegno,  e  non  spendiamo  quindi  parola 
alcuna  a  descriverli  minutamente.  Noteremo  solo  che  i  roidisseurs  ser- 
vono una  volta  sola  dovendo  restare  sul  filo,  come  vedesi  alla  fig.  159; 
—  costano  da  15  a  30  centesimi  l'uno.  — 


Fig.   162. 

La  macchinetta  Arrighetti  presso  l'A.  a  Sesto  Fiorentino  costa 
L.  15,  quella  a  carrucole  L.  16  presso  l'Agenzia  Enologica  di  Mi- 
lano, quella  Delodi  L.  15  presso  il  signor  Barbero  di  Torino. 

I  fili  si  fissano  ai  pali  o  facendoli  passare  per  un  forellino  entro 
i  pali  stessi,  o  con  piccole  punte  o  chiodi  ricurvi,  o  con  una  lega- 
tura speciale  con  filo  metallico. 

II  numero  dei  pali  da  piantarsi  nel  filare  a  sostegno  dei  fili  varia 
a  seconda  della  loro  grossezza  e  robustezza;  la  distanza  media  tra 
palo  e  palo  può  stabilirsi  in  sei  metri. 


548 


CAPITOLO  XVI 


Il  numero  dei  fili  pure  varia  a  seconda  del  sistema  di  viticol- 
tura che  si  applica.  Più  comunemente  si  adottano  due  fili;  in  To- 
scana specialmente  al  più  basso  si  supplisce  un  piccolo  palo  alto  60 
centimetri  il  cui  scopo  è  quello  di  sostenere  il  tralcio  a  frutto  che 
all'epoca  della  potatura  si  legherebbe  appunto  —  nei  sistemi  con  due 
fili  —  al  filo  inferiore.  Con  due  fili,  pali  e  canne  si  rende  il  filare 
robustissimo  anche  contro  i  venti  più  furiosi.  Vi  sono  poi  sistemi  a 
tre  fili  di  ferro,  e  qui  si  sopprimono  totalmente  le  canne. 

Vediamo  qualche  esempio  preso  dal  nostro  podere  sperimentale  e 
dai  migliori  viticultori  italiani. 

§  9.  Applicazioni  del  sistema  a  fil  di  ferro.  —  Il  dott.  D. 
Giotti  da  Empoli  ha  nelle  sue  vigne  un  solo  filo  di  ferro,  e  se  ne  trova 


F\g    163 


Fig.  164. 


contento  assai  dal  lato  dell'economia.  Come  si  vede  nella  fig.  163  egli 
lega  il  gambo  della  vite  al  fil  di  ferro  e  alla  canna,  lo  sperone  avanza 


1  SOSTEGNI  PER  LE  VITI 


549 


al  di  sopra  del  fil  di  ferro,  ed  allungandosi  i  capi  di   esso    vengono 
dal  dott.  Giotti  legati  in  maggio  o  giugno  alla  canna  prossima. 

Noi  pure  al  nostro  podere  la  Cardella  cominciammo  con  un  filo 
solo,  poi  ne  adottammo  due.  Si  trattava  di  ridurre  a  tralcio  lungo 
molti  alberelli,  perciò  noi  al  momento  della  potatura  lasciammo  agli  al- 
berelli, oltre  ai  tre  speroni  di  4  o  5  gemme  l'uno,  anche  un  tralcio  lungo 
che  distendemmo  sopra  un  fil  di  ferro  (fig.  164).  L'anno  dopo  aggiun- 
gemmo un  altro  fil  di  ferro.  Ora  noi  abbiamo  nel  filare  una  distanza 
variabile  tra  pianta  e  pianta  da  80  a  120  centimetri:  il  primo  filo 
di  ferro  è  situato  a  circa  50  cent,  dal  suolo,  e  il  secondo  a  85  o 
tutt'al  più  90.  I  pali  sono  posti  a  4  metri  l'uno  dall'altro,  e  ad  ogni 
vite  vi  è  una  canna  che  si  lega  ai  detti  fili.  Nella  fig.  165  si  vede 
chiaramente  la  disposizione  che  noi  diamo  al  tralcio  a  frutto. 


Fig.  165. 


A  poca  distanza  dal  nostro  podere  il  cav.  M.  Pugno  di  S.  Giorgio 
Monferrato  ha  adottato  il  fil  di  ferro.  Il  sistema  suo,  con  una  leg- 
gera modificazione  proposta  da  noi,  è  indicato  alla  fig.   166. 

Il  tralcio  a  frutto  è  sul  filo  più  basso,  i  germogli  fruttiferi  si  adat- 
tano al  secondo  filo,  e  i  tralci  a  legno  si  attorcigliano  fra  di  loro, 
facendo  sì  che  si  sostengano  da  loro  stessi.  Invece  nei  sistemi  a  tre 
fili  di  ferro  (Gurrieri,  Boschiero)  si  distende  questo  tralcio  a  legno 
sul  terzo  filo. 

Di  questi  sistemi  a  tre  fili  descriveremo  quello  che  porta  il  nome 
del  Prof.  V.  Sini,  che  lo  sperimentò  nel  Trentino,  e  che  si  può  dire 
un  vero  sistema  casalese,  ma  a  controspalliera. 

Al  filo  più  basso  il  Prof.  Sini  assicura,  mediante  i  soliti  legacci, 
la  base  e  la  punta  del  ramo   fruttifero  arcuato;  a  quel  di    mezzo  si 


550 


CAPITOLO  XVI 


allacoierà  il  sommo  dell'arco;  il  superiore  infine  servirà  ai  getti  dello 
sperone,  ossia  ai  tralci  dell'  anno  venturo,  i  quali  superato  il    primo 


Fig.  166, 


ed  il  secondo  filo,  verranno  a  raggiungere  il  più  alto,    e  su   questo 
dolcemente  si  piegheranno  e  si  distenderanno. 
La  fig.  167  ci  dà  un'idea  della  cosa: 


Fig.  167. 


A)  Vite  appena  dopo  la  potatura; 

B)  Vite  a  completa  vegetazione. 


I  SOSTEGNI  PER  LE  VITI  551 

In  questo  sistema  i  lavori  annuali  di  palatura  sono  ben  lieve  cosa, 
poiché  i  pali  non  hanno  bisogno  di  essere  ripiantati  annualmente  nel 
terreno,  ed  1  fili  di  essere  rimessi.  Tutt'al  più  converrà  ri  tendere 
questi  ultimi,  qualora  si  fossero  rallentati;  ma  questa  è  operazione 
da  poco,  che  facilmente  si  ottiene  con  un  tenditore  qualsiasi. 

Diciamo  per  ultimo  una  parola  sul  costo  dell'impianto  d'un  filare 
a  fil  di  ferro,  compresa  la  compera  dei  pali,  il  trattamento  di  essi 
col  vetriolo  o  con  altre  sostanze  conservatrici,  e  tutta  la  mano  d'o- 
pera. Con  sistema  misto,  filo,  pali  e  canne,  abbiamo  calcolato  la  spesa 
d' impianto  in  L.  350  ad  ettare;  è  una  cifra  grave,  ma  noi  siamo 
certi  che  con  qualunque  altro  sistema  di  viticoltura  la  spesa  d'im- 
pianto, pel  costo  gravissimo  dei  sostegni,  non  è  minore.  La  spesa 
annuale,  che  col  sistema  casalese  è  gravissima,  perchè  bisogna  rin- 
novare continuamente  una  buona  parte  delle  canne,  è  invece  ridotta 
col  fil  di  ferro  di  un  buon  terzo. 

§  10.  Altri  sostegni  per  le  viti.  —  I  sostegni  di  pietra  e  di 
ferro  usati  da  una  trentina  d'anni  nel  Palatinato  sono  molto  lodati 
da  quei  viticultori  che  li  adottarono.  Disposte  le  viti  in  linea  retta, 
per  ogni  filo  si  tendono  da  1  a  3  fili  di  ferro,  raccomandati  a  so- 
stegni di  pietra  piantati  nel  suolo,  detti  stivoli;  a  questi  fili  di  ferro 
si  legano  con  dei  vimini  i  tronchi  della  vite  e  i  tralci  da  frutta. 
Nell'Heard-Gebirge  si  fanno  da  qualche  tempo  piantagioni  a  spal- 
liera molto  semplici:  il  filo  inferiore  è  alto  0ra,30  dal  suolo,  e  serve 
d'appoggio  al  tronco  ed  ai  tralci  piegati  ad  arco;  ai  due  fili  superiori 
distanti  0m,30  Y  uno  dall'  altro  si  attaccano  i  pampini  estivi.  Questa 
piantagione  a  spalliera  offre  le  migliori  condizioni  per  la  perfetta 
maturazione  dell'uva,  dando  libero  accesso  ai  raggi  solari.  È  ovvio 
comprendere  che  questo  materiale  dura  assai  più  che  non  durino  i 
pali  di  legno,  per  cui  in  pochi  anni  si  fanno  tali  risparmii  da  com- 
pensare ad  usura  la  spesa  d'impianto.  La  spesa  si  calcola  per  ogni 
1000  piante  di  vite  in  L.  200,  comprendendovi  la  pietra,  le  stanghe 
di  ferro,  i  fili  di  ferro  e  la  mano  d'  opera.  Nei  pergolati  questo  si- 
stema di  sostegni  è  il  preferibile,  quando  però  il  vigneto  non  sia 
esposto  ai  venti:  in  questo  caso  l'attrito  continuo  dei  pampini  contro 
il  ferro  recherebbe  gravi  danni  alle  viti.  Bisognerebbe  dunque  allora 
servirsi  del  legno.  Il  modo  di  stabilire  il  sistema  dell'Heard-Gebirge 
è  facile:  ogni  10  ceppaie  si  approfonda  nel  terreno  una  pietra,  la 
quale  serve  di  base  ai  piedritti  di  ferro,  attraverso  i  quali  si  fanno 
passare  longitudinalmente  tre  fili  di  ferro. 


CAPITOLO  XVI 


Ultimamente  furono  proposte  le  colonnette  di  cemento,  le  quali 
all'esperienza  nostra  e  di  altri  viticultori  risultarono  solidissime. 

A  completare  questo  breve  studio  sui  sostegni  della  vite  dovremmo 
dire  qualcosa  anche  degli  alberi.  Ma  di  ciò  dovremo  occuparci  diffu- 
samente altrove,  e  quindi  rimandiamo  il  lettore  al  Cap.  XXIV,  dove 
appunto  si  tratterà  l'argomento  della  vite  maritata  ad  alberi. 


CAPITOLO    XVII 


Creazione  di  nuove  varietà. 


§  1.  Ibridazione  diretta  ed  indiretta:  loro  scopo  —  §  2.  Come  si  debba  operare  — 
§  *.}.  Ibridazione  fra  viti  europee  —  §  4.  Ibridazione  fra  viti  europee  ed  ame- 
ricane —  §  5.  Quali  viti  americane  si  debbano  scegliere  per  l'ibridazione  — 
§  6.  Dimorfismo:  grappoli  con  acini  a  vario   colore. 

§  1.  Ibridazione  diretta  ed  indiretta:  loro  scopo.  —  La 

creazione  di  nuove  varietà  di  vitigni,  quantunque  assai  poco  studiata 
sino  a  questi  ultimi  tempi,  ha  una  non  piccola  importanza  in  viti- 
cultura, anche  considerata  dal  solo  lato  pratico.  Infatti  è  evidente 
che,  se  noi  arriveremo  a  svelare  il  segreto  di  questa  creazione,  po- 
tremo popolare  i  nostri  vigneti  di  quelle  varietà  le  quali  o  pella  na- 
tura del  loro  prodotto  o  perchè  meglio  resistenti  alle  gravissime  ma- 
lattie dominanti,  sono  le  più  convenienti  economicamente  parlando: 
potremo  quindi  ottenere  vitigni  a  uve  ricche  di  colore  e  nello  stesso 
tempo  molto  zuccherine,  mentre  prima  avevano  il  colore  senza  lo 
zucchero  o  questo  senza  quello;  ci  sarà  dato  di  coltivare  speciali  vi- 
tigni molto  o  poco  rigogliosi  a  seconda  di  quanto  a  noi  conviene,  e 
ci  sarà  anche  dato,  il  che  ha  ora  grande  importanza,  di  coltivare 
vitigni  resistenti  alla  fillossera  e  nello  stesso  tempo  produttori  diretti 
di  buona  uva. 

Questi  sono  i  vantaggi  principali  della  creazione  delle  nuove  va- 
rietà, a  cui  si  può  arrivare  con  una  lunga  e  paziente  selezione  dei  vi- 
nacciuoli e  dei  loro  prodotti.  Ma  questo  metodo  si  può  dire  che  non 
approda  a  nulla,  se  non  è  coadiuvato  dalla  ibridazione  artificiale. 


554  CAPITOLO   XVII 


Se  noi  facciamo  in  maniera  che  il  polline  di  una  varietà  stimata  per 
talune  qualità,  vada  a  fecondare  gli  ovuli  di  altra  varietà,  per  altro 
verso  pregevole,  ne  otteniamo  una  terza  che  nella  sua  individualità 
propria  racchiude  per  così  dire  una  media  delle  virtù  intime  dei  pro- 
genitori, però  con  un  predominio,  in  generale,  dell'influenza  materna. 
Questo  incrociamento  fra  il  polline  d'una  varietà  e  gli  ovuli  di  un'altra 
può  avvenire  naturalmente  o  artificialmente.  Avviene  natural- 
mente fra  varietà,  ovunque  si  coltivano  viti;  e  si  verifica  poi  fra  le 
specie  (pag.  77)  nel  Nord  America  ove  le  specie  sono  parecchie,  al 
contrario  di  quanto  accade  verosimilmente  in  Europa  ed  in  Asia. 

L'ibridazione  si  distingue  poi  in  diretta  ed  indiretta.  È  diretta 
quando  il  polline  d'  una  varietà  fecondando  gli  ovuli  di  un'  altra  si 
ottiene,  dalla  seminagione  dei  vinacciuoli,  un  ibrido  avente  i  carat- 
teri e  le  fisionomie  dei  progenitori:  —  è  indiretta  quando  un  ibrido 
stesso  ci  dà,  coli'  auto-fecondazione,  cioè  col  suo  stesso  polline,  un 
vinacciuolo,  dal  quale  trae  origine  un  secondo  ibrido  in  cui  sono 
accentuate  in  modo  diverso  di  quanto  accade  nel  primo  ibrido,  i  ca- 
ratteri delle  due  specie  o  varietà  primitive.  Un  esempio  renderà  più 
chiare  queste  definizioni. 

Il  Clinton,  ad  esempio,  proviene  dalla  ibridazione  diretta  della 
V.  Riparia  colla  V.  Labrusca:  ma  da  un  vinacciuolo  di  Clinton 
provenne,  or  sono  quasi  venti  anni  (1),  un  secondo  ibrido,  il  Vialla, 
che  certo  rassomiglia  al  Clinton,  ma  che  ad  esempio  mostra  nelle 
radici  maggiormente  accentuate  le  preziose  proprietà  della  V.  Ri- 
paria, e  nella  disposizione  dei  cirri  assomiglia  di  più  alla  V.  La- 
brusca  che  non  lo  stesso  Clinton.  Il  Vialla  sarebbe  un  caso  di 
ibridazione  indiretta,  o  auto-fecondazione  (2)  con  polline  verosimil- 
mente monoclino  (pag.  190). 

§  2.  Come  si  debba  operare.  —  Per  provocare  artificialmente 
la  ibridazione  fra  due  specie  o  varietà  di  vitigni,  occorre  una  certa 
destrezza  di  mano,  ma  l'operazione  in  sé  non  presenta  grandi  diffi- 


(1)  Questo  accadde  presso  il  sig.  Laliman  di  Bordeaux,  cui  dobbiamo  il  Vialla. 

(2)  Non  tutti  però  ammettono  che  il  Vialla  discenda  da  un  Clinton  per  auto- 
fecondazione; taluni  sostengono  che  nelle  vicinanze  del  Clinton  si  doveva  trovare 
qualche  V.  Labrusca  il  cui  polline  fecondò  casualmente  quell'ovario  del  Clinton 
che  diede  poi  il  vinacciuolo  del   Vialla.  In  questo  caso,  il  nuovo  intervento  della 

V.  Labrusca  avrebbe  accentuato  i  caratteri  proprii  nel  secondo  ibrido,  senza  però 
menomare  l'influenza  della    V.  Riparia. 


CREAZIONE  DI  NUOVE  VARIETÀ 


colta.  Ne  faremo  qui  una  descrizione  desumendola  da  una  memoria 
del  sig.    V.   Ganzin  (1). 

Fissata  la  scelta  delle  forme  o  varietà  a  fecondare,  1'  operatore 
seguirà  attentamente  lo  svilupparsi  dei  grappoli  fiorali:  allorché  i  primi 
fiori  saranno  schiusi,  è  tempo  di  agire.  L'  operatore  primieramente 
sopprimerà,  mercè  apposita  cesoia  a  lame  lunghe  e  ben  sottili,  tutti 
i  fiori  già  sbocciati:  sceglierà  quindi  gli  ovarii  più  avviati  (ciò  che 
con  un  po'  d'  abitudine  arrivasi  a  distinguere  facilmente  alla  gros- 
sezza di  quelli  e  al  loro  rigonfiamento),  e  senza  troppo  premerli  li 
piglierà  verso  al  terzo  superiore  di  loro  altezza  in  fra  le  tenui  bran- 
che d'una  pinzettina  d'oriuolaio,  e  dolcemente  tirando  in  alto,  d'un 
colpo  li  sbarazzerà  del  cappuccio  (petali  saldati  distaccantisi  dal  ca- 
lice alla  base)  e  degli  stami.  Se  la  fioritura  non  fosse  un  po'  avan- 
zata, difficilissimo  riescirebbe  di  staccare  il  cappuccio,  e  per  lo  più 
il  pedicello  romperebbesi  dietro  la  pressione.  Si  piglieranno  allora 
immediatamente  e  si  poggieranno  sugli  stimmi  del  fiore  scappucciato 
le  antère  dei  fiori  di  fresco  aperti  della  varietà  scelta  come  padre, 
onde  il  polline  vi  si  deponga;  e  dopo  assicuratosi,  giovandosi  all'uopo 
d'  una  buona  lente  microscopica,  che  certa  quantità  di  granuli  del 
polline  restò  aderente  agli  stimmi,  si  ricomincierà  lo  stesso  lavorìo 
sopra  a  un  altro  fiore,  badando  accuratamente  di  sceglierlo  fra  quelli 
non  immediatamente  a  contatto  col  primo  fiore  già  fecondato.  Finita 
l'operazione,  si  taglian  via  tutti  i  fiori  scartati  e  chiudesi  in  un  sac- 
chetto di  fino  e  fìtto  velo  il  rimaneate  grappolo  ibridato,  onde  sot- 
trarlo a  ogni  possibile  influsso  fecondante  ulteriore  d'  altri  grappoli 
contigui.  Non  sarà  inutile  finalmente  di  lasciar  deposto  pure  sul  detto 
grappolo,  prima  d'imprigionarlo  nel  velo,  la  panicola  fiorale  che  fornì 
il  polline,  ovvero  altra  identica  panicola  pur  allora  colta,  che  andrà 
poi  levata  via  dopo  alquanti  giorni. 

Giustamente  osserva  il  Ganzin,  che  in  queste  ibridazioni  l'azzardo 
giuncherà  sempre  una  grande  parte,  e  che  sarà  spesso  necessario  di 
ripetere  l'operazione  modificandone  le  condizioni,  come  si  usa  in  zoo- 
tecnìa. L'ibrido  di  prima  generazione  potrà  pertanto  ricevere  un  se- 
condo incrocio,  e  dar  luogo  per  ibridazione  indiretta  ad  un  secondo 
ibrido  con  certi  caratteri  più  accentuati;  ora  tutto  ciò  non  è  lavoro 
d' un  giorno,  ma  opera  lunga  e  paziente.  Il   Ganzin,  pensando   alla 


(1)  Revue   scientifique   de  la  France   et  de    V  Etr anger  (n.  del  30  luglio   1881) 
V.    Giornale  Vinicolo   1882,  traduz.  del  Dr.  F.   Console. 


1356  CAPITOLO  XVII 


invasione  fillosserica,  conchiude:  «  noi  lavoriamo  per   l'avvenire,    e 
certo  su  questa  via  si  potranno  ottenere  risultati  insperati.  » 

Se  1'  ovario  si  sviluppa,  ciò  vuol  dire  che  la  ibridazione  è  avve- 
nuta. Si  curerà  pertanto  pazientemente  che  questi  acini  giungano 
sani  e  salvi  a  maturazione;  se  ne  prenderanno  quindi  i  vinacciuoli, 
scegliendo  quelli  che  non  assomigliano  né  al  padre  né  alla  madre,  e 
si  semineranno.  I  tralci  delle  nuove  piantine  serviranno  poscia  per 
moltiplicare  la  nuova  vite  ibrida, 

§  3.  Ibridazione  fra  viti  europee.  —  L' incrociamento  del 
polline  provocato  fra  viti  nostrane,  ha  per  iscopo  di  creare,  mercè 
due  varietà  aventi  taluni  pregi  individuali,  una  terza  la  quale  pos- 
segga da  sola  quelle  qualità  per  cui  vanno  pregiati  i  progenitori. 
Una  vite  la  quale  ci  dà  mosto  molto  colorato  ma  poco  zuccherino, 
incrociata  con  altra  la  quale  invece  dia  mosto  molto  zuccherino  ma 
poco  colorato,  ci  potrà  dare,  mercè  accurate  selezioni,  un  nuovo 
vitigno,  il  quale  produrrà  uve  di  molto  colore  e  ricche  di  principio 
dolce. 

Gli  è  al  benemerito  sig.  G.  A.  Bouschet  di  Mompellieri  che  dob- 
biamo la  prima  e  più  concludente  applicazione  pratica  di  questo  prin- 
cipio: egli  incominciò  ad  operare  ibridazioni  artificiali  or  sono  circa 
cinquant' anni  fra  YAramon  ed  il  Teinturier  ;  Y Aramon  produce 
molto,  ma  il  vino  è  scolorato;  invece  il  Teinturier  produce  poco  nelle 
regioni  calde,  ma  dà  vino  coloratissimo,  perchè  la  stessa  polpa  del- 
l' acino  è  colorata  in  rosso,  cosa  abbastanza  rara,  inquantochè  nelle 
uve  nere  o  rosse  Y  enocianina  è  solo  aderente  alla  buccia  e  si  di- 
scioglie poi  nel  mosto  durante  la  fermentazione.  Il  sig.  Bouschet 
pensò  adunque  di  intrecciare  i  grappolini  in  fiore  dell'  Aramon  con 
quelli  del  Teinturier;  raccolse  quindi  i  vinacciuoli  di  cotali  grap- 
poli, li  seminò  e  per  varii  anni  scelse  fra  le  piantine  nate  le  più 
pregevoli,  sino  a  che  giunse  a  trovare  certe  piante  le  quali  davano 
molta  uva  ricchissima  di  colore.  Il  nuovo  vitigno  fu  battezzato  petit 
Bouschet,  ed  è  oggidì  assai  diffuso  nella  regione:  i  suoi  acini  sono 
un  po'  diversi  da  quelli  dei  progenitori,  e  questo  carattere  giovava 
appunto  al  sig.  Bouschet  nella  scelta  dei  veri  ibridi,  durante  il  pe- 
riodo delle  selezioni. 

Lo  stesso  esperimentatore  ha  proseguito  altre  ricerche  sulla  ibri- 
dazione dei  vitigni  europei,  ed  ha  creato  varii  ibridi  molto  stimati 
nel  paese.  Noi  abbiamo  incominciato  ad  ibridare  fra  loro  il  Canonao 


CREAZIONE  DI  NUOVE  VARIETÀ  557 

(Alicante),  vitigno  pregevolissimo  per  la  qualità  e  quantità  dell'uva, 
e  la  Tintoria,  assai  ricca  di  colore;  per  ora  non  possiamo  nulla  dire 
dei  risultati,  che  confidiamo  saranno  ottimi. 

§  4.  Ibridazione  fra  viti  europee  ed  americane.  —  Gli  è 

specialmente  sotto  il  punto  di  vista  della  fillosseronosi  che  si  sono 
tentate  e  si  tentano  tuttora  ibridazioni  artificiali  fra  le  viti  europee 
e  le  americane:  infatti  le  prime  producono  buone  uve  ma  non  resi- 
stono all'afide,  mentre  alcune  fra  le  seconde  resistono  all'insetto  ma 
producono  uve  spregevoli;  ora  si  tratterebbe  appunto  di  creare  vi- 
tigni i  quali  pur  producendo  buone  uve,  resistano  al  rostro  della 
fillossera.  Ognun  vede  quanta  importanza  possa  avere  per  la  pra- 
tica la  soluzione  di  questo  problema  ! 

Anche  coli'  innesto  (v.  Cap.  XVIII)  si  riesce  neh'  intento,  ma  il 
sistema  della  ibridazione  conduce  forse  a  risultati  più  completi,  e 
qualche  fillosserista  francese  gli  accorda  perciò  la  preferenza.  Taluni 
però  obbiettano  che  il  prodotto  ibrido  potrebbe  risultare  poco  resi- 
stente alla  fillossera,  appunto  perchè  uno  dei  progenitori  (la  vite  eu- 
ropea) è  assolutamente  privo  di  questa  prerogativa.  A  questa  obbie- 
zione il  sig.   Ganzin  sovra  ricordato,  risponde  con  un  esempio. 

«  Supponiamo,  egli  dice,  rappresentato  con  0  (dunque  nulla  pra- 
ticamente) il  grado  di  resistenza  della  varietà  vinifera  a  fecondare, 
e  con  10  (il  massimo)  la  resistenza  della  specie  fecondatrice;  e  po- 
nendo sia  7  il  grado  ipotetico  necessario  a  che  la  resistenza  d'una 
vite  soddisfi  praticamente  nel  più  de'  casi,  il  prodotto  ibrido  di  0 
per  10  non  sarà  solamente  5.  vale  a  dire  un  grado  insufficiente?  Se 
l'atto  della  fecondazione  non  foss'  altro  che  una  mescolanza  a  parÙ 
uguali  di  due  sangui  o  di  due  save  combinantesi  insieme  e  recipro- 
camente compenetrantisi,  a  quella  stessa  guisa  che  avviene  di  due 
liquidi  d'  uguale  densità,  1'  operazione  che  ora  studiamo  filerebbe  a 
rigor  matematico:  in  definitiva  la,  si  risolverebbe  in  un  semplice  bi- 
lancio di  dare  e  avere.  Ma  quanto  è  ben  lungi  d'esser  così!  Quanto 
è  più  complessa  un'operazione  tal  fatta!  Quale  ignoranza  non  è  la 
nostra  delle  leggi  che  possiedono  a  tanto  compimento,  e  ne  regolano 
l'azione  e  ne  determinano  i  risultati  !  Qua  è  l'influenza  della  madre, 
che  in  linea  generale  pare  predomini  :  là  quella  del  padre;  talvolta  è 
un  sol  carattere  isolato  spettante  o  sia  all'uno  o  sia  all'altro  de'  due 
autori,  che  riprodotto  integralmente  mostrasi  preminente  nella  fu- 
sione   dei    caratteri    comuni    ereditariamente    trasmessi   al    prodotto 


558  CAPITOLO   XVII 


ibrido:  tal' altra  invece  alcuno  de'  caratteri  è  svanito,  come  se,  im- 
potente e  improprio  d'adattarsi  nello  stampo  individuale  d'aggruppa- 
mento di  quegli  altri  tutti,  si  fosse  trovato  da  questi  altri  appunto 
eliminato  e  respinto.  In  una  parola,  nei  prodotti  d'  ibridazione,  sia 
naturale  che  artificiale,  si  rivelano  combinazioni  sì  svariate,  come 
se  dovute  apparentemente  all'azzardo,  senza  che  a  noi  sia  dato,  igno- 
ranti che  siamo  delle  leggi  della  generazione,  segnar  loro  una  regola 
sicura,  od  imporre  loro  un  limite  insormontabile.  Di  accertato  non 
sappiamo  che  una  cosa  sola,  che  cioè  ereditariamente  i  genitori  tra- 
smettono alla  loro  prole  in  misura  e  modo  di  combinazioni  variabile  i 
loro  caratteri  principali;  e  nonostante  ogni  mancanza  di  precisione  tale 
nozione  ci  basta,  poiché  implica  necessariamente  la  possibilità  per 
noi  di  raggiungere  lo  scopo  desiderato.  » 

«  Quanto  or'ora  notavo  della  variabilità  di  combinazioni  inerente 
alla  trasmissione  ereditaria  dei  caratteri,  potrei  avvalorarlo  di  nu- 
merosissimi esempi,  pigliandoli  sia  al  regno  animale,  che  al  vegetale; 
mi  limito  tuttavia  a  due  soli  casi  d' ibridazione  vegetale,  il  cui  si- 
gnificato ha  un  valore  d'analogia  tanto  maggiore,  inquantochè  quelli 
non  escono  dal  dominio  del  genere  botanico,  cui  proprio  han  tratto 
le  presenti  ricerche  nostre,  il  genere  vite  vo'  dire.  » 

«  Il  primo  è  il  caso  del  York-Madeira.  Questo  è  un  vitigno  ame- 
ricano d'origine  relativamente  antica,  introdotto  nelle  nostre  colture 
gli  è  oltre  40  anni,  e  per  altrettanto  negletto,  fino  a  che  sua  resi- 
stenza alla  fillossera  ben  comprovata,  ma  al  rango  elevatissimo  cui 
l'esame  delle  radici  permise  assegnarglisi,  non  conversero  sovr'  esso 
nella  regione  nostra  meridionale  l'attenzione  degli  interessati.  Si  studiò 
tale  vitigno,  si  volle  determinarne  la  specie  d'origine,  e  ci  si  trovò 
in  presenza  di  questa  singolare  situazione:  un  vitigno,  cui  1'  aspetto 
generale  e  il  sapore  muschioso  del  frutto,  nonché  i  peli  glandulosi 
colorati  de'  tralci  allo  stato  erbaceo  e  la  forma  particolare  del  vi- 
nacciuolo, designano  derivato  evidentemente  della  V.  Labrusca,  e 
che  infrattanto  non  presenta  né  la  continuità  de'  cirri,  carattere  mar- 
catissimo  e  specifico  di  quel  tipo,  né  quella  parimenti  tipica  conte- 
stura particolare  delle  radici,  onde  appunto  riviene  alla  Labrusca 
la  sua  notevole  sensibilità  fillosserica.  È  all'  assenza  anzi  di  questi 
ultimi  caratteri,  che  la  V.  Labrusca  avrebbe  dovuto  già  trasmet- 
tere al  York  ereditariamente,  la  corrispondenza  anziché  l'esistenza 
in  esso  York  della  disposizione  regolarmente  discontinua  de'  cirri^ 
nonché  di  talune   altre    particolarità   secondarie  del   legno  e  del  fo- 


CREAZIONE  DI  NUOVE  VARIETÀ  559 

gliame,  oltre  infine  alla  disposizione  anatomica  delle  radici,  riferibili 
botanicamente  al  tipo  Aestivalis  o  Cinerea,  specie  queste  per  più 
versi  prossimissime  l'ima  dell'altra,  ma  che  non  ebber  mai  inconte- 
stabilmente alcunché  di  comune  con  la  V.  Labrusca.  Ecco  dunque 
nel  vitigno  York-Madeira  localizzata  per  iuxta-posizione  la  tra- 
smissione ereditaria  de'  caratteri  propri  dei  due  autori,  di  guisa  che 
l'influenza  quasi  esclusiva  dell'un  d'essi,  la  V.  Labrusca,  predomina 
notevolmente  nel  frutto,  intanto  che  nella  costituzione  della  radice 
1'  altro  progenitore,  la  V.  Aestivalis  o  Cinerea,  v'  ha  improntato 
sua  parte  in  preponderanza.  »  (1) 

Il  Ganzin  esamina  in  seguito  un  secondo  caso:  quello  del  Vialla, 
che  già  abbiamo  accennato  al  §  1,  e  conclude  che  senza  dubbio  si 
arriverà  un  giorno  a  creare  vitigni  ibridi,  i  quali  godranno  della  pre- 
ziosa proprietà  della  resistenza  e  nello  stesso  tempo  saranno  produt- 
tori di  molta  e  buona  uva. 

§  5.  Quali   viti   americane   si  debbano   scegliere  per   la 
ibridazione.  —    Il  Prof.  Millardet,  della  Facoltà  delle  Scienze  di 
Bordeaux,  indicava  pel  primo  diversi  ibridi  naturali  nei  quali  sempre 
si  riscontra  la    V.  Labrusca  quale  uno  dei  progenitori,  e  così: 
Cor  di folia  e  Labrusca 
Aestivalis  oppure 
Cinerea  e  Labrusca 
Riparia  e  Labrusca. 
Ciò  perchè  la  Labrusca  ha  caratteri  bene  delimitati,  come  ad  e- 
sempio  quello  dei  viticci  continui  (pag.  96),  onde  è  facile  riconoscere 
il  suo  intervento  in  una  ibridazione.    Noi  però  la    lascieremo  in  di- 
sparte per  attenerci  essenzialmente  a  viti  molto  resistenti,  incrocian- 
dole con  viti  nostrane  molto  produttive. 

La  V.  Rotundi folia  (Michauw)  si  ritiene  assolutamente  resistente 
alla  fillossera;  ma  essendo  essa  botanicamente  molto  distante  dalla 
V.  Vinifera,  ritiensi  per  così  dire  impossibile  l'ibridazione  artificiale, 
o  almeno  si  richiederebbe  un  tempo  troppo  lungo  prima  di  avere 
resultati  pratici;  tuttavia  si  consiglia  di  tentare  incrociamenti. 

La  V.  Aestivalis  non  è  molto  raccomandata,  nel  dubbio  che  possa 
dare  ibridi  poco  resistenti. 

La   V.  Cor  di  folia  pure  è  poco  raccomandata,  perchè  si  teme  che 


(1)  Console  trad.  (v,  pag.  555), 


560  CAPITOLO  XVII 


l'ibrido  possa  dare  uva  a  sapore  cattivo.  Si  asserisce  lo  stesso  della 
V.  Riparia,  benché  si  ritenga  che  si  possa  agevolmente  superare 
tale  difficoltà. 

Si  consiglia  pertanto  di  tentare  ibridazioni  colla  V.  Cinerea  (1) 
la  cui  resistenza  è  grande;  il  frutto  è  un  po'  acidulo,  ma  non  ha  sa- 
pori sgradevoli.  Lo  stesso  dicesi  della  V.  Berlandieri  (Planchon) 
o  Monticala  (Buckley). 

Infine  si  raccomanda  sovratutto  la  V.  Rupestris,  di  cui  una  delle 
forme  è  tanto  resistente  da  potersi  dire  indenne. 

Il  citato  sig.  Ganzin  ne  è  caldo  ammiratore:  udiamo  che  cosa  egli 
ne  dice:  «  La  fioritura  di  tal  forma  di  V.  Rupestris  coincide  press'a 
poco  con  quella  delle  migliori  varietà  nostre  indigene,  anzi  le  precede 
appena  lievissimamente:  essa  è  estremamente  fruttifera  (fiorifera 
dovrei  dire)  che  la  è  maschia,  nò  può  fungere  che  da  padre,  sia  che 
le  manchino  gli  organi  fiorali  femminei,  o  che  questi  trovinsi  atrofiz- 
zati; né  so  poi  se  esista  la  corrispondente  forma  indenne  ermafrodita. 
Però  le  altre  forme  fertili  del  detto  tipo  Rupestris  producono  frutto 
esente  di  ogni  gusto  speciale,  cui  possa  temersi  veder  riprodotto  con 
l'ibridazione.  Impiegando  questa  forma  indenne,  o  quasi  indenne,  ele- 
verassi  al  maximum  la  probabilità  di  vedere  riprodotta  neh'  ibrido 
la  necessaria  proprietà  di  resistenza;  avvegnaché  quando  pure  quel 
suo  carattere  particolare  d' indennità  non  avesse  a  riprodursi  quasi 
integralmente  per  iuxta-posizione  (e  questo  sebbene  non  impossibile 
assolutamente,  è  tuttavia  improbabile  si  realizzi,  tosto  che  esiste  in 
grado  si  supremo  nell'uno  dei  progenitori)  purnondimeno  è  a  ritenere 
che  lo  infievolimento  a  risultarne  in  seguito  alla  coinfiuenza  dell'altro 
progenitore,  non  varrà  lo  più  soventi  a  impedire  che  quel  prezioso 
carattere  sussista  in  esso  ibrido  in  grado  sufficientemente  bastante 
per  la  utilizzazione  colturale.  » 

«  Siffatto  vitigno  ibrido  a  essere  però  completo,  ad  avere  cioè  va- 
lore pratico  quale  desideriamo,  dovrà  possedere  pure,  oltre  alla  re- 
sistenza, la  fertilità  (fertilità  relativa)  e  la  buona  qualità  vinifera. 
Nel  Mezzogiorno  francese  il  viticoltore  domanda  alla  sua  vite  anzi- 
tutto 1'  abbondanza  del  prodotto,  che  quanto  a  qualità  ha  esigenza 
più  modesta,  tosto  che  il  suo  vino  da  commercio  va  destinato  alla 
grande  consumazione,  per  cui  anche  privo  di  finezza,  purché  franco 


(1)    Siccome  fiorisce    tardi,  bisognerebbe    provocare  lo   sviluppo    precoce    delle 
lemme  introducendone  un  tralcio  in  una  serra 


CREAZIONE  DI  NUOVE  VARIETÀ  561 

di  gusto  e  colorato  e  solido,  il  valore  ne  resta  sempre  integro.  La 
fertilità  è  dunque  un  attributo  principale,  dal  punto  di  vista  del  me- 
rito vinifero  cui  fa  d'uopo  sforzarsi  di  riprodurre  nell'ibrido.  Ora  la 
fertilità  è  il  risultato  complessivamente  del  numero  dei  grappoli  col 
volume  di  questi  e  la  grossezza  degli  acini  che  lo  compongono;  per 
tutti  siffatti  rapporti  il  nostro  Aramon  (varietà  della  V.  Vinifera) 
non  ha  rivali  assolutamente,  e  per  ciò  esso  è  probabilmente  di  tutti  i 
vitigni  nostri  meridionali  il  più  adatto,  sotto  tal  riguardo,  da  con- 
trobilanciare in  una  ibridazione  F  assenza  o  la  inferiorità  della  cor- 
relativa proprietà  nell'altro  autore.  Ora  se  questo,  giova  ripeterlo, 
dovess'essere  la  V.  Rupestris,  tale  inferiorità  potrà  riflettere  esclu- 
sivamente il  volume  dell'acino,  la  cui  notevole  minutezza  influisce  di 
riverbero  sfavorevolmente  sulla  dimensione  del  grappolo,  pur  nono- 
stante che  il  graspo  presenti  sviluppo  sufficiente;  che  nel  resto  poi 
la  specie  Rupestris  fruttifica  abbondantemente,  tanto  da  superare 
quasi  lo  stesso  Aramon.  Sicurissimamente  poi  lo  intervento  della 
V.  Rupestris  avrà  per  risultato  di  trasfondere  nel  frutto  dell'ibrido 
una  qualità  assai  ricercata,  di  cui  Y  Aramon  è  sprovveduto,  ed  è  il 
colore,  carattere  dei  più  agevolmente  trasmessigli  nelle  ibridazioni 
fra  viti,  gl'ibridi  fra  vitigni  poco  colorati  e  vitigni  assai  colorati  ri- 
producendosi intensamente  colorati  generalmente,  e  talvolta  anzi  in- 
tensamente coloratissimi.  » 

«  Concorrentemente  con  V Aramon  potremmo  pure  sperimentare  di- 
verse altre  varietà  meridionali,  la  Carignane,  la  Grenache  (1)  età;  è 
d'uopo  non  dissimularci  però  che  queste,  meno  fertili  di  quello,  si  pre- 
sterebbero forse  più  difficilmente  alia  trasmissione  ereditaria  della 
correlativa  qualità  nel  voluto  grado,  qualità  che  la  V.  Rupestris 
non  può  fornire.  Raccomanderei  piuttosto  all'attenzione  di  chi  dedi- 
caci o  vorrà  dedicarsi  a  tal  sorta  di  operazioni  d'ibridazione,  un  paio 
di  vitigni  robustissimi  e  vigorosissimi,  a  grappoli  voluminosi  e  grossi 
acini,  né  tanto  ben  cogniti  generalmente,  e  cioè  il  Moscadellone 
d'Alessandria  o  di  Spagna  e  il  Danugue  croccante  o  Gros  Guil- 
laume, la  cui  fecondazione  con  la  V.  Rupestris,  o  viceversa,  po- 
trebbe dar  luogo  a  risultati  forse  imprevedibili.  » 

Dimenticavo  menzionare  un  vantaggio  speciale  che  otterrebbesi 
altresì  delio  impiego  della  V.  Rupestris,  che  cioè  il  suo  frutto  ma- 
turando ben  per  tempo  d'agosto,  gli  è  probabile  che  qualcuno  degli 


(1)  Canonao  di  Sardegna. 

0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura.  37 


562  CAPITOLO   XVII 


ibridi  riproduca  più  o  meno  fedelmente  tale  proprietà,  non  sprezza- 
bile nello  stesso  Mezzodì,  ma  certamente  preziosissima  per  le  altre 
regioni,  che  non  hanno  a  contare  sopra  a  un  cielo  sì  clemente  e  un 
clima  sì  caldo.  Son  queste,  parmi,  le  norme  generali  che  devon  gui- 
dare i  primi  saggi  d'ibridazione.  Forse  obbietterassi  un  lavoro  simi- 
gliante  trovarsi  già  tentato  dagli  americani,  che  in  vista  del  fallir 
persistente  della  vite  europea  nelle  loro  coltivazioni  cercarono,  mercè 
lo  incrocio  con  le  varietà  ivi  indigene,  fornire  a  quella  la  rusticità, 
che  parea  mancarle  assolutamente  sotto  al  clima  nord  americano: 
obbietterassi  ancora  che  la  più  parte  degli  ibridi  ottenuti  in  America 
hanno  conservato  nel  frutto  un  che  di  grossolano,  un  che  d'insolito 
e  di  estraneo  nel  sapore:  che  infine  tutti  o  quasi  tutti  quegl'  ibridi 
importati  in  Francia  rimpetto  della  fillossera  sonosi  trovati  d'  una 
debilità  proprio  scoraggiante.  Il  fatto  è  invero  esattissimo,  ma  è  lungi 
di  avere  la  portata  che  vorrebbe  attribuirglisi,  siccome  è  ampiamente 
dimostrato  dal  semplice  esame  delle  condizioni  cui  sottostettero  gl'i- 
bridisti  americani  (Arnold,  Roger,  Wylie,  etc.)  Questi  miravano  a  uno 
scopo  diverso  dal  nostro,  attribuendo  il  fallir  persistente  delle  varietà 
europee  in  America  unicamente  alle  sfavorevoli  condizioni  del  clima, 
quando  invece  aveavi  pur  larga  parte  la  fillossera,  la  cui  funesta 
azione  quei  nemmanco  sospettavano;  e  nello  intento  quindi  di  rista- 
bilire, mercè  la  infusione  d'  un  po'  di  sava  indigena,  lo  equilibrio 
colturale  ne'  desiati  vitigni  europei,  ebbero  a  rivolgersi  quasi  esclu- 
sivamente alle  varietà  più  grossolane  di  lor  colture,  il  Clinton,  il 
Concord,  o  qualche  altro  derivato  della  V.  Labrusca.  Non  è  a  stu- 
pire che  tai  vitigni,  già  per  sé  stessi  incompletamente  resistenti,  ed 
a  frutto  di  sapore  speciale  muschioso,  abbiano  trasmesso,  con  atte- 
nuante quanto  al  frutto,  ma  con  aggravante  quanto  alla  radice,  i 
caratteri  e  le  qualità  costituenti  precisamente  il  valore  relativo  di 
quello  e  la  relativa  inferiorità  di  questa.  Meglio  instrutti  sullo  scopo 
a  raggiungere  e  sulle  modalità  a  seguire,  noi  eviteremo  agevolmente 
siffatto  scoglio:  noi  esigeremo,  come  sopra  precisai,  nelle  specie  e 
varietà  a  incrociare  la  precellenza  assoluta  di  quelle  qualità,  di  cui 
appunto  lor  domandiamo  graduatamente  la  trasmissione  ereditaria.  » 
Infine,  si  facciano  esperienze  anche  in  Italia,  perchè  la  quistione 
è  realmente  molto  importante. 

§  6.  Dimorfismo:  grappoli  con  acini  a  vario  colore.  — 

Anche  la  vite  presenta  dei  casi  curiosissimi  di  dimorfismo  (da  dis 


CREAZIONE  DI  NUOVE  VARIETÀ  563 

due,  e  morfos  forma)  nella  forma  e  nel  colore  dei  grappoli  d'uno 
stesso  tralcio,  e  degli  acini  d'  uno  stesso  grappolo.  Tutti  avranno 
forse  potuto  osservare  tralci  portanti  ad  esempio  grappoli  rossi  e 
grappoli  bianchi,  e  grappoli  con  acini  bianchi  e  variegati  o  rossi  a 
dirittura,  oppure  acini  rotondi  ed  acini  ovali;  la  Reoue  horticole  (1) 
parla  d'un  moscato  nero-bianco  posseduto  dal  sig.  A.  Boisselot;  e 
e  Carlo  Darwin  {Variazione  degli  animali  e  delle  piante  allo 
slato  domestico,  traduzione  del  Prof.  G.  Canestrini,  edizione  della 
Società  Tipografica  Torinese,  già  Pomba,  pag.  335)  così  si  esprime: 

«  Vitis  Vinifera.  La  vite  azzurra  o  purpurea  Frontignan,  pro- 
«  dusse  in  un  caso  per  due  anni  successivi  (e  senza  dubbio  perma- 
«  nentemente)  dei  getti  che  portavano  dei  grappoli  bianchi  Frontignan. 
«  In  un  altro  caso  sullo  stesso  racemo  le  bacche  inferiori  erano  fron- 
«  tignanesi  ben  colorate  in  nero;  quelle  più  prossime  al  gambo  erano 
«  bianche,  ad  eccezione  d'  una  bacca  nera  e  di  un'  altra  rigata.  In 
«  un'  altra  qualità  d'uva  vennero  prodotte  sullo  stesso  grappolo  delle 
«  bacche  nere  ed  altre  giallo  d'ambra  (Gardner  's  Chronicle  1852, 
«  pag.  629,  pag.  648,  anno  1864,  pag.  986).  Altri  esempi  sono  ci- 
«  tati  dal  Braun,  (Ry'uvenescence  in  Ray.  Society  Cat.  Num. 
«  anno  1853,  pag.  314).  » 

11  celebre  ampelografo  spagnuolo  Don  Simon  Roxas  Clemente 
descrive  (2)  una  vite  i  cui  grappoli  hanno  acini  rigati  di  nero  e  di 
grigio,  detta  Rayada.  Il  Mendola  giustamente  osserva  che  in  tutti 
i  casi  di  variegazione  di  colori  nell'acino  dell'uva,  le  linee  variopinte 
o  le  liste  sono  parallele  all'asse,  cioè  a  quella  linea  fittizia  che  par- 
tendo dal  peduncolo  e  formandone  come  una  continuazione,  va  a 
terminare  nel  punto  ombelicale  in  testa  dell'acino  stesso. 

Non  si  son  mai  viste  variegazioni  di  uva  in  senso  diagonale  o 
spirale,  o  che  tagliassero  ad  angolo  retto  l'asse  dell'acino. 

Questi  esempii  si  potrebbero  moltiplicare  d'assai;  ma  la  spiegazione 
di  questi  curiosi  fenomeni  fin'  ora  non  è  stata  trovata.  Secondo  il 
sig.  Bouschet,  di  cui  abbiamo  parlato  al  §  3,  la  causa  risiederebbe 
nella  ibridazione,  ed  il  sig.  Planchon,  pure  facendo  restrizioni,  am- 
mette la  possibilità  che  un  ovario  venga  modificato  per  l'azione  del 
polline  straniero.  Il  Mendola  si  accosta  alle  idee  del  Planchon,  il 
quale  propende   a    credere  che    il  dimorfismo    sia  un    semplice  caso 


(1)  Citata  dal  Bar.  Mendola  (V.  il  nostro  Giornale  Vinicolo  del  1881,  pag.  460). 

(2)  Nel  suo  saggio  sulle  vigne  dell'Andalusia,  id.  id. 


564  CAPITOLO   XVII 


di  ritorno    di  alcune    qualità  degli  avi,    locchè  si  chiama    ora  ata- 
vismo. 

La  quistione  però  è  molto  controversa,  e  solo  accurate  esperienze 
potranno  risolverla. 


CAPITOLO  XVIII 


Innesto  della  vite, 


1.  Scopo  e  vantaggi  dell'innestare  viti  —  §  2.  La  fillosseronosi  e  l'innesto  — 
§  3.  Innesti  di  varietà  europee  —  §  4.  Innesti  sopra  viti  americane  —  §  5.  Mac- 
chinette per  innestare. 


Tout  icelui  qui  vigne  greffera 
Le  vin  en  dormant  lui  viendra. 
Noslradamus. 


§  1.  Scopo  e  vantaggi  dell'innestare  viti.  —  L'innesto  può 
rendere  servizii  assai  rilevanti  al  viticultore,  permettendogli  non  solo 
di  ridurre  il  suo  vigneto  a  quelle  poche  qualità  che  l'esperienza  e 
gli  studi  fatti  colla  scorta  dell'Ampelografia  gli  vennero  suggerendo 
siccome  le  preferibili  per  qualità  e  quantità  di  prodotto,  nonché  per 
la  resistenza  ai  cattivi  influssi  dell'  atmosfera  e  delle  crittogame,  ma 
altresì  di  ridurre  quasi  sempre,  se  non  sempre,  dall'  un  sistema  di 
di  potatura  ad  un  altro  preferibile  i  proprii  ceppi,  anche  se  attem- 
pati, e  ciò  senza  perdere  totalmente  i  raccolti  pendenti. 

Ciò  riesce  evidente,  per  ragion  d'esempio,  riflettendo  alquanto  sulla 
possibile  trasformazione  d'una  vite  tenuta  ad  uno  o  più  tralci  frut- 
icosi lunghi  e  ad  uno  sperone  legnoso,  siccome  è  il  caso  di  varii 
sistemi  in  uso  in  Sicilia,  in  Piemonte  ed  in  Francia  ove  seguesi  il 
metodo  Guyot.  Suppongasi  di  voler  mutare  una  vite  così  fatta,  anche 
se  vecchia,  al  sistema  senza  sostegni,  cioè  ad  alberello,  alla  latina, 
con  varii  speroni  frutticosi:  —  in  tal  caso  si  pratica  l'innesto,  quella 


566  CAPITOLO  XVIII 


foggia  d'innesto  che  si  ritiene  la  più  conveniente,  in  quei  punti  nei 
quali  si  vuole  stabilire  la  nuova  impalcatura  dell'alberello,  e  la  parte 
della  vecchia  vite  sovrastante  all'innesto  non  si  tocca  punto,  badando 
solo  che  co'  suoi  pampini  non  ombreggi  di  troppo  la  cacciata  del- 
l'innesto stesso.  Alla  potatura  la  parte  vecchia  suddetta  si  tratterà 
come  al  solito,  seguendo  il  sistema  locale,  e  ciò  per  non  perdere  il 
prodotto  durante  così  fatta  transizione  di  sistema;  —  frattanto  i  getti 
dell'innesto  si  taglieranno  a  speroni  con  una,  due  o  tre  gemme  a 
seconda  delle  circostanze,  e  ciò  finché  dopo  un  paio  d'anni  non  in- 
comincino a  dar  frutti,  nel  qual  caso  si  recide  nell'atto  del  potare 
la  parte  vecchia  sovrastante,  lasciando  a  sé  l'alberello,  allora  quasi 
perfettamente  formato. 

Con  questo  metodo,  cioè  lasciando  sopra  l'innnesto  l'antico  sistema 
aereo  del  vegetabile,  non  solo  si  ha  il  vantaggio  rilevantissimo  di 
non  perdere  il  prodotto  durante  la  transizione,  ma  si  coopera  pure 
al  buon  esito  dell'innesto  stesso;  il  quale  è  ben  lungi  dall'essere  dan- 
neggiato, come  potrebbe  parere  così  a  primo  aspetto,  dal  lavoro 
d'assorbimento  delle  parti  verdi  che  gli  stanno  sopra  nel  soggetto. 
Queste  parti  anzi,  mantenendo  sempre  attivo  il  movimento  del  succo 
nel  soggetto  stesso,  aiutano  sensibilmente  l'innesto;  per  certe  piante, 
ad  esempio  per  l'olivo,  ciò  è  quasi  una  necessità  e  si  usa  quindi  ri- 
tardare il  taglio  di  quanto  è  collocato  al  disopra  dell'innesto,  sino  a 
che  il  germolio   dell'innesto  stesso  non  sia  sufficentemente   sviluppato. 

Tuttavia  non  si  dovrà  andare  agli  eccessi  ;  poiché,  come  già 
accennammo,  la  parte  superiore  della  pianta  può,  se  folta,  recare 
danno  coll'ombra  alla  parte  sottostante:  quindi  l'utilità  di  un  oppor- 
tuno diradamento. 

Ma  a  questi  vantaggi  dell'innesto,  che  sono  pur  grandi,  se  ne 
deve  oggi  aggiungere  un  altro,  forse  più  importante  ancora;  ad  esso 
dedicheremo  il  paragrafo  seguente. 

§  2.  La  fìllosseronosi  e  P  innesto.  —  Esistono  viti,  fra  le 
specie  del  Nord  America,  le  quali  godono  della  preziosa  proprietà 
di  resistere  agli  attacchi  della  fillossera;  ma  queste  viti  non  produ- 
cono, generalmente  parlando,  vini  di  grandi  pregi:  era  quindi  natu- 
rale che  si  pensasse  a  trarre  partito  di  quella  proprietà,  per  quanto 
riguarda  il  sistema  sotterraneo  della  vite,  cercando  in  pari  tempo 
di  modificare  il  sistema  aereo,  per  ottenere  uva  adattata  agli  usi  e- 
nologici  quale  si  richiede  nel  vecchio  continente. 


INNESTO  DELLA  VITE  567 


Di  qui  nacque  le  così  detta  vite  bimembre,  la  quale  risulta  da 
una  vite  europea  innestata  sopra  una  vite  americana.  La  vite  non 
si  può  innestare  che  sopra  la  vite,  e  tutti  gli  innesti  che  furono 
tentati  sul  gelso,  sulle  viti  vergini  ecc.  non  diedero  alcun  risultato. 
Adunque  bisogna  attenersi  alle  viti  americane,  le  quali,  tutte  quante, 
eccettuato  lo  Scuppernong,  possono  portare  l' innesto  delle  nostre 
viti.  È  vero  che  le  esperienze  fatte  in  Francia  non  hanno  per  anco 
stabilito  quali  fra  le  viti  d'America  siano  in  modo  assoluto  le  pre- 
feribili; ma  per  intanto  sono  ricercatissime  le  Riparia  (anticamente 
Cordifolia)  massime  perchè  si  moltiplicano  facilmente  per  talea:  sono 
pure  ottimi  porta-innesti  certi  Aestivalis,  quali  lo  Jacquez,  il  Cunnin- 
gham  e  l'Herbemont.  Fra  i  detti  Riparia  si  deve  dare  la  preferenza 
alla  Riparia  selvatica  (anticamente  Cordifolia  selvatica). 

Alle  viti  bimembri  furono  fatte  molte  obiezioni;  ma  i  fatti  dimo- 
strarono, e  lo  dimostrano  tuttora,  che  esse  non  avevano  fonda- 
mento. Si  incominciò  a  dire  che  la  parte  interrata  (soggetto)  e  quella 
fuori  terra  (marza)  dovevano  finire  col  dar  luogo  ad  un  solo  in- 
dividuo, di  mediocre  resistenza  alla  fillossera  e  produttore  di  me- 
diocre uva;  invece  l'esperienza  dimostrò  che  vi  ha  bensì  vita  comune 
fra  il  soggetto  e  la  marza,  ma  nulla  di  più,  perchè  ciascuno  di  essi 
conserva  la  sua  individualità  nel  modo  più  assoluto,  onde  il  sistema 
radicale  si  mantiene  resistente  alla  fillossera,  ed  il  sistema  aereo  si 
conserva  buon  produttore  di  uva,  come  se  fosse  franco  di  piede.  Il 
sig.  Champin,  tanto  autorevole  per  lunga  pratica  in  fatto  d'innesti, 
disse  giustamente  essere  il  succo  che  cambia,  e  non  la  cellula;  è 
dello  stesso  avviso  il  Prof.  Planchon,  il  quale  osserva  che  «  le  cel- 
lule in  contatto,  le  une  del  soggetto  e  le  altre  del  nesto,  si  saldano 
per  reciproca  produzione  di  cellule  interposte,  continuando  però  cia- 
scuna a  vivere  da  sé,  ed  utilizzando  a  suo  modo  i  materiali  che  te- 
neva in  riserva,  e  quelli  addotti  dal  succo  ascendente  e  sopratutto 
dal  succo  discendente  (1)  ». 

In  seguito  si  obbiettò  che  essendo  la  radice  americana,  l'uva  a- 
vrebbe  contratto  il  disgustoso  sapore  volpino  (foxé)  di  molte  uve  del 
Nord  America:  ma  an^he  qui  i  fatti  vennero  a  dimostrare  in  molo  evi- 
dente, che  ciò  era  falso;  d'altronde,  come  ben  osserva  il  sig.  Champin, 


(1)  Veggasi  il  lodatissimo  Trattato  dell'innesto  della  vite  di  A.  Champin,  tra- 
dotto dal  nostro  egregio  dott.  Cavazza,  Direttore  della  Scuola  di  Enologia  e  Viti- 
coltura di  Alba  (pag.  31). 


5(58  CAPITOLO   XVIII 


qualsiasi  pianta  innestata  sovra  un'  altra,  conserva,  senza  eccezione, 
tutte  le  qualità  che  possedeva  essendo  franca  di  piede.  Anche  la 
maggiore  o  minore  precocità  della  vite  americana  che  fa  da  porta- 
innesto  non  si  trasmette  alla  vite  europea  innestatavi  sopra;  se  questa 
è  tardiva,  locchè  è  prezioso  quando  si  temono  i  geli,  essa  si  serberà 
tardiva,  quand'anche  il  soggetto  americano  fosse  dei  più  precoci. 
«  Piantate,  dice  il  sig.  Champin,  attorno  ad  un  vecchio  ceppo  no- 
strano i  portinnesti  americani  più  precoci  e  più  tardivi,  innestateli 
tutti  con  tralci  di  quel  ceppo,  e  vedrete  tutta  questa  famiglia  ger- 
mogliare, fiorire  e  maturare  all' unissono,  come  se  tutti  i  tralci  fos- 
sero ancora  attaccati  al  ceppo  materno.  (1)  »  —  V'ha  di  più  ancora: 
da  esperienze  fatte  alla  Scuola  di  Mompellieri  dai  signori  Foéoc  e 
Gavazza,  è  risultato  che  le  foglie  di  Aramon  franco  di  piede,  come 
quelle  di  Aramon  innestato  sulla  vite  americana  Herbemont,  evapo- 
rano, a  parità  di  tempo,  la  stessa  dose  di  acqua,  mentre  le  foglie 
dell'Herbemont  nelle  medesime  circostanze  non  ne  evaporano  che  la 
metà,  Infine  questi  fatti,  ed  altri  molti  che  qui  ommettiamo  per  bre- 
vità rimandando  il  lettore  ai  trattali  speciali  sugli  innesti,  dimo- 
strano in  modo  irrefutabile  che  la  varietà  innestata  non  si  lascia 
per  nulla  intaccare  dai  succhi  del  portinnesto. 

Ma  altre  obbiezioni  ancora  vennero  fatte  alla  vite  bimembre,  con- 
siderando la  possibile  influenza  della  vite  europea  sulla  vite  ameri- 
cana portinnesto:  si  disse  sovratutto  che  la  non-resistenza  di  quella 
sarebbe  come  discesa  a  poco  a  poco..'...  sino  alle  radici,  onde  il  sog- 
getto avrebbe  finito  col  mutarsi  in  una  vite  soggetta  alla  fillossero- 
nosi.  Ora,  questa  obbiezione  non  ha  in  fatto  alcun  valore;  il  soggetto 
è  al  riparo  dalle  influenze  della  marza,  quanto  questa  da  quello,  come 
abbiamo  testé  dimostrato.  «  Bisognerebbe  supporre,  dice  Champin, 
che  l'innesto  non  fosse  che  un  mezzo  innesto,  funzionante  dal  basso 
all'alto  senza  più  esistere  dall'alto  al  basso;  bisognerebbe  ammettere 
che  le  cellule,  le  quali  trasformane  in  modo  totale  il  succo  ascendente, 
cessassero  di  funzionare  quando  il  succo  si  mette  a  discendere  (2)  ». 
E  il  sig.  Champin  cita  numerosissimi  fatti  a  comprovare  l'assurdità 
di  questa  tesi,  ed  a  dimostrare  invece  che  nella  stessa  maniera  che 
la  resistenza  dei  tralci  americani  non  discende  alle  radici  europee  a 
traverso  l'innesto,  così    la  non-resistenza,    se    è  lecito    esprimersi  in 


(1)  Op.  cit.  pag.  62. 

(2)  Op.  cit.  pag.  67. 


INNESTO   DELLA  VITE  569 


questa  maniera,  delle  viti  europee  non  esercita  alcuna  influenza  sul 
soggetto  americano. 

Ma  dopo  le  censure,  dobbiamo  lasciare  posto  alle  lodi. 

Le  viti  bimembri,  oltre  alla  preziosa  proprietà  di  resistere  alla  fil- 
lossera, sono  più  vigorose  e  più  feconde  di  quelle  franche  di  piede: 
certi  soggetti  americani,  quali  il  Cunningham,  le  Riparie  selvaggie, 
il  Vietila  ed  il  Taylor,  hanno  una  grande  ricchezza  di  succo  ed 
una  forte  tendenza  alla  produzione  legnosa;  ma  tale  esuberanza,  mo- 
dificata dall'innesto  (nella  stessa  guisa  che  agiscono  la  torsione  e  lo 
strozzamento)  e  diretta  dalla  potatura,  genera  insieme  rapida  preco- 
cità e  meravigliosa  abbondanza  di  frutti  (1).  E  questo  è  c<  nfermato 
da  numerosi  fatti. 

Le  viti  bimembri  sono  quindi  un  preziosissimo  acquisto  della  odierna 
viticultura,  che  è  oggidì  alle  prese  con  un  malanno  tanto  grave 
quale  è  la  fìllosseronosi. 

§  3.  Innesti  di  varietà  europee.  —  Fra  i  migliori  metodi 
d'innesto  seguiti  dai  nostri  viticultori,  benché  su  piccola  scala,  prima 
ancora  della  invasione  fillosserica,  noteremo  quello  a  spacco,  quello 
ad  occhio,  quello  per  approssimazione  e  quello  a  pinolo.  L'innesto 
a  spacco  è  certo  fra  i  primi,  quantunque  per  esso  si  perda  il  pro- 
dotto: —  quello  ad  occhio,  Y  altro  per  approssimazione  ed  infine 
l'innesto  che  dicemmo  a  pinolo,  sono  pure  raccomandabili,  sia  perchè 
non  portano  seco  una  perdita  nel  prodotto,  sia  perchè  rappigliano 
generalmente  bene  e  sono  di  facile  attuazione. 

L'innesto  a  spacco  o  a  cuneo  ci  è  rappresentato  dalla  fig.  168.  La 
prima  cosa  a  farsi,  volendosi  innestare  un  ceppo  con  questo  sistema, 
si  è  di  scegliere  in  marzo  delle  marze  o  nuove  talee,  con  tre  gemme 
circa,  di  quella  qualità  che  si  reputa  conveniente  di  diffondere  nel 
vigneto,  e  conservarle  stratificate  nella  sabbia  ed  in  luogo  fresco 
almeno  durante  una  quindicina  di  giorni,  quasi  per  ritardare  lo  svi- 
luppo dei  bottoni.  In  aprile,  od  al  più  tardi  nella  prima  decade  di 
maggio,  come  noi  stessi  facciamo  nelle  nostre  vigne,  si  procede  al- 
l'innesto avvertendo  che  il  piantone  deve  essere  più  innanzi  in  ve- 
getazione che  non  la  marza,  se  si  vuole  che  questa  rappigli. 

Si  scalza  la  ceppaia  come  indica  la  curva  tratteggiata  nella  figura 
168,  si  recide  all'occorrenza  con  una  sega  a  5,  8,  10  centimetri  sotto 


(i)  Op.  cit.  pag.  (35. 


570 


CAPITOLO   XVIII 


il  livello    del  suolo,    si  lisciano    le  ferite   e  poscia  si    spacca  con  un 
coltello  qualsiasi  in  A. 


Ciò  fatto  si  prende  una  marza,  la  quale  come  dicemmo  avrà  tre 
gemme,  e  si  taglia  a  cuneo  o  bietta  ad  una  estremità  in  guisa  da 
avere,  per  una  lunghezza  di  tre  o  quattro  centimetri,  da  un  lato  il 
canale  midollare  scoperto  e  dall'  altro  appena  tolta  la  corteccia  ed 
un  po'  di  legno.  La  bietta  (o  le  biette,  perchè  generalmente  sono 
due,  una  da  un  lato  una  dall'altro)  (1)  si  immette  quindi  nella  spac- 
catura, si  percuote  in  guisa  da  farla  entrare  un  po'  forzata,  si  lega 
il  tutto  ben  stretto  con  salici  o  con  corteccia  di  gelsi,  infine  si  coprono 
le  ferite  con  terra  argillosa  o  meglio  con  un  miscuglio  di  terra, 
acqua  ed  escrementi  vaccini.  Ciò  fatto  si  rincalza  il  ceppo  com'è  in- 
dicato nella  figura  168,  sino  all'ultima  gemma  della  marza,  che  può 
lasciarsi  scoperta,  come    abbiamo  fatto  noi  varie  volte. 

Da  questa  marza  non  si  hanno  frutti  nell'annata:  l'anno  dopo  può 
dare  varii  grappoli,  che  non  costituiscono  però  che  circa  un  terzo 
del  prodotto  ordinario,  e  qui  sta  l'inconveniente  dell'innesto  a  spacco, 
che  però  ha  il  vantaggio  di  essere  di  quasi  sicuro  rappigliamene. 

L'innesto  ad  occhio  è  notissimo,  ma  pure  lo  descriveremo  qui,  a- 


(1)  Nella  figura   169  qui  unita  si  vede  chiaramente  nome  si  taglia  la  marza  A. 
come  si  dispongono  le  due  talee  sul  piantone  U  e  come  si  spacchi  questo. 


INNESTO  DELLA  VITE 


571 


vendovi  recentemente    introdotte  alcune    piccole  ma    importanti  va- 
riazioni. 

Esso  si  fa  sugli  speroni  di  un  anno,  i  più  basso  locati,  speroni 
che  si  potrebbero  serbare  sin  dal  momento  della  scacchiatura,  te- 
nendo intatti  uno  o  due  dei  giovani  rampolli  che  la  vite  suole  cac- 


Fig,  169. 


ciare  dal  vecchio  e  presso  il  suolo.  Questi  germogli  nell'atto  del  po- 
tare si  speronano  a  tre  gemme  e  non  si  innestano  che  alla  succes- 
siva estate  in  giugno,  luglio  od  agosto. 

In  questi  momenti  si  recide  un  bel  getto  dell'annata  di  quel  vitigno 
che  si  vuol  moltiplicare,  si  indi  si  sceglie  una  bella  gemma  all'ascella  di 
una  foglia,  e  mediante  il  coltello  da  innestatore  (fig.  170)  si  incomincia 


Fig.  170. 


col  tagliare  la  foglia  stessa  alla  base  del  proprio  picciuolo.  Poscia, 
appoggiata  la  lamina  del  coltello  sul  getto,  si  esporta  1'  occhio  ap- 
poggiando a  sua  volta  il  getto  sul  pollice  e  guidando  1'  istrumento 
colle  altre  dita  della  mano  destra,  mentre  la  mano  sinistra  tien  fermo 
il  legno.  Il  taglio  deve  essere  fatto  in  guisa  che  di  sotto  al  bottone 


572 


CAPITOLO    XVIII 


che  si  esporta  si  vegga  quella  leggera  protuberanza  carnosa  —  il 
corculum  —  ove  risiede  la  vita  dell'occhio  e  senza  di  cui  l'innesto  è 
impossibile  attecchisca.  Nella  figura  171  abbiamo  in  C  l'occhio  visto 
per  disopra,  ed  in  B  lo  stesso  visto  dalla  parte  del  corculum.  Niente 
di  male  del  resto  se  questo  rimanesse  coperto  da  un  sottilissimo 
strato  di  legno,  che  taluni  anzi  ritengono  utile  al  rappigliamene). 

L'occhio  si  riduce  ad  uno  scudetto  della  lunghezza  di  3  o  4  cen- 
timetri tagliando  via  sopra  e  sotto  il  soprappiù  di  corteccia;  indi  si 
pratica  tostamente  sugli  speroni  citati  un  taglio  in  forma  di  T,  come 
è  indicato  nella  fìg.  172  dove  però,  per  errore  dell'incisore,  si  è  fatto 
il  T  capovolto,  mentre  il  taglio  verticale  va  praticato  di  sotto  e  non 
di  sopra  all'orizzontale,*  che  è  lungo  circa  due  centimetri.  Colla  spa- 
tola B  dell'innestatore  si  alza  allora  la  corteccia  da  ambo  i  lati  del 
taglio  verticale,  indi  vi  si  immette  l'occhio  C  (figura  171)  tenendolo 
nella  posizione  stessa  indicata  dalla  figura,  e  si  spinge  giù  finché 
combaci  coll'alburno  degli  speroni:  poscia  si  lega  con  lana  stretta- 
mente (figura   171,  A). 


K  C 


Fig.  171. 


Nei  legare  sarà  bene,  allo  scopo  importantissimo  di  far  comba- 
ciare il  meglio  possibile  il  corculum  coli'  alburno  degli  speroni,  di 
far  passare  anzitutto  la  lana  sul  gambo  mozzato  della  foglia  alla 
cui  base  stava  la  gemma,  e  stringere  bene  facendo  questi  primi  giri 
di  lana.  Mediante  questa  semplice  avvertenza,  non  conosciuta  che 
da  pochissimi  in  Italia,  e  non  accennata  in  nessuno  dei  bellissimi 
trattati  francesi  sugli  innesti,  si  può  andar  quasi  sicuri  che  l'innesto 
rappiglierà:  si  procuri  quindi  di  non  scordarla. 

Se  tale  innesto  è  fatto  in  giugno  o  luglio,  mette  germogli  nell'anno 


INNESTO    DELLA  VITE  573 


stesso,  e  si  suol  chiamarlo  perciò  innesto  ad  occhio  germog  limite, 
se  per  contro  si  fa  in  agosto  o  settembre  sui  tralci  dell'  annata  i 
più  grossi  e  maturi,  anziché  su  speroni  di  un  anno,  allora  l'innesto 
è  ad  occhio  dormiente,  perchè  sta  tranquillo  sino  alla  susseguente 
primavera,  ed  allora  soltanto  dà  dei  cacchii. 

Un'ultima  avvertenza  importante  per  la  buona  riescita  dell'innesto 
ad  occhio  quella  si  è  di  levare  tutti  i  getti  dell'annata,  subito  dopo 
l' innestamento  degli  speroni,  che  sono  collocati  sotto  al  medesimo, 
lasciando  che  i  succhi  affluiscano  anzitutto  all'innesto  medesimo: 
crescendo  poi  il  cacchio  di  questo,  si  avverta  a  rilassare  la  lana, 
a  fine  di  non  incepparne  la  cresciuta. 

L' innesto  per  approssimazione  si  pratica  valendosi  d'un  tralcio 
d'una  vite  vicina,  il  quale  però  non  si  stacca  da  essa.  Si  inco- 
mincia col  fare  (in  marzo)  un  taglio  nel  legno  vivo  e  sano,  pro- 
fondo circa  un  centimetro,  largo  e  lungo  3  o  4,  sul  tronco  della 
vite  da  innestarsi,  a  quel  punto  dove  si  vorrebbe  cominciasse  l'im- 
palcatura; poscia  si  prende  un  lungo  tralcio  della  vite  prossima,  si 
taglia  un  po'  così  da  scoprire  il  legno  vivo  per  un  tratto  di  2  o  3 
centimetri  di  lunghezza:  ciò  fatto  si  fanno  combaciare,  superpo- 
nendole,  le  due  ferite,  legando  forte  con  vimini  e  coprendole  al  so- 
lito. La  parte  di  tralcio  sporgente  oltre  al  punto  di  contatto  si  po- 
terà a  due  gemme.  L'  anno  dopo  si  «  slatterà  »  il  tralcio,  cioè  lo 
si  reciderà  sotto  l'innesto,  separandolo  dalla  madre;  mentre  la  parte 
superiore,  che  fu  potata  a  due  gemme,  si  poterà  a  due  speroni  con 
due  gemme  cadono.  Mancando  cotale  vite,  si  potrà,  ove  la  cosa  sia 
fattibile,  valersi  d'  un  lungo  magliolo  o  d'  una  barbatella  di  quella 
varietà  che  si  vuole  riprodurre. 

A  tal  uopo,  a  poca  distanza  dalla  ceppaia  che  si  vuol  riformare, 
si  apre  un  fossatello  e  vi  si  sdraiano  il  magliolo,  oppure  la  barba- 
tella. Giunti  a  contatto  della  detta  ceppaia,  si  fa  un  taglio  su  questa 
per  modo  a  torle  la  corteccia  sopra  una  larghezza  e  una  lunghezza 
di  3  o  4  centimetri,  nonché  un  po'  del  legao  sottostante.  Lo  stesso 
si  fa  sul  detto  magliolo  o  sulla  barbatella;  poscia  si  applica  questo 
sul  taglio  della  ceppaia  in  modo  tale  che  le  due  ferite  combacino 
in  tutta  la  loro  estensione. 

Qui  si  fa  una  buona  legatura  con  salice  o  meglio  con  corteccia 
di  gelso,  e  si  cuopre  il  tutto  con  terra  buona  e  fina,  ad  eccezione 
della  punta  del  magliolo  stesso,  cioè  delle  ultime  due  gemme.  Si  ter- 
mina infine,  comprimendo  leggermente  la  terra  attorno  al  medesimo, 


574  CAPITOLO  XVIII 


L'operazione  devesi  fare  in  aprile  o  entro  tutto  maggio:  in  questo 
ultimo  caso  però  si  debbono  usare  maglioli  che  siansi  conservati 
sotterra  in  sito  fresco,  e  ciò  per  le  ragioni  già  dette  più  sopra. 
Colla  bella  stagione  accade  che  i  due  legni  del  magliolo  e  del 
ceppo,  si  fondono  per  così  dire  insieme;  il  primo  intanto  mette  ra- 
dici, ma  non  deve  assolutamente  essere  troppo  ombreggiato.  Lo  di- 
ciamo per  prova  fattane;  nell'estate  pertanto  sarà  bene  sfogliare  un 
po'  la  vite,  onde  scoprire  e  dar  sole  alla  piantina-innesto. 

Trattandosi  di  barbatella,  il  rappigliamene  è  più  sicuro. 

Frattanto  la  pianta  madre  continua  a  dar  frutti:  quando  la  no- 
vella è  sufficientemente  robusta,  si  recide  la  prima  rasente  l'innesto, 
e  per  tal  maniera  nulla  o  quasi  nulla  va  perduto. 

La  fig.  173  qui  unita  mostra  l'innesto  per  approssimazione  d'un 
magliolo  A-B.  Si  è  supposta  una  vite  senza  sostegni,  innestata  con 


Pier.  173. 


tal  metodo  :  il  lettore  capirà  di  leggieri  che  la  cosa  non  può  cangiare 
di  molto  anche  trattandosi  d'un  ceppo  educato  con  un  altro  sistema. 
Il  magliolo  A  passa  sotto  la  legatura  B,  e  si  prolunga  in  linea 
retta  fra  i  4  speroni  del  ceppo,  siccome  chiaramente  si  vede  nel  di- 
segno. È  chiaro  che  quando  il  magliolo  ha  ben  rappigliato  e  si  è  fatto 
robusto,  esportando  il  vecchio  si  hanno  due  risultati  notevoli:  la  rin- 
novazione della  vite  talvolta  decrepita  senza  perdere  il  prodotto  ed  il 
cangiamento  nella  qualità  del  vizzato,  talvolta  scadente  e  pocopro 
duttivo. 

Infine  l'innesto  a  piuolo  si  fa  quando  la  vite  incomincia  a  pian- 
gere e  si  adoperano  delle  marze  preparate  come  dicevamo  testé  per 


INNESTO    DELLA  VITE  575 


l'innesto  a  cuneo.  Con  un  ferro  ben  affilato  si  fa,  in  direzione  dal- 
l'alto in  basso,  un  foro  rotondo  (che  deve  andare  sino  al  midollo) 
sulla  parte  più  sana  del  tronco  e  meglio  adattata  per  servir  di  punto 
di  partenza  della  nuova  impalcatura;  intanto  si  prepara  pure  a  foggia 
piccolo  piuolo  la  marza,  procurando,  nell'  infiggerla  nel  foro,  che  lo 
chiuda  bene.  Questa  marza  si  pota  a  due  gemme,  e  l'innesto  si  copre 
accuratamente  con  mastice. 

§  4.  Innesti  sopra  viti  americane.  —  L'innesto,  studiato  nei 
suoi  rapporti  colla  quistione  fillosserica,  ha  fatto  escogitare  nume- 
rosissime foggie  d'innesti,  che  il  lettore  troverà  descritte  minuta- 
mente e  chiaramente  nel  prezioso  trattato  del  sig.  Champin,  nostro 
maestro  in  questa  materia.  Qui  ci  limiteremo  a  descriverne  alcune 
fra  le  principali. 

Dopo  un  anno  dal  piantamento  della  vite  americana,  se  la  pian- 
ticella ha  un  diametro  sufficiente  si  può  innestarla  mercè  V  innesto 
a  spacco  inglese,  perchè  si  può  giungere  così  ad  avere  uva  sin  dal 
terzo  anno  a  partire  dal  momento  in  cui  si  piantò  la  talea. 

La  figura  174  ci  mostra  come  si  opera  questo  innesto:  il  sog- 
getto si  taglia  a  cuneo  al  livello  del  suolo,  poi  si  ritaglia  di 
nuovo  verticalmente  verso  il  terzo  superiore  del  suo  diametro:  si 
hanno  così  due  linguette.  L'innesto  (cioè  il  pezzo  di  ramo  della  va- 
rietà europea)  si  taglia  pure  nello  stesso  modo,  come  lo  indica  chia- 
ramente il  disegno.  Ciò  fatto  si  introduce  la  linguetta  più  breve  del- 
l'innesto nella  spaccatura  verticale  del  soggetto,  e  si  lega  con  forza, 
massimamente  se  l'innesto  è  più  piccolo  del  soggetto.  Si  deve  poi 
badare  bene  a  che  le  corteccie  dei  due  pezzi  (l'innestone  ed  il  soggetto) 
coincidano  bene,  almeno  da  un  lato.  I  sarmenti  che  voglionsi  far 
servire  per  innesto  devono  essere  scelti  sovra  una  ceppaia  sana  e 
fertile,  essere  poco  ricchi  di  midollo,  avere  belle  e  turgide  gemme 
ed  uno  sviluppo  medio:  si  trovano  tali  scegliendoli  su  ceppaie  vecchie 
ma  sane:  i  sarmenti  di  piante  giovani  non  rappigliano  che  difficilmente. 
Questi  sarmenti  poi  devono  essere  in  ritardo,  in  quanto  a  vegeta- 
zione, relativamente  al  soggetto;  bisogna  dunque  raccoglierli  prima 
che  siasi  manifestato  il  movimento  dei  succhi  nella  vite  madre:  il  mese 
di  febbraio  è  spesso  inopportuno;  bisogna  operare  alla  fine  di  gen- 
naio al  più  tardi.  I  sarmenti  appena  raccolti  si  devono  recare  in  can- 
tina, e  sotterrarli  nella  sabbia,  acciò  ne  si  dissecchino  né  si  alterino 
per  soverchio  umidore:  quando  si  vuole  fare  l'innesto  si  levano  dalla 


576 


CAPITOLO  XVIII 


sabbia  e  si  opera  subito,  senza  di  che  si  disseccherebbero  pronta- 
mente. 

Per  riconoscere  se  i  sarmenti  hanno  o  non  perduta  la  loro  vita- 
lità (e  risparmiare  così  di  far  un  inutile  innesto)  se  ne  prendono  al- 
cuni qua  e  là  in  cantina,  si  pongono  col  calcio  in  un  vaso  pieno 
d'acqua,  mantenendoli  per  qualche  giorno  al  dolce  calore    solare   (o 


i' 


174. 


in  camera  calda):  se  le  gemme  si  gonfiano  e  se,  tagliato  un  pezzetto 
della  punta  del  sarmento  stesso,  si  vede  l'acqua  trapelare  c^me  quando 
la  vite  piange,  allora  si  può  essere  sicuri  che  tutti  i  sarmenti  o  quasi 
tutti  sono  in  ottime  condizioni. 

L'innesto  Millardet  è  una  modificazione  del  precedente,  ed  è  molto 
usato  in  Francia,  perchè  dà  risultati  che  oscillano  dal  95  al  100 
per  100. 

Si  può  operare  fuori  terra  o  sotto   terra.    I   due   sarmenti  si  ta- 


INNESTO  DELLA  VITE 


,77 


gliano  come  è  indicato  nelle  figure  175  e  176:  il  porta  innesto  si  ta- 
glia a  linguetta  nel  senso  L  A,  e  l'innestone  nel  senso  A  L:  queste 
linguette  alla  loro  base  non  dovranno  avere  uno  spessore  maggiore 
di  3  millimetri,  in  guisa  cioè  da  raggiungere  il  midollo  senza  oltre- 


Fisr.  175 


Fig.  176. 


Fio- "177. 


passarlo. f  Come  risulta' dal  disegno  la  parte  esterna  delle  linguette  è 
privata  d'una  lista  di'corteccia  e  d'un  poco  di  legno,  il  che  si  vede 
bene  in  L  nella  fig.  175. 

L'innestone  fig.  176  può  essere  o  la  varietà  europea,  quando  si  in- 

0.  Ottavi,    Trattato  di  Viticoltura.  38 


578 


CAPITOLO  XVIII 


nesta  su  vite  americana  resistente  —  oppure  una  buona  qualità  d'uva 
nostrana,  quando  si  innesta  su  una  mediocre  qualità  europea.  —  Le 
linguette  si  fanno  poi  entrare  nei  tagli  come  indica  chiaramente  la 
fìg.  177  e  si  procura  che  i  due  legni  siano  bene  a  contatto;  poi  si 
lega  con  forza  e  si  applica  il  mastice  da  innesto. 

Il  punto  d'innesto  si  ricopre  con  alcuni  centimetri  di  terra:  l'anno 
seguente  si  taglierà  da  un  lato  la  parte  inferiore  dell'innestone,  e 
dall'altro  la  parte  superiore  del  porta  innesto,  ed  ecco  tutto. 

Per  i  porta-innesti  o  soggetti  d'una  certa  età,  e  per  conseguenza 
d'un  diametro  abbastanza  grande,  conviene  però  meglio  V innesto  a 
spacco  ordinario,  analogo  al  già  descritto,  rappresentato  dalle  qui 
unite  figure  178  e  179. 


Fig.  178. 


Piar.  179. 


Per  praticare  questo  innesto  si  incomincia  dallo  scalzare  il  pian- 
tone o  soggetto  (fìg.  178)  per  facilitare  il  lavoro,  poscia  lo  si  recide 
alla  profondità  di  2  a  3  centimetri  sotto  il  livello  del  terreno  e  si 
rinfresca  la  ferita  mercè  un  falcetto,  dal  lato  ove  deve  essere  col- 
locato l'innestone  cioè  la  marza.  Ciò  fatto  si  pratica  la  spaccatura  o 
mediante  un  forbicione,  oppure  mediante  il  falcetto  stesso  se  il  sog- 
getto non  è  troppo  forte.  Quando  il  diametro  di  quest'ultimo  è  pic- 
colo, si  fa  il  taglio  soltanto  sopra  un  lato  (figura.   178,  b);  invece 


INNESTO   DELLA  VITE 


579 


quando  esso  diametro    è  sufficientemente    lungo,  si    opera  come    in 
a  fig.   178. 

L'innesto  o  marza  deve  avere  tre  occhi,  e  si  taglia  foggiato  a 
lama  di  coltello,  come  lo  indica  la  fig.  179,  avvertendo  che  nel  ta- 
gliarlo si  deve  partire  dalla  base  della  gemma  più  bassa,  facendo  così 
due  tagli  a  bietta,  o  cuneo,  uno  opposto  all'altro.  Per  quanto  è  pos- 
sibile si  deve  qui  evitare  di  mettere  a  nudo  il  midollo  dai  due  lati, 
affinchè  la  parte  assotigliata  conservi  uua  maggior  solidità. 

L'innesto  vien  poscia  cacciato  con  forza  nello  spacco  suddetto,  av- 
vertendo a  dargli  una  certa  inclinazione  (veggasi  la  fig.  178)  verso  il 
centro  del  soggetto;  e  questo  si  fa  acciò  vi  sia  sempre  un  punto  in 
cui  le  corteccie  si  taglino  malgrado  l'inuguaglianza  del  loro  spessore. 

Infine,  si  toglie  via  il  forbicione,  il  quale  aveva  servito  a  tener 
aperta  la  spaccatura  permettendo  l'introduzione  della  marza. 

Nelle  stesse  condizioni  si  può  anche  adottare  il  così  detto  innesto 
alla  Ponto ise  (fig.  180)  che,  come  apprendiamo  dal  sig.  Fcèoc,  differisce 


mg.  i8o. 


dal  precedente  in  ciò,  che  invece  di  spaccare  il  soggetto,  vi  si  pra- 
tica, come  ben  lo  indica  il  disegno,  una  specie  di  escavazione  dentro 
cui  cacciasi  la  marza:  questo  foro  si  pratica  generalmente  con  una 
sgorbia  a  lama  angolare.  Fatto  l'innesto  bisogna  legarlo  con  forza, 
per  far  combaciare  bene  la  marza  col  soggetto:  a  tal'uopo  si  ado- 
pera lo  spago  o  la  rafia  del  Giappone.  Quest'ultimo  sistema  è  molto 


580  CAPITOLO  XVIII 


economico  e  si  ha  una  legatura  assai  solida;  però  siccome  nelle  an- 
nate umide  la  rafia  passa  in  putrefazione  con  facilità,  bisogna,  prima 
di  adoperare  quel  legaccio,  immergerlo  in  un  bagno  di  solfato  di  rame. 
Fu  proposto  anche  il  filo  di  ferro;  ma,  se  si  eccettua  il  caso  di  in- 
nesti che  non  ingrossano  molto  al  primo  anno,  esso  ha  il  difetto  di  non 
prestarsi  all'aumento  di  diametro  dell'innesto  stesso,  cosicché  spesso 
lo  strangola.  La  lana  poi,  che,  come  tutti  sanno,  è  molto  usitata 
negl'innesti  fuori  terra,  marcisce  troppo  presto  nel  terreno,  a  causa 
dell'umidità  che  ivi  non  manca  mai. 

Legato  l'innesto  bisogna  coprirlo  con  mastice.  Il  modo  più  sem- 
plice è  quello  di  usare  dell'argilla  impastata:  essa  si  applica,  come 
dice  il  citato  Foèoc,  in  piccola  quantità  sulle  ferite  per  proteggerle  sia 
contro  l'influsso  dell'aria  atmosferica,  sia  contro  l'acqua.  Cotale  ar- 
gilla deve  essere  affatto  priva  di  pietruzze,  in  guisa  da  formare  col- 
l'acqua  una  pasta  fina,  omogenea,  e  che  non  si  fenda  nell'atto  in  cui  si 
impasta.  In  quanto  ai  mastici  resinosi,  che  quasi  tutti  debbono  essere 
adoperati  a  caldo,  generalmente  non  hanno  dato  buoni  risultati. 

L'ultima  operazione  a  farsi  dall'innestatore  è  quella  di  incalzare 
il  soggetto  ammucchiando  la  terra  a  cono  intorno  ad  esso,  sino  a 
lasciare  una  gemma  della  talea  allo  scoperto;  in  questa  rincalzatura 
si  deve  operare  con  molta  delicatezza  per  non  recar  offesa  all'innesto. 

Porremo  termine  a  questo  paragrafo  sull'innesto  delle  viti  europee 
sulle  americane,  accennando  all'innesto  Champin,  a  quello  così  detto 
a  tallone  ed  infine  all'  innesto  a  cavallo.  La  fig.  181  ne  dà  una 
chiara  idea  dell'innesto  Champin:  in  sostanza  si  tratta  di  una  mo- 
dificazione dell'innesto  a  spacco  inglese  che  descrivemmo  a  pag.  575. 
Ecco  come  lo  si  pratica:  —  si  taglia  il  soggetto  orizzontalmente,  cioè 
perpendicolarmente  al  suo  asse,  come  lo  indica  il  disegno;  indi  lo  si 
taglia  o  spacca  in  due  parti  di  disuguale  spessore,  vale  a  dire  che 
si  spacca  circa  verso  i  due  terzi  del  suo  diametro.  La  parte  più 
spessa  si  taglia  a  cuneo  o  bietta,  assottigliandola  sino  all'orlo  supe- 
riore della  spaccatura,  come  lo  indica  il  disegno  che  sta  nella  parte 
mediana  della  fig.  181.  L'  innesto  vien  tagliato  nella  stessa  guisa, 
e  ciò  pure  si  vede  nella  figura.  L'innesto  si  immette  poscia  nella 
spaccatura  del  soggetto,  mercè  la  sua  parte  acuminata  e  tagliata  a 
bietta,  si  lega  con  cura  e  si  stringe,  come  dicemmo  più  sopra,  e  l'o- 
perazione è  finita. 

È  ovvio  il  comprendere  che  questo  metodo  di  innesto  offre  il  van- 
taggio di  poter  essere  applicato  ai  giovani  ceppi  di  vite,  il  cui  dia- 


INNESTO  DELLA  VITE 


581 


metro  non  oltrepassa    sensibilmente  quello    dei  sarmenti    destinati  a 
servire  di  innesto. 

Si  può  operare  in  casa,  accanto  al  fuoco,  au  coin  du  feu,  dice 
Champin,  innestando  barbatelle,  o  le  stesse  talee,  durante  l'inverno 
e  facendo  così  moltissimo  lavoro;  solo  si  avrà  allora  l'attenzione  di 
ricoprire  gli  innesti  con  un  buon  strato  di  sabbia,  man  mano  che  si 
vanno  preparando,  tenendoli  nella  sabbia  fino  al  momento  del  loro 
trapiantar!  entò. 


Fig.  181. 


Innesto  a  tallone.  —  Ce  lo  mostra  già  eseguito  la  figura  183. 
Si  opera  nel  seguente  modo  :  il  soggetto  si  taglia  come  dicemmo 
per  l'innesto  a  spacco  ordinario,  poi  si  sceglie  un  innestone  (ammet- 
tendo che  si  possa  così  chiamare  la  marza)  di  vite  americana  un 
po'  ricurvo  e  munito  di  un  tallone,  come  ben  si  vede  nella  fig.  183. 


582 


CAPITOLO  XVIII 


Questo  innestone  deve  assottigliarsi  nella  sua  parte  centrale  e  sulle 
sue  due  faccie,  in  forma  di  lamina  di  coltello,  così  come  lo  in- 
dica la  figura  182.  Ciò  fatto  lo  si  inserisce  nello  spacco  del 
soggetto  (figura  183)  in  modo  tale  che  le  corteccie  coincidano  bene 
fra  di  loro  e  che  il  tallone  si  trovi  in  una  condizione  favorevole 
per  gettar  radici. 


Fig.  182. 


Fig.  183. 


Con  questo  sistema  si  utilizza  il  resto  di  vitalità  delle  ceppaie  fìl- 
losserate,  ma  ancora  in  discreto  stato,  per  la  pronta  produzione  di 
legno  americano,  e  si  riesce  a  far  rappigliare  le  talee  di  certe  va- 
rietà resistenti  americane,  le  quali  altrimenti  non  getterebbero  ra- 
dici. Gli  è  sotto  questo  aspetto  che  si  raccomanda  questo  innesto  a 
tallone,  il  quale  può  farsi  o  su  soggetto  europeo  o  sovra  americano; 
in  quest'ultimo  caso,  dopo  la  ripresa  dell'innesto,  si  ha  un  soggetto 
che  continua  a  far  corpo  colla  talea  che  ha  barbicato,  e  sviluppan- 
dosi con  essa,  aumenta  d' altrettanto  il  suo  sistema  radicale.  Ma, 
come  dice  Cliampìn,  mancando  il  soggetto  americano,  si  può  benis- 
simo utilizzare  un  soggetto  europeo,  dovesse  anche   il  suo  concorso 


INNESTO  DELLA  VITE 


583 


temporaneo  limitarsi  a  nutrire  le  talee  innestatevi  sopra  durante  i 
primi  momenti,  cioè  fino  a  tanto  ohe  non  abbiano  emesso  radici 
proprie. 


Fig.  I84. 


Questo  innesto  si  può  fare  anche  sulle  radici,  scalzando  il  ceppo: 
ma  Champin  non  lo  consiglia. 

Innesto   a   cavallo.    La    figura  184    lo  mostra  già    eseguito,  ma 


584  CAPITOLO   XVIII 


senza  la  legatura,  per  maggior  chiarezza.  Si  eseguisce  ordinariamente 
presso  il  suolo  su  giovani  viti  con  radici,  cioè  su  barbatelle,  le  quali 
tagliansi  a  cuneo  dal  basso  in  alto;  si  spacca  quindi  la  marza  alla 
sua  base  C  C,  e  così  si  sovrappone  al  cuneo.  Questo  innesto  non  è  a 
raccomandarsi  là  dove  tirano  forti  venti,  perchè  questi,  nonostante  la 
legatura,  scuotono  la  marza  e  ne  impediscono  la  saldatura  col  sog- 
getto. 

§  5.  Macchinette  per  innestare.  —  Queste  macchinette,  o 
innestatoi,  furono  ideate  allo  scopo  di  facilitare  la  manualità  dell'in- 
nesto e  di  permettere  cosi  una  certa  economia  di  tempo  e  di  spesa. 
Simili  innestato.)  si  devono  quasi  tutti  ai  Francesi;  ultimamente  però 
ne  veniva  ideato  uno  molto  ingegnoso  da  un  meccanico  italiano,  del 
quale  diremo  in  ultimo:  descriveremo  ora  alcune  macchinette  usate 
nel  Mezzogiorno  della  Francia  e  nella  Gironda  (1). 

«  Macchina  Petit.  Una  fra  le  prime  macchine  inventate,  e  non 
per  questo  la  meno  perfetta,  è  quella  dell*  ing.  Augusto  Petit  di 
Toulenne-Langon  (Gironda). 

Questa  macchina  si  compone  (fig.  185)  di  un  piano  di  ghisa  A  B, 
che  si  può  fissare  per  mezzo  di  viti  all'orlo  di  una  tavola,  sul  quale 
è  imperniata  una  leva  orizzontale  AE  munita  di  un  manico  E  e 
portante  due  lame  C  e  D;  questa  leva  è  guidata  nel  suo  movimento, 
che  deve  essere  costantemente  nello  stesso  piano,  da  un  settore  cir- 
colare FG.  La  lama  D  è  simile  alla  lama  di  una  pialla;  le  sta  di 
contro  un  pezzo  di  ghisa  H  di  cui  vedesi  sotto  alla  prima  figura 
il  disegno  in  più  grande  scala,  in  prospettiva;  questo  pezzo  è  limi- 
tato da  una  superficie  storta,  a  b  e  d,  che  pende  dal  di  dietro  in 
avanti  e  da  sinistra  a  destra;  è  su  questa  superficie  che  si  appoggia 
il  sarmento  per  tagliarlo  a  imboccatura  di  clarinetto  con  la  lama  D; 
il  sarmento  si  pone  verso  destra  o  verso  sinistra  a  seconda  che  è 
più  grosso  o  più  sottile;  per  fare  poi  in  modo  che  non  scorra  sotto 
l' impulso  della  lama  D,  che  lo  deve  tagliare,  esso  viene  a  toccare 
contro  la  faccia  verticale  e.  Il  pezzo  H  può  essere  regolato  per 
mezzo  di  quattro  viti  di  livello  e  di  due  viti  a  prigioniero  che  pos- 
sono strisciare  in   due  scanalature   praticate  nella  base  di  ghisa,  in 


(1)  Veggasi  la  eccellente  Guida  pratica  per  la  ricostituzione  dei  vigneti  italiani 
(Firenze  1883)  dell'egregio  sig.  V.  Vannuccini,  ove  sono  descritti  molti  di  questi 
innestatoj.  Da  essa  togliamo  le  notizie  ed  i  disegni  qui  riprodotti. 


Innesto  della  vite 


585 


modo  che  il  taglio  della  lama  D  venga,  alla  fine  della  corsa  della 
leva  AE,  ad  affiorare  la  linea  a  b.  Nulla  dunque  di  più  semplice 
che  effettuare  il  taglio  del  sarmento  con  questa  macchina.  Per  ope- 
rare la  fenditura  del  detto  sarmento  serve  la  lama  C  che  ha  il 
taglio  analogo  a  quello  di  un  coltello  comune  e  che  si  muove,  per 
V  intermediario  della  solita  leva  AE,  sopra  un  pezzo  I,  simile  per 
forma  al  pezzo  H;  il  sarmento  che  ha  subito  il  primo  taglio  viene 
mantenuto  sul  pezzo  I,  mentre,  tirando  indietro  la  leva,  la  lama  C 
ne  opera  la  fenditura. 


Fig.  185. 


Tanto  la  lama  C  quanto  la  lama  D  sono  fissate  alla  leva  per 
mezzo  di  viti,  onde  poterle  rimuovere  per  cambiarle  o  per  affilarle. 

La  macchina  che  abbiamo  descritta  è,  come  si  comprende,  sem- 
plice e  solida;  i  tagli  che  dà,  a  condizione  bene  inteso  di  tener  le 
lame  bene  arruotate,  sono  netti  e  diritti;  è  inoltre  di  una  manovra 
facilissima,  in  modo  che  dopo  una  pratica  di  poche  ore  1'  operaio  il 
più  novizio  può  eseguire  innesti  perfettissimi,  alla  pari  del  più  con- 
sumato innestatore.  Costa  35  franchi  in  Francia  e  in  Italia  40  lire.  » 

Guida-revolver  di  Breoier  F.  da  Bouziques  (Hérault).  Chia- 
mansi  guide-revolver  certe  macchinette  le  quali  servono  ad  eseguire 


>86 


CAPITOLO  XVIII 


l'innesto  sul  posto,  e  più  propriamente  a  guidare  il  taglio.  La  guida 
di  Brevier  (fig.  186)  si  può  però  anche  adoperare  per  l'innesto  in  casa, 


Fig.  180. 


(pag.  581)  quando  venga  fissata  ad  un  tavolo:  «  essa  è  composta  di  cinque 
tubi  di  diverso  diametro,  tagliati  a  imboccatura  di  clarinetto;  la  parte 
posteriore  di   ciascun  tubo    è  formata  di    due  parti    riunite    da  due 


INNESTO  DELLA  VITE 


587 


molle  di  acciaio,  in  modo  che,  allontanando  Funa  dall'altra,  si  apre 
una  fenditura  corrispondente  a  quella  che  si  vuol  praticare  sopra  il 
sarmento.  La  manovra  di  questo  apparecchio  è  facilissima  a  com- 
prendersi; infatti,  basta  introdurre  il  sarmento  nel  tubo  di  diametro 
corrispondente  e  quindi,  facendo  scorrere  la  lama  di  un  coltello  sulla 
sezione  obliqua  del  tubo,  operare  il  taglio  del  detto  sarmento;  poi 
introducendo  la  lama  nella  fenditura  e  forzandola  tra  le  due  parti 
del  tubo,  eseguire  lo  spacco  longitudinale  del  sarmento. 

Questo  istrumento  costa  18  franchi;  con  un  sopporto  che  permette 
di  fissarlo  ad  una  tavola  costa  franchi  21;  e  franchi  22  con  un  col- 
tello in  più.  » 

«  Macchina  Trabitc.  —  È  questa  la  prima  macchina  costruita 
per  eseguire  l'innesto  sul  posto  (fig.  187). 


Fig.  187. 


Il  sarmento  è  preso  tra  due  manichi  DD\  articolati  in  H  come 
quelli  di  uno  schiaccianoci,  e  collocato  nella  scanalatura  di  un  pezzo 
B,  tagliato   ad  ugnatura,    fissato  perpendicolarmente    al  manico  D', 


088  CAPITOLO  XVIII 


due  cuscinetti  di  gomma  impediscono  che  il  sarmento  venga  ammac- 
cato nella  compressione  dei  manichi  DD\  Un  pezzo  C,  articolato  in 
basso  col  manico  D  e  traversato  superiormente  dallo  spillo  a,  che 
è  fisso  al  pezzo  B,  assume  diverse  inclinazioni  a  seconda  dell'aper- 
tura dei  manichi  DD'  e  serve  di  guida  alla  lama  A  di  un  coltello 
a  doppio  tagliente.  Questo  coltello  è  manovrato  per  mezzo  di  un  ma- 
nico F  che  è  perpendicolare  alla  direzione  della  lama.  Per  rendere 
liberi  i  movimenti  della  lama  A  l'imperniatura  che  rilega  il  coltello 
alla  tanaglia  DW  è  costituita  da  una  snodatura  alla  Cardano  E.  Il 
pezzo  C  serve  di  guida  al  coltello  per  eseguire  il  taglio  del  sarmento: 
taglio  che  viene  eseguito  dal  basso  verso  l'alto.  Ciò  fatto,  il  pezzo 
C  è  tirato  verso  destra,  vincendo  la  tensione  della  molla  C  che  lo 
richiama  verso  il  pezzo  B,  e  cosi  e  liberato  dallo  spillo  a;  può  in 
tal  guisa  essere  rigettato  all'  indietro;  allora,  riabbassando  la  lama 
del  coltello  A  in  modo  che  strisci  sulla  superficie  anteriore  del  pezzo 
B,  si  effettua  la  fenditura  del  sarmento. 

Il  manico  D'  può  esser  fissato  all'  orlo  di  una  tavola,  e  così  si 
può  eseguire  per  mezzo  di  tale  apparecchio  anche  l'innesto  in  casa. 

Questa  macchina,  costruita  dal  sig.  Trabuc  di  Saint  Hyppolite-du- 
Fort  (Gard),  costa  in  Italia  15  lire.  » 

Innestatoio  Pulifici.  —  Descriviamo  ora  l' innestatoio  italiano, 
forse  il  primo  che  sia  stato  ideato  nel  nostro  paese;  esso  si  deve 
al  bravo  meccanico  Pulifici  di  Magliano  Sabino.  La  macchinetta  è 
di  recentissima  invenzione,  ed  è  questa  la  prima  volta  che  se  ne 
parla  per  le  stampe;  dobbiamo  questa  comunicazione  all'egregio  cul- 
tore della  viticultura  Conte  Alberto  Cencelli  Perii  di  Roma,  che 
ha  esperimentato  ripetutamente  l' innestatoio  Pulifici  e  sempre  con 
buon  esito.  Cotale  macchinetta  serve  principalmente  per  le  viti,  ma 
può  adoperarsi  anche  per  gli  alberi  da  frutta  e  per  gli  olivi.  Con 
essa  si  possono  fare,  sulle  viti,  i  sovra  descritti  innesti  inglese, 
Champin,  a  spacco  ordinario,  a  cavallo  ed  alla  Pontoise. 

«  I  tagli  possono  farsi  da  2  a  6  centim.  di  superficie:  la  macchinetta 
eseguisce  i  suddetti  innesti  in  tralci  del  diametro  di  3  a  12  millimetri, 
senza  bisogno  di  cambiare  o  spostare  alcun  pezzo,  perchè  il  re- 
golatore generale  è  automatico.  Inoltre  taglia  la  marza  od  il  sog- 
getto con  una  semplicissima  forbice  ad  esso  annessa,  e  può  adope- 
rarsi a  tavolino  e  sul  posto.  Per  eseguire  gli  spacchi  negli  innesti 
inglese,  Champin,  a  spacco  ed  a  cavallo  si  adopera  la  guida.  Ecco 
ora  la  descrizione  dell'innestatore  (fig.  188  A)  ed  accessori.  L'impu- 


INNESTO  DELLA  VITE 


589 


gnatura  di  quest'innestature  è  simile  a  quella  di  una  forbice  comune 
per  potare.  Allargando  e  stringendo  la  mano  si  mette  in  movimento 
la  bacchetta  graduata  (4)  che  ha  una  corsa  di  centim.  6  1|2  por- 
tante i  numeri  2,  3,  4,  5,  6  ciascheduno  alla  distanza  di  un  centi- 
metro. A  questa  bacchetta  è  fissata  una  lama  tagliente  (l)la  quale, 
stringendo  l'impugnatura,  cammina  verso  un  piano  inclinato  mo- 
bile (2)  fornito  di  un  appoggio  (3)  terminante  in  tre  linguette  le 
quali  formano  un  V  con  una  linguetta  in  mezzo.  Il  numero  (5)  in- 
dica la  forbice  che  si  apre  e  si  chiude  in  seguito  al  movimento  della 


1S8. 


bacchetta.  La  vite  (6)  serve  per  regolare  la  lunghezza  di  superficie 
che  si  vuole  tagliare,  cioè  da  2  a  6  centimetri;  questo  regolatore  si 
può  anche  tralasciare,  perchè  essendo  la  bacchetta  graduata  si  può 
benissimo  regolare  stringendo  più  o  meno  la  mano,  quando  il  tralcio 
da  tagliarsi  è  posto  in  posizione,  fissando  il  numero  nel  punto  ove 
arriva  la  lama  quando  è  chiuso  l'innestatore. 

Per  mezzo  di  un  semplice  appoggio  mobile  si  fissa  sul  tavolo;  tale 
appoggio  si  unisce  all'innestatore  nella  piegatura  dell'  impugnatura, 
ove  è  collocata  la  molla,  per  mezzo  di  una  punta  che  si  fa  entrare 
nel  foro  fatto  appositamente  nella  parte  posteriore  e  sinistra  dell'in- 
nestatore  e  di  un  dente  che  lo  abbraccia  nella  parte  opposta.  Si  stringe 
quindi  la  vite  superiore  per  fermarlo  in  tutti  i  lati. 

La  guida  per  gli  spacchi  (fig.  188,  B)  è  avvitata  ad  un  manichetto  il 


590  CAPITOLO  XVIII 


quale  può  togliersi  qualora  si  voglia  unire  all'innestatore  nel  foro  (7) 
lavorando  sul  posto;  essa  si  potrà  avvitare  sull'  appoggio  adope- 
randola a  tavolino.  Si  compone  da  una  parte  (1)  di  due  alette  a 
forma  di  V  con  lama  tagliente  in  mezzo  per  fare  gli  spacchi  negli 
innesti  a  spacco  ed  a  cavallo,  dall'altra  (2)  di  una  lama  sporgente 
piano-convessa  ed  un'altra  tagliente  che  serve  per  gli  spacchi  nell'in- 
nesto inglese  e  Champin.  Il  disco  (3)  si  adopera  per  stabilire  le  lun- 
ghezze degli  spacchi. 

Per  eseguire  coli'  innestatoio  Pulifici  l'innesto  inglese  e  Champin 
si  taglia  prima  il  tralcio  nella  parte  che  si  deve  innestare  vicino  al- 
l'occhio per  avere  l'internodio  più  lungo,  poi  si  colloca  fra  la  lama  (1) 
ed  il  piano  inclinato  mobile  (2)  spingendo  il  tralcio  verso  l'appoggio  (3) 
procurando  di  avvicinarlo  al  taglio  della  lama.  Giunto  a  questo  punto 
si  chiude  la  mano  con  un  colpo  secco  ed  il  taglio  verrà  regolar- 
mente eseguito.  Il  tralcio  tagliato  ad  unghiatura,  sia  soggetto  o 
marza,  si  spacca  per  mezzo  della  guida  mettendo  la  parte  tagliata 
fra  la  linguetta  a  piano-convesso  e  la  lama  tagliente,  spingendola 
verso  il  manico,  avendo  cura  di  far  strisciare  il  tralcio  dalla  parte 
della  corteccia  sopra  la  linguetta  piano-convessa.  Questa  operazione 
si  eseguisce  nel  punto  più  largo  o  più  stretto  secondo  la  grossezza 
del  tralcio.  Per  l'innesto  Champin  si  taglieranno  colle  forbici  le  punte 
delle  linguette. 

L'innesto  alla  Pontoise  si  eseguisce  come  l'innesto  inglese,  prati- 
cando un  secondo  taglio  col  mettere  il  pezzo  tagliato  sul  piano  an- 
zidetto, in  modo  che  la  superfìcie  tagliata  formi  una  squadra  col 
piano  ove  è  collocato,  oppure  un  angolo  più  acuto  a  piacimento  di 
chi  innesta.  Il  taglio  sul  soggetto  per  porre  l' innestone  potrà  farsi 
con  un  coltello  oppure  con  una  sgorbia  appositamente  costruita. 

Per  tagliare  la  marza  per  Y  innesto  a  spacco  ordinario  si  recide 
il  tralcio  come  per  l'inglese  e  si  pone  sul  braccio  fìsso  al  piano  (2) 
e  la  lama,  facendolo  appoggiare  nella  linguetta  di  mezzo  del  V  (3) 
colla  precauzione  di  spingerlo  verso  la  parte  più  stretta  del  V  stesso 
servendo  di  guida  le  due  alette,  e  ciò  per  ottenere  che,  chiudendo 
l'innestatore,  venga  tagliata  soltanto  una  metà.  Eseguita  questa  prima 
operazione,  si  mette  il  tralcio  siri-  piano  (2)  dalla  parte  già  tagliata, 
accompagnandolo  colla  mano  acciocché  spiani  bene,  e  ripetendo  il 
colpo  si  avrà  tagliata  l'altra  rnttà,  e  la  marza  a  forma  di  zeppa  sarà 
pronta  per  porla  sul  soggetto. 

Per  l'innesto  a  cavallo    si  opera    nell'istesso  modo    sul  soggetto. 


INNESTO  DELLA  VITE  591 


Lo  spacco,  che  dovrà  eseguirsi  tanto  sul  soggetto  per  l'innesto  a  spacco, 
quanto  sulla  marza  per  quello  a  cavallo,  si  farà  colla  guida  dalla 
parte  (1),  la  quale  essendo  a  forma  di  V  con  lama  tagliente  in  mezzo, 
spingendola  contro  la  marza  o  il  soggetto  praticherà  una  spaccatura 
regolare  nel  centro,  avvertendo  di  far  correre  il  tralcio  nella  parte 
più  stretta  delle  due  alette.  » 


CAPITOLO  XIX 


Moltiplicazione  e  rinnovo  della  vite. 


§  1.  Propaggine  —  §  2.  Capogatto  o  infrasconamento  —  §  3.  Provanatura  — 
§  4.  Rinnovo  del  vigneto  esausto  —  §  5.  Nuovo  vigneto  su  vigneto  estirpato 
o  su  bosco. 


§  1.  Propaggine.  —  Già  sappiamo  che  la  vite  può  moltipli- 
carsi per  seme,  per  gemme  o  per  tralci;  in  questo  capitolo  inten- 
diamo però  di  studiare  specialmente  la  moltiplicazione  delle  viti  nel 
vigneto  già  impiantato,  quale  si  pratica  ogni  qualvolta  si  debbono 
riempire  nei  filari  i  vuoti  cagionati  dalla  morte  di  qualche  ceppaia, 
oppure  quando,  come  fanno  taluni,  si  vogliono  formare  nuovi  filari 
fra  quelli  del  primo  impianto. 

La  riproduzione  della  vite  può  allora  ottenersi  mercè  la  propag- 
gine, il  capogatto  o  la  provanatura. 

La  propaggine  consiste  nel  coricare  e  sotterrare  a  25  o  30  cen- 
timetri di  profondità  una  porzione  di  giovine  tralcio,  lasciando  che 
la  punta  sorga  dal  suolo  (fig.  189),  oppure  nel  sotterrare  la  estre- 
mità del  tralcio  a  frutto  come  nella  fig.  190;  la  parte  sotterrata  dà 
radici,  e  si  ha  così  una  nuova  pianta  (separando  con  un  taglio  nel- 
l'autunno stesso  il  tralcio  coricato  della  pianta  madre);  la  qual  pianta 
o  barbatella  può  portarsi  via  o  lasciarsi  sul  posto  secondochè  s1 
tratta  o  non  di  riempire  dei  vuoti.  Allorquando  mediante  la  propag- 
ginazione si  vogliono  produrre  barbatelle  da  esportarsi  è  bene,  come 
si  usa  in  Francia,  allevare  la  ceppaia  madre  molto  bassa  (fig.   191) 


MOLTIPLICAZIONE  E  RINNOVO   DELLA  VITE 


593 


conservandole  un  grande  numero  di  tralci,  che  a  primavera  si  cori- 
cano attorno  ad  essa:  taluni  anzi  fanno  le  propaggini  entro    panieri 


Pia    189. 


Fig.  190. 


Fig.  191. 

(fig.  192  a)  o  entro  vasi  (fig.  192  b),  ma  questi  sono  metodi  più  da 
giardiniere  che  da  viticultore. 

0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura.  39 


594 


CAPITOLO  XIX 


Le  piante  provenienti  da  propaggine  sono  spesso  meno  vigorose, 
meno  fruttifere  e  meno  longeve  di  quelle  di  talea  o  barbatella;  questo 
accade  specialmente  allorquando  invece  di  propagginare  tralci  robusti 
di  viti  non  spossate  per  lunghi  anni  di  cattiva  coltura,    si   coricano 


Mmx 


Fig.  192. 

tralci|meschini  o  peggio  i  bastardi  o  succhioni  che  spuntano  nella 
parte  bassa  delle  ceppaie,  come  si  fa  spesso  per  maggior  comodità: 
è  curioso  che  talvolta  questi  getti  bastardi,  danno  piante  assoluta- 
mente non  fruttifere. 


§  2.  Capogatto  o  infrasconamento.  —  Il  capogatto  (infra- 
sconawento  o  capovolto^  differisce  dalla  propaggine  inquantochè  non 
si  sotterra  la  parte  mediana  del  tralcio,  ma  bensì  la  punta  fig.  193.  Si 
hanno ^così  varii  occhi  sotto  terra,  che  danno  molte  radici;  tagliando 
poi  il  tralcio  si  ha  una  piantina  a  sé.  Il  capogatto  è  preferibile  alla 
propaggine,  appunto  perchè  costituisce  una  pianta  a  sé,  ma  esso  non 
deve  farsi  se  non  con  tralci  di  viti  robuste  e  giovani,  acciò  possano 


MOLTIPLICAZIONE  E  RINNOVO  DELLA  VITE  595 

alimentare  il  tralcio  «  margottato.  »  La  piegatura  si  fa  a  primavera, 
ed  il  taglio  per  separare  la  madre  dalla  figlia,  si  eseguisce  alla  pri- 
mavera successiva.  In  quest'  anno  stesso  si  possono  avere  frutti;  si 


Fig.  193. 

hanno  poi  certamente  alla  successiva  vendemmia,  essendo  i  capogatti 
di  fruttificazione  molto  precoce.  Anche  ad  essi  devono  però  prefe- 
rirsi la  talea  e  la  barbatella. 

§  3.  Provanatura.  —  Questa  maniera  di  moltiplicare  le  viti  con- 
siste nel  sotterrare  a  dirittura  tutta  la  pianta,  perchè  vecchia,  lasciando 
fuori  terra  soltanto  qualche  sarmento  vigoroso  e  potandolo  poscia  a 
due  tre,  oppure  quattro  occhi.  I  viticultori  toscani  chiamano  questa 
operazione  far  le  rimesse  e  se  ne  giovano  per  riempire  le  lacune 
nei  filari;  a  tal'uopo  estendono  la  fossa  a  tutta  la  lacuna  e  poi  vi  fanno 
giacere  entro  la  ceppaia,  rilevando  nei  punti  voluti  i  tralci  che  do- 
vranno costituire  le  nuove  viti;  indi  concimano  e  ricoprono  con  terra. 
Ma  trattandosi  di  lacune  molto  grandi,  per  riempir  le  quali  non  ba- 
sterebbero i  tralci  delle  viti  vicine,  oppure  se  si  volessero  formare 
nuovi  filari,  allora  è  preferibile  il  sistema  adottato  dal  sig.  Dr.  A. 
Dei:  esso  consiste  nel  prendere  un  tralcio  ben  vegeto  di  una  delle 
viti  più  vicine,  abbassarlo,  piegandolo  delicatamente,  e  coricarlo  lungo 
la  lacuna,  o  nel  senso  della  lunghezza  del  filare  da  costituire  di 
nuovo,  dopo  avervi  tracciato  un  leggero  fossetto  di  pochi  centimetri 
di  profondità. 

Questo  tralcio  vegeta  rigogliosamente,  in  ispecie  se  la  vite  madre 
dalla  quale  proviene  fu  concimata,  e  getta  radici,  che  divengono 
anche  più  robuste,  allorché  essendo  cresciuti  discretamente  i  nuovi 
germogli,  si  ricolma  il  fossetto. 

Questi  germogli  non  riescono  peraltro,  troppo  regolarmente  di- 
sposti, perchè  non  tutte  le  gemme  vegetano  ad  un  modo,  ed  i  germogli 


596  CAPITOLO  XIX 


troppo  deboli  conviene  staccarli  quando  si  fa  il  rincalzo:  di  più,  rie- 
scono abbarbicati  troppo  superficialmente;  e  perciò  conviene  terminare 
l'operazione  nel  marzo  venturo.  Il  sig.  Dei  infatti,  dopo  aver  fatto 
sbarbare  diligentemente,  o  mandare  da  parte  il  vecchio  tralcio  con 
le  nuove  messe  e  le  radici,  senza  però  staccarlo  dalla  vite  madre, 
fa  scavar  una  fossetta  profonda  un  30  centimetri  circa,  poco  più 
poco  meno,  secondo  la  qualità  del  terreno  e  la  posizione,  e  dentro 
a  questa  torna  a  far  coricare  il  detto  tralcio  non  solo,  ma  ancora 
l'intera  vite  vecchia  dalla  quale  proviene,  come  per  le  rimesse  or- 
dinarie sopra  accennate  indi  fa  disporre  a  regolari  distanze  i  nuovi 
tralci  legandoli  a  pali. 

Alcuni  viticultori  toscani,  e  forse  il  maggior  numero,  biasimano 
questo  sistema  di  propagginare  le  viti,  ed  almeno  vorrebbero  in  qual- 
che modo  che  i  nuovi  tralci  venissero  separati  gli  uni  dagli  altri:  perchè, 
essi  dicono,  col  tenere  insieme  unite  più  viti  figlie  derivanti  da 
una  medesima  vite  madre,  avviene,  che  quando  alcuna  di  esse  am- 
mala e  perisce,  di  necessità  ne  devono  risentire  anche  le  altre. 
Questa  massima  teorica  peraltro,  per  quanto  a  prima  vista  sembri 
ragionata,  non  corrisponde  poi  in  pratica.  Sono  infatti  di  già  non 
pochi  anni  che  il  sig.  Dei  pratica  questo  sistema,  ed  egli  assicura  (1) 
che  mai  ha  veduto  verificarsi  un  simile  guaio  :  gli  è  accaduto  più 
volte  di  veder  deperire  qua  e  là  alcune  delle  dette  viti,  e  di  dovervi 
riparare  con  propaggini.  Ebbene,  le  stesse  viti  vicine,  e  provenienti 
dallo  stesso  tralcio  dal  quale  proveniva  quella  deperita,  hanno  ser- 
vito con  i  loro  tralci  vegeti  e  lunghi,  a  far  le  propaggini,  o  ri- 
messe. 

Noi  non  consigliamo  tuttavia  la  provanatura  se  non  in  casi  spe- 
ciali, essendo  essa  pure,  come  la  propaggine,  causa  di  poca  longe- 
vità e  poca  robustezza  delle  viti.  La  fruttificazione  è  spesso  irrego- 
lare e  non  molto  abbondante  specialmente  dopo  qualche  anno;  infatti 
va  presto  diminuendo  così  da  rendere  necessarie  nuove  provanature; 
il  sistema  sotterraneo  del  vigneto  diventa  allora  una  rete  inestrica- 
bile di  tronchi,  tralci,  radici  e  radichette,  spesso  soggetti  al  marciume, 
e  certamente  poco  favorevoli  sia  alla  fruttificazione,  sia  alla  durata 
delle  ceppaie,  che  vivono  le  une  a  spese  delle  altre.  Infine,  i  viti- 
cultori  più  reputati  raccomandano  la  talea  o  la  barbatella  e  scon- 
sigliano la  propaggine  o  peggio  la  provanatura,  perchè  è  necessario 


(1)  Vedi  Giornate  Agrario  Italiano,   187S. 


MOLTIPLICAZIONE  E  RINNOVO  DELLA  VITE  5^7 

che  ogni  pianta  di  vite  sia  indipendente  e  con  sistema  radicale  proprio, 
se  si  vuole  che  il  vigneto  sia  fecondo  e  longevo. 

§  4.  Rinnovo  del  vigneto  esausto.  —  Allorquando  il  vigneto 
accenna  ad  esaurirsi,  si  deve  anzitutto  procurare  di  rinnovare  la 
terra  al  pedale  delle  ceppaie,  come  abbiamo  lungamente  detto  a  pag.  527 
Con  questo  artifìcio  quasi  sempre  si  potrà  fare  a  meno,  per  un  certo 
numero  di  anni,  di  rinnovare  a  dirittura  le  ceppaie.  Ma  quando  si 
dovessero  assolutamente  rinnovare  le  piante,  si  ricorrerà  alle  bar- 
batelle, od  al  capogatto,  oppure  infine  si  potrà  anche  adottare,  con 
certe  precauzioni,  la  provanatura. 

Delle  barbatelle  abbiamo  parlato  a  pag.  414.  Il  capogatto  (pag.  594) 
può  dare  buone  barbatelle,  che  si  trapiantano  oppure  si  lasciano  sul 
sito,  costituendo  nuovi  filari  fra  i  vecchi;  questi  nuovi  filari  danno 
frutti  talvolta  al  1°  anno,  quasi  sempre  al  2°  ed  il  vigneto  è  così 
rinnovato  di  pianta.  La  propagginazione  potrebbe  servire  allo  stesso 
scopo,  se  non  presentasse  gli  inconvenienti  di  sopra  enumerati,  e 
sovratutto  quello  di  creare,  a  poca  distanza  dalle  superfìcie  del  suolo, 
una  fitta  rete  di  radici  la  quale  o  rende  impossibile  i  lavori  colturali 
oppure,  se  questi  si  volessero  pur  tuttavia  praticare,  trae  seco  lo 
spezzamento  e  la  lacerazione  di  troppe  radici,  d'  onde  il  rapido  de- 
perimento delle  piante.  La  provanatura  potrebbe  tollerarsi  quando 
si  scavasse  il  fosso  abbastanza  profondo  da  evitare  la  formazione 
delle  radici  superficiali,  facendo  uscire  soltanto  il  sarmento  più  ro- 
busto, il  quale  costituirà  la  nuova  ceppaia. 

Senonchè  il  vigneto  può  rinnovarsi  anche  senza  sotterrare  od  in 
qualsiasi  modo  sopprimere  le  vecchie  ceppaie;  si  può  ritenere  infatti 
che  il  sistema  radicale,  salvo  il  caso  di  speciali  alterazioni,  non  ha 
d'uopo  di  essere  rinnovato  per  un  tempo  lunghissimo,  e  basta  rin- 
giovanire la  parte  aerea,  la  quale,  se  troppo  vecchia  e  soverchia- 
mente lignificata  (pag.  123)  costituisce  un  ostacolo  al  movimento 
dei  succhi.  Ciò  è  tanto  vero  che  allorquando  si  abbassa  la  vite,  come 
dicemmo  a  pag.  488,  cioè  si  esporta  quasi  tutta  Y  antica  sua  parte 
aerea,  si  ottengono  cacciate  vigorosissime  subito  al  primo  anno,  le 
quali,  debitamente  potate,  possono  costituire  una  nuova  e  robusta 
impalcatura  della  ceppaia.  La  vite  è  allora  rinnovata  del  tutto, 
mentre  d'altra  parte  si  sono  risparmiate  le  spese  dello  sradicamento  o 
si  sono  evitati  gli  inconvenienti  della  provanatura. 

Ma  —  oltre  all'abbassamento  —  vi  ha  un  altro  mezzo  per  ringiova- 


598 


CAPITOLO  XIX 


nire  le  ceppaie,  il  quale  consiste  ne\V  inclinare  i  sai^menti  (1)  come 
usano  alcuni  viticultori  francesi:  supposta  la  vite  fig.  194  a  cordoni 
orizzontali  e  con  getti  meschini,  essa  può  ringiovanirsi  piegando  i  tralci 


come  lo  indica  la  fig.  195;  accade  allora  che  la  linfa  è  come  respinta 
dalle  estremità  guernite  di  fogliame  verso  il  ceppo,  ed  infatti  dall'impal- 


(1)  Carriere  Le  Vigne  pag.  192 


MOLTIPLICAZIONE  E  RINNOVO  DELLA  VITE 


599 


catura  sorgono  i  due  sarmenti  vigorosissimi  a  a,che  più  tardi  rimpiaz- 
zeranno i  cordoni  orizzontali.  Se  al  primo  anno  i  due  getti  a  a  non 
sono  sufficientemente  vigorosi,  si  potano  a  speroni  di  un  occhio,  e  si 


mantengono  le  branche  inclinate,  liberandole  soltanto  dai  getti  legnosi 
che  potrebbero  generare  confusione.  Quando  i  due  nuovi  getti  sono 
sufficentemente  vigorosi,  allora  si  tagliano  via  i  vecchi  cordoni,  e  la 


600  CAPITOLO  XIX 


vite  è  ringiovanita  senza  spesa  e  senza  perdita  di  raccolto.  Durante 
questa  operazione  di  rinnovo,  è  indispensabile  cimare  tutti  i  getti 
dei  cordoni  (eccettuati  bene  inteso  i  due  sarmenti  a  a)  per  cacciare 
indietro  il  succo  appunto  a  benefìcio  di  questi  ultimi. 

Questo  sistema  dell'inclinare  i  tralci  può  applicarsi,  con  lievi  va- 
rianti, che  lo  stesso  viticultare  saprà  adottare  a  seconda  delle  sue 
circostanze,  ai  varii  sistemi  di  educare  la  vite  oggi  generalmente 
seguiti. 

§  5.  Nuovo  vigneto  su  vigneto  estirpato   o  su  bosco.  — 

Secondo  alcuni  autori,  allorquando  si  sradica  un  vigneto,  e  si  vuole 
ripiantarne  uno  nuovo  allo  stesso  posto,  conviene  lasciar  passare  da 
sei  ad  otto  anni;  durante  questo  intervallo  si  coltivano  erbe  forag- 
giere a  radici  profonde  (trifoglio,  medica,  ecc.),  sia  perchè  smuovono 
il  terreno,  sia  perchè  coi  loro  avanzi  lo  fertilizzano  alquanto.  Ma 
questa  alternanza  di  coltura  non  è  affatto  necessaria,  e  noi  sappiamo 
che  nei  nostri  paesi  meridionali  si  ripianta  il  vigneto  su  vigneto  senza 
inconvenienti,  colla  sola  avvertenza  di  praticare  alcuni  mesi  prima  del 
ripiantamento  uno  scasso  profondo  circa  il  doppio  dello  scasso  primi- 
tivo, cioè  di  quello  fatto  allorquando  si  piantò  il  vecchio  vigneto:  rinno- 
vata così  la  terra,  nulla  vi  ha  a  temere,  e  solo  conviene  adoperare  i 
concimi  appropriati  al  piantamento,  quali  indicammo  a  pag.  377.  Ot- 
tima cosa  sarebbe  pure  un  soverscio  (pag.  450)  seguito  dallo  scasso; 
in  ogni  caso  si  tratta  sempre  di  reintegrare  il  suolo  di  quegli  ele- 
menti (specialmente  acido  fosforico  e  potassa)  dei  quali  fu  impove- 
rito colle  passate  raccolte,  onde  saranno  principalmente  a  consigliarsi 
gli  ingrassi  fosfatati  e  potassici,  unitamente  a  quelli  azotati  per  pro- 
vocare la  formazione  di  un  ampio  sistema  radicale  nelle  nuove  piante. 
Ma  allorquando  si  tratti  di  piantare  un  vigneto  là.  dove  esisteva 
un  bosco,  specialmente  se  di  quercia,  allora  converrà  usare  talune 
precauzioni;  infatti  accade  quasi  sempre  che  i  vigneti  così  piantati, 
deperiscono  mostrando  qua  e  là  saltuariamente  dei  gruppi  di  ceppaie 
morenti,  quasi  come  si  verifica  nelle  così  dette  macchie  fillosseriche. 
Taluni  attribuiscono  questa  mortalità  ai  residui  tanninici  lasciati  nel 
terreno  dalle  quercie,  ma  in  generale  si  propende  ad  attribuirla  al 
marciume;  questa  alterazione  delle  radici  è  caratterizzata  da  una  ri- 
zomorfa, detta  volgarmente  bianco,  bianchetto  o  fungo,  la  quale 
attacca  le  radici  delle  quercie  con  una  certa  frequenza,  e  che  può 
rimanere  nel  suolo  per  molto  tempo  anche  dopo  che   si  è   estirpato 


MOLTIPLICAZIONE  E  RINNOVO  DELLA  VITE  601 

il  bosco,  sulle  radici  lasciate  nel  suolo  stesso.  Se  si  pianta  un  vi- 
gneto in  simile  terreno,  le  radici  delle  viti  vengono  a  trovarsi  a 
contatto  colla  rizomorfa,  ed  ecco  che  il  male  si  propaga  cagionando 
la  morte  della  ceppaia. 

Ma,  si  chiederà,  perchè  il  deperimento  e  la  morte  delle  ceppaie 
si  fanno  quasi  sempre  attendere  durante  molti  anni  ?  Ciò  infatti  lo 
abbiamo  noi  stessi  constatato  in  alcuni  vigneti  dell'Alta  Italia,  dove 
la  malattia  comparve  15  o  20  anni  dopo  il  dissodamento  del  bosco 
ed  il  piantamento  del  vigneto.  La  spiegazione  di  questo  fatto  cre- 
diamo debba  cercarsi  in  un  deperimento  delle  viti  stesse,  indipen- 
dente dal  marciume,  ma  causato  invece  dalle  cattive  condizioni  di 
fertilità  del  terreno  già  sfruttato  dal  bosco  ceduo:  è  noto  infatti  che 
il  marciume  attacca  di  preferenza  le  viti  deboli,  e  fra  esse  ad  esempio 
quelle  fillosserate.  Se  si  rinvigoriscono  le  ceppaie  con  adatti  concimi, 
il  marciume  cessa,  e  di  ciò  abbiamo  udito  parecchie  volte  la  con- 
ferma in  pratica:  questi  concimi  debbono  essere  specialmente  ricchi 
di  acido  fosforico,  potassa  e  calce,  questi  essendo  gli  elementi  mi- 
nerali esportati  sovratutto  coi  prodotti  del  bosco,  mentre  quelli  or- 
ganici vennero  sufficientemente  reintegrati  cogli  avanzi  lasciati  sul 
terreno  dal  bosco  stesso.  Il  letame  di  stalla  sarebbe  poco  conveniente, 
per  le  ragioni  addotte  a  pag.  442;  dovranno  in  sua  vece  adottarsi 
le  ceneri,  la  calce,  i  sali  potassici  ed  i  perfosfati. 

Con  queste  precauzioni  si  potrà,  senza  inconvenienti,  piantare  un 
vigneto  anche  su  terreno  prima  occupato  da  un  bosco  ceduo. 


CAPITOLO  XX 


Scortecciamento, 


§  1.  Opinione  di  varii  autori  sullo  scortecciamento  delle  viti  —  §  2.  Vantaggi  — 
§  3.  Modo  di  operare. 


§  1.  Opinione  di  varii  autori  sullo  scortecciamento  delle 
viti.  —  Lo  scortecciamento  delle  vecchie  ceppaie  altro  non  è,  pro- 
priamente parlando,  che  il  ripulimento  dei  tronchi  dalla  corteccia 
esteriore  rugosa,  morta  e  perciò  inutile  alla  pianta:  questa  opera- 
zione è  quanto  mai  giovevole  alle  viti,  e  già  gli  antichi  scrittori 
l'avevano  raccomandata  nelle  loro  opere. 

Columella  (1)  infatti  scrisse  che  «  anche  la  buccia  secca  e  scre- 
«  polata  che  pende  dall'alto  del  tronco,  s'ha  da  scorzare  fino  al  corpo, 
«  dacché  la  vite,  come  da  sordidezze  sgombra,  meglio  si  assoda,  e  meno 
«  feccia  porta  nel  vino.  »  —  Ed  il  bolognese  Pier  de  C?*escenzi  (2) 
dava  il  seguente  precetto:  «  La  corteccia  ancora  recisa  e  pendente 
«  dalla  vite,  si  tolga,  la  qual  cosa,  come  disse  Palladio,  minor  feccia 
«  rende  nel  vino.  Il  musco  ancor  si  rada  dovunque  è  trovato.  »  In 
questi  autori  si  trova  accennata  concordemente  la  diminuzione  di 
feccia  nel  vino,  il  che  farebbe  credere  avere  essi  osservato  che  le 
uve  di  viti  scortecciate  maturavano  meglio  ed  erano  più  sane  di 
quelle  di  ceppaie  annose  e  rugose.  Infatti  questo  accade   realmente. 


(1)  Op.  cit.  voi.  I,  pag.  215.  —  Citato  dal  Prof.  Hugues  (V.  il  nostro  giornale 
II  Coltivatore  voi.  XXX,  pag.  142). 

(2)  Trattato  di  Agricoltura,  volg.  da  Inferrigno,  voi.  II,  pag.  30. 


SCORTECCIAMENTO  603 


Il  Conte  Filippo  Re  (1)  raccomandò  a  sua  volta  lo  scortecciamento; 
«  il  potatore,  dice  egli,  non  permetterà  che  vi  rimanga  la  vecchia 
«  scorza,  nido  di  insetti,  d'umidità  e  di  lordure.  »  Ed  il  Conte  Carlo 
Verri  (2)  così  lasciò  scritto:  «  Non  solo  giova  lo  strofinamento, 
«  ma  ottimamente  riesce  a  raschiare  la  vite  con  un  ferro,  o  col  ro- 
«  vescio  del  falcetto,  singolarmente  allorché  la  vite  è  arida  e  non 
«  proclive  a  spogliarsi.  » 

Fra  gli  scrittori  francesi  possiamo  citare  1'  abate  Rozier  (1770) 
che  consigliava  di  ripulire  le  ceppaie  delle  viti  con  spazzole  a  peli 
corti  e  ruvidissimi  o  con  forti  treccie  di  paglia,  ed  il  Prof.  Petit 
Lafitte  (3)  il  quale  raccomanda  di  scortecciare  di  tanto  in  tanto  i 
vecchi  tronchi  di  viti.  —  Gnyot  e  Marès  non  ne  fanno  cenno  in 
modo  esplicito,  ma  pure  raccomandano  di  tenere  netti  i  tronchi. 

Ultimamente  il  Prof.  Hugues  (ioc.  cit.)  ed  il  sig.  Angelo  Guf- 
fanti  (4)  richiamarono  in  Italia  l'attenzione  dei  viticultori  su  quella 
pratica,  della  quale  noi  pure  facemmo  le  lodi,  anche  per  averla  espe- 
rimentata, nel  nostro  Manuale  di  Viticoltura  (5). 

§  2.  Vantaggi.  —  Ma  quali  sono  i  vantaggi  dello  scorzare  le 
vecchie  ceppaie?  Giustamente  è  stato  detto  che,  come  si  tiene  mondo 
il  suolo  del  vigneto  dalle  male  erbe,  così  bisogna  tenere  mondo  il  tronco 
dai  parassiti,  massime  se  la  pianta  è  annosa  come  succede  nei  pergolati. 
Se  è  vecchia,  allora  la  corteccia  rugosa  e  morta  non  cade  più  al 
suolo,  come  succede  nelle  piante  giovani  e  vegete,  ma  rimane  ade- 
rente al  tronco,  si  accresce,  putrefa,  è  ricovero  a  molti  insetti  (non 
esclusa  la  fillossera  che  depone  ivi  le  ova  sessuate  e  l'ovo  d'inverno), 
è  terreno  propizio  alla  vegetazione  di  muschi  e  licheni,  inceppa  la 
respirazione  e  la  traspirazione  del  vegetabile;  in  conclusione  fa  de- 
perire assai  presto  la  vite  ed  indirettamente  fa  scemare  il  prodotto 
pendente,  a  cagione  dei  detti  insetti  fitofagi.  D'  altra  parte  quella 
corteccia  (che  più  propriamente  è  la  parte  esterna  della  vera  cor- 
teccia) non  giova  a  nulla,  ed  è  assolutamente  estranea  alle  funzioni 


(1)  Nuovi  elementi  di  agricoltura,  3a  edizione,  voi.  Ili,  pag.  216. 

(2)  Saggi  di  agricoltura  pratica,  6a  edizione  —  Milano  —  pag.    150. 

(3)  La  vigne  dans  le  Bordelais  (1868),  pag.  256. 

(4)  Quello  che  a  me. pare  la  causa  prima  dell'oidio  e  della  peronospora.  Str a- 
della  1884,  pag.  26. 

(5)  Manuale  Hoepli,   1880, 


604 


CAPITOLO  XX 


vitali  della  vite;  prova  ne  sia  che  quando  la  vite  è  in  condizioni 
normali,  lascia  cadere  quegli  strati  corticali  esterni.  Bisogna  adunque 
aiutare  la  pianta  se  essa,  perchè  ammalata,  non  si  spoglia  da  sé, 
ingrossando  il  suo  tronco,  di  quel  vecchiume;  così  si  conferisce  real- 
mente un  nuovo  vigore  alle  ceppaie,  come  lo  dimostrano  numero- 
sissime esperienze. 

§  3.  Modo  di  operare.  —  Lo  scortecciamento  deve  praticarsi 
dopo  l'inverno  e  subito  dopo  la  potatura,  perchè  allora  esso  riesce  più 
agevole,  essendo  meno  aderente  per  effetto  del  gelo,  quella  corteccia 
che  si  vuole  appunto  esportare.  Può  operarsi  a  mano  o  con  appo- 
siti istrumenti. 

Si  scortecciano  a  mano  quei  tronchi  che  presentano  la  corteccia 
già  quasi  distaccata  a  striscie;  si  scoprirà  allora,  mercè  la  zappa, 
il  pedale  delle  piante,  e  poscia  si  scorteccierà  dal  basso  in  alto,  ve- 
nendo fino  alla  impalcatura,  cioè  al  punto  d'onde  si  dipartono  i  rami. 
Generalmente  però  la  corteccia  morta  si  presenta  sotto  forma  d'uno 
strato  rugoso  aderente  al  tronco,  ed  allora  lo  scortecciamento  bi- 
sogna farlo  o  con  un  ferro  qualsiasi  a  taglio  concavo,  o  coli'  arco 
Sabato  (fìg.  196)  o  col  guanto   Sabato  (fig.    197),  o   meglio   assai 


i<V-   196. 


collo  scorteccìatore  brevettato    Vigna.  L'arco,  che  è  di  filo  di  ferro 
intrecciato,  serve  alla  pulitura  degli  angoli  ascellari  dei  vecchi  tronchi; 


SCORTECCIAMENTO 


605 


il  guanto,  che  è  una  maglia  d'acciaio,  è  utilissimo  per  ripulire  ceppaie 
e  tronchi;  però  esso  è  pesante  (gr.  740),  costoso  e  di  difficile  ripara- 
zione in  caso  di  rottura  di  qualche  anello.  È  quindi  da  preferirsi  lo 


Fi-.   197. 


scortecciatore  ideato  dal  Dott.  A.  Vigna,  assistente  alla  Regia  Sta- 
zione Enologica  d'Asti;  esso  è  costituito  da  lamine  metalliche  perforate 
a  grattugia,  e  non  pesa  che  200  grammi;  inoltre  costa  sole  2  lire, 
ed  è  di  facile  maneggio. 

Scortecciando  le  viti,  non  si  tema  di  agire  con  troppa  energia 
perchè,  come  dice  Filippo  Re,  la  pianta  in  breve  ripara  le  ferite; 
però  si  badi  che  è  solo  la  parte  morta  quella  che  devesi  levare,  e 
quindi,  allorquando  si  vedrà  la  parte  viva  della  corteccia  (che  ha 
il  colore  grigio  rossigno  dei  giovani  tralci  e  che  presenta  pure  striscie 
per  il  lungo  (1))  si  cesserà  dall' approfondire  il  lavoro,  quantunque 
la  vite  non  soffra  se,  per  avventura,  le  venisse  fatta  qualche  lieve 
ferita. 

Ripetiamo  che  non  si  deve  dimenticare  di  ripulire  bene  in  ispecial 
modo  la  parte  inferiore  del  tronco,  perchè  si  è  in  essa  che  si  annida 
la  maggior  parte  degli  insetti,  per  attendere  i  tepori  primaverili:  con 
questa  semplice  precauzione  il  viticultore  libererà  il  suo  vigneto  dai 


(1)  Sono  i  fascii  fibrosi  del  libro,  che  è   la 
(V.  Botanica  della  vite  pag.  91). 


prima   parte    interna   della  scorza, 


606  CAPITOLO  XX 


molti  bruchi  che  tanto  lo  allarmano,  si  può  dire  ogni  anno,  e  contro 
i  quali  egli  pur  troppo  può  ben  poco. 

Ma  in  questi  anni  in  cui  la  vite  è  maltrattata  da  tante  vegeta- 
zioni parassitarie,  sarà  cosa  di  grande  utilità  far  seguire  lo  scor- 
tecciamento dall'  imbiancamento  del  tronco  scortecciato  con  un  po' 
di  latte  di  calce.  È  vero  che  questo  intonaco  cade  dopo  qualche 
tempo,  ma  frattanto  protegge  il  tronco  ed  impedisce  che  vi  si  svi- 
luppino crittogame,  perchè  distrugge  molte  spore.  Questo  imbian- 
camento infatti  ha  sempre  dato  in  pratica  risultati  ottimi,  onde  lo 
raccomandiamo  specialmente  pei  vecchi  tronchi  delle  viti  annose  o 
dei  pergolati. 


CAPITOLO  XXI 


L'  Uva. 


1..  Come  aiutarne  la  maturazione  —  §  2.  La  crepatura  degli  acini  —  §  3.  La 
maturazione  dell'uva  ed  il  sistema  di  cultura  della  vite  —  §  4.  La  vendemmia: 
quando  convenga  anticiparla  e  quando  ritardarla  —  §  5.  Il  bando  delle  ven- 
demmie. 


§  1.  Come  aiutare  la  maturazione  dell'uva.  —  Abbiamo 
già  studiato  lungamente  (1)  il  fenomeno  della  maturazione  dell'uva, 
accennando  alle  cause  che  lo  favoriscono  nonché  a  quelle  che  lo  con- 
trariano. Ed  ora  ci  poniamo  il  seguente  quesito:  può  il  viticultore 
aiutare  in  qualche  modo  la  formazione  del  principio  dolce  nei  grap- 
poli ?  Rispondiamo  che  lo  può,  seguendo  le  pratiche  che  ora  andremo 
descrivendo,  delle  quali  noi  pure  ci  siamo  talvolta  giovati  con  buon 
esito. 

Anzitutto  è  necessario  che  il  viticultore  ricerchi  quali  sono  le  cause 
che,  in  un  dato  anno,  osteggiano  la  regolare  maturazione  dell'uva; 
in  seguito  a  ciò  potrà  scegliere  il  mezzo  più  confacente  per  coadiu- 
vare l'importante  fenomeno.  Queste  cause  contrarie  alla  maturazione 
si  riducono  generalmente  alle  seguenti:  la  deficienza  di  luce  e  di  ca- 
lore, l'eccessiva  secchezza,  lo  stato  pletorico  della  pianta.  Nulla  di- 
ciamo di  un'altra  causa,  la  quale  risiede  nella  essenza  del  vitigno  che 
si  coltiva,  perchè  è  ovvio  che  in  questo  caso  bisogna  surrogarlo,  se 
si  vuole  anche  mercè  l'innesto,  con  varietà  a  frutto  Jpiù  zuccherino. 


(1)  Pag.  202  e  seguenti. 


608  CAPITOLO  XXI 


a)  Deficienza  di  luce  e  di  calore.  In  questo  caso  il  viticultore 
ricorrerà  anzitutto  alla  parziale  sfogliatura  autunnale.  Noi  l'abbiamo 
sempre  consigliata  nei  dieci  o  dodici  giorni  che  precedono  la  ven- 
demmia; essa  deve  essere  moderata,  e  fatta  col  solo  intento  di  sco- 
prire i  grappoli,  perchè  la  piena  luce  solare  attiva  il  fenomeno  della 
maturazione.  Si  deve  poi  badare  bene,  nell'atto  che  si  sfoglia,  a  non 
offendere  le  gemme  ascellari  in  cui  è  tutta  rinchiusa,  se  così  pos- 
siamo esprimerci,  la  vendemmia  futura. 

Ma  se  qui  consigliamo  una  ragionevole  sfogliatura  in  estate,  non 
approviamo  però  {salvo  casi  speciali)  la  sfogliatura  fatta  in  luglio, 
locchè  alcuni  chiamano  erroneamente  cimatura. 

Con  questa  sedicente  cimatura  si  esportano  le  parti  verdi  a  par- 
tire dalla  terza  o  quarta  foglia  sopra  l'ultimo  grappolo;  accade  al- 
lora che  i  grappoli  ricevono  assai  meno  glucosio  ed  all'atto  della 
vendemmia  si  ha,  in  quanto  a  zucchero,  una  differenza  in  meno  che 
può  oltrepassare  il  3  per  cento  (1).  Lasciamo  dunque  alle  viti  tutte 
le  loro  foglie:  e  per  riguardo  alla  cimatura,  atteniamoci  alla  vera 
svettatura  coll'unghia  che  si  deve  fare  in  varie  riprese  prima  della 
fioritura,  cioè  in  maggio. 

Nelle  annate  di  cui  il  calore  è  deficiente,  riescirà  di  non  poco  van- 
taggio il  vendemmiare  nelle  ore  più  calde  ed  in  più  tempi.  Con  questa 
pratica,  negli  anni  in  cui  la  maturazione  delle  uve  lascia  a  deside- 
rare, si  ottiene  un  certo  miglioramento  nella  qualità  del  mosto. 
Essa  è  scrupolosamente  seguita  colà  dove  si  fabbricano  grandi  vini 
da  pasto:  per  esempio  nella  Costa  d'Oro  {Borgogna)  al  rinomato 
Clos  de  Vougeot,  non  si  entra  nelle  vigne  per  vendemmiare  che 
alle  9  del  mattino  e  si  cessa  immancabilmente  prima  che  si  faccia 
sentire  il  fresco  delle  sere  autunnali. 

È  grave  errore  quello  di  anticipare  di  soverchio  l'ora  della  ven- 
demmia, perchè  si  corre  rischio  di  portare  della  rugiada  in  cantina 
ed  indebolire  così  il  vino;  nel  1873  facemmo  la  seguente  prova  a  tal 
riguardo: 

Uve  colte  a     5  ore  antim.  10  gradi  al  gleucometro 


11         »  11  » 

»  3  ore  pom.     11  » 


(1)  Su  ciò  potremmo  citare  all'uopo  molti  esempi  presi  alla  viticoltura  italiana 
ed  alla  francese. 


L' UVA  609 


Nella  notte  precedente  però  v'era  stata  abbondante  formazione  di 
rugiada. 

Usano  poi  alcuni  far  la  vendemmia  in  più  tempi,  scegliendo  le 
sole  uve  mature  e  lasciando  le  altre  a  perfezionarsi.  Ciò*si  fa  spe- 
cialmente in  .Francia  e  Guyot  ci  narra  nel  voi.  I  della  sua  grande 
opera  che  nella  Dordogna  (a  Bergerac)  i  vigneti  sono  percorsi  anche 
le  cinque  voice  dai  vendemmiatori  armati  di  forbici.  Potendolo  quindi, 
facciasi  la  raccolta  in  più  tempi  per  le  uve  destinate  ai  vini  supe- 
riori da  pasto.  Il  maggior  valore  di  questi  vini  compenserà  ad  u- 
sura  il  viticultore  delle  maggiori  spese  incontrate  per  fabbricarli. 

b)  Eccessiva  secchezza.  Se  la  siccità  è  eccessiva  già  abbiamo 
detto  (pag.  207)  che  la  maturazione  dell'uva  non  può  essere  per- 
fetta, ed  in  ogni  caso  ne  scapita  la  quantità  del  prodotto. 

Riesce  di  'incontestabile  utilità,  in  simili  casi,  lo  spruzzare  acqua 
direttamente  sui  grappoli,  mediante  pompe  aspiranti  e  prementi,  come 
noi  abbiamo  esperimentato;  senonchè  questo  sistema  (pag.  207)  non 
sempre  è  attuabile,  specialmente  quando  si  tratta  di  vigneti  estesi. 

Per  dimostrare  l'influenza  delle  bagnature  dai  grappoli  e  dalle  fo- 
glie sull'ingrossamento  degli  acini,  citeremo  una  nostra  esperienza 
fatta  nel  1881.  Addi  28  agosto  misurammo  il  diametro  di  quattro 
acini  di  barbera;  il  1  settembre  cadde  una  discreta  pioggia,  dopo  la 
quale  ripetemmo  le  misure;  ecco  l'aumento  verificato: 


1°  Acino 
2°  Acino 
3°  Acino 
4°  Acino 


Ripetuta  la  prova  otto  giorni  dopo,  trovammo  l'aumento  medio  nel 
diametro  di  millimetri  2,  vale  a  dire  un  terzo  più  di  mosto  in  peso. 

È  poi  ovvio  il  comprendere  che  nelle  annate  di  eccessiva  secchezza, 
converrà  limitarsi  molto  nelle  sfogliature  autunnali,  o  meglio  abban- 
donarle del  tutto. 

40 


II 

giorno 

II 

giorno 

2É 

\  agosto 

dopo 

la  pioggia 

lunghezza 

millim. 

16 

19 

larghezza 

» 

15 

17 

lunghezza 

» 

17 

18 

larghezza 

» 

16 

16 

lunghezza 

» 

16 

17 

larghezza 

» 

15 

16 

lunghezza 

» 

16 

16 

larghezza 

» 

15 

16 

610  CAPITOLO  XXI 


Infine  raccomandiamo  caldamente,  in  quelle  circostanze,  le  zappa- 
ture estive,  delle  quali  abbiamo  parlato  lungamente  a  pag.  523. 

e)  Stato  pletorico  della  vite.  In  questo  caso  il  viticultore  dovrà 
cercare  di  impedire  in  qualche  modo  un  soverchio  afflusso  di  umore 
acquoso  ai  grappoli.  Giova  molto  a  tal'  uopo  l'offendere  il  tralcio  a 
frutto  od  il  peduncolo  del  grappolo.  È  questa  una  pratica  antichis- 
sima. Nel  capo  30  del  libro  di  Ib-al-A\vm  si  dice  come  gli  antichi 
Nabatei  avessero  insegnato  a  rendere  più  dolce  l'uva  torcendone  il 
picciuolo  pochi  giorni  prima  della  maturanza.  I  Greci  ed  i  Romani 
conoscevano  pure  questa  pratica,  ed  oggi  è  ancora  in  voga  in  Un- 
gheria ed  a  Cipro  dove  si  aiuta  la  maturazione  del  cipro  nero  collo 
spampanamento  e  torcendo  il  peduncolo  del  grappolo.  Il  dott.  Mona 
dice  (I)  che  questa  torsione,  nonché  l'acciaccatura  dell'intiero  tralcio 
da  frutto,  eseguite  pochi  giorni  prima  di  procedere  alla  vendemmia, 
solvendo  la  continuità  di  un  gran  numero  dei  vasi  che  dal  terreno 
conducono  al  grappolo  gli  umori  acquei,  induce  un  sollecito  appas- 
simento dell'uva,  i  cui  acini,  da  turgidi  e  freschi  che  erano,  si  pro- 
sciugano, si  raggrinzano  ed  avvizziscono,  senza  timore  che  siano  in- 
vasi da  muffe.  L'avvizzimento  non  è  però  prodotto  da  un  aumento 
di  evaporazione,  ma  da  una  diminuzione  dell'afflusso  degli  umori  del 
terreno;  che  anzi  l'evaporazione  relativamente  scema,  e  perciò  l'uva 
si  riscalda  maggiormente  e  matura  con  più  sollecitudine. 

Si  potrebbe  anche  esperimentare  il  taglio  dei  tralci  frutticosi.  Questa 
pratica  però  non  si  può  adottare  che  in  quei  sistemi  di  viticultura 
in  cui  i  tralci  che  portano  le  uve  sono  legati  a  canne,  a  fili  di  ferro, 
o  comunque  sostenuti:  essa  consiste  nel  tagliare,  otto  o  dieci  giorni 
prima  della  vendemmia,  i  tralci  frutticosi  alla  base,  in  modo  da 
troncare  ogni  loro  comunicazione  colla  pianta  madre:  rimangono  cio- 
nonostante a  loro  posto,  quasi  diremmo  immobili,  e  1'  uva  compie 
meglio  allora  la  sua  maturazione.  Abbiamo  esperimentato  questo  taglio 
nelle  nostre  viti  alla  casa  lese  nel  1875  e  ne  avemmo  i  seguenti  ri- 
sultati, i  quali  concordano  con  quelli  avuti  da  qualche  vecchio  viti- 
cultore  monferrino: 

Zucchero 
all'atto  della  vendemmia 

Uva  di  tralci  tagliati chil.  20,50  per  cento 

La  stessa  uva  di  tralci  non  tagliati »      19,00  » 


(1)  Studii  di  enologia;   lo. 


L'UVA  611 


Come  si  può  spiegare  qesto  aumento  di  ricchezza  zuccherina  pel 
solo  fatto  di  aver  separato  il  tralcio  frutticoso  dalla  pianta  madre? 
Noi  abbiamo  pensato  che  con  ciò  si  impedisca  la  retrocessione  degli 
umori,  e  si  impedisca  pure  che  venga  nuova  acqua  dal  terreno  all'uva, 
onde  per  questo  infine  le  pigne  possano  arricchirsi  maggiormente 
di  zucchero.  Lo  zucchero,  come  sappiamo  specialmente  per  gli  studii 
del  compianto  Dr.  Macagno,  si  forma  nelle  foglie,  di  dove  passa  poi 
per  mezzo  dei  tralci,  nei  grappoli.  Nei  tralci  si  trova  dello  zucchero, 
e  tutto  porta  a  credere  che,  separando  questi  dalla  pianta,  noi  co- 
stringiamo lo  zucchero  stesso  ad  affluire  ai  grappoli  piuttostochè  re- 
trocedere dalle  foglie  e  diffondersi  per  tutte  le  parti  legnosa  della 
pianta  medesima. 

§  2.  La  crepatura  degli  acini.  —  Negli  anni  piovosi,  si  hanno 
a  lamentare  spesso  inconvenienti  gravi,  dovuti  alla  crepatura  degli 
acini.  In  generale  si  suole  attribuirla  ad  una  accumulazione  di  umore 
acquoso  entro  l'acino,  che  ne  straccia  la  fiocine,  la  quale  è  poco  ela- 
stica, e  si  pensa  che  siffatto  umore  venga  dalla  terra  madida  di 
acqua. 

Questa  spiegazione  però  non  è  troppo  soddisfacente. 

Noi  sappiamo,  per  le  interessanti  esperienze  di  Hales  (1)  sulle 
cause  del  movimento  della  sava  entro  i  tessuti  vegetali,  che  l'eva- 
porazione per  mezzo  delle  foglie  è,  se  non  la  sola,  di  certo  la  pre- 
cipua causa  dell'  assorbimento  dell'  umore  contenuto  nel  suolo  per 
mezzo  delle  radici,  nonché  della  sua  ascensione  sino  ai  frutti  ed  alle 
foglie  stesse.  Se  il  tempo  è  piovoso  cessa  l'assorbimento  delle  radici 
perchè  cessa  siffatta  evaporazione:  —  di  notte  accade  lo  stesso;  le 
foglie  non  traspirano  ed  ecco  che  il  sistema  sotterraneo  della  vite 
non  funziona. 

Dunque,  data  anche  una  stagione  molto  piovosa  non  si  può  per 
questo  inferirne  che  le  radici  abbiano  in  ogni  caso  ad  assorbire  molta 
acqua  dal  suolo;  certo  se  alle  piogge  seguiranno  molte  giornate  a 
cielo  affatto  scoperto  ed  a  sole  assai  caldo,  si  avrà  molta  evapora- 
zione e  quindi  molto  assorbimento;  ma  fra  l'uno  e  V  altro  di  questi 
importanti  fenomeni  della  vita  vegetale  vi  sarà  sempre  una  completa 
armonia,  né  accadrà  che  rimanga  neh'  acino  tanta  acqua  non  eva- 
porata da  farlo  crepolare,  perchè  bisognerebbe  supporre  assorbimento 


(1)  Hales:  Essais  statiques,  1727, 


612  CAPITOLO  XXI 


dalle  radici  senza  evaporazione,  dalle  foglie,  cosa  che  non  crediamo 
ammessibile  quando  la  vite  è  fronzuta.  Se  è  senza  fronde,  come  ac- 
cade sul  principio  della  primavera,  allora  per  1'  attrazione  capillare 
avviene  una  penetrazione  d'umore  nel  nuovo  cappellamento,  la  sua 
ascensione  nei  tessuti  della  pianta  ed  infine  il  pianto  quando  si  ta- 
gliano le  punte  dei  tralci.  Ma  dal  momento  in  cui  compariscono  le 
foglie  pare  che  Fazione  della  capillarità  scemi;  infatti  noi  sappiamo 
che  la  vite  non  piange  più  di  giorno  in  maggio  o  giugno,  cioè 
quando  incomincia  a  ricoprirsi  di  fogliame,  ma  solo  di  notte;  or  se 
T  attrazione  capillare  continuasse  ad  esercitarsi  come  nel  mese  di 
aprile,  si  dovrebbe  pur  avere  lo  stesso  fenomeno  del  pianto. 

Ma  facciamo  ritorno  alla  crepatura  degli  acini:  da  che  proviene 
adunque  se  non  si  può  ammettere  che  sia  causata  dall'eccedente  succo 
della  pianta? 

Noi  riteniamo  che  essa  debba  attribuirsi  ad  un  fenomeno  di  en- 
dosmosi, vale  a  dire  che  penetri  dell'acqua  nel  granello  attraversan- 
done la  buccia  e  facendola  quindi  screpolare. 

Non  è  difficile  dimostrare  che  si  ha  endosmosi  tra  l'acqua  che  sta 
sugli  acini  ed  il  liquido  racchiuso  nell'acino  stesso:  a  tal  uopo  si  im- 
mergano nell'acqua  degli  acini  d'uva  dopo  averli  esattamente  pesati: 
si  lascino  nell'acqua  alcuni  giorni  e  dopo  si  ripesino;  si  troverà  una 
differenza  molto  sensibile  nel  loro  peso.  Continuando  poi  a  lasciarli 
nel  medesimo  liquido  finiranno  per  iscrepolarsi  —  dopo  5,  6  o  più 
giorni  a  seconda  dell'elasticità  del  tessuto  epidermico  —  precisamente 
come  accade  degli  acini  sulla  pianta. 

L'illustre  Boussingault  J.  trovò  che  due  granelli  di  tokai  i  quali 
pesavano  prima  dell'immersione  gr.  7,66,  cinque  giorni  dopo  pesa- 
vano gr.  8,07:  per  cui  in  questo  frattempo  s'erano  introdotti  dentro 
gr.  0,41  di  acqua,  cioè  gr.  0,082  per  giorno.  Neil'  acqua  poi  trovò 
dello  zucchero,  segno  che  la  fiocine  aveva  agito  come  una  membrana 
interposta  fra  due  liquidi  mescolabili  e  di  diversa  natura  (1). 

Oltre  a  queste  esperienze  da  gabinetto,  che  ognuno  può  ripetere, 
altre  ne  possiamo  citare  fatte  nelle  vigne  stesse:  a  tal'  uopo  riman- 
diamo il  lettore  a  pag.  207. 

Ma  l'acqua  che  entra  in  tal  modo  negli  acini  favorisce  la  forma- 
zione del  principio  dolce,  entro  certi  limiti. 


(1)  Agronomie,    Chimie  agricole   e   Physiologie   par    Boussingault.    Tom.   eia- 
(juicme  -  1874, 


I/UVA  613 


Per  intendere  come  l'acqua,  che  entra  negli  acini  possa  aiutarne 
la  maturazione  non  accade  che  di  riflettere  al  fatto  che  senza  una 
adeguata  proporzione  di  acqua  il  mosto  da  acerbo  non  può  farsi 
maturo,  e  neppure  trasformarsi  da  maturo  in  vino  per  la  fermen- 
tazione. Nell'acino  acerbo  devono  avvenire  molte  trasformazioni  per 
cui  la  cellulosa,  la  pectina,  la  fecola  ecc.,  si  vanno  man  mano  mu- 
tando in  glucosio,  ma  questi  processi  chimici  diventano  lentissimi  ed 
incompleti  se  l'acqua   scarseggia. 

Per  ciò  in  molti  locali  del  nostro  Mezzodì  la  pratica  dello  spruz- 
zare acqua  sui  grappoli  può  tornare  di  grande  giovamento. 

Senonchè  come  mandarla  ad  effetto  nella  grande  coltura?  È  cosa 
quasi  impossibile,  come  notavamo  nel  precedente  naragrafo. 

Riepilogando  adunque  diremo:  1°)  che  la  crepatura  degli  acini  non 
avviene  per  eccedenza  di  umore  assorbito  dalle  radici,  ma  per  troppa 
acqua  entrata  per  endosmosi  direttamente  nell'acino;  2°)  che  si  può 
trarre  profìtto  di  questo  fenomeno  fisico  per  aiutare  la  maturanza  di 
certe  uve  in  quei  paesi  del  mezzodì  ove  Y  umido  scarseggia  quasi 
ogni  anno;  3°)  infine  che  il  viticultore  poco  o  nulla  può  fare  per 
impedire  la  crepatura  degli  acini  negli  anni  molto  piovosi:  solo  il 
conservare  alle  viti  tutto  il  loro  fogliame  potrà  giovare  a  riparare 
alquanto  i  grappoli  ed  a  smaltire  per  evaporazione  una  parte  del- 
l'eccessivo umidore. 

§  3.  La  maturazione  dell'  uva  ed  il  sistema  di  cultura 
della  vite.  —  I  sistemi  di  tenere  la  vite  si  possono  riunire  tutti 
quanti  in  due  grandi  categorie;  sistema  basso  e  sistema  alto.  Ora,  è 
egli  vero  che  la  maturazione  dell'uva  si  compie  in  modo  soddisfa- 
cente soltanto  nelle  viti  tenute  basse?  È  egli  vero  che  le  viti  alte 
danno  sempre  vini  aspri  di  poco  pregio  ? 

Questa  è  certo  l'opinione  generale,  ed  è  opinione  antichissima.  Nar- 
rasi che  Cìnea  (279  anni  a.  C.)  ambasciatore  di  Pirro  presso  i  Ro- 
mani, abituato  agli  eccellenti  vini  della  Grecia  d'allora,  quando  la 
prima  volta  bevette  in  Italia  il  vino  delle  viti  maritate  agli  alberi, 
esclamasse:  «  meritava  bene  di  essere  appesa  a  forca  così  alta  la 
madre  di  tanto  cattivo  figlio!  »  E  moltissimi  autori  antichi  e  mo- 
derni non  espressero  un  giudizio  differente  sui  vini  delle  viti  alte. 
Ma  può  così  affermarsi  in  termini  assoluti? 

Il  quesito  è  assai  importante  e  dobbiamo  studiarlo  quanto  meglio 
ci  riescirà   possibile:    chi   lo  propose   pel   primo   fu   il  Prof.   0.  Ci- 


614  CAPITOLO  XXI 


nelli  (1)  il  quale  volle  studiare  la  maturazione  dell'uva  anche  nelle 
viti  maritate  agli  alberi,  facendo  opportuni  confronti  colle  stesse  va- 
rietà tenute  basse,  in  identiche  condizioni  di  clima  e  di  suolo.  Dai 
molti  dati  raccolti  dal  Cinelli  risulta  anzitutto  che  l'uva  dei  vitigni 
bassi  dà  più  mosto  di  quelli  alti:  questo  lo  constatiamo  noi  pure  da 
dieci  anni  a  questa  parte  sulle  nostre  viti  ad  alberello  della  varietà 
Barbera.  Il  Cinelli  lo  constatava  sulle  varietà  Aleatico,  Pignolo, 
Picciol  rosso  e  Cariatolo  di  Sinalunga  (Siena);  senonchè  li  stessi 
vitigni  coltivati  alti,  (da  lm,80  a  2m90)  diedero  uva  più  zuccherina 
di  quelli  posti  scrupolosamente  nelle  stesse  condizioni  ma  coltivati 
bassi  (0m70  a  0m80)  il  che  parrà  molto  strano,  poiché  quasi  tutti 
gli  autori  affermano  che  le  viti  basse  sono  quelle  che  producono  le 
uve  più  zuccherine.  Convien  però  dire,  per  essere  esatti,  che  quella 
differenza  non  si  riscontrò  nel  Canaiolo,  poiché  tanto  le  viti  basse 
(0m,65)  quanto  quelle  alte  (lm80)  accusarono  nei  loro  mosti  la  stessa 
densità  al  gleucometro  Guvot  (13);  intanto  però  ciò  proverebbe  che 
per  avere  uva  bene  matura  non  è  sempre  indispensabile  educare 
bassa  la  vite. 

Ma  il  Cinelli  giustamente  non  volle  arrestarsi  a  questo  solo  espe- 
rimento; egli  ne  istituì  altri  e  raccolse  molti  dati,  dai  quali  gli  ri- 
sultò provato  anzitutto,  che  in  effetto  le  viti  basse  danno  più  mosto 
delle  viti  alte,  cioè  in  altri  termini,  che  gli  acini  ingrossano  di  più, 
la  qual  cosa  a  noi  pare  fuori  di  contestazione,  avendone  ogni  anno 
sotto  gli  occhi  la  prova  palmare:  —  gli  risultò  pure  che  le  viti  alte 
possono  dare  mosto  tanto  zuccherino,  e  talora  anche  più  zuccherino, 
delle  viti  basse,  e  con  uguale  o  minore  acidità:  —  infine,  che  in  piano 
la  vite  alta  dà  più  zucchero  di  quella  bassa.  Quest'  ultima  conclu- 
sione non  si  deve  però  prendere  in  senso  troppo  assoluto  né  generale, 
perchè  non  suffragata  da  un  sufficiente  numero  di  osservazioni  (2); 
solo  si  potrebbe  dire  che  taluni  vitigni  se  coltivati  in  pianura,  danno 
uva  più  zuccherina  quando  siano  educati  alti,  che  non  se  tenuti  a 
basso  ceppo. 


(1)  V.  l'eccellente  libro  «  Quanto  costa  Uuva  ed  il  vino?  »  Roma  1872  — 
Tip.  Centenari  (pag.  402). 

(2)  Solo  quattro  sono  quelle  fatte  dal  Prof.  Cinelli;  ma  in  due  di  esse  la  diffe- 
renza fra  le  viti  alte  e  basse  coltivate  al  piano  è  troppo  tenue  per  poterne  tenere 
calcolo:  così,  in  quelle  del  Chianti  (Ricasoli)  fatte  sul  vitigno  Canaiolo  troviamo: 
viti  alte  18,07  0[Q  di  zucchero  —  viti  basse  17,73  —  ed  in  quelle  di  Asciano 
(Bargagli)  fatte  sul  vitigno  Procanico,  troviamo:  viti  alte  20,83  Ouj  —  viti  basse  20,40. 


L'UVA  615 


Giustamente  conclude  il  Cinelli  che  vi  sono  vitigni  i  quali  tenuti 
bassi  non  danno  un  prodotto  più  ricco  di  principio  dolce,  mentre  però, 
e  questo  è  incontestabile,  altri  ve  ne  sono  che  per  darlo  tale  deb- 
bono tenersi  bassi.  Ma  nemmeno  ciò  è  assoluto;  perchè  vi  sono  vi- 
tigni i  quali  in  determinate  circostanze  di  terreno  di  clima  e  di  cul- 
tura danno  uve  più  zuccherine  se  tenuti  alti,  mentre  in  condizioni 
diverse  è  preferibile  tenerli  bassi  per  ottenere  una  maggior  quantità 
di  glucosio  nell'uva. 

Adunque  non  è  soltanto  il  sistema  di  educazione  della  vite  che 
influisce  sulla  maggiore  o  minore  ricchezza  in  glucosio;  la  varietà 
del  vitigno  e  le  condizioni  locali  esercitano  esse  pure  una  marcatis- 
sima  influenza.  Negli  strati  atmosferici  più  prossimi  al  suolo  la  tem- 
peratura è  maggiore  che  non  in  quelli  più  alti,  ed  a  pag.  264  ve- 
demmo che  già  fra  0m,50  e  lm,50  dal  terreno,  vi  può  essere  in  luglio 
ed  agosto  una  differenza  di  circa  due  gradi;  è  quindi  evidente  che 
nei  paesi  nordici,  là  dove  si  coltivano  vitigni  tardivi  (il  che  è  molto 
importante  per  ovviare  ai  danni  delle  brine)  converrà  tenere  le  viti 
basse,  acciò  le  uve  si  trovino  in  un  ambiente  più  caldo  e  maturino 
meglio.  È  un  fatto  notorio  che  le  viti  maritate  agli  alberi  dell'Italia 
superiore  danno,  fatte  ben  poche  eccezioni,  uve  ricche  ad  esuberanza 
di  acidi  vegetali  e  però  vini  asprissimi:  invece  gli  oramai  numero- 
sissimi vigneti  bassi  producono  vini  squisiti  per  armonia  di  compo- 
nenti. 

Ma  in  condizioni  opposte  può  convenire  di  alzare  le  uve,  edu- 
cando alta  la  vite,  specialmente  se  così  richiede  l'indole  del  vitigno: 
la  Toscana  ce  ne  porge  un  esempio  luminoso,  colle  sue  viti  gene- 
ralmente maritate  ad  alberi,  le  quali  producono  squisiti  vini,  forse  i 
migliori  vini  da  pasto  d'Italia. 

D'altra  parte  non  è  solo  il  calore  che  provoca  la  formazione  del 
glucosio;  a  pag.  237  dicemmo  lungamente  dalla  influenza  energica 
che  esercita  la  luce,  e  vedemmo  anzi  che  entro  certi  limiti  essa  può 
supplire  alla  deficienza  di  calore  (pag.  259).  Ora,  il  fogliame  delle 
viti  alte  gode  forse  dell'  influenza  della  luce  solare  in  minor  grado 
di  quello  delle  viti  basse?  Se  i  tutori  sono  molto  fronzuti  e  molto 
vicini,  senza  dubbio  vi  ha  un  ombreggiamento;  in  caso  diverso  non 
vi  ha  differenza  fra  i  due  sistemi,  e  perciò  nulla  vi  ha  di  strano  se 
le  uve  possono  maturare  bene  anche  su  viti  alte;  diremo  anzi  di  più. 
La  minor  temperatura  di  cui  godono  le  uve  alte  può  sino  ad  un 
certo  punto  favorire  nelle  foglie  il  lavoro  della  clorofilla  (e  quindi  la 


616  CAPITOLO  XXI 


formazione  dell'amido  e  quella  successiva  del  glucosio)  specialmente 
nei  paesi  molto  caldi;  queste  formazioni  sono  massime  a  35°  C,  ma 
spingendosi  oltre  la  temperatura,  incominciano  a  declinare  (pag.  158, 
261)  con  discapito  nella  maturazione  dell'uva.  Ciò  è  tanto  vero  che 
in  alcuni  paesi  meridionali,  a  Lipari  ad  esempio,  nelle  annate  di  ec- 
cessivo calore  si  ombreggiano  artificialmente  le  viti  (pag.  345)  per 
favorire  la  maturazione  dei  grappoli. 

Infine,  oltre  al  calore  ed  alla  luce  influisce  pure  grandemente  sulla 
più  o  meno  perfetta  maturanza  dell'uva,  la  quantità  di  umido  che 
trovasi  a  disposizione  della  pianta:  le  viti  alte  hanno  duopo  d'  una 
quantità  di  umido  maggiore  che  non  le  viti  basse,  perchè  in  queste 
ultime  è  notevolmente  minore  il  percorso  del  succo  dalle  radici  ai 
grappoli;  ma  nei  paesi  meridionali  l'umido  è  spesso  deficiente  e  questo 
spiega  come  le  viti  alte,  sui  pioppi  di  Napoli,  generalmente  maturino 
circa  venti  giorni  dopo  le  viti  basse  di  Casalmonferrato  e  come  in 
generale  le  uve  di  viti  alte  si  vendemmiino  più  tardi  di  quelle  delle 
viti  basse,  anche  se  quelle  sono  in  climi  meridionali  e  queste  in  climi 
settentrionali. 

Riassumendo  queste  considerazioni,  a  noi  pare  che  si  possa  con- 
chiudere: 

1°)  Che  il  sistema  di  tenere  la  vite  maritata  agli  alberi  non  co- 
stituisce sempre,  cioè  con  ogni  vitigno  ed  in  ogni  circostanza  di  clima 
e  di  suolo,  un  ostacolo  alla  maturazione  perfetta  delle  uve; 

2°)  Che  in  alcune  circostanze  è  preferibile  la  vite  alta  alla  vite 
bassa; 

3°)  Che  nelle  viti  alte  la  maturanza  ritarda  alquanto,  ma  si 
compie  bene  nei  climi  mediani  e  meridionali  d'Italia. 

4°)  Che  infine  nei  climi  settentrionali,  le  viti  alte  danno  uve  in 
cui  eccede  la  proporzione  degli  acidi  vegetali. 

§  4.  La  vendemmia:  quando  convenga  anticiparla  e  quando 
ritardarla.  —  La  vendemmia  è  operazione  di  grande  importanza 
e  giustamente  è  stato  detto  che  essa  fa  il  vino  ;  infatti  il  saper  co- 
gliere le  uve  nei  momenti  più  opportuni  ed  il  sapere  fare  la  cernita 
e  la  mondatura,  esercitano  una  influenza  marcatissima  sul  futuro 
vino;  diremo  anzi  che  la  grande  fama  cui  sono  saliti  certi  vini,  de- 
vesi  sovratutto  al  modo  cpn  cui  si  sogliono    vendemmiare  le  uve. 

Abbiamo  già  detto  a  pag.  608  che  possibilmente  si  deve  vendem- 
miare nelle  ore  più  calde  del  giorno,  ed   abbiamo   anche   accennato 


L'UVA  617 


all'influenza  della  rugiada  sul   grado  gleucometrico,   che    diminuisce 
se  quella  è  abbondante. 

Soggiungeremo  qui  che  talvolta  potremo  tuttavia  giovarci  di  questa 
diminuzione,  e  ciò  sarà  quando,  in  paesi  molto  caldi,  avremo  uve 
troppo  zuccherine:  cogliendole  allora  quando  sono  ricoperte  dalla 
guazza,  avremo  un  adacquamento  naturale  del  mosto,  utilissimo  per 
rendere  il  mosto  meno  denso,  meglio  disposto  ad  una  regolare  e  com- 
pleta fermentazione  alcoolica,  e  più  atto  alla  fabbricazione  del  vino  da 
pasto.  In  alcune  esposizioni  a  solatìo  dell'estremo  Sud  e  della  Sicil'a, 
converrà  appunto  cogliere  le  uve  in  questo  stato,  anziché  levi  il 
sole.  Negli  altri  casi  la  vendemmia  deve  farsi  sempre  in  tempo  se- 
reno e  secco,  e  con  uve  asciutte. 

Se  poi  il  tempo  è  piovoso,  sarà  miglior  partito  quello  di  atten- 
dere i  giorni  di  bel  tempo,  che  non  mancano  mai  in  autunno:  er- 
rano infatti  coloro  che  tanto  più  s'affrettano  a  vendemmiare  quanto 
più  il  tempo  ècatt  ivo:  vuol  dire  che  per  inesorabile  conseguenza, 
tanto  più   cattivo   sarà  il   vino  che   fabbricheranno. 

Non  converrà  neppure  di  vendemmiare  subito  dopo  un  abbassa- 
mento sensibile  di  temperatura  :  in  tal  caso  si  avrebbe  un  mosto 
freddo,  che  tarderebbe  di  soverchio  a  fermentare. 

Fa  poi  mestieri  separare,  per  quanto  è  possibile,  le  uve  acerbe, 
o  comunque  guaste,  dalle  sane:  noi  usiamo  raccogliere  anzitutto  le 
uve  rosse  mature,  non  aromatiche,  poiché  queste  (ad  esempio  la  mal- 
vasia nera)  non  varrebbero  ad  altro  che  a  rovinare  col  loro  aroma 
il  nostro  vino  da  pasto  ;  dopo  raccogliamo  tutte  le  bianche  da  ta- 
vola o  da  vini  fini;  indi  quelle  aromatiche  che  danno  vini  speciali 
(Brachetto,  Malvasia,  Aleatico,  ecc.)  ;  infine  le  acerbe  o  guaste  dalla 
grandine,  o  dalla  crittogama,  o  dalla  muffa,  oppure  secche  od  infra- 
cidite,  o  beccate  dagli  uccelli  ;  con  esse  facciamo  pur  tuttavia  un 
vinetto  discreto. 

Questa  vendemmia  divisa  in  varie  parti  è  una  pratica  della  più 
alta  importanza:  nel  1872  volemmo  cogliere  colle  uve  solite  per  vini 
da  pasto  anche  la  Malvasia  nera,  e  ne  ebbimo  un  vino  aromatico  e 
però  non  degno  di  entrare  nella  categoria  dei  veri  vini  da  pasteggio. 
Dal  1873  in  poi  abbiamo  fatto  le  suddette  suddivisioni  e  ce  ne  siamo 
sempre  trovati  molto  soddisfatti. 

Alcuni  usano  ritardare  la  vendemmia  per  certe  varietà,  nella  cer- 
tezza di  raccogliere  uve  più  ricche  in  glucosio.  Essi  s'  ingannano 
moltissimo.    Vi    sono  dei    vizzati    che  danno  per  natura  uve  poco 


6Ì8  CAPITOLO  XXI 


ricche  in  zucchero:  ora,  giunte  codeste  uve  ad  un  certo  punto  della 
loro  maturità  —  il  maximum  —  esse  incominciano  a  perdere  in 
glucosio,  come  accade  delle  uve  appassite,  in  acidi,  in  sostanze  al- 
buminoidi  e  via  dicendo.  Ciò  proverebbe  che  veramente  nel  frutto 
dopo  la  maturità  avviene  una  vera  fermentazione  alcoolica. 

Colla  scorta  del  gleucometro  il  viticultore  potrà  agevolmente  sco- 
prire questo  massimo  di  maturità  e  prevenire  cotali  diminuzioni. 

Si  badi  inoltre  a  non  ammostare  le  uve  nelle  vigne,  cioè  a  non 
comprimerle  nei  recipienti  mercè  i  quali  si  fa  la  vendemmia.  Con 
siffatte  uve  rotte,  e  poste  necessariamente  al  contatto  dell'  aria, 
non  si  fa  mai  vino  serbevole  se  si  vendemmia  entro  grossi 
recipienti.  Infatti,  siccome  in  questo  caso  si  richiede  un  certo  tempo 
prima  che  cotali  recipienti  siano  riempiti  e  pronti  quindi  ad  essere 
trasportati  al  pigiatoio,  avviene  che  quelle  uve  rotte  e  già  un  poco 
ammostate,  incominciano  ad  entrare  in  fermentazione,  locchè  è  assai 
pericoloso.  Certo  che  se  la  cantina  è  molto  prossima  alla  vigna,  e 
se  i  vendemmiatori  scaricano  le  uve  entro  piccole  bigoncie  che  pre- 
sto si  vanno  a  vuotare  nelle  pigiatrici,  non  v'  ha  poi  tutto  codesto 
pericolo. 

In  ogni  caso  se  le  uve  sono  di  soverchio  riscaldate  dal  sole  ed 
in  tale  stato  si  pongono  nei  tini,  avviene  che  la  fermentazione  pro- 
cede soverchiamente  gagliarda,  e  ad  una  temperatura  troppo  alta  il 
vino  può  riuscire  a  male  se  la  cosa  eccede  veramente  ;  in  caso  con- 
trario si  farà  pur  tuttavia  un  vino  più  austero  e  generoso  che  non 
delicato  e  atto  al  pasteggio. 

Infine  si  dispongano  bene  i  vendemmiatori  o  le  vendemmiatrici,  in 
guisa  che  il  lavoro  sia  continuo  e  ordinato  :  la  divisione  del  lavoro 
sarà  qui,  come  in  tutte  le  faccende  agrarie,  ottima  cosa. 

Una  parte  —  la  maggiore  —  degli  operai  attenderà  a  raccogliere 
le  uve  :  gli  operai  saranno  armati  di  forbici  e  provvisti  di  cesti  ; 
prima  di  deporre  un  grappolo  nel  cestello  baderanno  che  non  abbia 
qualche  parte  guasta;  se  ciò  è,  la  taglieranno  facendola  cadere  in 
panieri  succursali  (1).  L'altra  parte  di  operai  attenderà  a  prendere 
dalle  mani  dei  veri  vendemmiatori  i  cesti  ripieni  d'  uva,  dandone 
per  concambio  dei  vuoti  ;  i  pieni  si  porteranno  a  due  a  due  sulla 
spalla  (come  si  usa  in  piemonte)  ponendoli  a  cavalcioni,  pel  manico, 
ad  un  grosso  bastone  :  così  si  andranno   a    versare   in    grossi    reci- 


(1)  Con  queste  uve  di  scarto  si   farà  vino  secondario. 


V  UVA  610 

pienti  collocati  ai  lati  della  vigna.  Questi  recipienti  (bigoncii,  grossi 
mastelli,  tini  bassi,  ecc.)  sono  collocati  sopra  un  carro:  pieni  che 
siano,  si  conducono,  da  altri  operai,  al  pigiatolo. 

Del  resto  non  è  qui  il  caso  di  dilungarsi  molto  sulla  parte  ma- 
nuale della  raccolta  delle  uve,  poiché  il  viticultore,  per  poco  avve- 
duto che  sia,  sa  benissimo  ordinare  una  buona  vendemmia,  ovviando 
a  che  si  sprechi  tempo  e  si  raccolgano,  colle  buone,  le  uve  cattive. 

Vediamo  piuttosto  se  convenga  in  ogni  caso  ritardare  la  vendem- 
mia, come  taluni  consigliano.  Siamo  tutti  d'accordo  che  l'uva  deve 
vendemmiarsi  precisamente  quando  è  matura,  cioè  quando  il  grado 
gleucometrico  più  non  aumenta,  poiché  se  si  oltrepassa  questo  punto, 
lo  zucchero  diminuisce;  è  perciò  un  errore  quello  di  credere  che  quanto 
più  si  ritarda  a  cogliere  le  uve  tanto  più  aumenta  questo  grado. 

Vi  ha,  per  ogni  vitigno,  un  limite,  raggiunto  il  quale  il  viticultore 
non  può  fare  più  nulla  per  migliorare  il  prodotto,  e  deve  vendem- 
miare se  vuol  produrre  vini  alcoolici  e  serbevoli,  e  sovratutto  se 
vuol  produrre  vini  da  pasto.  Tuttavia  da  un  esame  da  noi  fatto  (1) 
sul  momento  in  cui  si  suole  vendemmiare  nelle  differenti  regioni 
d'Italia,  deducesi  che  in  generale  si  ha  troppa  fretta  nel  vendem- 
miare, e  che  sarebbe  molto  utile  ritardare  di  circa  8  a  10  giorni. 
Conviene  sovratutto  ritardare  la  vendemmia  delle  viti  maritate  agli 
alberi,  nei  paesi  caldi,  per  permettere  che  affluisca  ai  grappoli  una 
quantità  d'  acqua  sufficiente,  e  nei  paesi  temperati  acciò  essi  possano 
godere  per  più  lungo  tempo  del  calore  necessario  alla  maturazione. 
Spesso  converrà  pure  ritardare  la  vendemmia  negli  autunni  piovosi, 
per  attendere  le  giornate  serene  che  generalmente  non  mancano  in 
quei  mesi  dell'anno,  come  or'ora  avvertimmo. 

Invece  converrà  anticiparla  in  quei  paesi  ove  per  circostanze  ec- 
cezionalmente favorevoli  la  maturazione  si  fa  tanto  perfetta  che  i 
mosti,  soverchiamente  sciropposi,  fermentano  stentatamente  e  produ- 
cono vini  dolciastri  e  cagionevoli:  in  simili  casi  se  non  si  anticipa  entro 
giusti  limiti  la  raccolta  dell'uva,  è  impossibile  fabbricare  vini  da  pasto 
quali  la  grande  consumuzione  richiede.  Nella  nostra  opera  sulla  Eno- 
logia (pag.  153)  abbiamo  lungamente  ragionato  intorno  a  questo  grave 
soggetto,  onde  rimandiamo  colà  il  lettore,  perchè  l'argomento  è  piut- 


(1)  Veggansi  i  molti  dettagli  che  si  trovano    nella  nostra  opera  Enologia  teo- 
rico-pratica p.    147. 


620  CAPITOLO  XXI 


tosto  enologico  che  viticolo.  Converrà  pure  vendemmiare  con  qualche 
anticipazione  le  uve  invase  dalla  crittogama,  perchè  quando  le  uve 
incominciano  a  maturare,  V oidio  sospende  momentaneamente  i  suoi 
attacchi  per  riprenderli  con  vigore  non  appena  l'uva  abbia  raggiunto 
la  maturità,  il  che  abbiamo  constatato  nuovamente  nell'autunno  del 
1883:  è  perciò  necessario  raccoglierle  nel  momento  di  tregua  della 
malattia.  Infine  si  anticipi  la  vendemmia  dei  vigneti  di  terre  molto 
feraci,  peggio  se  umide,  la  cui  uva  è  soggetta  a  marcire  con  faci- 
lità ed  a  coprirsi  di  muffa:  è  sempre  preferibile  un'uva  sana  an- 
che poco  matura,  che  può  correggersi  collo  zuccheraggio,  a  quella 
fradicia,  da  cui  non  è  possibile  ricavare  alcun  partito. 

§  5.  Il  bando  della  vendemmia.  —  Tanto  in  Italia  come  in 
Francia,  in  parecchie  regioni,  non  è  lecito  vendemmiare  quando  più 
piace  al  viticultore,  perchè  vi  sono  i  bandi  che  lo  vietano.  Questi 
bandi  hanno  ancora  dei  partigiani;  eppure  noi  siamo  intimamente 
persuasi,  dopo  un  maturo  studio  della  quistione,  che  anche  nelle  con- 
dizioni attuali  dell'enologia  italiana  e  del  nostro  commercio  vinicolo, 
nulla  vi  sia  di  più  illogico  e  di  meno  efficace  del  bando  delle  ven- 
demmie. Si  spera  con  esso  di  porre  un  freno  alla  produzione  dei  vini 
d'uva  poco  matura,  i  quali  dopo  tutto  se  non  sono  per  nulla  pregiati, 
non  sono  però  pregiudizievoli  all'igiene  pubblica,  come  si  credette  e 
si  disse  da  alcuni  zelanti  economisti  di  quella  scuola  che  ancora  non 
sa  darsi  pace  per  la  liberale  sentenza  dello  Smith  «  lasciate  fare 
lasciale  passare  ».  Ma  non  si  dubiti,  che  l'esperienza  ed  il  bisogno 
faranno  assai  più  di  quanto  non  abbiano  sin'ora  fatto  i  bandi;  nelle 
condizioni  economiche  attuali  e  future  dell'  enologia  italiana  nessun 
viticultore  sarà  tanto  poco  accorto  da  vendemmiare  fuor  di  tempo 
le  sue  uve  colla  certezza  di  ottenere  un  vino  deprezzato,  perchè 
mediocre,  e  quindi  colla  certezza  di  rimetterci  un  tanto  ogni 
anno. 

Ma  non  sono  soltanto  queste  le  ragioni  per  cui,  a  simiglianza  del 
Médoc  (Bordolese)  e  di  varie  provincie  italiane,  si  dovrebbe  in  tutta 
la  nostra  penisola  lasciar  libero  il  momento  delle  vendemmie:  noi 
crederemmo  di  poter  accennare  alle  altre  seguenti,  che  ci  paiono 
gravissime: 

1°)  La  grande  promiscuità  dei  ceppi  nei  nostri  vigneti  rende 
sommamente  dannoso  il  bando  delle  vendemmie,  il  quale  suppone  ab- 
biano tutte  le  us- e  a  maturare  nello  stesso  momento  o  poco    meno; 


L' UVA  621 


2°)  Vi  sono  circostanze  speciali  (e  spesso  v'  ha  la  reale  neces- 
sità) in  cui  è  bene  anticipare  la  raccolta  delle  uve; 

3°)  Non  si  può  impedire  ad  ogni  agricoltore  di  valersi  a  suo 
talento  e  quando  meglio  gli  accomoda  del  prodotto  de'  suoi  campi 
senza  offendere  gravemente  la  libertà  individuale; 

4°)  Spesso  accade  che  ritardando  la  vendemmia  per  ordine  del- 
l'autorità municipale,  le  uve  si  guastino  gravemente,  appunto  in  quei 
vigneti  che  esigono  una  vendemmia  più  precoce  che  non  gli  altri 
del  Comune;  in  tal  caso  il  Municipio  dovrebbe  risarcire  il  viticul- 
tore  dei  danni  sofferti,  —  ma  ciò  non  è; 

5°)  La  legge  comunale  (e  neppure  il  tante  volte  citato  articolo 
104  di  essa,  che  si  riferisce  all'igiene  pubblica,  ecc.)  non  dà  ad  un 
Comune  il  diritto  di  emanare  così  fatti  bandi,  poiché  se  ciò  fosse 
stato  nel  pensiero  del  legista,  la  legge  avrebbe  sentenziato  in  modo 
tassativo  essere  l'uso  del  vino  di  uve  immature,  come  1'  uso  degli 
alcool  ecc.  dannevole  alla  salute,  locchè  non  fu  fatto;  quindi  a  voler 
essere  logici  dovrebbero  quei  Municipii,  che  fissano  le  vendemmie,  pro- 
scrivere altresì  la  vendita  degli  spiriti,  che  sono  immensamente  più 
pericolosi  dell'innocuo  vino  acerbo; 

6°)  Infine,  siccome  l'art.  2  della  legge  14  luglio  1852  ed  il  13mo 
della  legge  14  luglio  1864  accordano  ai  proprietarii  colpiti  da  in- 
fortunii  atmosferici,  la  remissione  della  loro  imposta,  e  siccome  esi- 
stono sentenze  di  Corti  d'Appello,  le  quali  ammisero  che  sotto  l'ap- 
pellativo generale  d' infortunii  atmosferici  si  debbano  comprendere 
tutti  quegli  accidenti  straordmarii  che  devastano  i  frutti  o  disperdono 
porzione  degli  alberi  (1),  così  ci  pare  che  anche  il  Municipio,  il  quale 
con  un  suo  bando  della  vendemmia  manda  alla  malora  il  prodotto 
d'un  vigneto,  dovrebbe  essere  tenuto  a  rifare  il  viticultore  per  si- 
mili danni  patiti. 


(1)  Corte  d'Appello  di  Cagliari:  sentenza  11  settembre  1870.  Anche  rirruzione 
delle  cavallette  si  ritenne  compresa  fra  simili  infortunii. 


CAPITOLO  XXII 


Sistemi  speciali  di  educare  la  vite  bassa. 


§  1.  Qual' è  il  miglior  sistema  di  educare  la  vite?  —  §2.  Classificazione  dei  si- 
stemi in  uso  —  §  3.  Sistema  latino  secondo  Columella  —  §  4.  Sistema  ad  al- 
berello: modificazione  Ottavi  —  §  5.  Sistema  ad  ombrello  —  §  6.  Sistema  a 
connocchia  —  §7.  Sistema  a  capo  annoccato  —  §  8.  Sistema  a  piramide  — 
§  9.  Sistema  casalese  e  siciliano  —  §  10.  Sistema  Guyot;  modificazioni  Boschiero 
e  Panizzardi  —  §11.  Sistema  Vannuccini  —  §  12.  Sistema  Cazenave-Marcon  — 
§  13.  Sistemi  avellinesi  —  §  14.  Sistemi  del  suburbio  di  Roma  —  §  15.  Si- 
stema di  Hooinbrenck  a  tralci  inclinati  —  §  16.  Sistema  Aubry  o  ad  S.  — 
Sistema  a  cavatappi  —  §  17.  Sistemi  di  Stradella  e  Broni  —  §  18.  Sistema 
di  Asti  —  §  19.  Educazione  a  tralcio  lungo  per  le  pianure,  sistema  Bisinotto — 
§  20.  Coltura  della  vite  nelle  dune  —  §  21.  Coltura  delle  viti  eri  chaìntres. 


§  1.  Qual'è  il  miglior  sistema  di  educare  la  vite?  —  Non 

tutti  i  sistemi  di  viticoltura  sono  buoni,  cioè  razionali  e  consentanei 
alle  leggi  naturali  che  governano  la  vegetazione  e  la  fruttificazione 
delle  viti;  non  si  può  tuttavia  dichiarare  che  un  dato  sistema,  fra  quelli 
razionali,  sia  superiore  agli  altri  tutti,  e  debba  solo  adottarsi.  Le  dif- 
ferenti condizioni  di  suolo  e  di  clima  in  cui  può  coltivarsi  la  vite, 
nonché  le  varie  esigenze  commerciali,  fanno  sì  che  fra  i  quattro  o 
cinque  sistemi  razionali  che  si  conoscono,  sia  opportuno  scegliere  or 
questo  or  queir  altro,  a  seconda  di  quelle  condizioni  medesime.  E 
poiché  abbiamo  parlato  di  esigenze  commerciali,  diremo  che  se  da 
una  data  regione  si  pretendono  piuttosto  vini  di  lusso  che  vini  da 
pasto  di  grande  commercio,   dovrà   scegliersi  un  sistema  di   coltura 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE   LA  VITE  BASSA  623 


diverso  da  quello  necessario  per  la  grande  produzione  dei  vini  usuali. 
In  quesf  ultimo  caso  —  che  è  il  caso  più  generale,  perchè  il  90 
per  0[o  dei  viticultori  italiani  ha  sovratutto  interesse  a  produrre 
vini  da  pasto  e  da  commercio  —  il  miglior  sistema  di  viticoltura 
è  quello  che  permette  di  risolvere  il  problema  della  produzione 
a  buon  mercato  e  copiosa,  per  poter  quindi  esitare  il  vino  a 
prezzi  moderati.  Infatti  oramai  pel  viticultore  torna  assai  più  fa- 
cile realizzare  vistosi  guadagni  vendendo  molto  a  buon  mercato,  che 
non  vendendo  poco  ad  alti  prezzi;  sono  i  vini  di  grande  consuma- 
zione che  sono  quotidianamente  ricercati  in  molta  copia,  mentre  i 
vini  scelti  possono  solo  offrirsi  al  ricco  che  non  bada  alla  spesa.  In 
generale  bisogna  produrre  vini  di  gusto  franco  e  di  bel  colore  vi- 
vace, da  potersi  esitare  da  30  a  40  lire  l'ettolitro,  secondo  la  qua- 
lità; con  simili  vini  è  impossibile  che  la  merce  resti  lungo  tempo 
invenduta  in  cantina.  La  vite  specializzata,  allevata  ad  alberello, 
o  col  sistema  monferrino,  o  col  sistema  a  piramide,  o  collo  scansa- 
nese  può  produrre  senza  sforzi  50  ettolitri  di  vino  ad  ettare,  con 
una  spesa  di  circa  800  lire,  compreso  il  fitto  del  suolo,  e  supposta 
una  concimazione  triennale  del  costo  di  300  lire  (100  annuali);  ma 
supponendo  anche  che,  per  la  scarsezza  della  mano  d'opera,  la  spesa 
tocchi  le  1000  lire,  nondimeno  si  produrrebbe  pur  sempre  l'ettolitro 
di  vino  a  20  lire.  Ora,  esso  si  venderebbe  poi  facilmente  almeno  a  30, 
tocche  rappresenterebbe  un  beneficio  netto  di  500  lire  ad  ettare.  In 
questi  calcoli  non  vi  è  nulla  di  esagerato,  poiché  un  ettare  a  vigna 
specializzata  può  rendere  più  di  50  ettolitri,  se  i  vitigni  sono  fertili, 
già  al* 6°  o  7°  anno. 

Concluderemo  dicendo,  che  in  tesi  generale  è  sempre  da  racco- 
mandarsi quel  sistema  di  viticoltura  il  quale  mentre  permette 
alla  vite  di  produrre  abbondantemente  senza  grave  scapito  della 
sua  longevità  e  della,  qualità  del  prodotto,  non  richiede,  d'altra 
parte,  esorbitanti  spese  di  mano  d' opera,  e  permette  la  buona 
e  facile  esecuzione  dei  lavori  del  suolo,  specialmente  cogli  ani- 
mali, se  si  tratta  di  vigneti  di  qualche  estensione. 

Ma,  qualunque  sia  il  sistema  adottato,  noi  crediamo"  che  la  vite 
debba,  salvo  pochi  casi  speciali,  coltivarsi  intensivamente.  La  viti- 
coltura intensiva  è  quella  che  cerca  di  ottenere  un  grande  prodotto 
di  uva  da  una  superficie  piccola  o  mediocre,  e  ciò  senza  discapito 
nella  qualità  del  prodotto   stesso;  invece   la    viticoltura   estensiva  è 


624  CAPITOLO  XXII 


quella  per  cui  si  coltivano  grandi  estensioni  di  terreno,  acconten- 
tandosi d'  un  prodotto  anche  mediocre.  Quale  dei  due  sistemi  è  il 
preferibile?  È  questa  una  quistione  di  pura  economia  rurale,  che  si 
risolve  colla  contabilità.  Se  lo  spazio  non  ci  facesse  difetto  citeremmo 
qui  molti  dati,  tolti  a  casi  pratici,  dai  quali  risulterebbe  evidente  che 
la  viticoltura  intensiva  è  la  più  proficua;  della  qual  cosa  sono 
del  resto  persuasi  tutti  i  viticultari  di  qualche  levatura,  parecchi  dei 
quali  hanno  venduto  un  terzo  od  una  metà  delle  loro  vaste  terre 
vitate,  per  coltivare  meglio  i  due  terzi  o  la  metà  rimanenti.  Non 
potendo  occupare  molte  pagine  a  citare  i  suddetti  dati,  ci  limiteremo 
a  riassumerne  alcuni: 

a)  La  coltivazione  d' un  vigneto  dell'  estensione  di  30  ettari, 
costa  circa  800  lire  ad  ettare,  compreso  il  fìtto  e  supposta  una  con- 
cimazione triennale:  in  totale  son  dunque  L.  24,000.  Ma  il  prodotto  non 
può  essere  molto  elevato,  perchè  la  vite,  per  produrre  molto,  richiede 
minute  cure,  e  queste  le  mancano  in  gran  parte  nella  coltura  esten- 
siva, non  foss'  altro  perchè  lo  stesso  proprietario  non  può  esercitare 
su  tutto  il  vigneto  quella  sorveglianza  che  è  necessaria,  anzi  indi- 
spensabile. Il  prodotto  adunque  si  deve  valutare  in  media  a  40  et 
tolitri  ad  ettare,  i  quali  venduti  a  L.  25  danno  un  reddito  lordo  di 
L.  1000  ad  ettare:  in  totale  L.  30,000.  Il  benefìcio  netto  sarebbe 
di  L.  6000. 

b)  Invece  la  coltivazione  d'un  vigneto  dell'estensione  di  soli  10 
ettari,  costerebbe  (a  L.  800  per  ettare)  L.  8000.  Ma  il  prodotto  sa- 
rebbe almeno  doppio,  per  le  ragioni  sovra  esposte  e  come  accade 
realmente  in  pratica,  cioè  80  ettolitri  di  vino,  che  a  L.  25  danno 
L.  2000  ad  ettare,  ed  in  totale  L.  20,000  di  reddito  lordo.  Il  be- 
neficio netto  sarebbe  allora  di  L.  12,000. 

Per  quanto  si  vogliano  ridurre  questi  ultimi  calcoli,  facendo 
scendere  il  prodotto  netto  dalle  12  mila  alle  10  mila  lire,  od  anche 
alle  8  mila  (locchè  sarebbe  contro  i  risultati  dell'esperienza  di  pro- 
vetti viticultori)  rimane  sempre  dimostrato  in  modo  palmare  che  la 
vite,  pianta  che  esige  minute  cure  di  coltivazione,  deve  colti- 
varsi intensivamente  se  si  vuol  produrre  molto  ed  a  buon  mer- 
cato. Infatti  nel  primo  caso  la  produzione  di  un  ettolitro  di  vino  co- 
sterebbe L.  20,  e  nel  secondo  caso  sole  L.  10:  in  quest'ultimo  caso, 
per  quanto  i  prezzi  del  vino  ribassino,  la  coltivazione  non  si  farebbe 
mai  perdente. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE    LA  VITE   BASSA  625 

§  2.  Classificazione  dei  sistemi  in  uso.  —  La  vite  si  mostra 
cotanto  docile  nelle  mani  del  potatore,  che  le  vennero  inflitte  le  più 
strane  forme,  alte,  basse,  bassissime,  ad  ombrello,  a  connocchia,  a 
cavatappi,  ad  s,  ecc.  ecc.  d'  onde  gli  svariatissimi  sistemi  di  educa- 
zione oggi  in  uso  a  seconda  delle  differenti  condizioni  di  clima,  di 
terreno,  di  situazione  e  di  vitigno,  nonché  a  seconda  dei  prodotti  che 
si  vogliono  ottenere,  se  cioè  uve  da  vino  comune,  da  vino  scelto 
oppure  uve  da  tavola  e  via  dicendo. 

Tutti  questi  sistemi  si  possono  però  suddividere  in  due  grandi  ca- 
tegorie: viti  basse  e  viti  alte;  queste  poi  danno  luogo  ad  altre  sud- 
divisioni, le  quali  crediamo  si  possano  raggruppare  nel  modo  se- 
guente: 

(  senza  sostegni 

,7...     1+         (  a  potatura  corta  ) 

Vltl   alte  (con  sostegni 

(ceppaia  corta)  |  a  potatura  lunga 


Viti  basse      [maritate  a  tutori 
(ceppaia  lunga) \a  pergoMi 


morti 


Descriveremo  nei  paragrafi  seguenti  alcuni  fra  questi  sistemi  di 
educare  la  vite. 

§  3.  Sistema  latino  secondo  Colnmella.  —  Si  odono  così 
spesso  citare,  dagli  studiosi  di  viticoltura,  i  precetti  dell'  eminente 
agronomo  latino,  che  vogliamo,  prima  di  descrivere  i  sistemi  mo- 
derni, esaminarli  colla  scorta  d'un  antico  libro  molto  attendibile  (1) 
e  che  abbiamo  già  ricordato  nelle  pagine  precedenti. 

Premetteremo  che  i  Romani  antichi  avevano  essi  pure  varii  si- 
stemi di  educare  le  viti,  cioè  ad  alberello  senza  sostegni,  a  caval- 
letto o  giogo  semplice,  a  paliccìata  colle  canne,  e  striscianti  cioè 
distese  a  terra  (2).  Le  viti  senza  sostegni  ricevevano  una  canna  nei 


(1)  Il  Agricoltura  di  Lucio  Giunio  Moderato  Columella,  volgarizzata  da  Bene- 
detto Del  Bene.  È  questa  forse  la  migliore  traduzione  del  prezioso  libro  del  dotto 
agrofilo  Columella,  che  superò  Catone  e  Varrone  e  che  fece  le  spese  di  tanti 
altri  scrittori,  che  lo  seguirono  e  se  ne  appropriarono  i  precetti. 

(2)  Columella  (op.  cit.  p.  253)  dice  «  1'  ultima  foggia  è  delle  viti  distese  per 
terra,  le  quali  dalla  pianta,  sì  tosto  che  è  nata,  come  gittate  innanzi,  si  allun- 
gano sopra  il  suolo.  »  Si  direbbe  che  da  questo  sistema  siano  venute  le  viti  en 
chaintres  (v.  §  21). 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  41 


626  CAPITOLO    XXII 


primi  anni;  poi,  rinforzatosi  il  ceppo,  si  levava  il  tutore  e  si  pota- 
vano le  viti  o  a  capitozza,  o  a  speroni,  generalmente  in  numero 
di  quattro.  Nel  rimanente  il  metodo  di  cultura  non  differiva  da  quello 
seguito  per  gli  altri  sistemi;  Plinio  Secondo  infatti  dice  (1)  «  il 
sistema  delle  viti  tenute  ritte  di  per  sé,  non  differisce  per  nulla  da 
quello  delle  viti  con  un  sol  palo  piantato  al  piede;  imperocché  solo 
per  la  scarsezza  dei  pali  non  si  mette  anche  ad  esse  il  sostegno.  » 

Ma  torniamo  ai  precetti  di  Columella. 

Columella  adunque  vorrebbe  anzitutto  che  la  vigna  fosse  piantata 
in  terreno  piuttosto  sciolto,  ben  prosciugato  e  non  troppo  fertile; 
consiglia  quindi  ogni  viticultore  a  farsi  il  suo  vivaio  mediante  talee 
piantate  in  un  appezzamento  di  terreno  non  troppo  fertile,  massime 
dovendo  trapiantare  poi  le  barbatelle  in  vigneto  a  sua  volta  poco 
fertile,  perchè,  dice  il  nostro  autore,  «  è  da  coltivatore  avveduto  il 
trapiantare  da  terreno  meno  buono  in  terreno  migliore  ».  Però  egli, 
dicendo  terra  non  troppo  fertile,  non  intende  già  di  dire  terra  magra 
e  sterile  del  tutto;  anzi  la  sconsiglia  chiaramente,  perchè  allora  i 
ma§lioli  periscono  in  gran  parte,  e  raccomanda  invece  uno  scasso 
profondo  fatto  colla  vanga,  per  favorire  la  formazione  d'  un  ampio 
sistema  radicale  della  barbatella.  I  maglioli  si  debbono  prendere  solo 
da  pianta  robusta  e  ferace,  e  devono  essere  veri  maglioli,  cioè  col 
loro  pezzetto  di  vecchio  ad  una  estremità  a  guisa  di  martello,  d'onde 
appunto  malleus  (martello)  e  malleolus  (magliolo,  cioè  martellino). 

Columella  è  un  po'  contrario  —  pel  piantamento  della  vigna  — 
ai  maglioli,  e  consiglia  invece  le  barbatelle,  perchè  rappigliano  più 
facilmente,  e  danno  frutti  prima:  egli  tollera  il  magliolo  solo  in  terre 
«  maneggevoli  e  sciolte  ».  —  Quanto  qui  dice  Columella  è  giusto, 
ma  è  pure  esatto  di  dire  che  i  maglioli  e  le  talee  danno  viti  più 
longeve  e  robuste;  e  se  non  fosse  per  il  rappigliamento  loro,  che  è 
spesso  troppo  scarso,  sarebbero  preferite  dai  viticultori,  laddove  ora 
accade  il  contrario,  e  tutti  vogliono  barbatelle. 

Columella  raccomanda  poi  il  piantamento  alquanto  profondo,  ma 
egli  parla  sovratutto  di  terreni  soffici  in  clima  caldo,  e  noi  sappiamo 
che  ancora  oggidì  nei  dintorni  di  Napoli,  in  quei  terreni  lapillari,  i 
maglioli  si  spingono  anche  oltre  1  metro  e  1{2  di  profondità:  nelle 
terre  compatte  però  la  cosa  muta  aspetto,  massime  nei  climi  freschi, 
ove  non  conviene  scendere  oltre  a  25  o  30  cent. 


(1)  La  vigna  latina  (trad.  di  L.  Recchia)  pag.  17. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  627 

Il  nostro  autore  latino  insiste  poi  sulla  necessità  di  zappare  fre- 
quentemente il  vigneto  «  così  da  ridurre  in  polvere  il  divelto  »  e 
di  far  la  guerra  alle  erbe  parassite  e  «  le  gramigne  principalmente  » 
che  egli  consiglia  di  cogliere  a  mano,  altrimenti  si  ravviverebbero. 

Alle  giovani  piantine  egli  consiglia  di  allevare  solo  due  pampini, 
togliendo  il  restante  siccome  superfluo  (1);  quando  poi  questi  ram- 
polli si  saranno  induriti  e  se  si  possa  fare  a  fidanza  con  uno  solo 
di  essi,  si  sopprima  l'altro:  ciò  accadrà  al  secondo  anno. 

Nell'autunno,  dice  Columella,  e  precisamente  sul  finire  dell'ottobre, 
conviene  scalzare  la  vigna  «  il  qual  lavoro  mostra  scoperte  le  bar- 
boline  che  essa  nella  state  gittò;  e  queste  dal  saggio  viticultore  sono 
col  ferro  troncate:  conciossiachè  s'ei  lascia  che  si  rassodino,  vengono 
meno  le  altre  più  basse,  e  ne  segue  che  la  vigna,  presso  la  super- 
ficie del  suolo  metta  radici,  le  quali  sieno  e  danneggiate  dal  freddo, 
e  ne'  calori  sommamente  ribollano  ed  al  nascere  della  Canicola  fac- 
ciano patire  gagliarda  sete  alla  madre  ».  Questo  precetto  di  Colu- 
mella  è  ancora  seguito  oggidì  da  varii  viticultari,  massimamente  in 
Sicilia  e  nei  paesi  caldi  in  genere;  esso  però  non  è  del  tutto  sco- 
nosciuto nell'Alta  Italia,  e  l'abbiamo  visto  posto  in  pratica  in  Mon- 
ferrato anche  allo  scopo  di  immagazzinare  nel  suolo  in  maggior  copia 
le  acque  piovane  autunnali  ed  iberni:  ai  primi  calori  la  vite  scalzata 
si  rincalza.  Columella  raccomanda  la  scalzatura  specialmente  nei  primi 
cinque  anni  del  piantamento  della  vite. 

La  prima  potatura,  secondo  l'A.  deve  farsi  solo  a  due  gemme, 
praticando  un  taglio  obliquo  nell'  internodo,  quasi  frammezzo  alla 
2a  gemma  e  la  terza  (che  va  soppressa  col  resto  del  tralcio);  il  taglio 
obliquo  egli  lo  consiglia  giustamente  acciò  «  la  cicatrice  non  ritenga 
l'acqua  che  dal  cielo  vi  cadrà  sopra  »  e  lo  vuole  non  inclinato  dalla 
parte  ove  sta  l'occhio,  ma  a  quella  di  dietro  {in  tergum)  perchè 
ove  l'umore  avesse  a  sgocciolare  sovra  1'  occhio,  lo  danneggerebbe. 
In  quanto  alla  stagione  più  propizia  per  potare,  Columella  dice  che 
la  primavera  è  preferibile  «  dove  è  clima  freddo  »,  mentre  è  ottimo 


(1)  In  ciò  egli  è  contrario  a  Virgilio,  a  Saserma,  agli  Stoloni  ed  ai  Catoni, 
che  dopo  il  primo  anno  del  piantamento  volevano  non  si  potasse  affatto  la 
pianticella,  ma  si  lasciassero  intatte  tutte  quante  le  cacciate:  è  chiaro  che  al 
2°  anno  invece  di  avere  due  bei  tralci  fra  cui  scegliere  per  la  potatura,  si  ha. 
allora  un  fascio  di  getti  meno  belli,  fra  i  quali  la  scelta  non  è  sempre  possi- 
bile. Tuttavia  non  potando,  si  favorisce  la  formazione  di  un  ampio  sistema  ra- 
dicale, onde  vi  sono  vantaggi  in  tutte  e  due  i  casi. 


628 


CAPITOLO   XXII 


l'autunno  «  dove  i  luoghi  sono  soleggiati  e  gli  inverni  miti  »;  ma 
di  questo  precetto,  al  quale  in  massima  sottoscriviamo  noi  pure,  egli 
non  ci  porge  alcuna  spiegazione,  e  non  accenna  al  pianto  della  vite, 
copioso  quando  si  pota  in  primavera  e  che  —  nei  climi  umidi  — 
può  salvare  molti  fiori  dall'  aborto  (francesamente  colatura).  Ma 
andiam  oltre. 

Nel  quarto  autunno  la  vite  si  deve  potare  a  stella,  come  si  vede 
nella  fìg.  198,  ove  si  scorge  anche  il  modo  di  sostegno  detto 
da  Columella  giogo  e  dai  contadini  d'allora,  il  cavalletto:    il  giogo 


Fiff.  198. 


era  fatto  o  con  pertiche  (salcio,  pruno,  ecc.)  o  con  fasci  di  canne; 
i  tralci  frutticosi  il  nostro  autore  li  voleva  di  tale  lunghezza  che 
piegati  e  riversati  sul  giogo,  non  potessero  toccare  terra;  il  soprappiù 
doveva  quindi  tagliarsi  dal  potatore:  i  tralci  non  dovevano  essere 
più  di  tre  in  questo  anno  ed  il  giogo  più  o  meno  alto  secondo  che 
il  terreno  ed  il  clima  erano  più  o  meno  umidi,  perchè  in  questo  caso, 
alzando  le  viti  da  terra,  il  frutto  si  guasta  meno,  dice  Columella: 
egli  poi  soggiunge  che  «  le  viti  danno  il  mosto  di  tanto  miglior  sa- 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  629 

pore  quanto  su  più  alti  gioghi  elle  corrono  »  la  qual  cosa  espressa 
in  modo  così  esclusivo  abbiamo  già  visto  che  è  erronea  (pag.  614). 

Columella  poi  raccomandava  che  il  tronco  fosse  tenuto  ben  diritto, 
senza  ricurvature  e  nodi,  così  da  lasciar  salire  i  succhi  alimentari 
«  senza  svoltatura  né  ostacolo  »,  su  di  che  ci  riserviamo  di  ritor- 
nare prossimamente:  —  nel  sistema  che  il  nostro  autore  descrive, 
dal  tronco  partono  tre  o  quattro  braccia  che  si  distendono  pei  quattro 
lati  del  giogo,  ed  i  polloni  di  queste  braccia  si  piegano  in  basso,  e 
sono  essi  che  recano  i  frutti. 

Al  quinto  anno  si  procede  analogamente:  cioè  il  tronco  si  lascia 
innalzare  fin  circa  ad  un  piede  di  distanza  dall'impalcatura  del  giogo; 
quivi  esso  si  divide  in  quattro  braccia  {induramenti)  con  ciascuna 
un  pollone  da  frutto:  ma  crescendo  la  vite  negli  anni,  ogni  braccio 
può  portare  anche  due  polloni  frutticosi,  massime  se  il  suolo  è  uber- 
toso. Columella  insiste  perchè  non  si  oltrepassi  questo  numero,  cor- 
rispondente ad  8  tralci  frutticosi  per  pianta.  Quando  poi  le  braccia 
ingrossano,  si  tagliano  e  si  alleva  al  loro  posto  una  nuova  rimessa 
del  tronco  potandola  a  2  o  3  gemme,  così  da  impedire  che  la  pianta 
si  innalzi  di  troppo  ed  oltrepassi  la  impalcatura  del  giogo:  questa 
nuova  rimessa  Columella  la  chiama  guardia  o  sussidiatore,  e  cor- 
risponde ai  nostri  speroni  che  lasciamo  appunto  quando  vogliamo 
abbassare  la  vite. 

La  potatura  verde  (la  scacchiatura  cioè  e  la  cimatura)  era  cono- 
sciuta ai  tempi  di  Columella. 

Il  vecchio  agronomo  è  caldo  partigiano  della  scacchiatura  delle 
viti,  le  quali  egli  vorrebbe  avessero  il  loro  tronco  netto  da  ogni  pol- 
lone inutile,  o,  come  diciamo  noi,  ghiottone:  anzi  egli  vuole  che  questo 
ripulimento  incomincii  dalle  radici  superficiali,  ìocchè  si  pratica  an- 
cora oggidì  nei  dintorni  di  Roma  ed  in  altri  locali  del  nostro  paese. 
Nei  paesi  molto  caldi  queste  radici  superficiali  soffrono  assai  il  secco 
estivo  e^di  rimando  ne  soffre   molto  la  pianta  stessa. 

«  Compita  poi  la  cura  per  dir  così  dei  piedi,  si  dee  mirar  intorno 
alle  gambe  stesse  ed  a'  tronchi  (prosegue  Columella)  sicché  né  pol- 
lone pampanaio  nato  fra  mezzo,  né  tubercoletto  simile  a  porro  si 
lasci,  fuorché  se  la  vite,  gettatasi  al  disopra  del  giogo  (fig.  198  pa- 
gina 628)  bramerà  di  essere  richiamata  dalla  parte  inferiore  »  la 
qual  cosa  noi  diciamo  ora  abbassare  la  vite.  Ed  altrove  egli  dice 
che  quando  le  viti  si  saranno  vestite  di  frondi  e  d'  uva  si  devono 
levare  colle  mani  i  pampini  sovrabbondanti  e  sterili,  per  «  rassodare 


630  CAPITOLO   XXII 


meglio  i  tralci  che  hanno  frutti  e  soleggiare  meglio  le  uve  »  e  per 
«  far  più  spedita  la  potatura  per  l'anno  vegnente  ». 

Come  si  vede  Columella  non  vuole  che  la  vite  abbia  a  disperdere 
il  suo  succo  in  quelle  produzioni  inutili  che  spesso  ne  ingombrano  il 
tronco,  e  questo  aureo  precetto  dello  scacchiare  si  applica  special- 
mente (come  giustamente  accenna  in  seguito  lo  stesso  autore)  a  quelle 
piante  nelle  quali  l'umore  non  abbonda,  vale  a  dire  alle  piante  at- 
tempate e  come  esaurite  e  spossate:  in  queste  condizioni  è  bene, 
anzi  è  necessario,  evitare  un  soverchio  frazionamento  del  succo  in 
polloni  inutili,  perchè  infruttiferi,  e  conviene  perciò  praticare  la  scac- 
chiatura,  non  solamente  a  vantaggio  dei  frutti  pendenti,  ma  anche 
a  prò  delle  gemme  ascellari  in  via  di  formazione,  le  quali  ci  debbono 
dare  la  successiva  vendemmia.  Gli  è  appunto  in  vista  di  questo  du- 
plice ed  importante  scopo  che  parecchi  nostri  bravi  viticultori  non 
limitano  solo  la  scacchiatura  ai  getti  che  spuntano  sul  tronco  delle 
viti,  ma  la  estendono  a  tutti  quei  polloni  che  non  portano  uva,  ri- 
spettando unicamente  quelli  (uno  o  due)  che  potrebbero  giovare  ad 
abbassare  la  vecchia  pianta. 

Ed  a  proposito  di  vecchie  piante,  Columella,  vuole,  oltre  la  scac- 
chiatura, lo  scortecciamento  e  la  ripulitura  dei  tronchi;  «  anche 
la  buccia  secca  e  screpolata,  dice  egli,  che  pende  dall'alto  del  tronco, 
s'ha  da  scorzar  fino  al  corpo;  dacché  la  vite,  come  da  sordi- 
dezze sgombra,  meglio  si  assoda  e  meno  feccia  porta  nel  vino.  Il 
musco  poi,  che  a  foggia  di  ceppi,  legate  comprime  le  gambe  alle 
viti,  e  col  lezzo  e  col  vecchiume  le  fa  intristire,  vuoisi  sbrattar  col 
ferro,  e  raderlo  via  ». 

Veniamo  ora  alla  cimatura  o  svettatura.  Columella  dice  che  al- 
lorquando i  tralci  a  frutto  sono  cresciuti  per  una  lunghezza  suffi- 
ciente, così  da  poter  passare  oltre  al  giogo  (fig.  198  pag.  628)  «  si 
debbono  rompere  le  vette  ond'essi  si  rinforzino  piuttosto  in  grossezza 
che  assotigliarsi  in  lunghezza  inutile  ».  Ed  altrove  soggiunge  che 
«  lo  spezzar  le  cime  giova  a  frenare  il  rigoglio  delle  viti  »,  il  quale 
rigoglio  è  contrario  alla  fruttificazione,  mentre  fa  sperdere  il  succo 
in  una  copiosa  produzione  erbacea.  Come  si  vede  anche  le  cimature 
sono  assai  antiche,  e  raccomandate  dal  più  dotto  fra  gli  scrittori  di 
georgica  dei  tempi  passati:  di  esse  però  non  solo  non  conviene  abu- 
sare, ma  è  necessario  praticarle  a  tempo  debito  e  nei  dovuti  modi. 
Se  così  avessero  operato  taluni  moderni  sperimentatori,  non  a- 
vrebbero  scritto  cose  cotanto  assolute  contro  questa  pratica  viticola. 


SISTEiMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  631 

Infine  Columella  vuole  anche  la  sfogliatura  parziale  delle  viti  per 
favorire  la  maturanza  dell'  uva,  massimamente  «  nei  luoghi  ombrosi 
ed  umidi  e  freddi  »  dove  questa  pratica  giova  ad  impedire  che  «  il 
frutto  infracidi  »:  però  in  luoghi  molto  caldi  e  soleggiati  Columella 
non  vuole  la  sfogliatura,  anzi  consiglia  di  «  coprire  le  uve  coi  pol- 
loni »  per  impedire  che  i  grappoli  siano  «  bruciati  »  dal  sole,  locchè 
noi  ora  diciamo  scottatura.  Ed  anche  in  ciò  l'autore  latino  concorda 
cogli  scrittori  moderni. 

Come  si  vede  nulla  vi  ha  di  nuovo  sotto  il  sole,  e  molti  precetti 
della  moderna  viticoltura  anziché  recenti  sono  antichissimi.  Ne  potrem- 
mo avere  altra  prova  esaminando  quanto  scrisse  Plinio  Secondo  nel 
libro  XVII  della  sua  Storia  Naturale  (1);  bene  a  ragione  scrisse 
dunque  Berti-Picliat  che  la  viticoltura  latina  aveva  raggiunto  tale 
grado  di  perfezione  che  le  più  celebrate  pratiche  odierne  anche  di 
oltremonte,  sono  imitazione  di  quelle  degli  antichi  Italiani! 

§   4.   Sistema  ad  alberello:   modificazione   Ottavi.   —  Il 

sistema  ad  alberello  senza  sostegni  è  specialmente  adottato,  da 
tempi  assai  remoti,  in  Capitanata,  nelle  Puglie  ed  in  altri  locali 
de\Y  Italia  Meridionale  e  delle  Isole  del  Mediterraneo;  perfeziona- 
tosi poi;  passò  in  Francia  nelVHérauU;  varii  viticultori  lo  hanno  anche 
introdotto,  in  quest'ultimo  ventennio,  in  Toscana,  nell'Umbria,  e  nel- 
l'alta Italia,  ovunque  con  risultati  ottimi.  Per  amor  di  brevità  ci  li- 
miteremo qui  a  descrivere  il  sistema  seguito  in   Capitanata. 

Piantata  la  talea  da  dicembre  a  tutto  gennaio,  a  circa  un  metro 
di  profondità,  il  che  non  può  certo  raccomandarsi,  si  pota  ad  un 
solo  occhio  fuori  terra;  indi  si  zappa  il  suolo  tre  volte:  in  aprile,  in 
agosto  ed  in  ottobre.  In  fine  del  primo  anno  si  pota  di  nuovo  ad  un 
occhio,  ed  al  secondo  anno  si  pratica  la  succisione  (pag.  489)  però 
non  sempre,  il  che  è  da  lodarsi.  Al  terzo  anno  la  vite  si  pota  a  due 
gemme  sopra  un  solo  getto,  ed  allora  essa  incomincia  a  dare  un  po' 
d'uva.  Crescendo  in  vigore  la  vite  si  pota  poi  a  due  speroni  frutti- 
cosi  (fìg.  199)  e  più  tardi  anche  a  quattro  (fig.  200);  ma  se  è  poco 
rigorosa,  le  si  lascia  uno  sperone  solo.  Il  tronco,  cioè  il  ceppo,  è 
molto  basso;  generalmente  è  alto  un  palmo,  e  poscia  succedono  le 
branche  sulle  quali  l^sciansi  i  detti  speroni.  Tra  novembre  e  febbraio 


(1)  C.  Plini  Secundi.  Naturalis  Historiae.  Liber  XVII.  Traduzione  di  L.  Recchia 
Luciani  (1881  —  Altamura). 


632 


CAPITOLO   XXII 


si  zappa  scalzando  un  po'  la  ceppaia,  in  aprile  si  appiana  il  suolo: 
il  tutto  si  fa  a  mano,  essendo  le  viti  distanti  1  metro  in  tutti  i  sensi; 
le  piante  però  non  vi  sono  molto  vigorose.  Ogni  anno  si  tolgono  i 
rimessiticci  o  femminelle,  se  troppo  numerosi,  ma  non  si  fanno  ci- 
mature, volendo  col  fogliame  proteggere  le  uve  sia  dall'ardore  estivo 


Fig.  199. 


Fig.  200. 


sia  dal  favonio,  che  provoca  l' essicamento  degli  acini.  Essendo  le 
piante  molto  basse,  è  necessario  impedire  che  le  uve  tocchino  il  ter- 
reno; a  tal  uopo  si  pratica  Va/fasciatura:  giunta  la  fine  di  maggio, 
cioè  quando  il  giovine  tralcio  si  è  fatto  legnoso  e  più  non  si  rompe, 
il  vignaiuolo  raccoglie  sopra  ogni   ceppaia  i    tralci  più  lunghi    e  vi- 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


633 


gorosi,  e  fa  con  essi  un  grosso  nodo,  come  è  indicato  nelle  fìg.  201 
e  202.  Questa  affasciatura  è  nota  anche  nelle  Puglie,  nel  Barese: 


Fig.  201 


Pig.  202. 


mercè  di  essa,  i  tralci  e  le  uve  non  toccano  terra,  e  vi  sono  anche 
riparati  dai  venti  sciroccali.  Noi  l'abbiamo  sperimentata  sui  colli  di 
Casalmonferrato,  e  con  buon  esito. 


634  CAPITOLO  XXII 


Il  prodotto  medio  ad  ettare  non  supera  in  Capitanata  i  30  etto- 
litri di  vino;  ciò  non  è  molto  per  vigneti  specializzati  come  sono 
quelli  ora  descritti.  Inoltre  le  viti  si  fanno  vecchie  e  quasi  improdut- 
tive al  trentesimo  anno,  e  ciò  è  la  conseguenza  del  piantamento  troppo 
fitto,  su  di  che  abbiamo  ragionato  a  lungo  a  pag.  427  e  seguenti. 
Alcuni  innovatori  intanto  (1)  da  varii  anni  piantarono  le  viti  a  di- 
stanze maggiori,  ed  ora  se  ne  lodano  molto. 

Per  amor  di  brevità  non  diremo  ora  della  vite  ad  alberello  quale  si 
coltiva  in  Francia,  ma  bensì  della  vera  vite  italiana  secondo  i  perfe- 
zionamenti di  coltura  posti  in  pratica  al  nostro  podere  viticolo,  dal 
Prof.  Giuseppe  Antonio  Ottavi  in  quest'  ultimo  quindennio,  con 
brillantissimi  risultati,  e  colla  soddisfazione  di  vedere  molti  proseliti 
in  varie  regioni  della  penisola. 

Col  sistema  ad  alberello  si  mira:  1°  a  concentrare  la  potenza  frut- 
tificatrice  nelle  gemme  basso  locate;  2°  a  lasciare  alla  vite  uno  sfogo 
conveniente;  3°  ad  ottenere  miglior  uva  in  grande  copia  anche  nelle 
annate  sfavorevoli;  4°  a  non  pregiudicare  con  ciò  la  longevità  della 
pianta;  5°  infine  a  realizzare  una  economia  notevole  nelle  spese  di 
mano  d1  opera.  Descrivendo  ora  il  sistema,  si  vedrà  come  si  conse- 
guiscano  questi  notevoli  risultati,  in  base  ai  principii  esposti  in  questo 
libro. 

La  vite  ad  alberello  deve  piantarsi  su  scasso  reale  profondo  in 
media  50  centimetri,  ma  però  ponendo  le  talee  a  non  più  di  0m,25 
in  novembre,  incalzandole,  o  in  maggio;  meglio  in  novembre,  perchè 
chi  pianta  in  autunno  guadagna  un  anno.  Le  file  debbono  essere 
distanti  almeno  3  metri  e  le  piante  1  metro  o  lm,50  al  più  tra  di 
esse;  nell'interfilarc  non  si  deve  coltivare  nulla.  In  aprile  (o  in  giugno 
quando  si  è  piantato  in  primavera)  le  talee  fìg.  203  germogliano 
dalle  due  gemme:  in  questo  primo  anno  non  si  devono  assolutamente 
toccare  questi  germogli  (fìg.  204).  Nel  marzo  o  nell'aprile  del  secondo 
anno  si  potano  ad  uno  sperone  con  4  gemme  libere  (2)  come  si  vede 
nella  fig.  206  B:  quando  però  la  piantina  è  molto  bella  ed  ha  bisogno 


(1)  Ci  piace  ricordare  qui  il  distinto  agronomo  sig.  Leone  Maury  di  Cerignola, 
il  quale  vi  dirige  le  grandi  possessioni  del  Principe  Larochefoucauld. 

(2)  Libere,  cioè  non  tenendo  calcolo  di  quelle  della  base  dei  tralci,  se  tali  gemme 
vi  sono. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


635 


di  maggior  sfogo  si  possono  lasciare  2  speroni,  come  nella  fig.  205  A, 
legandone  uno  al  sostegno  (canne  o   paletti).  Al   successivo   maggio 


Fig.  203. 


Fig.  204. 


Fig.  205. 


Fig.  206. 


si  cima  leggermente,  come  si  vede  nella  fig.  207  in  a  ar:  in  agosto 
si  cimano  le  femminelle  e  la  piantina  prende  l'aspetto  della  fig.  208  (1). 


(1)  Tutti  questi  disegui  sono  tolti  dal  vero  (da  una  pianta  di  barbera  in  ve- 
getazione normale,  cioè  fra  le  più  belle  del  nostro  vigneto  il  Cardello  presso  Ca- 
salmonferrato). 


636 


CAPITOLO  XXII 


Cimando  a  questo  modo  si  fecondano  le  gemme  basso  locate,  come  dìmo- 


207. 


Fig.  203. 


strammo  parlando  della  svettatura.  Nell'aprile  del  terzo  anno  si  pota  a 
3  o  4  speroni  con  ognuno  3  o  4  gemme,  come  si  vede  nella  fig.  209 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


637 


(per  educare  bene  la  giovine  pianta  è  necessario  sin  dal  secondo  anno 
legare  al  sostegno  il  giovine  ceppo).  Con  quella  potagione  ricca  la 
vite  mette  fuori  molti  getti;  a  maggio,  prima  che  la  vite  fiorisca,  si 
pratica  la  cimatura  in  tre  tempi  sui  tralci  frutticosi  togliendo  appena 
le  piccolissime  punte  dei  germogli;  questa  cimatura  fu  descritta  mi- 
nutamente a  pag.  495. 


Fi-    209. 


La  scacchiatura  non  si  deve  praticare  nelle  vigne  giovani  e  vi- 
gorose se  non  dopo  la  fioritura,  togliendo  qualche  germoglio.  Le 
femminelle  si  devono  rispettare,  cimandone  solo  alcune  alla  fine  di 
giugno,  lasciando  però  intatta  la  più  alto  locata  d'ogni  germoglio, 
perchè  ciò  contribuisce  a  far  maturare  bene  e  presto  Y  uva.  Nella 
primavera  del  quarto  anno  si  potano  le  viti  a  5  o  6  speroni  con  3 
gemme,  lasciando  però  solo  2  gemme  agli  speroni  più  alto  locati.  Se 
le  viti  sono  robuste  e  si  teme  la  mal'  annata,  si  può,  anzi  si  deve, 
al  quarto,  quinto,  sesto  anno  e  via  dicendo,  lasciare  un  tralcio  lungo 
piegato  all'  ingiù,  come  nella  fig.  210,  oppure  due  legati  insieme 
ad  arco  (fig.  211):  con  ciò  si    ottiene    molta  uva  (1).  A  maggio  si 


(1)  La  pianta  di  barbera  di  4  anni  disegnata  nella  fig.  210,  benché  non   fosse 
delle  più  vigorose,  portava  36  grappoli  di  eccellente  e  mostosa  uva, 


638 


CAPITOLO  XXII 


cima  in  tre  tempi.  Tra  giugno  e  luglio  si  cimano,  in  due  o  tre  tempi, 
anche  le  femminelle  più  lunghe  e  pendenti,  rispettando  le  altre  nor- 


Fiff.  210. 


mali;  se  tuttavia  le  femminelle  si  allungano  di  soverchio  è  utile  legarle 
con  un  salice  come  in  B  B  (fìg.  212).  Però  15  giorni  prima  della 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


639 


vendemmia  si  troncano  tutte  per  scoprire  le  uve  (fig.  212  A  A  A), 
allora  questo  raccorciamento  non  reca  più  danno  alla  pianta.  I  so- 
stegni si  tolgono  ad  una  parte  dei  ceppi  già  al  quinto  anno;  in  ge- 
nerale al  settimo  anno  si  tolgono  anche  ai  rimanenti  (1).  Le  viti 
sono  allora  solide,  perfettamente  resistenti  all'  urto  dei  venti,  ed  i 
loro  grappoli  non  toccano  al  suolo;  sono  le  cimature  suddette  che 
conferiscono  tanta  robustezza  prima  al  tronco,  poi  agli  speroni,  indi 
ai  getti  fruttiferi  di  questi  speroni  stessi. 


Fiff.  212. 


Le  spese  di  mano  d'opera  richieste  con  questo  sistema  sono  quasi 
la  metà  di  quelle  richieste  coll'ottimo  sistema  monferrino,  che  descrive- 
remo più  innanzi.  E  ciò  perchè  tutte  le  operazioni  sono  assai  più  facili 
e  spiccie:  così  mentre  il  potare  ed  il  far  fascine  negli  alberelli  (2)  costa 


(1)  Nei  nostri  vigneti  abbiamo  potuto  togliere  affatto  i  sostegni,  all'Alicante 
(Canonao?)  al  5°  anno;  —  al  Barbera  ed  al  Cabernet  al  6°;  —  al  Pinot  ed  agli 
altri  vitigni  francesi  in  genere  al  7°. 

(2)  Avvertiamo  che  questi  dati  sono  tolti  dalla  contabilità  agraria  a  partita 
doppia  del  podere  il  Cardello,  dove  son  coltivate  viti  a  varii  sistemi:  sono   dun- 


640  CAPITOLO  XXII 


solo  20  lire  ad  ettare  (3500  piante  ad  ettare  circa),  invece  nelle  viti 
alla  raonferrina  (5500  piante  circa)  costa  70  lire;  locchè  è  certo  in 
parte  da  attribuirsi  al  maggior  numero  di  piante,  alle  quali  però  non 
corrisponde  generalmente  un  maggior  prodotto.  Nel  sistema  ad  al- 
berello le  riparazioni  ai  sostegni  costano  15  lire  ad  ettare,  70  invece 
nell'altro  sistema  che  ha  le  viti  sorrette  da  tre  ordini  di  canne  (anzi 
di  fascetti  di  canne).  Bisogna  poi  notare  che  dopo  il  sesto  anno,  dalle 
spese  di  coltura  delle  viti  ad  alberello  debbono  detrarsi  quelle  pei 
sostegni,  per  le  legature  e  gli  allacciamenti,  locchè  significa  una  eco- 
nomia annua  di  quasi  100  lire  ad  ettare,  oggi  che  la  mano  d'opera 
è  tanto  cara.  In  sostanza,  mentre  nelle  viti  alla  casalese  o  monfer- 
rina  i  lavori  a  mano  costano  circa  450  lire  all' ettare  ed  all'anno, 
nel  sistema  ad  alberello  non  costano  più  di  250:  vi  ha  dunque  una 
economia  del  45  p.  Oiq. 

Ma  v'ha  di  più.  Col  sistema  monferrino  si  richiedono  circa  8000 
canne  ad  anno  (per  ettare),  locchè  corrisponde  ad  una  spesa  di  L.  160 
almeno;  col  sistema  ad  alberello  bastano  30  lire  ad  anno  e  ad 
ettare,  notando  però  che  questa  spesa,  come  quella  dei  salici  vimi- 
nali (L.  30  circa)  dopo  il  sesto  anno  scompare:  ed  allora  si  realizza 
una  economia  di  almeno  190  lire  all'anno  e  ad  ettare,  in  confronto 
coll'altro  sistema.  In  conclusione,  mentre  col  sistema  ad  alberello  la 
spesa  di  coltura  aunua  ammonta  al  più  a  L.  450,  col  sistema  ca- 
salese si  toccano  le  800.  Aggiungendo  400  lire  per  fitto  del  suolo, 
imposte  ed  interessi  dei  capitali  circolanti,  si  avrebbero  L.  850  nel 
sistema  senza  sotegni,  e  1200  in  quello  del  Basso  Monferrato. 

Il  prodotto  è  sempre  superiore  nelle  viti  ad  alberello;  ma  quello 
delle  viti  monferrine  può  raggiungerlo,  massimamente  se  si  tratta 
di  vitigni  assai  produttivi,  come  la  barbera,  la  fresia  e  qualche  altro: 
supponiamolo  però  uguale,  e  valutiamolo  (prendendo  una  media)  a 
1000  miriagr.  d'uva  ad  ettare  del  valore  medio  di  L.  2:  avremo 
quanto  segue: 

Viti  ad  alberello      Viti  monferrine 

Prodotto L.  2000  2000 

Spesa »      850  1200 


Benefìcio  netto  L.  1150  800 


que  dati  esatti.  Avvertiamo  pure  che  la  mano  d'opera  in    Monferrato   oltrepassa 
sempre,  nei  momenti  dei  lavori  nelle  viti,  le  due  lire  al  giorno  per  ogni  operaio. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


641 


Ma  le  viti  nostre  ad  alberello  diedero,  al  quinto  anno,  oltre  a  1000 
miriagr.  d'uva;  in  media  oggidì  si  può  calcolare  sopra  1200-1400  (1), 
cioè  quasi  100  ettolitri  di  vino  ad  ettare,  e  vino  ottimo,  perchè  le 
uve,  più  vicine  al  suolo,  si  fanno  più  zuccherine.  In  tal  caso  il  be- 
neficio netto  è  almeno  il  doppio  di  quello  del  sistema  monferrino; 
(a  parte  qui  alcuni  casi  speciali  di  distintissimi  viticultori  casalesi,  i 
quali,  con  molto  lavoro  e  molto  conciaie  e  sovratutto  con  buoni  vi- 
tigni (2),  raggiungono  ed  oltrepassano  talvolta  il  prodotto  degli  al- 
berelli, toccando  i  2000  miriagr.  ad  ettare). 

§  5.  Sistema  ad  ombrello.  —  Quando  non  si  volesse  potare 
a  vite  a  speroni,  p^r  timore  dell'aborto  dei  fiori,  là  dove  in  pri- 
mavera fosse  abituale  una  esuberanza  di  succo,  e  si  stimasse  in- 
vece necessario  avere  tralci  più  lunghi  per  lasciare  maggior  sfogo 
alla    linfa  ascendente,    si  potrebbe   adottare    il  sistema    ad  ombrello 


Fig.  213  e  214. 


(1)  Il  chiarisimo  enofilo  Sen.  Di  Sambuy,  che  visitava  queste  vigne  nel  set- 
tembre del  1877,  per  mandato  del  Concorso  Agrario  di  Pavia,  valutò  il  prodotto  a 
chili  4  per  pianta,  cioè  per  3500  piante  a  miriagr.  1400.  Ed  erano  alberelli  gio- 
vani (cinque  anni  al  più):  quel  vigneto  ebbe  allora  la  medaglia  d'oro  decretata 
dal  Giurì  ad  unanimità  di  voti. 

(2)  Generalmente  questi  grandi  prodotti  si  ottengono  colla  barbera  e  la  fresia. 

O.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  42 


642 


CAPITOLO  XXII 


(fig.  213  e  214)  che  è  tanto  raccomandato  per  le  pianure  soggette 
alle  brine  ed  anche  pei  colli  a  terreni  pingui.  Noi  pure  lo  abbiamo 
adottato  e  con  successo.  Il  palo  di  sostegno  vuol  essere  forte  ed 
alto  da  un  metro  ad  un  metro  e  mezzo:  la  potatura  è  indicata  chia- 
ramente nelle  figure  suddette;  i  pampini  frutticosi  si  cimano  sol- 
tanto nei  primi  anni  per  dare  forza  agli  speroni:  in  giugno  però  .è 
utile  troncare  quelli  soverchiamente  lunghi.  Nel  rimanente  il  sistema 
è  tanto  semplice  che  non  occorrono  altre  spiegazioni. 

§  6.  Sistema  a  connocchia.  —  È  un   sistema    molto  in   uso 


Fig.  215. 


nei  paesi  del  Reno,  specialmente  nell'Alsazia   e   nella   Lorena,  e  ce 
lo  indica  la  fig.  215,  che  prendiamo  dal  Nane  Castaldo:  il  nome  di 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


643 


connocchia  gli  venne  dalla  rassomiglianza  della  pianta  colla  rocca 
a  tutti  nota.  Nei  detti  paesi  piantansi  le  viti  ad  un  metro  in  tutti 
i  sensi;  il  ceppo  (P  0  fig.  215)  è  alto  1  metro,  i  tralci  a  legno  r  q 
sono  lunghi  lm,20  e  sono  diretti  lungo  il  palo  centrale;  la  vite  è 
quindi  alta  circa  2ra,20.  Dal  disegno  si  intende  facilmente  come  siano 
potate  tali  viti.  Giustamente  deplora  il  Belletti  che  le  ceppaie  siano 
accoppiate,  come  in  altri  sistemi  italiani  e  francesi,  a  due  a  due,  il 
che  non  si  può  consigliare,  specialmente  se  si  mira  a  produrre 
molta  uva. 

§  7.  Sistema  a  capo  annoccato.  —  Capo  annoccato  vuol  dire, 
nel  linguaggio  dei  frutticultori,  capo  piegato;  infatti  il  sistema  che 
qui  vogliamo  descrivere,  e  che  fu  proposto  per  la  prima  volta,  varii 
anni  or  sono,  dal  sig.  Pompeo  Bilancia  di  Volturara  Appula  (Foggia) 
consiste  appunto  nel  piegare  il  capo  a  frutto  ad  angolo,  dopo  aver 
praticato  un  taglio  longitudinale  là  dove  deve  avvenire  la  piegatura: 


Fig.  216. 


ad  esempio,  supposta  la  vite  fig.  216,  si  taglia  a  sperone  uno  dei 
due  tralci  d  o  e,  meglio  il  tralcio  d,  indi  si  pota  a  sette  od  otto 
gemme  il  tralcio  a;  ciò  fatto,  praticasi  un  taglio  in  f  e  si  piega  ad 


644 


CAPITOLO   XXII 


angolo  il  capo  a  frutto  al  punto  /.  Nella  potatura  seguente  il  tralcio 
a  viene  tagliato  e  la  potatura  è  fatta  sui  tralci  che  dà  lo  sperone. 
Che  se  per  caso  questi  ultimi  fossero  meschini,  si  potrà  sempre  di- 
stendere e  piegare  a  frutto  il  getto  che  sorge  dalla  gemma  sotto- 
stante al  taglio  f,  il  qual  getto  è  generalmente  assai  vegeto  e  con 
gemme  feconde. 

Questo    metodo  ci    ricorda  quello    adottato  dal    signor  Duchène- 


-----~~". 


Fig.  217. 


Fig.  218. 


Thoreau  di  Chàtillon-sur-Seine,    a    capo  piegato    in  guisa    da  fare 
col  terreno  un    angolo  di    circa  115    gradi;  l'estremità  va    entro  il 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  645 

suolo,  ma  difficilmente  getta  radici,  a  cagione  della  piegatura  che 
ne  scema  il  vigore;  tuttavia  è  bene  accecare  la  gemma  ultima.  Se 
si  temesse,  piegando  il  tralcio  ad  angolo,  di  romperlo,  si  potrebbe 
adottare  il  sistema  della  ricurvatura:  la  fig.  217  ne  dà  una  chiara 
idea.  Il  capo  a  frutto  termina  colla  sua  punta  nel  suolo,  come  nei 
capogatti,  solo  che  si  accecano  gli  occhi  della  parte  interrata:  tuti1 
i  getti  uviferi  (fig.  218)  si  cimano  a  due  foglie  sull'ultimo  grappolo;  la 
potatura  ha  luogo  come  dicevamo  or'  ora  parlando  del  sistema  Bi- 
lancia. In  Francia  questo  metodo,  detto  des  piques,  è  abbastanza 
diffuso,  ad  es.  presso  Saint- Cloud,  e  quei  viticultori  se  ne  lodano 
molto  sia  per  la  sua  semplicità  sia  per  la  quantità  del  prodotto. 

§  8.  Sistema  a  piramide.  —  Ci  sono  noti  due  sistemi  di  e- 
ducare  la  vite  a  foggia  di  piramide,  la  qual.  forma  è  molto  utile  nelle 
pianure  basse  ed  esposte  alle  brine;  uno  del  sig.  Marchi  l'altro  del 
sig.   Genesi/.  Descriviamoli  entrambi. 

a)  Sistema  Marchi.  —  Il  sig.  F.  Marchi  di  Mantova,  prese  la 
privativa  pel  suo  sistema,  onde  non  potremo  descriverlo  in  tutti  i 
suoi  particolari:  converrà  quindi,  per  altri  dettagli,  rivolgersi  al  signor 
Marchi  stesso. 

Il  piantamento  si  deve  fare  su  scasso  reale  a  60  centimetri  di 
profondità,  praticato  in  agosto  o  settembre;  in  ottobre  o  novembre 
piantansi  poi  le  barbatelle  in  solchetti  larghi  e  profondi  0m  30  ed  a 
file  distanti  da  lm,50  a  2™.  In  fondo  a  questi  solchetti  si  versa  dap- 
prima un  po'  di  vecchio  terricciato  composto  di  terra,  letame,  cenere, 
vinaccie  ecc.  poi  sopra  un  po'  di  terra,  iniìne  si  piantano  le  barba- 
telle a  un  metro  una  dall'altra  nelle  file;  su  di  esse  si  pone  ancora 
un  po'  di  terricciato,  e  poi  si  ricuopre  il  tutto  con  terra,  riempiendo 
affatto  i  solchetti. 

Fatto  il  piantamento,  se  trattasi  di  barbatelle  di  talee,  il  Marchi 
le  pota  a  due  gemme  da  terra  e  le  cuopre  allora  con  foglie  per  ri- 
pararle dai  forti  geli  del  verno.  In  seguito  lascia  alle  sue  viti  un 
sol  getto  e  lo  cima  d'estate  all'altezza  di  60  centim.  Se  escono  fuori 
delle  femminelle  le  toglie  tutte  sino  all'altezza  da  terra  di  20  centim. 
senza  però  toccare  alle  foglie.  Le  altre  poste  più  sopra  le  cima  a 
quattro  foglie,  e  se  infine  da  quelle  sorgono  delle  sotto  femminelle 
le  cima  eziandio,  e  anch'esse  a  due  foglie. 

Quando  invece  il  piantamento  è  fatto  con  grosse  barbatelle  di  pro- 
paggine od  altre,  fatto  appena  quello,  le  pota  a  25  o  30  centim.  da 


646 


CAPITOLO  XXII 


terra,  indi  loro  toglie  le  tre  gemme  più  basse  per  fare  ivi  il  pedale 
liscio  e  lascia  intatte  le  due  o  tre  più  alte.  Oppure  non  toglie  nes- 
suna gemma,  toglie  dopo  invece  i  germogli  che  ne  provengono  sino 
all'altezza  come  sopra  di  20  centim.  e  gli  dtri  li  cima  allorché  spunta 
l'ottava  foglia  su  di  essi. 

Nel  primo  caso,  giunta  la  primavera,  cioè  il  momento  della  potagione, 
e  così  a  un  anno  d'età,  lascia  tre  speroni,  due  sono  di  femminelle 
e  lor  lascia  due  gemme  caduno,  l'altro,  il  centrale,  è  di  primo  getto 
e  gli  lascia  6  gemme.  Che  se  le  dette  femminelle  fossero  troppo  te- 
nere e  deboli,  allora  lascia  il  primitivo  getto  potandolo  a  25  o  30 
centim.  d'altezza  come  si  disse  per  le  grosse  barbatelle. 

Nel  caso  di  queste  gli  speroni  sono  tutti  di  primo  getto  e  li  pota 
come  i  precedenti. 

In  entrambi  in  quell'anno  qualche  uva  l'ottiene,  cioè  circa  mezzo 
chilogramma  per  pianta. 


Fig.  219. 


Fier.  220. 


A  tutte  le  sue  viti  dà  allora  un  palo  per  sostegno,  lungo  da  2  a 
3  metri,  e  dura  questo  quattro  anni.  Indi  lo  si  rinnova. 

Al  principio  del  terzo  anno  la  piramide  cimata  d'estate,  come  diremo 
in  seguito,  è  rappresentata  dalla  figura  219.  La  si  pota  a  speroni  — 
come  accenneremo  fra  poco  —  e  allora  essa  piglia  l'apparenza  della 
figura  220. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE    LA  VITE  BASSA 


647 


Al  principio  del  quarto  ha  le  apparenze  della  figura  221  e  quelle 
(tolta  l'uva)  della  fìg.  222  dopo  la  potagione. 


Fig.  221  e  222. 


Fig.  223. 


648 


CAPITOLO  XXII 


Le  corrispondenti  figure  223,  224  e  225  —  anno  per  anno  cioè  — - 
furono  prese  dal  vero  (dopo  averne  tolte  le  foglie)  alla  esposizione  di 
Reggio  Emilia  nell'autunno  del  1876. 

Le  piramidi  hanno  un'altezza  variabile  da  metri  1,75  a  2. 

Il  numero  degli  speroni  sopra  le  medesime,  quando  siano  in  piena 


Fig.  224  e  225. 


produzione,  è,  puossi  dire,  indeterminato.  Ogni  anno  essi  si  abbas- 
sano tagliando  in  a  b  a  b  figura  226  (che  i  lettori  devono  prendere 
per  uno  sperone  isolato)  onde  poi  lo  sperone  stesso  piglia  le  appa- 
renze della  fig.  227.  Ciò  si  pratica  ogni  anno  con  quello  anche  della 
punta  della  piramide,  acciò  questa  non  si  allunghi  di  troppo.  Quelli 
posti  più  al  basso  presso  terra  sono  i  più  antichi  e  i  più  lunghi.  Se 
sono  pochi  loro  si  lasciano  da  4  a  5  gemme  caduno;  3  gemme  si 
lasciano  a  quelli  di  mezzo,  ed  1  o  2  ai  più  alto  locati.  Infine  da  4 
a  6  si  lasciano  al  tralcio  principale  e  più  alto  che  deve  allungare  la 
piramide. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


649 


Quando  gli  speroni  sono  numerosi,  sui  più  bassi  e  più  antichi, 
presso  terra,  si  lasciano  tre  gemme  caduno,  due  a  quelli  di  mezzo 
una  ai  più  alti  e  da  quattro  a  sei,  come  sopra,  al  tralcio  terminale. 

Il  sig.  Marchi  cima  tre  volte. 


Fig.  226. 


Fig.  227. 


La  prima  cimatura  la  fa  in  maggio  a  tre  foglie  sopra  il  grappolo. 

La  seconda  la  fa  sulle  femminelle  in  giugno,  lasciando  loro  due 
sole  foglie. 

La  terza  la  pratica  in  agosto  sopra  le  sotto-femminelle  più  robuste 
(non  tocca  dunque  le  più  corte)  e  anche  qui  a  una  o  due  foglie. 
Cosicché  al  disopra  dei  grappoli  vi  sono  7  foglie,  e  se  il  suolo  è 
tenuto  fresco  d' estate,  mediante  opportuni  rimovimenti,  il  signor 
Marchi  ritiene  che  esse  agiscono  benissimo  quali  tirasucco  e  l'uva 
vi  matura  in  tempo. 

Questo  sistema  è  già  stato  adottato  con  esito  felice  nel  Mantovano, 
nel  Veronese,  nell'Emilia  ed  in  Romagna;  esso,  benché  specialmente 
raccomandabile  per  le  pianure,  è  anche  adattabile  ai  colli,  come  ce 
lo  dice  la  esperienza  fattane  a  Valle  Policella.  —  Il  prodotto  delle 
piramidi  può  essere  elevatissimo,  e  già  se  ne  conosce  alcuno  di  140 
ettolitri  ad  ettare;  in  un  ettare  vi  sono  circa  5000  piramidi  che  pos- 
sono dare  certamente  almeno  2  kilog.  d'uva  cadauna,  corrispondenti 
a  60  ettolitri  di  vino.  Questo  è  un  prodotto  minimo,  ma  rispettabile, 
su  cui  si  può  certamente  contare. 

bj  Sistema  Genesi/.  —  Questo  metodo  fu  adottato  e  proposto 
dal  distinto  frutticultore  A  avocato  Amedeo  Genesi/  di  Revigliasco 
Torinese:  da  quindici  anni  egli  educa  a  piramide  ben  cinquanta  va- 
rietà di  viti,  quasi  tutte  nostrane,  e  con  ottimo  esito.  I  dettagli  di 
questo  sistema  sono  bellamente  riuniti  in  un  opuscolo  dal  titolo  «  La 


650  CAPITOLO   XXII 


vite  piramidale  »  (1)  al  quale  rimandiamo  il  lettore;  qui  dobbiamo 
limitarci  a  poche  notizie.  I  filari  il  Genesy  li  colloca  a  2  m.  e  in 
terre  di  pianura  ricche  e  fresche  a  2m,50:  le  piante,  a  lm,50  o  lm,75. 
Per  avere  un  forte  tralcio  maestro,  che  deve  costituire  come  l'asse 
della  piramide,  si  pota  al  primo  anno  ad  una  od  al  più  a  due 
gemme  fuori  terra;  al  secondo  anno  si  pota  esportando  tutti  i  tralci 
sorti  nel  primo  anno,  ad  eccezione  del  più  forte  e  preferibilmente 
centrale,  il  quale  però  si  taglia  esso  pure  a  due  o  tre  gemme: 
quindi  si  lascia  vegetare  liberamente  la  vite  per  15  o  20  giorni. 
Trascorso  questo  tempo,  già  si  sarà  acccentuata,  a  favore  di  uno 
fra  i  nuovi  germogli,  una  decisa  superiorità  di  forza.  Allora  si  sop- 
primono tutti  gli  altri  germogli,  lasciando  intatto  soltanto  quello  più 
vigoroso,  che  si  assicura  al  palo  legandolo. 

In  seguito  si  debbono  sempre  sopprimere  tutti  i  rimessiticci;  le 
femminelle  si  toglieranno  dopo  due  mesi  di  vegetazioue,  rispettando 
bene  inteso  la  foglia,  alla  cui  ascella  sta  la  gemma:  afferma  il  Ge- 
nesy che  sopprimendo  le  femminelle  si  rinforza  notevolmente  il  tralcio 
maestro.  La  punta  di  questo  tralcio  non  si  mozzerà  che  a  stagione 
inoltrata,  acciò  non  sbuccino  le  gemme  che  stanno  lungo  il  tralcio 
stesso:  anzi  sarà  bene,  nelle  viti  molto  vigorose,  lasciare  intatte  al- 
cune femminelle  della  punta. 

Al  3°  anno  il  tralcio  maestro  si  pota  tagliandolo  alla  8a  gemma 
circa,  per  avere  una  piramide  robusta.  La  gemma  estrema  darà  luogo 
col  suo  germoglio  al  prolungamento  verticale  del  tralcio,  le  tre  sot- 
tostanti daranno  tre  o  quattro  getti  laterali  necessarii  per  la  forma 
piramidale;  gli  altri  inferiori  saranno  soppressi,  e  cosi  il  gambo  della 
vite  sarà  libero.  I  getti  laterali,  quando  avranno  raggiunto  la  lun- 
ghezza di  0m,60  a  0m,70  si  mozzeranno;  dopo  20  o  30  giorni  si 
mozzerà  anche  il  getto  terminale  o  centrale;  allora  esso  sarà  lungo 
lm,25  circa. 

Entrando  nel  4°  anno  la  vite  si  mostra  già  a  forma  di  piramide: 
alla  potatura  si  lasceranno  sui  tre  tralci  laterali  quattro  gemme  per 
ciascuno,  mentre  se  ne  lascieranno  sei  al  tralcio  centrale;  sui  getti 
che  usciranno  da  tutte  queste  gemme  si  praticheranno  le  mozzature 
seguendo  le  norme  dette  or'  ora:  le  femminelle,  la  cui  uscita  è  pro- 
vocata appunto  da  cotali  mozzature,  si  cimeranno  lasciando  loro  da 
due  a  quattro  foglie,  per  permettere  alla  vite  il  suo  sfogo  naturale. 


(1)  Richiederlo  all'autore  stesso  in  Revigliasco  (Torino) 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  651 

Le  scacchiature  poi  dei  getti  inutili  e  ghiottoni  saranno  indispensa- 
bili se  si  vuol  formare  una  forte  e  bella  piramide.  Al  5°  anno  ed 
ai  successivi  la  potatura  seguirà  colle  stesse  regole.  Il  sig.  Genesy 
non  vuole  —  per  ottenere  uve  bene  mature  —  che  la  piramide  si 
innalzi  oltre  a  m.  2,50,  con  una  larghezza  alla  base  di  m.  1,25  a 
1,30;  perciò  è  necessario  tratto  tratto  tagliare  l'asta  centrale  ad  un 
dato  punto  immediatamente  superiore  all'inserzione  di  quella  ramifi- 
cazione laterale,  che  si  destina  a  surrogarla  e  che  si  raddrizza  lungo 
il  palo. 

Infine  il  sig.  Genesy  accenna  ad  un  prodotto  medio  di  10  a  15 
chil.  d'uva  per  piramide,  che  egli  suole  ottenere,  e  insiste  sulla  eco- 
nomia del  suo  sistema,  citando  all'uopo  le  sue  esperienze.  Egli  non 
raccoglie  mai  meno  di  75  ettolitri  ad  ettare  (2500  piante)  e  certo 
questo  prova  la  bontà  del  sistema. 

§  9.  Sistema  Casalese  e  Siciliano.  —  Questo  eccellente  si- 
stema di  educare  la  vite  è  seguito  da  tempi  remoti  nel  circondario  di 
Casale  (Basso  Monferrato)  che  è  forse  il  più  intensamente  vitifero  del 
nostro  paese:  un  sistema  simile,  se  non  uguale  in  tutto  e  per  tutto,  se- 
guesi  generalmente  in  Sicilia,  ma  specialmente  nell'Agro  di  Palermo 
ed  anche  presso  Messina;  vi  assomiglia  pure  il  sistema  di  Cefalù,  che 
distende  un  po'  il  tralcio  o  i  tralci  frutticosi  come  nel  metodo  di 
Gnyot.  Il  sistema  monferrino-siciliano  (si  conceda  che  lo  chiamiamo 
così)  si  basa  sul  principio  che,  potando  la  vite  devesi  lasciarle  un 
tralcio  frutticoso  (o  due)  ed  uno  sperone  legnoso.  Il  dott.  Guyot 
in  Francia  e  il  dott.  Hooinbrenk  in  Austria,  dissero  a  loro  volta 
che  questo  sistema  era  tutto  francese  o  tutto  austriaco:  sta  invece 
il  fatto  che  in  Italia  è  conosciuto  da  tempi  remotissimi  ed  in  regioni 
assai  distanti  fra  loro  e  differenti  per  clima.  Vediamo  in  che  cosa 
consista  essenzialmente  il  sistema  monferrino,  il  quale,  se  ben  ap- 
plicato e  con  buoni  vitigni,  può  dare  cospicui  risultati,  come  lo  pro- 
vano le  frequenti,  diciamo  frequenti,  vendite  di  terreni  vitati  nel 
circondario  di  Casale  a  10  e  12  mila  lire  Tettare. 

Il  terreno  si  prepara  a  questo  modo:  neh'  autunno  si  aprono  le 
fosse  traversalmente  alla  pendenza  del  colle  (non  mai  a  rettochino), 
più  spesso  leggermente  inclinate,  larghe  metri  1,50,  profonde  da 
cent.  75  ad  80  (misurando  l'altezza  sulla  sponda  superiore  e  distanti 
l'una  dall'altra  circa  6  metri,  al  più  8,  al  minimo  4.  Alla  successiva 
primavera  (marzo-aprile)  si  fan  scendere  nelle  fosse  due  palmi  circa 


652  CAPITOLO   XXII 


di  terra  vergine  e  poscia  vi  si  sovrappone  della  buona  terra  sino 
a  formare  uno  strato,  comprese  le  due  terre,  di  centim.  36  a  40. 
Quelli  che  non  hanno  la  lodevole  abitudine  di  porre,  sul  fondo  della 
fossa,  della  terra  vergine  e  della  arativa,  piantano  il  magliolo,  la 
talea  o  la  barbatella  addirittura  in  fondo  alla  fossa  stessa,  e  cioè 
«  sul  duro  »;  per  questa  viziosa  pratica  la  piantagione  vi  si  fa  a 
75  od  80  centimetri  di  profondità,  e  la  vigna  non  può  dare  un  di- 
screto prodotto  che  dopo  sei  o  sette  anni;  per  porre  riparo  a  questo 
errore,  si  usa  la  fognatura  o  arrotto  (pag.  370)  di  cui  diremo  or 
ora.  Col  sistema  precedente  invece,  quello  cioè  di  riempire  la  fossa, 
sino  a  40  centimetri  circa,  di  terra,  si  ha  un  bel  prodotto  alla  fine 
del  terzo  anno,  o  al  più  alla  fine  del  quarto,  secondo  che  il  pianta- 
mene fu  fatto  con  barbatelle  ovvero  con  maglioli. 

Nel  mese  di  marzo  od  in  aprile  si  eseguisce  il  piantamento,  pre- 
ferendo pei  maglioli  l'aprile  od  anche  meglio  il  successivo  maggio. 
Nella  linea  centrale  della  fossa  si  collocano,  mediante  una  cordicella 
che  è  come  dire  la  guida  del  piantatore,  delle  piccole  canne  distanti 
0m,60  una  dall'altra;  alcuni  poi  aprono  lunghesso  la  corda  un 
piccolo  fossatello  o  solchettino.  Il  piantatore  prende  allora  la  bar- 
batella (o  il  magliolo  o  la  talea)  e  la  sdraia  per  una  lunghezza  di 
di  cent'm.  60  entro  tale  solco  e  tra  Y  una  e  Y  altra  cannetta;  indi 
la  dirizza,  la  marita  ad  una  canna  vicina,  e  infine  la  ricopre  con 
terra  fina  e  buona,  per  lo  spessore  di  10  cent,  circa.  Per  questa 
disposizione  ne  viene  che  le  ceppaie  rimangono  a  60  cent,  l'una  dal- 
l'altra nelle  file.  Il  magliolo  così  collocato  viene  poi  potato  a  due 
gemme.  Neil'  anno  stesso  del  piantamento  non  si  riempie  la  fossa 
ove  son  collocate  la  talea  o  la  barbatella,  ma  la  si  lascia  nello  stato 
in  cui  rimane  appena  eseguito  il  piantamento,  cioè  con  10  centim. 
di  terra  sopravi.  Alcuni  vi  sovrappongono  vinaccie  o  letame  per  lo 
spessore  di  tre  dita,  e  questo  concime  lo  ricoprono  nuovamente  con 
un  leggiero  strato  di  terra.  I  giovani  filari  vengono  poi  zappati  due 
o  tre  volte  da  maggio  ad  agosto,  e  ciò  per  il  lodevole  intento  di 
tenerli  mondi  dalle  male  erbe  e  di  aver  soffi  :e  e  fresco  il  suolo. 
Altre  cure  non  si  prodigano  alla  vite  in  questo  primo  anno,  tolto 
il  caso  in  cui  —  essendo  stato  precoce  e  rapilo  lo  sviluppo  della 
barbatella  —  si  procedesse  alla  fognatura  o  arrotto  nell'autunno 
dello  stesso  anno. 

Se  il  piantamento  venne  effettuato  con  maglioli  o  talee,  allora 
l'arrotto  non  si  usa  farlo  che  nell'autunno  del  terzo  anno,  e  talvolta 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  653 

anche  nel  verno  o  nella  primavera  del  quarto:  trattandosi  invece  di 
barbatella,  tale  operazione  viene  praticata  o  nell'autunno  del  primo 
anno,  o  più  sovente  nel  verno  o  nella  primavera  del  secondo  anno. 
Ecco  in  che  cosa  consiste  1'  arrotto:  la  vite  è  piantata,  come  di- 
cemmo, troppo  profondamente  e  (trattandosi  di  terre  argillose  ed  in 
generale  compatte,  come  le  ha  il  Basso  Monferrato)  vi  sta  di  certo 
a  disagio;  infatti  lasciandola  così  tarderebbe  assai  a  fruttificare.  Ad 
evitare  questo  grave  inconveniente  si  allarga,  nei  momenti  indicati, 
da  ambi  i  lati,  oppure  da  principio  da  un  sol  lato,  la  fossa  primitiva 
mercè  due  altre  fossette  laterali.  E  così  dal  lato  superiore  dell'  an- 
tico fosso,  e  talvolta  contemporaneamente  anche  dall'  inferiore,  si 
apre  altra  fossa  larga  e  profonda  circa  un  metro;  in  fondo  ad  essa 
si  collocano  delle  fascine  di  olmo,  di  rovere  o  di  vite,  superponen- 
dole  a  mo'  delle  tegole  sui  tetti:  presso  le  viti  poi,  e  così  nell'  an- 
tica fossa,  si  sparge  di  fianco  alle  dette  fascine  un  buon  strato  di 
letame,  infine  si  colma  tanto  la  nuova  fossa  che  l'antica  e  si  appiana 
il  tutto.  Con  questa  operazione  si  ingrassa  la  terra  che  sta  attorno 
alle  radici  delle  viti,  e  si  richiama  1'  aria  al  basso,  per  cui  il  suolo 
si  fertilizza  a  dovere  e  provvede  alimenti  per  la  pianta,  oltre  di  che 
rimane  fresco  e  soffice  per  parecchi  anni  di  seguito.  I  beneficii 
dell'  arrotto  durano,  se  questo  è  praticato  a  dovere  e  con  copiose 
concimazioni,  circa  dodici  anni;  esso  costa  però  da  300  a  1500  lire 
ad  ettare. 

Veniamo  ora  al  secondo  anno  ed  ai  successivi.  Se  non  si  è  pra- 
ticato l'arrotto  al  primo  anno,  lo  si  fa  nel  verno  o  nella  primavera 
del  secondo.  Nel  mese  di  marzo  la  giovine  piantina  viene  intanto 
potata,  lasciandole  un  sol  getto  con  due  gemme  fuori  di  terra;  però 
se  si  tratta  di  magliolo  o  di  talea,  la  prima  potatura  non  si  pratica 
che  al  terzo  anno  per  lasciar  tempo  alla  pianticella  di  rafforzarsi.  Si  o- 
pera  col  forbicione  perchè  pochi  sono  quelli  che  sanno  maneggiare  bene 
il  falcetto  e  tagliare  nel  preciso  punto  ove  deve  farsi  il  taglio  (1); 
perciò  questo  strumento  è  ora  quasi  abbandonato,  e  tutti  potano 
colle  forbici.  Il  falcetto  si  adopera  a  lisciare  le    ferite  ampie,   acciò 


(1)  Questo  punto,  come  già  abbiamo  detto  altrove,  dovrebbe  essere  la  linea 
mediana  della  gemma  superiore  all'  ultima  lasciata  sul  tralcio  o  sperone;  cosi 
questa  gemma  ultima  avrebbe  sovra  di  sé  non  già  un  mozzicone  che  perde  il 
midollo,  e  spesso  fa  perire  la  gemma  stessa  sottostante,  ma  bensì,  un  internodo 
o  meritallo  intatto  ed  inalterabile. 


654 


CAPITOLO  XXII 


non  ristagni  umidità.  Dalle  due  gemme  lasciate  nell'atto  della  pota- 
tura escono  varii  rampolli,  ossiano  pampini.  In  maggio  si  tolgono, 
meno  però  due  (i  più  belli)  che  si  legano  a  due  piccole  canne, 
unite  con  vimine  acciò  costituiscano  un  sostegno  più  sodo.  Questa 
operazione  chiamasi  sgarzolatura,  ossia  scacchiatura,  e  si  pratica 
colle  dita.  Dopo  la  potatura  il  suolo  si  vanga  a  0m,25  di  profondità, 
e  questo  utilissimo  lavoro  si  ripete  tutti  gli  anni. 

Abbiamo  adunque  nella  primavera  del  terzo  anno  i  due  getti 
ordinariamente  lasciati  nell'anno  antecedente.  Essi  sono  così  trattati: 
il  più  basso  si  mozza  (operando  talvolta  nel  verno)  e  si  forma  (figura 
228)  uno  sperone  D  G  con  due  gemme  circa;  V  altro  C  F  si  pota 


F'«    22S. 


a  sette  od  otto  gemme,  indi  si  lega  al  primo  gruppo  di  canne 
per  una  altezza  di  quasi  15  centimetri  piegandolo  poi  ad  arco  sul 
davanti  del  filare,  ed  infine  legandolo  in  punta  ad  altro  fascio  di 
canne  posto  a  30  centimetri  di  distanza  dal  primo.  Si  dice  allora 
che  la  vite  ha  il  mezzo  passo;  essa  incomincia  a  dar  frutti,  e  tal- 
volta dà  un  terzo  di  prodotto  ordinario.  Nell'inverno  e  nella  prima- 
vera del  quarto  anno  si  pota  la  vite  tagliando  il  tralcio  che  già 
diede  frutto  e  distendendo  ad  arco  su  tre  fascii  di  canne  (locchè  si  dice 
dar  il  passo  intiero;  fìg.  228)  uno  fra  i  tralci  migliori  e  più  lunghi 
che  spuntarono  dalle  gemme  dello  sperone  G,  oppure  alla  base  stessa 
del  tralcio  frutticoso  dell'  anno  antecedente.  Se  il  nuovo  tralcio  a 
frutto  è  molto  vigoroso  lo  si  ripiega  come  è  indicato  in  AB  fig.  228, 
ove  è  esattamente  disegnata  una  vite  potata  al  quarto  o  quinto 
anno  al  più;  oppure  si  dà  il  mezzo  passo  indietro,    come  è  chia- 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


655 


ramente  indicato  nella  fig.  229;  od  anche  si  va  a  raccomandare  il 
tralcio  frutticoso  alla  terza  canna  della  ceppaia  vicina,  come  vedesi 
nella  fig.  230,  ove  in  C  S'  T'  sono  punteggiati  i  fasci  di  canne  della 
vite  vicina;  il  tralcio  andrebbe  a  congiungersi  al  gruppo  di  canne  T\ 
Quando  la  vite  è  distesa  su  tre  ordini  di  canne,  allora  è  in  piena 
produzione. 


Fig.  229. 


Le  cure  annuali  sono:  1°  la  scacchiatura  in  maggio  dei  getti  inu- 
tili del  tralcio  frutticoso  (lasciando  solo  i  più  belli  della  base  e 
quelli  dello  sperone)  per  spingere  così  il  succo  nutritore  a  beneficio 


Fig.  230. 


dei  frutti  ed  anche  in  parte  dei  getti  dello  stesso  sperone;  2°  la 
caccia  alle  male  erbe,  le  vangature  e  le  zappature  estive;  3°  la  sol- 
forazione  accurata. 


656  CAPITOLO  XXII 


Dei  prodotti  già  dicemmo  a  pag.  640.  Con  buoni  vitigni  (bar- 
bera, fresia)  si  possono  pur  raggiungere  i  200  ettolitri  ad  ettare, 
se  la  vigna  è  specializzata  e  concimata  ogni  biennio,  vangata  a 
primavera  e  zappata  in  estate.  È  un  sistema  ottimo,  razionale,  per 
cui  la  vite  non  si  estenua  tanto  tanto  presto;  infatti  in  Monferrato 
vi  sono  viti  più  che  attempate,  le  quali  producono  ancora  molto.  Ma  esso 
richiede,  come  già  dicemmo  più  innanzi,  ingenti  spese  di  mano  d'o- 
pera, di  canne,  ecc.  (oltre  quelle  non  indifferenti  per  l'arrotto);  eco- 
nomicamente parlando  perciò  noi  preferiamo  di  molto  il  sistema 
ad  alberello  descritto  nel  paragrafo  4°. 

§  10.  Sistema  Guyot:  modificazioni  Boschiero  e  Panizzardi. 

—  Il  sistema  Guyot,  di  cui  si  è  tanto  parlato  in  quest'ultimo  ven- 
tennio, costituisce  un  metodo  razionale  di  educare  la  vite,  ma  è  ben 
lungi  dall'essere  nuovo,  siccome  abbiamo  già  detto  al  §  9.  Introdotto 
in  Italia,  parecchi  lo  adottarono  seguendo  con  scrupolo  e  pedanteria 
i  precetti  dell'illustre  scrittore  francese,  ma  non  tardarono  ad  accor- 
gersi che  conveniva  modificarlo,  specialmente  per  quanto  ha  tratto 
alle  distanze.  Noi  intendiamo  appunto  di  accennare  qui  alle  modifi- 
cazioni che  è  necessario  introdurre  nel  «  sistema  Guyot  puro  »  per 
adattarlo  in  generale  alle  nostre  condizioni  di  clima  e  di  suolo. 

Anzitutto  descriviamolo  brevemente.  Secondo  quanto  il  Dr.  Guyot 
consiglia  prima  di  piantare  i  maglioli  o  le  barbatelle  si  scassina  (ed  è 
opera  egregia  questa)  tutto  il  suolo  a  40  o  50  centimetri  di  profon- 
dità, non  essendovi  qui  né  fosse  né  buche.  Il  suolo  deve  essere  tutto 
smosso  a  quella  profondità,  e  cotale  lavoro  o  si  fa  con  due  fìtte  di 
vanga,  previa  la  concimazione  se  si  vuole,  cosa  però  non  affatto  ne- 
cessaria, ovvero  con  due  aratri,  uno  dopo  l'altro,  di  cui  il  secondo 
senza  orecchio  e  seguito  da  uomini  che  traggono  alla  superfìcie  il 
suolo  vergine;  o  infine,  il  suolo  essendo  sassoso  e  duro,  colle  zappe 
ed  i  zapponi.  Il  suddetto  lavoro  della  vanga  costa  in  media  300  o 
350  lire  ad  ettare;  quello  cogli  aratri  lire  100  compreso  il  lavoro 
dei  buoi;  e  quello  infine  dei  zapponi  lire  500  almeno. 

Sul  suolo  così  scassato  e  quindi  pareggiato,  a  mezzo  d'una  lunga 
corda  e  d' un  bastoncino,  si  tracciano  delle  linee  in  lungo  e  in 
largo,  a  un  metro  in  tutti  i  sensi,  e  al  punto  di  intersecazione  di  esse 
o  si  piantano  ad  aprile  i  magliuoli  col  foraterra,  o,  molto  meglio,  si 
pratica  un  foro,  con  una  fitta  di  vanga,  profondo  da  20  a  25  centi- 
metri, e  ivi  s'immettono  il  magliuolo  o  la  talea,  ovvero  la  barbatella, 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


657 


per  la  quale  il  detto  foro  (che  deve  essere  largo  abbastanza  per  con- 
tenerne le  radici)  è  indispensabile.  Infine,  e  nei  due  casi,  si  comprime 
bene  la  terra  versatavi  attorno.  Il  piantamento  si  fa  pertanto  a  20 
o  al  più  25  centimetri  di  profondità,  e  Guyot  non  vuole  che  si  vada 
più  oltre:  ora  specialmente  nei  climi  freschi,  egli  ha  pienamente  ragione. 

In  un  ettare  vi  sono  pertanto  dieci  mila  piante,  ed  il  piantamento  costa 
sole  L.  400  in  media:  —  sin  qui  dunque,  all'infuori  della  distanza, 
è  preferibile  il  sistema  Guyol  al  casalese.  Con  quest'ultimo  invece  si 
spendono  per  un  ettare  a  vigna  lire  2000  in  media  (§  9),  inoltre 
siccome  si  pianta  troppo  profondamente  (circa  come  già  dicemmo 
0,65  cent.)  e  sul  duro,  cioè  sopra  terreno  non  smosso,  così  mentre 
col  sistema  Guyot  al  finire  del  terzo  anno  si  ricavano  spesso  oltre 
a  30  ettolitri  di  vino  ad  ettare,  col  sistema  del  Basso  Monferrato 
ciò  non  si  ottiene  che  mediante  un  copioso  e  costoso  arrotto.  In 
ciò  il  sistema   Guyot  è  pure  preferibile  al  casalese. 

Veniamo  alla  potatura.  Dei  soliti  due  tralci  lasciati  ad  ogni  vite, 
il  più  basso    locato  si  pota  a  sperone  (C  D'  fig.  231).  e  il  più  alto 


Kig.  231. 


si  taglia  lungo  ottanta  centimetri  circa,  e  si  distende  nel  filare  o- 
rizzontalmente  a  un  palmo  o  poco  più  da  terra,  e  si  va  infine  a 
maritarlo  a  un  piccolo  palo  (B*  fig.  231),  posto  alla  distanza  di 
20  centimetri  dalla  vite  vicina.  Col  sistema  casalese  la  potagione  è 
affatto  la  stessa,  e  solo  il  tralcio  A  B  si  distende  ad  arco  incli- 
O.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  43 


658 


CAPITOLO  XXII 


nato  all' ingiù  verso  V  interfilarc  (fig.  232,  vedi  anche  fìg.  230) 
per  trattenere  il  succo  indietro,  e  ciò  senza  ricorrere,  come  consi- 
gliava Guyot,  alle  cimature  ripetute.  Negli  anni  successivi,  la  pota- 
gione col  sistema  alla   Guyot   (allevando  sempre   due   tralci  almeno 


Fig.  232. 


sullo  sperone)  è  sempre  la  stessa,  e  solo  il  tralcio  frutticoso  può  la- 
sciarsi —  se  è  molto  vigoroso  — •  un  po'  più  lungo,  ma  non  però  in 
generale  più  di  un  metro. 

Ma  col  sistema  Guyot,  le  viti  essendo  molto  fitte,  cioè  vicine 
una  all'  altra,  se  d' estate  non  si  cimano  e  ricimano  i  pampini 
del  tralcio  frutticoso  orizzontale,  essi  traggono  a  sé  con  forza 
il  succo  (e  per  la  forza  di  capillarità  e  per  la  evaporazione  delle 
foglie  e  di  tutte  le  parti  verdi  e  giovani  dell'  arbusto,  nonché  per 
essere  il  tralcio  orizzontale)  e  bene  spesso  ne  privano  quelli  dello  spe- 
rone (1),  uno  dei  quali  è  destinato  a  divenire  tralcio  frutticoso  per 


Fig    233 


(1)  Colla  cimatura  si  vengono  ad  avere  migliori  tralci,  più  vigorosi,  allo  sperone 
e  come  si  vede  nella  fig.  233  dove  con  piccole  lineette  è  segnata  1'  operazione  in 
questione. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  659 

Tanno  successivo.  Se  non  si  cimassero  i  pampini  suddetti,  e  se  non 
si  sopprimessero  colla  scacchiatura  i  getti  inutili,  alla  successiva  pota- 
gione a  vece  d'una  vite  con  vigorose  cacciate  allo  sperone  (fig.  233)  se 
ne  avrebbe  un'altra  meschinissima  (avendo  lasciato  andare  nel  tralcio 
frutticoso  tutto  il  vigore)  che  riescirebbe  quasi  impossibile  di  potare. 

Col  sistema  casalese  invece,  anche  senza  cimatura  alcuna  (ed 
infatti  i  più  non  la  praticano),  cotali  inconvenienti  non  si  verificano, 
o  molto  di  rado.  Questo  per  due  ragioni:  primo  perchè  la  vite  ca- 
salese è  molto  più  vigorosa,  può  vegetare  —  essendo  le  ceppaie 
ed  i  filari  più  distanti  —  con  maggior  forza,  ed  è  quasi  sempre  in 
grado  di  fornire  tralci  vigorosi  allo  sperone;  secondo  perchè  il  tralcio 
frutticoso  è  ricurvo  (figura  232),  or  in  questo  caso  1'  ascensione 
del  succo  nutritore  è  più  lenta,  onde  una  parte  è  trattenuta  per  lo 
sperone  e  pei  suoi  getti,  che  si  sviluppano  molto  meglio. 

Abbiamo  accennato  più  sopra  agli  insuccessi  che  si  ebbero  a  la- 
mentare in  Italia  col  sistema  Guyot:  or  bene,  essi  dipesero  appunto 
dall'averlo  adottato  alla  lettera,  senza  riflettere  che  il  compianto  dott. 
Guyot  parlava  di  un  clima  diverso  dal  nostro  e  di  viti  assai  meno 
rigogliose.  Diremo  anzitutto  che,  secondo  Guyot,  avendosi  in  un  et- 
tare  dieci  mila  piante,  questa  piccola  distanza  fra  pianta  e  pianta  ca- 
giona, nelle  nostre  rigogliose  viti,  molti  danni. 

Infatti  non  è  sempre  possibile  introdursi  con  aratri,  erpici,  estir- 
patori, carri,  ecc.  nel  vigneto,  e  bisogna  sobbarcarsi  ad  una  forte 
spesa  di  mano  d'opera:  oltre  a  ciò  le  viti  fìtte,  già  lo  dicemmo  nel 
Capitolo  XI,  sono  belle  nei  primi  anni,  ma  ai  decimo  o  dodicesimo 
anno  incominciano  a  mostrarsi  esaurite,  massime  nei  paesi  caldi,  e 
del  resto  in  tutta  Italia,  dove  questo  invecchiamento  precoce  delle 
viti  è  conosciutissimo.  Nel  sistema  Guyot  le  cimature  e  ricimature 
estive  dei  pampini  del  tralcio  frutticoso  orizzontale  sono  indispen- 
sabili per  permettere  ai  getti  dello  sperone  di  perfezionare  le  loro 
gemme  (che  debbono  dar  frutto  l'anno  dopo):  è  pure  indispensabile 
la  scacchiatura  dei  getti  inutili.  Ma  a  proposito  delle  cimature  già 
facemmo  le  nostre  riserve  al  Capitolo  XIV.  Riassumendo  noi  non 
crediamo  che  il  sistema  Guyot  con  10,000  piante  ad  ettare  sia 
in  generale  da  raccomandarsi  in  Italia,  tanto  più  che  abbiamo  le 
esperienze  fatte,  le  quali  ci  dicono  che  si  dovettero  introdurre  va- 
rianti notevoli  in  quel  sistema,  svellendo  molte  piante  (se  pur  non 
si  volevano  vedere  esaurite  le  proprie  viti  dopo  15  anni,  e  se  si  vo- 
levano ottenere  prodotti  rimuneratori)  oppure  aumentando  le  distanze. 


660  CAPITOLO  XXII 


Modificazioni  Boschìero  e  Panizzardi.  —  Il  distinto  enofilo  e 
viticultore  Giovanni  Boschìero  adottò  da  varii  anni  ne'  suoi  ammi- 
revoli vigneti  della  Galleria  presso  Asti,  il  sistema  Guyot,  ma  vi  in- 
trodusse talune  varianti  degne  di  nota.  Anzitutto  egli  sostiene  i  pam- 
pini esclusivamente  su  tre  fili  di  ferro  distanti  35  centimetri  1'  uno 
dall'altro  (v.  pag.  549)  e  quindi  non  ha  né  paletti,  né  canne,  salvo 
i  pali  che  naturalmente  debbono  sostenere  i  fili  di  ferro;  questi  pali 
distano  10  metri  uno  dall'altro,  sono  alti  un  metro  e  sono  conficcati 
nel  suolo  per  40  centimetri;  la  loro  lunghezza  è  quindi  circa  di  lm,50. 
[  due  pali  di  testa  d'ogni  filare  sono  solidissimamente  fissati  al  suolo 
con  calcestruzzo.  La  potatura  è  questa:  uno  sperone  legnoso  con  due 
gemme;  un  tralcio  frutticoso  lungo  70  centimetri  disteso  sul  primo 
filo;  i  getti  dello  sperone  distesi  sul  terzo  filo;  i  getti  infine  del  tralcio 
frutticoso,  che  sono  poi  quelli  che  portano  l'uva,  cimati  dopo  la  fio- 
ritura a  due  foglie  sopra  l'ultimo  grappolo:  non  appena  sono  abba- 
stanza lunghi  da  poter  essere  legati  al  secondo  filo  di  ferro,  si  fissano 
ad 'esso  con  semplice  filo  d'erba;  pochi  giorni  dopo  si  attorcigliano 
benissimo  al  filo  stesso,  e  vi  stanno  saldamente  assicurati.  Il  Boschiero 
ha  egli  pure  10  mila  piante  ad  ettare,  ma  il  suo  vigneto  non  è  pin- 
gue (1)  ed  egli  non  spinge  la  produzione  delle  sue  viti,  preferendo  una 
minor  quantità  di  uva  bene  matura  ad  una  maggior  quantità  ma  sca- 
dente. È  molto  lodevole  nel  sistema  Boschiero  che  i  tralci  dello  spe- 
rone non  si  lasciano  venire  diritti  a  guisa  di  ghiottoni,  come  col  si- 
stema Guyot,  ma  si  distendono  ripiegandoli  lungo  il  terzo  filo  di 
ferro;  le  gemme  si  fanno  perciò  assai  più  feconde  (pag.  507). 

Il  sistema  Boschiero  è  anche  molto  economico  in  quanto  ai  so- 
stegni, e  perciò  eziandio  sotto  questo  aspetto  lo  preferiamo  a  quello 
di  Guyot. 

Nelle  terre  più  feraci  sarà  però  assai  giovevole  la  modificazione 
adottata  dal  sig.  Conte  Carlo  Pelletta  di  Cossombrato  (Asti),  il  quale 
pur  seguendo  il  metodo  del  Boschiero,  lascia  a'  suoi  bellissimi  vi- 
gneti due  tralci  a  frutto,  dando  così  maggior  sfogo  alla  vite  ed  otte 
nendone  risultati  cospicui,  il  che  abbiamo  noi  stessi  constatato  nel- 
l'estate del  1883. 

Il  compianto  Prof.  Panizzardi,  distinto  cultore  della  viticultura, 


(1)  È  così  moderata  la  vegetazione  delle  vigne  del  Boschiero,  che  può  lavorare 
gli  interfilari  coll'aratro  tirato  da  un  animale,  come  abbiamo  visto  nelT  estate 
del   1883 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  661 


suggeriva  ed  adottava  egli  pure  una  modificazione  al  sistema  Guyot, 
consistente  nel  piantare  filari  abbinati,  e  così  due  file  distanti  60 
centimetri,  e  poi  un  interinare  di  lm,40,  indi  di  nuovo  un  filare  ab 
binato  e  così  di  seguito.  Con  questo  espediente  è  possibile  lavorare 
coll'aratro  l'interfilare,  mentre  il  filare  si  zappa:  è  quindi  una  eco- 
nomia di  fronte  al  sistema  Guyot  puro. 

§  11.  Sistema  Vannuccini.  —  Anche  questo  sistema,  che  si 
deve  al  compianto  Ingegnere  Luigi  Vannuccini  di  Scansano,  l'ab- 
biamo studiato  sul  posto,  e  perciò  lo  abbiamo  potuto  apprezzare  in 
tutto  il  suo  valore. 

I  principii  razionali  della  viticultura  sono  applicati  con  molta  giu- 
stezza di  criterii  in  questo  sistema  e  perciò  noi  lo  chiamammo  si- 
stema razionale  in  altra  nostra  pubblicazione  (1),  con  che  però  non 
intendemmo  di  dire  che  fosse  da  adottarsi  ovunque  a  preferenza  di 
ogni  altro. 

Volendo  fare  una  descrizione  ordinata  del  sistema  Vannuccini  pren- 
diamo le  mosse  dal  pìantamento  del  vigneto.  Lo  scasso  reale  di  tutto 
il  terreno  destinato  alle  viti  è  il  solo  modo  di  preparazione  del  ter- 
reno stesso  che  il  Vannuccini  segue,  e  qualsiasi  viticultore  intelli- 
gente non  potrà  negare  che  è  questo  il  miglior  mezzo  per  esordire, 
inquantochè  nel  terreno  scassato  le  giovani  piantine  gettano  un  folto 
e  vigoroso  sistema  radicale;  ora,  quando  le  radici  sono  sin  da  prin- 
cipio bene  organizzate,  l'avvenire  del  vigneto,  nonché  la  sua  longe- 
vità e  la  sua  produttività,  sono  assicurate. 

II  terreno  su  cui  ebbe  ad  operare  il  Vannuccini  è  di  natura  ar- 
gillo-calcare,  molto  sassoso  e  non  facile  a  scassarsi;  ma  non  per 
questo  egli  si  sgomentò,  e  vi  spese  circa  2500  lire  ad  ettare,  fa- 
cendo praticare  uno  scasso  ad  un  metro  di  profondità:  la  stagione 
preferita  fu  il  dicembre  o  il  gennaio  acciò  il  terreno  avesse  potuto 
subire  l'azione  disaggregatrice  dei  geli  invernali;  certo  sarebbe  an- 
cora preferibile  uno  scasso  estivo,  ma  la  durezza  del  suolo  in  certe 
condizioni  obbliga  il  viticultore  a  rimandare  all'autunno  quella  ec- 
cellente opera.  Del  resto  noi  crediamo  fermamente  che  anche  l'au- 
tunno sia  un'ottima  stagione  per  gli  scassi  profondi,  perchè  essen- 
dovi allora  più  umidore  nel  suolo  e  col  lavoro  profondo  introducen- 


(1)  II  sistema  razionale   Vannuccini  per  coltivare    la    aite.    —  Monografia   del 
Prof.  O.  Ottavi  (Casale  1881). 


662  CAPITOLO  XXII 


dovi  molt'aria,  si  facilita  la  formazione  del  nitrato  di  potassa,  mas- 
sime durante  le  ore  più  calde  del  giorno;  ed  accrescendosi  la  pro- 
porzione di  questo  nitro  s'accresce  anche  la  fertilità  del  terreno. 

Nel  fare  lo  scasso,  si  prepararono  le  fosse  per  il  piantamento,  che 
si  potrebbe  chiamare  piantamento- fognatura:  scavata  una  prima 
fossa  della  profondità  di  un  metro,  vennero  collocati  in  fondo  ad  essa 
i  sassi  estratti  dal  terreno  stesso  neh" apparecchiarlo,  in  guisa  da  for- 
marne uno  strato  alto  20  centimetri  all'incirca:  è  questa  come  si 
vede  una  vera  fognatura,  cioè  un  drenaggio,  come  si  dice  usualmente 
con  barbara  voce:  talvolta  però  mancarono  sul  luogo  i  sassi,  ed  al- 
lora si  supplì  o  con  altri,  fatti  venire  da  altri  campi,  oppure  con  fa- 
scine o  sarmenti,  quasi  a  simiglianza  di  quello  che  si  fa  in  Monfer- 
rato allorquando  si  pratica  il  già  descritto  ar rotto  o  fogna.  Preparata 
per  tal  modo  una  prima  fossa,  si  procedette  similmente  ad  apparec- 
chiarne una  seconda,  e  poi  una  terza,  e  via  dicendo  per  tutto  l'ap- 
pezzamento. 

Le  fosse  sono  distanti  fra  loro  ad  un  dipresso  lm,45  trattandosi 
di  vigna  fìtta  e  bassa,  alla  latina;  le  piante  poi  distano  una  dall'altra 
di  soli  65  o  70  cent.  In  un  ettare  (10  mila  metri  quadrati)  vi  sono 
dunque  circa  10  mila  viti  con  ognuna  un  metro  quadrato  di  spazio. 
Queste  distanze  sarebbero  soverchiamente  piccole  per  molti  sistemi 
di  viticultura;  non  così  per  quello  che  stiamo  ora  studiando,  nel  quale 
si  modera  il  soverchio  vigore  erbaceo,  o  legnoso  che  si  voglia  dire, 
delle  piante  e  non  si  teme  quindi  V  aduggiamento  dei  grappoli  : 
ma  su  di  ciò  dovremo  ritornare  fra  non  molto  con  parecchi  det- 
tagli. 

Per  ora  ci  limiteremo  a  richiamare  l'attenzione  del  lettore  sul  modo 
veramente  razionale  con  cui  il  Vannuccini  prepara  il  terreno  pel 
piantamento,  vale  a  dire  non  solo  con  un  rimuovimento  profondo 
generale  del  suolo,  ma  con  una  fognatura  efficacissima;  la  quale 
giova  a  mantenere  sane  le  radici  ed  esenti  da  parassiti  (come  rizo- 
morfe ed  altri)  che  cagionano  spesso  quel  deperimento  delle  piante 
di  cui  noi  non  sappiamo  renderci  ragione,  e  che  oltre  a  ciò  vale  real- 
mente una  concimazione,  perchè  introducendo  aria  nel  terreno,  vi 
induce  delle  modificazioni,  delle  ossidazioni  e  sovratutto  delle  nitri- 
ficazioni,  per  cui  certi  principii  inerti  si  mutano  in  principii  attivi. 

Preparato  il  terreno  si  lascia  tranquillo  fino  al  mese  di  marzo, 
momento  prescelto  pel  piantamento:  allora  si  incomincia  collo  spia- 
nare tutto  l'appezzamento  colle  zappe  a  mano  e  poi  si  piantano  i  ma- 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  663 

glioli:  per  operare  con  regolarità  si  segna  la  direzione  dei  futuri  fi- 
lari mercè  una  cordicella,  che  serve  di  guida  ai  piantatori.  Questi 
son  muniti  di  pali  di  ferro  terminati  in  punta,  coi  quali  ad  ogni  65  o 
70  centimetri  fanno  dei  buchi  profondi  da  70  ad  80  centimetri,  e 
ciò  ben'inteso  lunghesso  la  detta  cordicella.  A  questi  operai  ne  se- 
guono altri,  che  sono  i  veri  piantatori:  essi  portano  i  fasci  di  ma- 
glioli  o  di  talee  e  ne  conficcano  uno  in  ogni  foro. 

Come  si  vede  il  piantamento  il  Vannuccini  lo  fa  con  tralci  collo- 
cati in  posizione  verticale,  cioè  dritti,  ed  alla  profondità  di  70  od  80 
centimetri;  per  ciò  occorrono  talee  lunghe  non  meno  di  un  metro, 
le  quali  vengono  ad  avere  fuori  terra  due  gemme  (g  h  fìg.  234:  per 
ora  si  faccia  astrazione  dal  restante  del  disegno).  Il  foro  com'è  na- 
turale non  è  riempito  totalmente  dalla  talea;  bisogna  quindi  cacciarvi 


Fig.  234. 

dentro  altra  terra  e  farlo  con  cura,  senza  di  che  alcune  gemme  po- 
trebbero rimanere  come  in  una  piccola  nicchia,  e  non  darebbero  ra- 
dici: tutta  la  talea  deve  combaciare  colla  superficie  interna  del  foro. 
A  tal'uopo  il  Vannuccini  fa  preparare  da  altri  operai  della  terra  ben 
sciolta,  prendendola  generalmente  alla  superficie  dello  scasso,  oppure 
in  quegli  appezzamenti  di  vigna  che  non  furono  vangati,  perchè  al- 
lora la  terra  superficiale  ha  potuto  godere  dei  benefizii  dell'areamento 
e  delle  vicende  atmosferiche  ed  è  certamente  terra  fertile  ed  attiva: 
in  sostanza  il  nostro  viticultore  non  adopererebbe  mai,  per  riempire 
i  fori  suddetti,  della  terra  vergine  non  ancora  panificata  o  sverginata, 
e  noi  troviamo  che  ha  in  ciò  molta  ragione:  infatti  quella  terra  che 


664  CAPITOLO  XXII 


va  a  circondare  tutta  la  talea,  è  destinata  a  porgere  il  primo  ali- 
mento alle  giovanissime  radici  delle  gemme  sotterranee,  e  deve  per- 
ciò essere  ricca  di  principii  prontamente  assimilabili  e  possibilmente 
ricca  di  sostanze  azotate,  le  quali  sono  indispensabili  alla  formazione 
di  copiose  radicelle  ed  al  loro  pronto  accrescimento:  se  invece  è  una 
terra  sterile,  perchè  vergine,  le  radicelle  cresceranno  meschine  assai 
sin  da'  loro  primi  momenti  di  vita,  e  codesto  con  non  piccolo  pre- 
giudizio della  futura  pianta. 

Le  tanto  lamentate  fallanze  dei  piantamene  colle  talee  o  coi  ma- 
glioli  sono  spesso  da  attribuirsi  alle  cattive  condizioni  in  cui  si  tro- 
vano le  prime  radici  appena  si  formano;  si  tenga  dunque  calcolo  del 
bell'ammaestramento  del  Vannuccin?,  se  non  si  vogliono  avere  piante 
rachitiche  per  difetto  di  conveniente  ed  abbondante  alimentazione 
nell'infanzia,  diremo  così,  del  loro  piantamento. 

Non  possiamo  andar  oltre  senze  fare  alcune  osservezioni  sulla  lun- 
ghezza delle  talee  adoperate  dal  Vannuccini,  e  sulla  posizione  ver- 
ticale che  è  loro  data  nelle  buche. 

Abbiamo  visto  che  esse  sono  lunghe  almeno  un  metro:  all'incirca 
sette  ad  otto  gemme  rimangono  dunque  sotterra,  e  da  esse  prendono 
origine  sette  od  otto  corone  di  radici,  mercè  cui  la  novella  pianta 
viene  ad  avere  un  sistema  d'assorbimento  molto  potente:  questo  per 
noi  spiega  in  parte  il  vigore  e  la  fecondità  delle  viti  del  Vannuc- 
cini, la  grossezza  degli  acini  e  la  frequenza,  sullo  stesso  pampino, 
dei  grappoli,  i  quali  poi  sono  voluminosi  oltre  ogni  credere.  Con 
tutto  ciò  non  si  potrebbe  consigliare  quel  piantamento  profondo,  colà 
dove  non  si  fosse  praticata  la  fognatura  sovra  descritta  per  lo  spes- 
sore di  circa  20  centimetri,  per  cui  la  talea  viene  a  poggiare  per 
così  dire  su  uno  strato  molto  permeabile  e  costantemente  aerato. 
Veggasi  infatti  la  fìg.  234:  il  disegno  rappresenta  uno  spaccato  ver- 
ticale d'una  fossa  A  B  profonda  1  metro;  in  C  D  abbiamo  20  cent, 
di  pietre,  più  sopra  80  cent,  di  terra,  frammezzo  alla  quale  sta  la 
talea  e  fg  h.  Or  bene,  se  non  vi  fosse  quella  fognatura,  e  peggio 
poi  se  tutto  il  terreno  non  fosse  stato  scassato  e  disaggregato  con 
cura,  le  corone  di  radici  provenienti  dalle  gemme  più  basse  e  f  oltre 
ad  essere  assai  meschine  ed  esili,  si  dirigerebbero  tutte  all'insù,  verso 
la  superficie  del  suolo,  in  cerca  di  aria:  ma  allora  sarebbero  molto 
più  soggette  ai  danni  della  siccità  estiva.  Invece,  mercè  quella  fo- 
gnatura, ciò  non  accade,  perchè  le  radici  delle  gemme  inferiori  oltre 
a  svilupparsi  tanto  robuste  quanto  le  alto    locate,    trovano    sempre 


SISTEMI  SPECIALI  1)1  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  665 

nel  terreno  una  quantità  sufficiente  di  aria:  esse  quindi,  perchè  molto 
profonde,  sono  indipendenti  o  quasi  dai  calori  estivi,  e  possono  tra- 
smettere ai  grappoli  il  necessario  umido  anche  in  luglio  ed  agosto, 
facendoli  ingrossare  di  molto.  Ciò  è  quanto  accade  nei  vigneti  del 
Vannuccini.  Del  resto  la  pratica  di  -piantare  profonde  le  talee  è  pure 
adottata  in  certi  nostri  paesi  caldi  ove  si  hanno  terreni  ciottolosi  e 
leggeri:  ricorderemo  al  riguardo  le  terre  lapillari  e  sofficissime  dei  din- 
torni di  Napoli,  ove  si  pianta  anche  a  più  di  1  metro  di  profondità, 
locchè  sarebbe  invece  il  più  grave  degli  errori  nelle  terre  compatte, 
a  meno  che  non  si  ricorresse  alla  fognatura,  come  ben  fa  il  Vannuc- 
cini: in  caso  diverso  il  fusto  (cioè  l'antica  talea)  si  serberebbe  quasi 
così  sottile  come  quando  fu  piantato,  e  tarderebbe  non  poco  a  dar 
frutti,  causa  la  sofferenza  d'una  parte  delle  radici,  se  non   di  tutte. 

Esaminiamo  ora  la  posizione  della  talea,  la  quale  vien  collocata, 
come  dicevamo,  verticale  o  diritta.  Ciò  è  razionale,  poiché  si  tratta 
di  piantamento  fìtto  pel  quale  fa  duopo  utilizzare  il  meglio  possibile 
l'umido  del  suolo  indispensabile  ai  tanti  grappoli  di  quelle  numerose 
piante:  le  talee  inclinate  o  sdraiate,  come  giustamente  si  usa  di  col- 
locare nei  piantamenti  radi  fatti  in  terre  pingui  delle  nostre  contrade 
fresche,  sono  raccomandabili  quando  vi  ha  timore  che  la  vite  sia 
pletorica:  si  ha  così  nel  fasto  sotterraneo  un  cotal  rallentamento  nel 
movimento  del  succo,  il  quale  scorre  poi  meno  veloce  nella  pianta  e 
si  elabora  assai  meglio.  Le  felici  conseguenze  di  questa  elaborazione 
sono  le  seguenti:  poca  colatura  e  più  copioso  attecchimento  dei  grap- 
polini.  Nei  piantamenti  fitti,  massime  in  paesi  caldi,  se  la  talea  fosse 
sdraiata  si  avrebbe  una  elaborazione  non  necessaria,  la  quale  si  tra- 
durrebbe in  una  perdita  di  umidore,  mentre  le  numerose  piante  del 
vigneto  ne  abbisognano  in  grande  copia:  le  conseguenze  allora  sa- 
rebbero un  intristimento  nella  pianta  ed  il  raggrinzimento  dei  grap- 
polini  per  difetto  appunto  di  umido.  Nelle  vigne  del  Vannuccini  in- 
vece i  grappoli  sono  tutt'altro  che  sofferenti,  non  ostante  le  10  mila 
piante  per  ettare;  ciò  vuol  dire  che  il  collocamento  della  talea  ver- 
ticale contribuisce,  colle  altre  pratiche  viticole  del  Vannuccini,  a  ren- 
dere le  pigne  molto  succose. 

Però,  il  lettore  ci  potrebbe  obiettare  quanto  segue;  il  rapido  mo- 
vimento del  succo  lungo  la  talea  verticale,  non  nuoce  forse  alla  fio- 
ritura annegando,  come  suol  dirsi,  i  fiorellini  e  facendoli  abortire  ? 
E  l'obiezione  sarebbe  molto  seria;  se  non  che  il  Vannuccini  vi  ha  pure 
pensato,  e  vedremo  fra  poco  come  egli  provochi  sempre  un  copioso 


666 


CAPITOLO   XXII 


pianto  delle  sue  viti  a  primavera,  appunto  per  ovviare  ai  danni  gravi 
della  colatura.  In  estate  poi  l'abortimento  dei  fiori  non  è  più  a  te- 
mersi, ed  anzi  durante  i  calori  estivi  si  ha  bisogno  di  molto  succo, 
con  quelle  viti  così  fitte;  ed  ecco  che  allora  il  piantamento  verticale 
porta  i  suoi  buoni  effetti,  e  l'uva  ingrossa  rapidamente. 

Sin  qui  abbiamo  esaminato  ne'  suoi  particolari  il  piantamento  della 
vigna  secondo  il  metodo  del  Vannuccini:  ora  dobbiamo  entrare  in 
un  altro  campo,  in  quello  cioè  della  cultura  ossia  del  governo  della 
vite;  ed  è  qui  specialmente  che  il  nostro  innovatore  ha  saputo,  con 
molta  maestria,  adattare  i  precetti  della  fisiologia  vegetale  alla  pra- 
tica della  viticultura. 

Procedendo  quindi  con  ordine,  vediamo  come  tratta  le  sue  viti 
il  signor  Vannuccini  al  1°  anno.  Intanto  nell'anno  del  piantamento 
egli  lascia  che  i  getti,  i  quali  provengono  dalle  due  gemme  lasciate 
fuori  terra,  (fig.  235)  crescano  e  si  allunghino  a  loro  bell'agio  e  con 
tutta  libertà:  e  la  stessa  libertà  di  vegetazione  egli  suol  lasciarla  ad 


Fig. 


ogni  altro  germoglio  che  spunti  nel  detto  anno  del  piantamento.  Non 
v'ha  dubbio  che  ciò  conferisce  assai  al  vigore  della  giovine  pianti- 
cella, perchè  ove  venissero  fatte  amputazioni  alla  sua  parte  aerea, 
sarebbe  rotta  l'armonia  che  sempre   deve   esistere    fra   questa  e   la 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  667 

parte  sotterranea,  ed  in  definitiva  il  sistema  radicale  ne  soffrirebbe 
non  poco:  ora  trattandosi  di  una  pianta  che  allora  appunto  sta  for- 
mandosi, si  ingenererebbe  in  essa  come  un  rachitismo,  cui  difficil- 
mente potrebbesi  rimediare  in  seguito.  Il  Vannuccini  lascia  adunque 
che  le  sue  viti,  nei  primi  mesi  della  loro  vita,  si  espandano  liberamente. 

L'anno  successivo  a  quello  del  piantamento  è  il  1°  anno  di  pota- 
tura: questa  consiste  nello  scegliere  il  getto  più  robusto  fra  quelli 
dell'anno  antecedente,  e  potarlo  a  due  gemme,  esportando  del  tutto 
gli  altri  getti.  Da  queste  due  gemme  prendono  origine  due  nuovi 
getti;  il  Vannuccini  lascia  che  essi  si  allunghino  a  piacimento,  ed  a 
ciò,  come  egli  ci  asseriva,  ei  si  attiene  con  scrupolo,  appunto  per 
non  turbare  quell'equilibrio  fra  i  rami  e  le  radici  cui  accennavamo 
or' ora.  Il  Vannuccini  ci  attestò  pure  che  durante  questo  secondo 
anno  egli  raccoglie  «  un  poco  di  frutto  »,  ma  questa  fruttificazione 
precoce  egli  la  teme  alquanto,  perchè  cagiona  un  indebolimento  nella 
pianta,  come  è  facile  ad  intendersi. 

Intanto  eccoci  al  terzo  anno;  esso  è  il  2°  per  la  potatura,  la  quale 
a  simiglianza  della  precedente  consiste  nel  potare  a  due  gemme  il 
getto  più  vigoroso,  sopprimendo  l'altro;  la  potatura  a  soli  due  occhi 
è  fatta  allo  scopo  di  evitare  una  relativamente  soverchia  produzione 
di  frutti,  come  dicevamo  testé.  Dalle  due  gemme  lasciate  alla  pota- 
tura escono  due  getti,  ed  anche  questi  son  lasciati  crescere  con  tutta 
libertà,  con  molto  vantaggio  della  robustezza  della  pianta  e  della  sua 
longevità;  in  quest'anno  il  Vannuccini  vendemmia  pure  una  quantità 
d'uva  proporzionatamente  discreta,  ma  non  esuberante,  poiché  nei 
primi  anni  si  tratta  di  formare  la  pianta,  e  non  già  di  forzarla  a 
produrre  grappoli. 

Al  quarto  anno  —  che  è  poi  il  terzo  di  potatura  —  il  Vannuc- 
cini introduce  una  variante  nel  sistema  fin'allora  seguito  nella  po- 
tatura: egli  pota  infatti  a  due  gemme  ambedue  i  capi  delle  due  gemme 
dell'anno  precedente,  ed  ottiene  così  quattro  getti.  Questi  quattro 
getti  non  sono  trattati  ugualmente  mentre  stanno  allungandosi:  i  due 
collocati  più  in  basso  il  Vannuccini  li  lascia  intatti,  mentre  i  due  più 
alti  o  li  sopprime  (se  non  portan  frutti)  oppure  li  cima  o  spunta  a 
due  gemme  sopra  l'ultimo  grappolo  se  han  frutti.  In  questo  quarto 
anno  le  viti  del  Vannuccini  sono  sufficientemente  vigorose,  ed 
è  appunto  tempo  di  porre  un  limite  a  questo  vigore,  cioè  di  mu- 
tarlo in  fecondità,  senza  di  che,  come  già  dicevamo,  si  raccoglie- 
rebbe legno  ma  non  frutti.  E  gli  è  appunto  per  rendere  feconde  le 


CAPITOLO   XXII 


sue  viti  che  egli  sopprime  i  getti  sterili,  oppure  cima  quelli  che  portan 
grappoli:  ma  nello  stesso  tempo,  per  non  recare  soverchia  offesa  al 
sistema  aereo  della  giovine  vite,  ed  anche  per  ovviare  a  che  questa 
si  alzi  di  troppo,  egli  lascia  intatti  i  getti  collocati  in  basso.  E  tutto 
ciò  è  assolutamente  razionale  e  bene  ponderato. 

Siamo  così  giunti  al  quinto  anno,  4°  di  potatura.  In  questo  anno 
il  Vannuccini  tratta  la  vite  come  nel  precedente,  riguardo  al  taglio, 
vale  a  dire  che  lascia  due  capi  a  caduna  pianta,  e  di  questi  uno  è 
il  capo  a  frutto,  l'altro  il  capo  a  legno:  ma  nello  stesso  anno  no- 
tiamo nel  sistema  Vannuccini  una  pratica  importante  e  caratteristica, 
cioè  V accecamento  di  qualche  gemma  alla  base  del  capo  a  frutto; 
e  ciò  oltre  alla  spuntatura  dei  getti  portanti  uva,  tal  quale  come  nel- 
l'anno precedente.  Al  sesto  anno,  5°  di  potatura,  la  pianta  è  for- 
mata, è  vigorosa,  può  fruttificare  con  una  certa  abbondanza  senza 
esaurirsi,  ed  è  perciò  che  il  Vannuccini  lascia  al  capo  a  frutto  anche 
tre  gemme,  oltre  le  due  accecate  alla  sua  base;  e  qui  pure  i  getti 
fruttiferi  di  coteste  tre  gemme  vengono  cimaci  come  nei  due  anni 
precedenti.  Infine,  negli  anni  successivi,  il    nostro   bravo   vìticultore 


Kig.  230. 


regola  il  numero  delle  gemme  da  frutto  secondo  il  vigore  delle  singole 
piante,  ma  si  può  stabilire  come  norma  fissa  che  le  gemme  del  capo 
fruticoso  non  sono  mai  più  di  sette,  comprese  le  due  che  si  accecano. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  669 

Nella  fìg.  236  qui  unita  è  chiaramente  indicato  tutto  ciò;  e  vi  si 
vede  anche  la  disposizione  delle  canne  ed  il  modo  con  cui  il  tralcio 
a  frutto  vien  ricurvato.  In  A  abbiamo,  disegnata  dal  vero,  una  vite 
vigorosa,  in  B  una  vite  debole;  a  b  è  lo  sperone  con  due  gemme; 
la  gemma  a  provvedere  lo  sperone  pel  successivo  anno,  la  gemma 
b  darà  invece  il  tralcio  frutticoso.  Le  gemme  1  e  2  sono  quelle  che 
il  Vannuccini  fa  accecare  (e  ci  occuperemo  a  lungo  di  ciò  fra  poco); 
le  gemme  3  e  seguenti  sono  i  bottoni  frutticosi.  Nelle  piante  deboli 
sono  quattro  occhi  in  tutto  (come  in  B)  —  nelle  robuste  sono  sette. 

Le  canne  sono  il  sostegno  delle  viti  in  quistione  e  le  legature  si 
fanno  con  fili  di  ginestra;  la  fìg.  236  mostra  come  si  seguono  nelle 
file  i  sostegni.  Le  viti  il  Vannuccini  le  dispone,  come  usasi  a  Scan- 
sano, a  quadrati  o  rettangoli  detti  in  paese  rasole:  fra  le  rasole  vi 
sono  passaggi  larghi  un  metro  o  due,  e  profondi  da  50  ad  80  cen- 
timetri dal  piano  delle  rasole  stesse, 

Ritorniamo  un  momento  &W  accecamento  delle  gemme;  a  pag.  198 
abbiamo  spiegato  perchè  generalmente  le  prime  gemme  dei  capi  a 
frutto  siano  poco  frutticose.  È  appunto  per  questo  che  il  Vannuc- 
cini le  acceca.  Nelle  stesse  viti  ad  internodi  corti,  che  amano  la  po- 
tatura corta  e  sono  allevate  ad  alberello,  le  prime  due  o  tre  gemme 
negli  speroni  non  sono  sempre  frutticose  in  ugual  misura,  e  spesso 
conviene  allungare  la  potatura  perchè  le  gemme  collocate  più  in  alto 
sono  assai  più  fertili:  lo  osservammo  noi  stessi  nei  nostri  alberelli. 
Abbiamo  interpellato  su  questo  punto  il  Vannuccini^  desiderosi  di  u- 
dire  il  suo  avviso  sull'accecamento  delle  prime  gemme  nelle  viti  a 
speroni  cioè  basse,  ed  egli  ci  faceva  giustamente  osservare  che  l'acce- 
camento —  che  dovrebbe  praticarsi  sulla  terza  e  quarta  gemma  (1) 
—  impediva  in  tutti  i  casi  soverchia  produzione  di  germogli  fron- 
zuti per  parte  di  quelle  gemme  assai  vicine  le  une  alle  altre,  la  qual 
produzione  finiva  col  formare  una  fitta  ombra  sotto  cui  molti  grappo- 
lini  abortivano  e  si  mutavano  in  capreoli  o  viticci.  Che  i  piccoli  grap- 
poli privati  della  luce  solare  si  perdano  con  grande  facilità  è  cosa 
che  nessuno  può  porre  in  dubbio,  e  per  ciò  trovammo  assai  oppor- 
tuna la  osservazione  del  Vannuccini. 

Ma  v'ha  di  più.  Nel  caso  speciale  del  sistema  Vannuccini,  (veg- 


(1)  Le  prime  gemme,  in  questo  sistema,  servirebbero  a  fornire  gli  speroni  al- 
l'atto della  potatura  successiva:  senza  di  esse  la  pianticella  si  alzerebbe  di  sover- 
chio in  poco  tempo. 


670  CAPITOLO  XXII 


gasi  la  figura  236  pag.  668)  accecando  le  gemme  1  e  2  del  capo  a 
frutto,  si  lasciano  liberi  nel  loro  accrescimento  i  getti  dello  sperone 
a  b;  vogliamo  dire  che  per  tal  maniera  essi  non  si  adombrano,  non 
si  disputano  per  così  esprimerci  l'umore  nutritivo  coi  getti  del  tralcio 
frutticoso,  ed  il  viticultore  può  essere  sicuro  di  avere,  dalle  due  gemme 
a  b,  due  vigorose  cacciate.  Cosa  questa  di  grande  momento,  perchè 
una  di  queste  cacciate  deve  essere  il  tralcio  a  frutto  per  l'anno  suc- 
cessivo. Ed  è  tanto  vero  che  i  getti  dello  sperone  si  giovano  di  quel- 
l'accecamento, che  le  loro  gemme,  le  quali  ordinariamente  sono  in- 
feconde, diventano  ubertose,  cioè  portano  alquanta  uva,  come  ci  fu 
dato  osservare  nel  vigneto  del   Vannuccini. 

Infine,  mercè  quell'accecamento  il  nostro  valente  viticultore  oltre 
a  semplificare  le  operazioni  della  potatura  verde,  di  cui  diremo  presto, 
ottenne  ed  ottiene  un  sensibile  maggior  prodotto,  locchè  ebbe  a  con- 
statare sin  dal  primo  anno  in  cui  lo  esperimentò,  e  così  sin  dal  1872. 
Questo  prodotto  s'accrebbe  anzi  nei  successivi  anni,  senza  scapito 
nella  robustezza  della  pianta,  anzi  con  accrescimento  di  essa,  e  tutto 
ciò  —  si  noti  bene  —  senza  veruna  concimazione. 


Fig.  237. 


Infatti,  i  futuri  tralci  a  frutto  nel  sistema  Vannuccini  vengono  ri- 
curvati, come  si   vede  nella   figura  237   in   a  b  e  d  e  f  g:  i  bot- 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  671 

toni  che  si  trovano  nel  tratto  verticale  ab  e  è  impossibile  siano  u- 
gualmente  fecondi  come  quelli  della  porzione  di  tralci.)  ricurva  d  e  f  g 
nella  quale  il  succo  subisce  come  un  arresto  momentaneo,  o  per  lo 
meno  un  rallentamento,  favorevolissimo  alla  fecondazione  delle  gemme 
e  ad  un  copioso  immagazzinamento  di  materiali  nei  serbatoi  delle 
singole  gemme  stesse.  Di  qui  i  copiosi  prodotti. 

Per  tutte  queste  ragioni  crediamo  razionale  la  pratica  del  Vannaccinì 
e  pensiamo  che  l'accecamento  delle  due  gemme  inferiori  —  al  mas- 
simo tre  —  possa  raccomandarsi  ai  viticultori  generalmente  parlando, 
non  foss'altro  per  impedire  una  inutile  uscita  di  getti  ghiottoni,  che 
vegeterebbero  a  danno  sia  di  quelli  frutticosi,  sia  dei  getti  dello  spe- 
rone. Nel  sistema  Vannuccini  l'accecamento  delle  gemme  non  espone 
neppure  il  viticultore  all'inconveniente  di  innalzare  di  soverchio  la 
vite;  infatti  —  e  questo  a  dir  vero  può  farsi  con  tutti  i  sistemi  — 
volendosi  abbassare  la  pianta  si  possono  allevare  dei  piccoli  speroni 
(il  Vannuccini  ed  i  suoi  compaesani  li  chiamano  sbassatoi)  ai  quali 
si  lascia  una  sola  gemma  nel  primo  anno,  e  due  nel  secondo;  allora 
si  taglia  il  vecchio  legno  alla  inserzione  dello  sperone  e  la  vite  vien 
abbassata  quanto  conviene. 

Del  resto  il  Vannuccini  non  si  preoccupa  molto  di  codesto,  perchè 
nello  sperone  delle  sue  viti  egli  trova  sempre  i  due  capi  occorren- 
tigli  per  l'anno  avvenire,  e  li  trova  in  posizione  tale  da  non  alzare 
di  soverchio  la  vite:  nella  peggiore  delle  ipotesi  poi,  egli  ne  trova  al- 
meno uno,  e  ciò  gli  permette  di  disporre  liberamente  delle  gemme 
del  tralcio  frutticoso,  cioè  gli  permette  di  distruggere  le  prime  due 
o  tre. 

Concludendo  tutto  ciò,  che  ci  pare  interessante  e  nuovo,  di- 
remo che  col  suddetto  accecamento  il  Vannuccini  ottiene  i  seguenti 
risultati:  1°)  impedisce  l'uscita  di  germogli  quasi  sempre  infecondi,  e 
veri  ghiottoni;  2°)  favorisce  l'allegamento  dei  frutti  perchè  impedisce 
un  soverchio  adombramento  dei  grappolini  nascenti;  3°)  favorisce  lo 
sviluppo  dei  getti  dello  sperone;  4°)  rende  feconde  in  certa  misura 
anche  le  gemme  degli  speroni  stessi;  5°)  infine  ottiene  un  maggior 
prodotto,  senza  scapito  nella  vigorìa  della  pianta,  perchè  usufrutta 
le  gemme  più  feconde  del  tralcio  fruttifero. 

Vediamo  ora  quando  è  che  il  Vannuccini  vuole  potate  le  sue  viti. 
Premetteremo  che,  nell'atto  in  cui  pota,  egli  mira  non  solo  a  conseguire 
quei  vantaggi  che  sono  la  conseguenza  diretta  della  potatura  delle 
viti,  ma  altresì  ad  impedire  in  modo  quasi  assoluto   i   danni  dell'a- 


672  CAPITOLO   XXII 


borto  dei  fiori,  locchè  si  traduce  in  un  sensibilissimo  aumento  di 
prodotto. 

L'aborto  dei  fiori,  che  con  barbara  espressione  tolta  dal  francese 
noi  chiamiamo  colatura,  reca  annualmente  gravi  danni  ai  vigneti  di 
tutta  la  penisola;  non  è  soltanto  nelle  regioni  ove  la  primavera  è 
piovosa  che  si  vede  talvolta  ridotto  di  metà  il  prodotto,  ma  altresì 
in  quei  paesi  caldi  ove  le  viti  di  terreni  fertili  sono  succise,  o  po- 
tate corte;  i  siciliani  di  Mascali  per  esempio,  sanno  benissimo  che 
cosa  è  la  scurritina  di  quelle  viti,  le  quali  hanno  pochi  cornetti  o 
spaile,  ricche  di  succo  acquoso  che,  se  cosi  possiamo  esprimerci,  af- 
foga i  fiorellini  a  primavera.  Se  si  facesse  una  statistica  dei  danni 
approssimativi  che  arreca  ogni  anno  l'aborto  suddetto  nei  nostri  vi- 
gneti, si  rimarrebbe  sorpresi  dell'entità  del  danno  medesimo:  i  viti- 
cultori  intelligenti  ben  lo  sanno,  e  non  mancano  infatti  di  ricorrere 
al  salasso,  all'incisione  anulare,  e  ad  altre  pratiche  tendenti  a  pro- 
vocare un  arresto  nel  succo  ed  una  migliore  elaborazione,  oppure 
un  disperdimento  di  linfa  acquosa. 

Il  Vannuccini  non  si  preoccupa  molto  dell'andamento  dell'autunno, 
dell'inverno  e  della  primavera,  che  possono  essere  trascorsi  più  o 
meno  acquosi;  egli,  tutte  le  primavere,  prende  invariabilmente  le  sue 
misure  di  precauzione  contro  l'aborto  dei  fiori,  e  queste  misure  con- 
sistono nella  potatura  in  due  tempi  seguita  talvolta  da  una  specie 
di  salasso  praticato  sulle  piante  pletoriche. 

La  prima  potatura  il  Vannuccini  la  pratica  dopo  la  caduta  natu- 
rale delle  foglie:  (essendo  egli  contrario  allo  stbgliamento,  lascia  che 
questi  indispensabili  organi  di  nutrizione  cadano  di  per  sé  stessi,  dopo 
di  aver  giovato  per  il  più  lungo  tempo  possibile  al  perfezionamento 
dei  tralci);  sul  tardo  autunno  adunque  il  nostro  viticultore  fa  la  po- 
tatura al  completo  degli  speroni,  seguendo  il  sistema  che  descri- 
vemmo a  pag.  666:  per  tal  modo  le  gemme  anticipano  lo  sboccia- 
mento, i  loro  getti  si  fanno  assai  rigogliosi,  più  rigogliosi  di  quelli 
del  capo  a  frutto  non  ancora  potato,  e  per  tal  maniera  si  prepara 
in  essi  uria  abbondante  fruttificazione  pei  prossimo  anno:  oltre  a  ciò 
è  chiaro  che  cotesti  getti,  i  quali  si  sviluppano  ed  allungano  prima  dei 
germogli  fruttiferi  del  tralcio  a  frutto,  smaltiscono  una  certa  quan- 
tità di  succo,  che  attraggono  a  sé  con  forza  a  guisa  di  getti 
ghiottoni,  e  così  impediscono  in  certa  misura  che  i  fiori  abortiscano 
nei  detti  germogli  fruttiferi. 

Ma  veniamo  alla  seconda  potatura.  Questa  il  Vannuccini  la  pratica 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


673 


al  principio  della  primavera  e  precisamente  quando  la  vite  incomincia 
a  piangere:  allora  egli  pota  i  capi  o  frutto  tagliandoli  in  guisa 
da  lasciar  loro,  come  già  dicemmo,  sette  od  al  più  otto  gemme 
È  questo  un  vero  salasso,  ossia  una  svettatura,  mercè  la  quale 
la  vite  perde  una  copiosa  quantità  di  umore  acquoso,  i  suoi  fiori 
attecchiscono  ed  i  suoi  frutti  allegano.  Ma  nelle  viti  molto  ro- 
buste e  pletoriche  il  Vannuccini  non  si  accontenta  di  questa  pota- 
tura tardiva;  egli,  non  appena  il  pianto  accenna  a  voler  cessare,  ri- 
taglia di  nuovo  la  punta  dei  capi  a  frutto  al  disopra  dell'ultima  gemma, 
cioè  salassa  le  sue  viti,  come  pratichiamo  noi  pure  da  varii  anni  con 
pieno  successo;  allora  il  pianto  ricomincia  da  capo,  ed  i  fiorellini 
sono  salvi. 

E  non  è  ancora  tutto  qui.  È  tale  il  timore  che  ha  il  Vannuccini 
dell'eccesso  di  succo  acquoso,  che,  sempre  a  primavera,  egli  usa  pra- 
ticare, sulle  piante  molto  pletoriche  e  nelle  annate  umide,  un  taglio 
speciale  sulla  ceppaia  mercè  il  secatore,  il  roncolo  od  un  coltello  a- 
dunco  qualsiasi.  Questo  taglio  consiste  nell'esportare  una  piccola 
squamma  di  legno,  larga  all'incirca  quanto  è  largo  un  centesimo, 
cagionando  così  una  ferita  leggera  che  va  sino  all'alburno:  la  fìg.  238 


Fig.  23S. 


ci  mostra  in  a  dove  si  farebbe  il  piccolo  taglio:  ed  in  b  il  taglio 
stesso  già  fatto.  È  una  operazione  semplicissima,  la  quale  richiede 
assai  poco  tempo  e  dà  risultati  veramente  ottimi,  per  impedire  l'af- 
fogamento dei  fiorellini. 

Con  queste  pratiche  adunque  il  Vannuccini  scansa  i  danni  dell'a- 
borto dei  fiori  o  del  non  allegamento  dei  frutti,  e   non    gli   occorre 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  44 


674  CAPITOLO  XXII 


perciò  di  ricorrere  alla  incisione  anulare  od  alle  pratiche  tendenti 
allo  stesso  scopo,  le  quali  sono  di  esecuzione  assai  più  complicata, 
e  senza  dubbio  poi  di  esito  meno  sicuro. 

Ed  eccoci  ora  a  descrivere  il  complesso  di  quelle  importanti  pra- 
tiche che  si  sogliono  chiamare  «  la  potatura  verde  della  vite  »: 
il  Vannuccini  vi  attribuisce  una  grande  importanza,  perciò,  dopo  a- 
vere  studiato  accuratamente  la  quistione,  è  riuscito  ad  una  soluzione 
che  può  benissimo  conciliare  fra  loro  i  partigiani  ed  i  non  partigiani 
della  anzidetta  potatura  verde. 

Per  maggior  chiarezza  divideremo  le  pratiche  del  Vannuccini  in 
due  gruppi;  quelle  che  riguardano  il  tralcio  a  frutto,  e  quelle  che  si 
riferiscono  ai  getti  dello  sperone. 

Il  tralcio  a  frutto  è  come  dire  il  tutore  dei  grappoli  che  portano 
i  suoi  getti  uviferi;  se  sullo  stesso  tralcio  il  viticultore  lascia  che  si 
accumulino  le  cacciate  erbacee  infruttifere,  i  frutti  riescono  meschi- 
nelli  e  poco  ricchi  di  succo,  perciò  il  prodotto  complessivo  del  vi- 
gneto si  riduce  d'assai.  Siccome  nel  sistema  Vannuccini  la  fruttifica- 
zione avvenire  si  prepara  esclusivamente  nelle  gemme  d'uno  dei  getti 
dello  sperone,  ne  segue  che  nel  tralcio  a  frutto  dell'  annata  il  viti- 
cultore  non  ha  a  considerare  altro  che  i  grappoli  pendenti,  e  può 
quindi  togliere  tutto  quanto  non  porta  uva.  Ma  neppure  i  getti  clie 
portano  i  grappoli  debbono  lasciarsi  allungare  a  tutto  loro  agio; 
è  chiaro  che  così  si  priverebbero  i  grappoli  stessi  di  una  parte  non 
piccola  di  linfa:  i  getti  uviferi  debbono  quindi  spuntarsi.  Però  non 
si  deve  eccedere  nell' esportare  le  foglie,  perchè  questi  preziosi  or- 
gani sono  il  laboratorio  nel  quale  si  prepara  il  glucosio,  che  emigra 
quindi  nelle  pigne:  sopra  i  grappoli  perciò  vi  debbono  essere  alcune 
foglie,  senza  di  che  l'uva  maturerebbe  male,  darebbe  un  mosto  aspro 
e  povero  di  zucchero. 

Gli  è  dietro  queste  considerazioni  che  il  Vannuccini  ha  stabilito 
di  trattare  nel  seguente  modo  i  suoi  tralci  a  frutto  (ed  i  risultati 
pratici  che  egli  ottiene  sono  da  varii  anni  ottimi):  —  dalle  gemme 
del  tralcio  frutticoso,  spuntano,  come  tutti  sanno,  dei  getti  uviferi; 
questi  si  devono  lasciar  crescere  a  loro  talento  sino  a  tanto  che  sìa 
possibile  di  cimarli  o  svettarli  alla  seconda  foglia  sull'ultimo  grap- 
polo: nel  tempo  istesso  si  osserva  se  vi  sono  getti  sterili,  e  questi 
si  sopprimono  tosto,  come  fa  anche  in  Monferrato  qualche  intelli- 
gente viticultore. 

L'effetto  di  questa    cimatura    è  noto;  essa    provoca  V  uscita  delie 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  675 

femminelle  o  nepoti  (1)  all'ascella  delle  foglie  dei  getti  spuntati.  Queste 
femminelle  il  Vannuccini  le  sopprime;  anzi  egli  sopprime  anche  la 
piccola  gemma  che  si  disegna  alla  loro  base,  e  perciò  strappa  o 
scoscia  contr'occhio  il  nepote  (come  dicesi  nel  luogo).  Così  il  tralcio 
frutticoso  è  liberato  da  ogni  produzione  inutile,  mentre  le  foglie 
lasciate  ai  getti  uviferi,  crescono  in  ampiezza  ed  in  vigore  vegeta- 
tivo, e  si  hanno  infine  grappoli  ad  acini  turgidi  e  ricchi  di  mosto, 
come  ebbimo  ad  osservare  noi  stessi  con  molta  compiacenza. 

Un'ultima  osservazione;  il  tralcio  frutticoso  dopo  queste  cimature 
è  abbandonato  a  sé,  salvo  a  schiantare  o  scacchiare  quei  nuovi  getti 
sterili  che  per  caso  vi  spuntassero  sopra.  All'incirca  15  giorni  prima 
della  vendemmia  si  usa  generalmente  sfogliare  il  tralcio  a  frutto: 
ebbene  il  Vannuccini  non  isfoglia,  e  per  verità  le  sue  viti  non  ne 
hanno  bisogno,  dopo  le  cimature  e  le  scacchiature  suddette.  E  notisi 
che  sono  rilevanti  le  differenze  che  passano  fra  le  uve  delle  viti  sfo- 
gliate e  quelle  delle  viti  lasciate  intatte;  anzitutto  le  pigne  sono  più 
zuccherine,  tanto  da  potersi  riconoscere  la  maggior  dose  di  glucosio, 
e  con  facilità,  al  semplice  tatto....  spremendo  qualche  acino;  d'altra 
parte  esse  sono  anche  più  ricche  di  mosto;  nella  nostra  escursione 
a  Scansano  abbiamo  potuto  calcolare  circa  il  20  Ojq  di  più  nelle  uve 
delle  viti  non  sfogliate. 

Raccomandiamo  perciò  ai  viticoltori  di  fare  al  riguardo  delle  espe- 
rienze comparative;  non  si  tema  che  le  pigne  non  maturino  se  non 
giungono  ad  esse  direttamente  i  raggi  del  sole;  si  ritenga  invece  che 
l'uva  deve  rimanersene  all'ombra,  massime  durante  gli  ardori  della 
canicola,  e  pure  all'ombra  maturare,  lasciando  che  le  sole  foglie  usu- 
fruiscano della  viva  luce  solare  che  è  indispensabile  alla  produzione 
di  molto  glucosio.  Gli  è  per  questo  che  noi  abbiamo  sempre  racco- 
mandato una  sfogliatura,  pochi  giorni  prima  della  vendemmia,  mo- 
deratissima: ma  il  Vannuccini  non  ne  pratica  punto,  e  crediamo  che 
sia  la  sua  una  pratica  razionale,  tanto  più  che  egli,  non  essendo  esclu- 
sivista, effettua  una  moderata  sfogliatura  quando  Y  estate  trascorre 
poco  calda  e  poco  umida;  in  tal  caso  scopre  le  uve  una  settimana 
al  massimo  prima  della  vendemmia  acciò  le  pigne  possano  godere 
per  alcuni  giorni  del  beneficio  d'un  maggior  calor  solare  e  della  luce 


(1)  Ci  piace  assai  questo  appellativo  perchè  si  tratta    realmente  dei  nepoti  del 
tralcio  a  frutto,  i  cui  figli  sarebbero  i  getti  uviferi. 


676  CAPITOLO  XXII 


diretta,  che,  in  quelle  annate,  può  giovare  al  succo  degli  acini,  ren- 
dendolo meno  acquoso. 

Vedremo  ora  che  ad  ogni  modo  il  Vannuccini  non  isfoglia  che  i 
getti  del  tralcio  frutticoso;  mai  quelli  dei  capi  destinati  alla  futura 
potagione. 

Veniamo  ora  alle  pratiche  che  si  riferiscono  ai  getti  dello  sperone. 
Questi  getti,  come  dicemmo  a  pag.  669,  sono  due;  uno  è  destinato 
alla  futura  fruttificazione,  l'altro  deve  essere  potato  a  due  gemme. 
Avendo  scopi  ^diversi  è  naturale  e  logico  che  siano  trattati  diversa- 
mente; e  così  adopera  il  Dr.   Vannuccini. 

Il  getto  più  alto  locato  dello  sperone  è  oggetto  di  molte  cure,  perchè 
ove  fosse  trascurato,  Tanno  dopo  darebbe  poca  uva;  nelle  sue  gemme 
debbono  formarsi  i  futuri  getti  uviferi,  quelle  hanno  perciò  bisogno 
di  molto  ed  appropriato  alimento,  cioè  di  succo  convenientemente 
elaborato. 

Alla  elaborazione  del  succo  giova  —  è  cosa  oramai  nota  a  tutti 
i  viticoltori  e  frutticultori  —  ricurvare  i  rami  frutticosi,  ed  è  per 
questo  che  il  Vannuccini  li  ricurva,  facendo  volgere  la  loro  punta 
verso  terra,  come  si  vede  nella  fig.  237  in  b  e  d  e  f  g. 

Ma  non  è  tutto  qui.  Questi  futuri  capi  frutticosi  il  Vannuccini  li 
lascia  crescere  a  loro  bell'agio,  cioè  non  li  spunta  né  sfoglia  meno- 
mamente: ma  cima  però  le  femminelle  o  nepoti  che  spuntano  alla 
ascella  delle  future  gemme  frutticose.  Questa  cimatura  la  fa  sulle 
femminelle  delle  gemme  e  f  g  e  seguenti,  a  due  foglie,  mentre  le 
gemme  ed  —  che  tanto  dovranno  essere  accecate  —  egli  le  priva 
dei  nepoti  e  lascia  loro  soltanto  le  foglie.  Tutto  ciò  è  logico;  se  le 
femminelle  delle  gemme  e  f  g  e  seguenti  si  lasciassero  allungare  a 
loro  bell'agio,  ne  scapiterebbero  le  gemme  stesse  che  stanno  alla 
loro  base;  cimandole  a  due  foglie,  vi  ha  un  arresto  nel  succo,  che 
va  a  totale| benefizio  dei  bottoni,  cioè  della  fruttificazione  futura.  In 
quanto  alle  girarne  e  d  che  saranno  accecate,  è  inutile  che  colle  loro 
femminelle  smaltiscano  del  succo  nutritore  a  danno  dei  bottoni  sud- 
detti e  dei  frutti  pendenti;  perciò  si  devono   sopprimere. 

Infine  vediamo  come  tratta  il  Vannuccini  il  getto  della  gemma  in- 
feriore dello  sperone:  questo  getto  dovrà  poi  speronarsi,  come  si  suol 
dire,  a  due  gemme,  dunque  le  due  sue  prime  gemme  sono  pel  viti- 
cultore  assai  più  importanti  che  le  altre.  Ed  ecco  che  il  Vannuc- 
cini alle  due  prime  gemme  a"  V  (fig.  237)  lascia  non  solo  la  loro 
foglia,  ma  anche  la  femminella,  spuntata  a  due  foglie  m  n  od  anche 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  077 

ad  una  sola;  in  quanto  alle  altre  gemme  e  d'  ecc.  che  all'atto  della 
potatura  verranno  esportate,  egli  lascia  loro  soltanto  la  foglia,  e  leva 
il  nepote,  che,  ove  fosse  lasciato  stare,  crescerebbe  a  danno  di  tutti 
i  bottoni  dei  due  getti  dello  sperone,  nonché  dei  frutti  pendenti. 

Anche  questo  getto,  destinato  a  dare  lo  sperone,  vien  piegato  ad 
arco,  come  si  vede  nella  figura  237;  con  questa  piegatura  si  fe- 
condano meglio  le  gemme  della  sua  base,  e  si  ha  così  uno  sperone 
vigoroso  che  dà  poi  due  getti  pure  vigorosi. 

In  tutte  queste  bellissime  pratiche  si  scorge  che  il  Vannuccini 
mentre  non  vuole  che  la  vite  sfoggi  in  produzioni  inutili  perchè  in- 
fruttifere, non  le  infligge  però  soverchie  e  capricciose  amputazioni, 
ma  procura  di  ottenere  uve  ricche  di  succo  zuccherino  e  nello  stesso 
tempo  si  prepara  una  abbondante  fruttificazione  per  l'anno  successivo. 

Sin  qui  abbiamo  parlato  della  cimatura:  ora  dobbiamo  dire  qualche 
cosa  anche  sulla  scacchiatura,  cioè  su  quella  operazione  che  ha  per 
iscopo  di  privare  la~  vite  di  quei  polloni  o  getti  infruttiferi  e  ghiot- 
toni, che  spuntano  massimamente  sul  vecchio  ceppo. 

Questi  polloni  il  Vannuccini  li  leva  non  appena  sono  spuntati,  e 
solo  ne  lascia  qualcuno  in  posizione  opportuna  allorquando  la  vite 
essendosi  elevata  di  troppo  egli  vuole  abbassarla:  quel  pollone  infatti, 
come  già  dicemmo,  lo  chiama  sbassatolo  o  razzolo.  La  ragione  per 
cui  il  Vannuccini  pratica  questa  scacchiatura  precoce  è  essenzial- 
mente questa,  che  egli  non  vuole  che  vi  sia  nelle  sue  viti  una  di- 
spersione di  succhi  in  produzioni  parassitiche:  e  i  polloni  suddetti 
sono  veri  parassiti  perchè  quasi  sempre  non  portan  uva,  e  se  anche 
recassero  qualche  grappolo  egli  pensa  che  conviene  rinunciarvi,  perchè 
ove  si  lasciassero  crescere  a  loro  beli'  agio  ne  risentirebbero  danno 
non  solo  i  frutti  pendenti,  che  riescirebbero  meno  ricchi  di  succo, 
ma  anche  le  gemme  destinate  ad  apparecchiare  la  fruttificazione  futura. 

Si  potrebbe  obiettare  che  quando  le  piante  sono  molto  robuste,  ed 
hanno  bisogno  di  dar  corso  alla  sovrabbondanza  dei  proprii  umori, 
massime  in  annate  umidiccie,  la  scacchiatura  è  un  danno,  perchè  quei 
polloni  sono  come  tante  valvole  di  sicurezza,  tanti  smaltitoi  dell'ec- 
cesso di  succo  acquoso,  e  così  non  si  ha  troppo  pericolo  che  i  fiori 
abortiscano  per  la  così  detta  colatura:  e  ciò  è  vero,  perchè  il  viti- 
cultore  sa  benissimo  che  quando  il  sistema  aereo  della  pianta  non 
può  smaltire  tutto  quanto  gli  viene  apprestato  dal  sistema  sotterraneo, 
ci  vanno  di  mezzo  i  frutti. 

Ma  il   Vannuccini  ha  preveduto  questa  obiezione,  e  per  impedire 


678  CAPITOLO  XXII 


l'aborto  dei  fiori  egli  provoca  un  copioso  pianto  dalle  sue  viti  colla 
potatura  tardiva  e  con  una  specie  di  salasso  di  cui  già  discorremmo 
a  lungo.  Egli  può  dunque  con  tutta  tranquillità  far  la  sua  scacchia- 
tura  precoce,  cioè  far  la  guerra  a  tutto  ciò  che  è  inutile:  la  sua 
pratica  di  molti  anni  dimostra  che  questo  sistema  dà  eccellenti  ri- 
sultati, locchè  vuol  dire  che  è  razionale. 

A  pag.  676  abbiamo  detto,  quasi  di  passaggio,  che  il  Vannuccini 
ricurva  i  futuri  capi  a  frutto,  come  lo  indica  il  disegno  stampato 
a  pag.  668.  Non  abbiamo  insistito  maggiormente  allora  sulla  utilità 
di  questa  pratica,  perchè  volevamo  dedicarle  uno  speciale  brano, 
e  gli  è  ciò  che  facciamo  qui. 

Le  viti  del  Vannuccini,  quantunque  non  vengano  mai  aiutate  col 
concime,  sono  di  una  fecondità  degna  di  rimarco;  or  bene,  noi  cre- 
diamo (ed  è  dello  stesso  avviso  anche  il  Vannuccini  con  tutti  coloro 
che  hanno  fatto  osservazioni  diligenti  sulla  fruttificazione  della  vite), 
che  ciò  debba  attribuirsi  in  grande  parte  a  quella  ricurvatura,  ef- 
fettuata tra  il  finir  di  giugno  ed  il  luglio,  prima  insomma  della  ca- 
nicola estiva.  Bisogna  ricordare  che  il  Vannuccini  lascia  allungarsi 
a  loro  bell'agio  i  detti  futuri  capi  frutticosi,  e  solo  ne  cima  i  ne- 
poti;  ora  un  tralcio  che  si  allungasse  secondo  la  verticale,  nò  fosse 
mai  spuntato  dal  viticultore,  l'anno  dopo  sarebbe  assai  poco  frutti- 
coso,  perchè  il  succo  anziché  nutrire  bene  le  gemme  ed  arricchire 
il  loro  serbatoio  di  sostanza  alimentare,  si  sciuperebbe  in  una  inu- 
tile produzione  erbacea  o  legnosa.  Il  Vannuccini,  che  ben  sa 
ciò,  ricurva  il  tralcio,  rallenta  il  movimento  della  sava  ed  ha  gemme 
feconde;  locchè  è  noto  del  resto  in  tutta  la  Toscana,  e  qua  e  là 
anche  nel  Monferrato,  nell'Astigiano  e  via  dicendo.  Che  le  gemme 
dei  tralci  nelle  viti  in  questione  siano  molto  feconde  lo  dimostra 
questo  fatto  da  noi  osservato:  i  pampini  nati  dalle  gemme  stesse 
non  solo  portano  spesso  tre  grappoli,  ma  li  portano  a  poca  distanza 
l'uno  dall'altro,  e  son  grappoli  di  gran  peso;  spesso  il  primo  grap- 
polo si  trova  appena  5  o  6  centimetri  di  distanza  dall'inserzione  del 
getto  uvifero  sul  tralcio  a  frutto,  ed  il  secondo  grappolo  dista  dal 
primo  d'altrettanto,  v'  ha  cioè  un  internodo  o  meritallo  assai  breve: 
il  terzo  grappolo  poi  si  trova  circa  a  distanza  doppia.  Questi  inter- 
nodi  cortissimi,  nonché  la  frequenza  e  la  grossezza  dei  grappoli,  di- 
notano molta  fecondità  nelle  gemme  frutticose,  le  quali  sin  dall'anno 
precedente  debbono  essersi  organizzate  assai  bene,  mercè  le  cure 
dell'intelligente  viticultore. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  679 

La  curvatura  dei  tralci  a  frutto  il  Vannuccini  la  fa  in  guisa  che 
essi  volgano  la  loro  punta  a  terra,  e  perciò  li  lega  alle  canne  o  con 
vimini  di  salice,  o  con  fili  di  ginestra,  locchè  è  molto  più  economico. 

Raccomandiamo  adunque  caldamente  la  ricurvatura  dei  futuri  capi 
a  frutto,  massimamente  colà  dove  le  viti  sono  vigorose  e  tendono  a 
sfogarsi,  se  così  possiamo  dire,  in  produzioni  legnose.  V'ha  un  mezzo 
molto  economico  per  adottarla,  ed  è  quello  di  recidere  in  giugno  i 
capreoli  o  viticci  ai  detti  tralci,  lasciando  poi  che  da  sé  stessi  si  fac- 
ciano penzoloni  od  orizzontali,  salvo  poi  ad  appoggiarli  agli  altri  tralci 
vicini:  così  si  avranno  gemme  turgide  e  feconde. 

Un'  altra  eccellente  pratica  è  ormai  entrata  nelle  consuetudini  del 
Dott.  Vannuccini,  ed  è  lo  scortecciamento  delle  vecchie  ceppate, 
o,  diremo  meglio,  la  loro  raschiatura. 

Egli  suole  effettuarla  ogni  due  o  tre  anni,  massimamente  sulle  viti 
annose,  dividendo  il  vigneto  in  varie  sezioni  o  appezzamenti.  Questa 
operazione,  tanto  efficace  per  ringiovanire  le  vecchie  piante,  è  in 
Italia  antichissima,  e  la  si  trova  raccomandata  già  da  Columella 
Anche  Pier  de1  Crescenzi  e  poi  Filippo  Re  e  Carlo  Verri  ed  infine 
molti  moderni  la  dissero  tanto  utile  alla  vite  quanto  è  utile  per  esempio 
tener  mondo  dalle  male  erbe  il  suolo  del  vigneto.  (Vedi  il  Cap.  XX.) 

Infine  vediamo  la  parte  economica. 

Il  reddito  medio  annuale  della  vigna  deWIng.  Vannuccini  è  la  mi- 
glior prova  della  bontà  del  sistema  che  abbiamo  descritto  nelle  pagine 
precedenti:  vediamone  adunque  la  entità. 

La  vigna  in  discorso  non  è  un  piantamento  recente;  si  tratta  in- 
vece di  ceppaie  le  quali  hanno  circa  ottantanni  d'età,  piantate  cer- 
tamente con  metodo  poco  razionale,  ma  coltivate  dal  1871  in  qua 
con  molte  cure  dal  Vannuccini.  Sino  dal  1871  i\  podere  dei  Ripacci 
(questo  è  il  nome  del  vigneto-oliveto)  era  stato  tenuto  a  colonia,  ed 
i  coloni  non  volevano  saperne  di  fare  nuovi  tentativi  su  nuovi  me- 
todi di  educazione  delle  viti  stesse;  perciò  il  Vannuccini  riprese  per 
suo  conto  una  parte  del  podere,  quella  precisamente  ove  stavano  le 
piante  più  attempate,  ed  ivi  incominciò  le  sue  prove  su  modesta  scala 
siccome  deve  adoperare  ogni  prudente  agricoltore.  I  risultati  furono 
completi,  come  lo  dimostrano  i  seguenti  dati  : 

Reddito  ad  ettare  prima  del  1871  (colonia)       ettol.     5,71 
Id.  nel  1875  (sist.  diret.)     »      62,85 

e  questo  aumento  di  prodotto  fu  grado  grado  accompagnato  da  un 


680  CAPITOLO  XXII 


invigorimento  delle  ceppaie,  che  prima  parevano  esauste  e  sfinite: 
il  fatto  è  degno  di  rimarco,  massime  per  quei  viticuitori  che,  colti- 
vando irrazionalmente  le  loro  viti,  sono  costretti  a  rinnovarle  ogni 
20  o  25  anni. 

Dal  1871  al  1875  il  vigneto  dei  Ripacci  subì  la  transizione  dal 
vecchio  al  nuovo  sistema;  poco  per  volta  le  singole  ceppaie,  a  se- 
conda dello  stato  in  cui  si  trovavano,  vennero  ridotte,  secondo  le 
nuove  vedute  del  Vannuccìni,  e  così  nel  detto  anno  1875  egli  potè 
avere  il  primo  prodotto,  dieci  o  dodici  volte  superiore  a  quello  che 
ottenevano  dapprima  i  coloni. 

Il  vigneto  dei  Ripacci  non  è  specializzato  nel  senso  rigoroso  della 
parola;  infatti  fra  le  ceppaie  cresce  l'olivo,  che  in  media  vi  dà  frutti 
ogni  due  anni.  Ma  tolto  l'olivo,  null'altro  si  coltiva  negli  interfìlari, 
che  anzi  sono  lavorati  spesso  e  tenuti  costantemente  mondi  da  ogni 
vegetazione  parassitica. 

E  così  il  primo  lavoro  del  terreno  si  fa  sempre  colla  vanga  da 
30  a  35  centimetri  di  profondità,  avendo  cura,  mentre  si  eseguisce 
tale  vangatura,  di  togliere  tutte  le  piccole  radici  che  trovansi  sulla 
ceppaia  o  pedone  delle  viti:  questa  operazione  chiamasi  in  Toscana 
e  nel  Lazio  sbarbettatura,  e  per  essa  si  tolgono  tutte  le  barboline 
per  un  tratto  della  ceppaia  lungo  quanto  è  profonda  la  vangatura 
stessa:  si  opera  da  febbraio  a  tutto  marzo,  ossia  prima  che  le  gemme 
si  muovano,  come  dicono  i  viticuitori.  Verso  la  fine  di  maggio,  o  ai 
primi  di  giugno,  si  zappa  il  suolo  per  la  prima  volta,  a  15  centim. 
di  profondità.  Il  Vannuccìni  ci  diceva  che  colla  vangatura  del  marzo 
si  porta  a  30  centimetri  di  profondità  la  terra  superiore  già  fecon- 
data, mettendola  a  contatto  del  primo  palco  di  radici,  mentre  colla 
zappatura  del  maggio  o  giugno  vien  portata  a  15  centimetri  sotto 
il  suolo  quella  che  nell'  anno  antecedente  trovavasi  a  30  centimetri 
di  profondità,  essa  pure  ora  fecondata  al  contatto  dell'  aria  durante 
i  due  mesi  che  ordinariamente  corrono  dalla  vangatura  alla  prima 
zappatura.  Verso  la  fine  di  giugno  e  ai  primi  di  luglio  si  fa  una  se- 
conda zappatura  più  superficiale,  allo  scopo  di  sminuzzare  bene  la 
terra  e  renderla  poco  conduttrice  e  più  fresca  durante  la  canicola 
estiva:  infine  in  agosto  si  fa  spesso  1'  ultima  zappatura,  che  tanto 
contribuisce  a  far  ingrossare  gli  acini,  come  appunto  ebbimo  a  con- 
statare anche  nelle  vigne  del  Vannuccìni.  Come  si  vede  adunque,  il 
vigneto  dei  Ripacci  è  lavorato  con  ogni  maggior  cura,  e  quando  noi 
lo  visitammo  ci  parve  un  giardino,  tant'  era  ordinato  e  ripulito  per 
ogni  dove. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE   LA  VITE  BASSA  681 

Abbiamo  detto  or'ora  che  fra  i  filari  vi  sono  gli  olivi:  questi  sono 
collocati  alla  distanza  media  fra  le  file  di  9  metri,  con  7  metri  tra 
fila  e  fila;  si  ha  così  una  pianta  d' olivo  per  ogni  60  mq.  circa;  in 
media  si  può  calcolare  che  vi  sono  150  olivi  per  ogni  ettare  di  vi- 
gneto. Attorno  al  tronco  degli  olivi  non  vi  sono  spazii  vuoti  :  però 
se  una  pianta  di  vite  viene  costì  a  morire,  il  Vannuccini  non  la  sur- 
roga con  altra  pianta,  per  non  offendere  le  radici  dell'  olivo. 

I  detti  150  olivi  danno  un  prodotto  medio  annuo  di  8  ettol.  d'olio, 
il  quale  Vendesi  in  media,  a  Scansano,  L.  100  all'ettolitro:  il  prodotto 
lordo  può  quindi  valutarsi  a  L.  800  ad  ettare  da  aggiungersi  al  pro- 
dotto lordo  delle  viti. 

Le  viti  di  Ripacci  in  media  danno  80  ettolitri  di  vino  ad  ettare, 
che  venduti  in  media  a  L.  25,  danno  un  beneficio  brutto  di  L.  2000, 
e  cogli  olivi  L.  2800.  Ma  le  spese  di  coltura,  comprese  quelle  di 
fabbricazione  del  vino  e  dell'olio,  e  compreso  il  fìtto  del  terreno  (che 
devesi  pure  notare  in  ispesa)  ammontano  circa  a  1300  lire  per  et- 
tare, per  cui  il  beneficio  netto  s'  aggira  intorno  alle  L.  1500.  Gli  è 
appunto  perchè  le  spese  di  coltivazione  ecc.  assorbono  quasi  la  metà 
del  prodotto  lordo,  che  nello  Scansanese  si  va  ora  adottando  da  ta- 
luno il  sistema  di  mezzeria. 

Ma  vogliamo  entrare  in  maggiori  dettagli  riguardo  alle  spese  sud- 
dette nonché  ai  prodotti  che  il  Doti.   Vannuccini  ricava. 

Esamineremo  perciò  la  contabilità  del  podere  dei  Ripacci  nei  tre 
anni  1878,  1879  e  1880. 

—  1878  — 

Entrata  lorda  in  vino  e  olio L.  3807  — 

Il  vino  si  vendette  L.  24  all'ettolitro  e  se  ne  raccolsero  ettol.   103. 

Spese  di  coltivazione  e  successive  di  manipolazione  dei  prodotti  »  1830,48 

Utile  netto  L.  1976,52 

Misurando  la  vigna  ettari  1    lj2  ragguaglia  l'utile  a  L.   1317  — 

—  1879  — 

Entrata  lorda  in  vino  e  olio        ........     Li  3034  — 

Il  vino  si  vendette  L.  28  all'ettolitro  e  se  ne  raccolsero  ettolitri  94. 

Spese  di  coltivazione,  ccc »    1343,13 

Utile  netto  L.  1690,87 
Ragguaglia  ad  ettare  L.  1126 — ■ 
Iu  quest'  anno  fu  quasi  nulla  la  raccolta  dell'  olio. 


682  CAPITOLO  XXII 


—    1880  — 

Entrata  lorda  in  vino  e  olio L.  5171,25 

Il  vino  è  costato  L.  33  all'ettolitro  e  se  ne  raccolse  ettol.  114.  Spese      »    1905,69 

Utile  netto  L.  3265,56 


Ragguaglia  l'utile  ad  ettare  L.  2177  — 


Hanno  a  questo  brillante  risultato  contribuito  la  simultaneità  della  buona  rac- 
colta del  vino  e  dell'olio  e  il  caro  prezzo  del  vino. 

RIEPILOGO. 

Ragguaglio  dell'utile  ad  ettare  nel  1878 L.  1317  — 

ld.  pel  1879 »    1126  — 

Id.  pel  1880 »   2177  — 

Totale  L.  4620  — 


Media  triennale  dell'utile  ad  ettare  L.   Io40  — 


Ecco  ora  lo  specchio  dei  lavori  annuali  di   coltivazione  e   confe- 
zione dei  prodotti  pel  1880,  desunto  dai  Settimanali  del  Vignaiuolo: 

DESCRIZIONE  DEI  LAVORI. 

1.  Potatura  delle  viti  in  tre  tempi,  cioè  tagliatura  dei  getti,  del  frutto         Spesa 

appena  colta  l'uva,  potatura  degli  speroni,  dalla  caduta  delle  foglie 
a  tutto  gennaio,  e  svettatura  dei  capi  a  frutto,  rifinimento  della 
potatura,  cioè  raccorciamento  dei  capi  a  frutto  a  seconda  della 
qualità  e  vigore  delle  singole  viti,  e  taglio  al  posto  del  vecchio 
capo  a  frutto  alla  sua  inserzione  fatta  all'aprirsi  della  primavera 
quando  la  vite  piange L.       53,56 

2.  Remozione  dei  pali,  o  spalatura  e  raccoglitura  dei  tralci  in  avanzo 

della  potatura      ...........        19,25 

3.  Vangatura  generale  della  vigna  a  30  centimetri  di  profondità,  e 

sbarbettatura  delle  viti,  cioè  taglio  delle  piccole  radici  a  tutta  la 

profondità  della  vangatura  che  si  eseguisce  entro  il  mese  di  marzo      »     248,04 

4.  Ripalatura  delle  viti,  e  valore  delle  ginestre  per  legarle     .         .      »      150,94 

5.  Zappatura  dei  viali  interni  o  stradelle  di  circolazione  per  la  mon- 

datura delle  male  erbe        .........        72,03 

6.  Ripulitura  degli  olivi  o  taglio  dei  ghiottoni  e  del  secco,  la  pota- 

tura regolare  essendo  stata  fatta  nei  due  anni  antecedenti        .     »         7,87 

7.  Sbrucatura  o  caccia  ai  bruchi  od  insetti  nocivi  alla  vite     .         .      »         7,70 

8.  Scacchiatura  e  cimatura  delle  viti  fatta  in  media  per  tre  volte  di 

seguito,  scortecciamento    dei  pedoni  per    una  terza   parte   ogni 

A  riportarsi    L.     559,39 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  683 

Riporto  L.  559,39 
anno  fatto  nei  primi  della  primavera,  e  scacchiatura  dei  pedoni 

o  dei  getti  ghiottoni  che  vi  si  producono »  248,64 

9.  Zappature  due  della  vigna  fatte  in  maggio  e  giugno           .         .  »  135,24 

10.  Zolfatura  in  più  volte  e  valore  dello  zolfo  consumato          .         .  »  78,90 

11.  Mantenimento  di  muri  e  di  siepi »  39,62 

12.  Lavori  della  concimaia           .........  13,52 

13.  Tagliatura  e  trasporto  delle  canne,  e  zappature  due  del  canneto  »  26,56 

14.  Spese  per  il  barbatellaio  o  vivaio  di  viti  per  gli  annuali  rinnuovi  »  26,90 

15.  Concimazione  degli  olivi,  valore  del  concio  impiegato  e  ricopri- 

tura con  apposita  zappatura »  53  — 

16.  Consumo  di  strumenti  agricoli               .         .         .         .         .  »  20  — 

17.  Spampinatura  moderata  in  prossimità  della  vendemmia       .         .  »'  25,80 

18.  Vendemmia             »  49,50 

19.  Trasporto  delle  uve  nella  tinaia  a  Scansano                                    .  t>  145,20 

20.  Spese  di  pestatura  dell'uva,  ripulitura  dei  vasi  vinari,  svinatura 

ed  imbottaggio    .         .         .         .         .         .         .         .         .  »       88  — 

21.  Coglitura  delle  olive  »     250,04 

22.  Trasporto  delle  olive  al  frantoio,  frangitura  e  confezione  dell'olio     »      145,20 

Totale  L.  1907,51 

Il  beneficio  netto  medio  di  L.  1500  ad  ettare  che  ottiene  il  Dott. 
Vannuccini  è  la  più  eloquente  conferma  della  razionalità  del  sistema 
descritto:  già  sappiamo  a  che  cosa  devesi  questo  elevato  reddito,  a 
cui  se  contribuiscono  le  varietà  di  vitigni  coltivate  ai  Ripacci  (1), 
contribuiscono  pure,  e  noi  riteniamo  in  maggior  misura,  le  pratiche 
sin  qui  descritte,  colle  quali  si  trae  grande  partito  delle  attitudini 
vitifere  dei  vizzati  medesimi. 

Noi  terminiamo  quindi  raccomandando  ai  viticultori  che  facciano 
se  non  altro  dei  saggi:  non  si  tema  se  si  avessero  a  fare  tentativi 
anche  su  vecchie  viti;  il  Vannuccini  incominciò  le  sue  prove  su  vigne 
di  80  anni  circa,  le  quali,  come  egli  fermamente  crede,  non  erano 
state  piantate  secondo  i  sistemi  razionali,  eppure  riuscì  pienamente. 
Meglio  però  in  ogni  caso  se  si  esordirà  da  un  razionale  piantamento, 
quale  descrivemmo  in  principio  di  questo  paragrafo. 


(1)  Ecco  i  nomi  di  questi  vitigni:  uve  bianche:  Aleatico,  Trebbiano  o  Proca- 
nico,  (prevalente  nel  vigneto)  Malvasia,  Moscatello,  Moscatellone,  Colombana;  — 
uve  rosse:  Vaiauo,  Aleatico,  Caprugnone,  Canaiola,  Sangioveto,  Tinta  di  Spagna, 
Morellino. 


684 


CAPITOLO  XXII 


§  12.  Sistema  Cazenave-Marcon.  —  Questo  sistema,  descritto 
e  lodato  dal  I)r.  Guyot  (1)  si  deve  ai  signori  Cazenave  e  Marcon, 
il  primo  di  La  Réole,  (Gironda)  il  secondo  di  La  Mothe-Montravel 
(Dordogna):  è  un  sistema  razionale  degno  di  nota,  perchè  le  viti 
così  educate  sono  non  solo  feconde  ma  eziandio  vigorose  e  longeve. 
Eccone  una  succinta  descrizione. 

Il  piantamento  deve  farsi  con  talee  o  barbatelle  alla  distanza  mi" 
nima  di  due  metri  in  tutti  i  sensi,  oppure  a  file  distanti  2  metri  colle 
ceppaie  a  3  m.  nelle  file;  il  terreno  vuole  essere  preparato  con  molta 
prodigalità  in  fatto  di  concimi,  perchè  è  indispensabile  che  le  nuove 
piante  diano  alla  fine  del  secondo  anno,  od  al  massimo  al  finire  del 
terzo,  due  getti  vigorosissimi  lunghi  3  o  4  metri.  Uno  di  questi 
getti  è  scelto  come  tralcio  maestro  {a  b  fig.  239)  ossia  cordone  o- 


239. 


rizzontale,  e  l'altro,  il  meno  bello,  si  taglia  rasente  la  ceppaia.  L'ar- 
matura consta  di  tre  fili  di  ferro,  di  cui  il  1°  dista  mezzo  metro  dal 
suolo,  il  2°  0"\35  dal  1°,  ed  il  3°  0"\50  dal  2°;  ogni  tre  metri  vi 
ha  un  palo  di  sostegno,  indispensabile  perchè  il  filo  possa  sostenere 
la  molta  uva  che  si  ottiene  col  sistema  in  quistione.  Disteso  sul  1° 
filo  il  tralcio  a  b,  lungo  almeno  2  metri,  e  convenientemente  allac- 
ciato, si  accecano  tosto  tutti  i  bottoni  o  o  o  che  si  trovano  nella 
sua  parte  inferiore,   conservando  soltanto  quelli  superiori  e  e  e,  te- 


fi)  Ètude  des  vignobles  de  France  T.  I  pag.  471  e 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


685 


nendoli  distanti  30  centimetri  in  questo  2°  anno  di  vegetazione,  onde 
bisogna  sopprimere  quelli  intermediarii.  I  getti  usciti  da  questi  occhi 
si  lasciano  allungare  di  80  centimetri,  poi  si  mozzano  e  si  filano  al  2° 
filo;  essi  intanto  daranno  due  bei  grappoli  per  ciascuno.  Le  femmi- 
nelle si  cimeranno  esse  pure  sopra  la  4a  foglia.  Al  primo  anno  di 
fruttificazione,  come  avvertono  gli  stessi  signori  Cazenave  e  Marcon, 
Y  uva  non  matura  troppo  bene,  per  V  eccessiva  lunghezza  lasciata 
d'un  tratto  al  capo  a  frutto  a  b;  in  seguito  però  la  maturazione  sarà 
perfetta.  Questi  tralci  si  potano  poi  a  sei  —  otto  occhi,  e  si  attac- 
cano inclinandoli,  al  2°  filo  di  ferro.  Si  hanno  allora  ad  esempio  sei 
tralci  con  sette  gemme  caduno,  cioè  in  tutto  49  occhi,  onde  la  vite 
può  espandersi  con  una  certa  libertà.  Al  terzo  anno,  e  così  nei  suc- 
cessivi, si  poterà  sempre  a  uno  sperone  (s  s  fig.  240)  con  due  gemme 


Fig.  240 


e  ad  un  tralcio  frutticoso  con  sei  ad  otto  gemme  come  si  vede  chia- 
ramente nel  disegno;  allora  i  tralci  frutticosi  non  si  tengono  più  a 
30  o  35  centimetri  di  distanza  sul  cordone,  ma  più  vicini  d'assai,  co- 
sicché invece  di  avere  sei  o  sette  occhi  sul  cordone  a  b,  se  ne  lasciano 
quindici  o  sedici.  In  questo  caso  si  hanno  circa  80  bottoni  per  pianta, 
con  aumento  progressivo  del  prodotto,  che  Guyot  valuta  a  125  — 
150  ettolitri  di  vino  ad  ettare.  «  Tutto  ciò,  esclama  l'eminente  scrit- 
tore, è  naturale,  normale  e  nello  sviluppo  fisiologico  della  vite  ». 
Certo  però,  per  permettere  alla  vite  di  dare  questi  copiosi  prodotti 
senza  esaurirsi  troppo  precocemente,  bisogna  tratto  tratto  provve- 
dere il  vigneto  di  un  appropriato  concime.  Il  Guyot  ha  proposto  ai 


686  CAPITOLO  XXII 


signori  Cazenave  e  Marcon  una  modificazione  indicata  chiaramente 
dalla  fig.  240,  vale  a  dire  la  curvatura  dei  capi  a  frutto,  eliminando 
il  2°  filo  di  ferro.  Si  ha  così  una  economia  nella  spesa  di  armatura, 
e  più  uva,  o  per  dir  meglio  minor  perdita  di  grappoli  per  aborto. 
I  getti  e  e  dello  sperone  s  si  attaccano  al  2°  filo  ;  nulla  è  cambiato 
nel  rimanente. 

§  13.  Sistemi  Avellinesi  (1).  —  La  provincia  di  Avellino,  at- 
traversata da  due  catene  di  montagne,  il  Partenio  ed  il  Terminio, 
presenta  varietà  grandissime  di  terreni,  di  esposizioni,  di  giaciture 
che  portano  per  conseguenza  varii  sistemi  di  coltura.  Vi  sono  in- 
fatti vigne  educate  alte  ed  anche  altissime,  vigne  potate  a  mezzana 
altezza  e  vigne  basse.  In  alcune  parti  la  vite  si  coltiva  da  sola,  in 
altre  zone  invece  vien  consociata  a  piante  erbacee;  in  alcuni  comuni 
è  sostenuta  con  canne,  in  altri  con  pali  secchi  di  castagno  ed  in  altri 
infine  vien  affidata  a  tutori  vivi  (pioppo,  olmo). 

Non  passeremo  in  rassegna  tutti  i  modi  di  educazione  adottati; 
accenneremo  solo  a  qualcuno  dei  più  importanti. 

L'impianto  si  eseguisce  ordinariamente  con  magliuoli  costituiti  di 
legno  vecchio  di  due  o  tre  anni,  terminato  con  un  corto  tralcio  giovine 
provvisto  di  tre  o  quattro  gemme.  Provengono  o  dal  capo  a  frutto 
dell'  anno  precedente,  ovvero  da  cordoni  divenuti  improduttivi.  Da 
questi  magliuoli  speciali,  fatti  di  legno  vecchio  per  tutta  la  parte 
interrata,  si  ottengono  viti  robuste.  Ne  è  a  credere  che  essi  attec- 
chiscano con  difficoltà,  perchè  dappertutto  nella  detta  provincia  sono 
usati  con  profitto.  Da  una  prova  comparativa  eseguita  alla  Scuola  di 
Avellino  si  è  visto  che  la  loro  ripresa  non  differisce  gran  fatto  da 
quella  delle  talee  ordinarie,  almeno  per  le  varietà  aglianico  e  sanginoso. 

L' impianto  si  fa  anche  con  barbatelle  provenienti  da  propaggini 
che  si  ottengono  piegando  al  suolo  un  vecchio  cordone.  Queste  pro- 
paggini nel  maggior  numero  dei  casi  servono  a  rimpiazzare  le  viti 
morte;  qualche  volta  vengono  estratte,  e  si  destinano  all'impianto  di 
nuove  vigne.  Da  qualche  tempo  si  è  cominciato  pure  a  far  uso  di 
barbatelle  ottenute  da  tralci  di  un  anno,  messi  a  radicare  in  vivaio. 
Tanto  i   magliuoli   che  le    barbatelle  si   piantano    isolati,   allorché  si 


(1)  Dobbiamo  queste  notizie,  ed  i  disegni  che  le  accompagnano,  al  chiarissimo 
Doti.  Prof.  Michele  Carlucti,  Direttore  della  R.  Scuola  di  Viticoltura  ed  Eno- 
logia di  Avellino. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  687 

tratta  di  viti  specializzate;  quando  le  viti  invece  si  educano  alte  e 
si  consociano  alle  piante  erbacee,  si  dispongono  a  gruppi  di  2,  3  ei 
anche  4  gruppi  cui  si  dea  il  nome  di  fossa. 

L'impianto  delle  vigne  basse  si  eseguisce  su  scasso  reale;  quello  delle 
mezzane  ed  alte  in  fossati  o  formelle.  Nel  collocare  i  magliuoli  o  le 
barbatelle  non  si  ha  sempre  cura  di  fare  in  modo  che  le  radici  delle 
3  o  4  piante  di  ogni  fossa  riescano  disposte  in  varie  direzioni;  si 
mettono  invece  nella  stessa  buca  e  rivolti  dalla  medesima  parte.  I 
magliuoli  per  un  tratto  di  metri  0,20  o  0,40  si  coricano  orizzontal- 
mente nella  fossa,  e  pel  resto  si  rialzano  e  si  affidano  ad  un  paletto. 

I  gruppi  di  viti,  disposti  a  quadrati  od  anche  a  rettangoli,  sono 
collocati  alla  distanza  di  3-4  metri,  quando  la  vigna  è  tenuta  a  mez- 
zana altezza,  e  di  4-7  metri  quando  è  potata  alta.  Per  le  vigne  basse 
specializzate  si  adotta  la  distanza  di  1  metro  circa,  e  qualche  volta 
anche  di  metri  0,80  tra  vite  e  vite  e  tra  filari  e  filari. 

Piantata  la  vigna,  ad  ogni  gruppo  di  piante  si  dà  un  paletto  di 
sostegno,  a  cui  si  unisce  un  ramo  secco  per  dar  agio  ai  germogli 
di  arrampicarvisi.  Spesso  si  mette  per  sostegno  un  grosso  ramo  con 
tutti  i  suoi  ramoscelli,  perchè  offra  presa  ai  cirri  dei  tralci. 

La  giovine  vigna  non  dappertutto  vien  potata  nei  primi  due  o  tre 
anni.  Quando  quest'operazione  si  eseguisce,  si  lasciano  3  o  4  gemme 
ad  ogni  tralcio. 

Per  la  formazione  del  ceppo  s' impiega  un  tempo  variabile  da  4 
a  7  anni,  secondo  il  sistema  di  educazione  che  si  adotta. 

La  potatura  delle  piante  messe  a  frutto  è  diversa  secondo  i  luoghi. 
Dove  la  vite  si  educa  bassa,  ad  ogni  pianta  si  lascia  un  capo  a  frutto 
con  5  a  10  gemme.  Esso  vien  steso  orizzontalmente  ed  affidato  a  2 
canne,  delle  quali  una  serve  per  reggere  i  tralci  legnosi  e  1'  altra 
quelli  uviferi.  La  curvatura  si  fa  ordinariamente  al  secondo  inter- 
nodio  per  facilitare  lo  sviluppo  dei  tralci  legnosi  dal  tratto  rimasto 
verticale.  Ordinariamente  le  due  canne  si  legano  in  punta,  per  ren- 
derle più  resistenti  al  peso  della  pianta  ed  all'azione  dei  venti. 

Alla  primavera  successiva,  dei  tralci  ottenuti  si  conserva  solo  quello 
nato  alla  base  del  capo  fruttifero,  il  quale  vien  piegato  come  l'altro 
dell'  anno  precedente,  e  serve  alla  produzione  dei  frutto.  Tutti  gli 
altri  sono  portati  via  insieme  al  ramo  che  li  sostiene. 

Dove  la  vite  è  coltivata  insieme  alle  piante  erbacee,  vi  sono  due 
modi  di  allevarla,  cioè  bassa  da  metri  1  a  1,5,  ovvero  alta  a  2,  3 
o  4  metri. 


CAPITOLO   XXII 


Le  viti  basse  sono  disposte  a  quadrati  in  gruppi  di  2,  3  o  4  piante 
al  vertice  dei  4  angoli  del  quadrato.  L'impianto  si  fa  con  magliuoli 
di  vecchio  legno  messi  alla  profondità  di  1  metro  e  collocati  per  un 
tratto  orizzontalmente  in  fondo  alle  fosse.  La  distanza  va  da  2  a  3 
metri. 

Le  viti  costituenti  la  fossa  sono  affidate  ad  un  palo  di  castagno, 
di  olmo,  rovere  od  altro,  al  quale  sono  legate  ad  altezza  tale,  che 
la  legatura  corrisponde  a  2  o  3  internodi  sull'origine  dei  tralci. 

Il  tratto  verticale  di  tralcio  compreso  fra  la  legatura  ed  il  ceppo 
fa  l'ufficio  di  capo  a  legno,  e  la  parte  superiore,  che  poi  vien  stesa 
orizzontalmente,  fa  1'  ufficio  di  capo  a  frutto.  Dei  capi  destinati  a 
produrre  uva  si  fanno  ordinariamente  per  ogni  fossa  4  corde,  in- 
trecciandoli a  2  o  3  fra  di  loro.  Indi  si  tendono  orizzontalmente  fino 
ad  incontrare  quelli  della  fossa  vicina.  Se  la  lunghezza  dei  capi  non 
permette  unirli  direttamente,  si  congiungono  mercè  un  rametto  di 
castagno,  di  olmo  od  altro,  cui  vien  dato  il  nome  di  giunto  o  giunta. 
La  fig.  241  mostra  come  si  dispongono  i  capi  fruttiferi  di  due  viti 
vicine. 


Fie.  241. 


I  capi  a  frutto  si  distribuiscono  in  direzione  delle  4  viti  vicine, 
formando  così  un  reticolo  a  maglie  quadrate.  Spesso,  se  vi  sono  corde 
in  eccesso,  si  distendono  in  direzioneMelle  diagonali. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  689 

Ad  ogni  palo  di  sostegno  si  attacca  un  ramo  secco  di  castagno, 
o  faggio,  ovvero  un  fascetto  di  sarmenti,  perchè  i  tralci  legno  si  che 
si  svilupperanno  possano  arrampicarvisi. 

L' anno  successivo  il  capo  che  portò  i  tralci  uviferi  vien  reciso, 
e  si  piegano  a  frutto  i  due  o  tre  tralci  legnosi  che  si  svilupparono 
alla  sua  base. 

La  quantità  di  gemme  che  si  lasciano  ad  ogni  pianta  è  variabile; 
vi  sono  viti  con  un  solo  capo  a  frutto,  provvisto  di  5  a  10  gemme, 
e  viti  che  portano  2  ed  anche  3  capi,  e  perciò  20  a  30  gemme. 

Le  piante  erbacee,  che  ordinariamente  si  coltivano  consociate,  sono 
il  frumento  ed  il  mais,  ed  alle  volte  anche  la  patata.  Esse  occupano 
tutto  il  terreno,  e  perciò  spesso  coprono  le  viti  colle  loro  estremità, 
con  grave  danno  della  maturazione  del  frutto. 

Altra  maniera  di  educazione  della  vite  è  quella  seguita  ad  Avel- 
lino e  nei  comuni  limitrofi,  ove  essa  viene  sostenuta  da  palo  secco 
di  castagno,  ad  altezza  variabile  di  2,  3  o  4  metri. 

Il  modo  d'impianto  della  vigna  è  quello  innanzi  descritto.  Si  ri- 
corre cioè  ai  magliuoli  ed  alle  barbatelle  provenienti  da  propaggini 
che  si  collocano  in  gruppi  {fosse)  di  3  a  4,  alla  distanza  variabile 
di  4  a  6  metri.  La  vigna  si  mette  a  frutto  al  sesto  o  settimo  anno. 

I  pali  di  sostegno  detti  spallatroni  sono  ordinariamente  di  castagno; 
hanno  l'altezza  di  4,  5  ed  anche  6  metri;  alle  volte  sono  dei  veri 
travi  aventi  10  o  15  centimetri  di  diametro.  Tale  grandezza  è  ne- 
cessaria perchè  ad  essi  si  affidano  3  a  4  viti,  le  quali  spesso  hanno 
diametro  di  10  centimetri  ed  anche  più,  e  come  tali  sono  veri 
alberi.  Questi  sostegni  si  ricavano  da  boschi  cedui  appositamente 
coltivati  o  sulle  pendici  che  guardano  il  nord,  o  in  appositi  appez- 
zamenti che  si  lasciano  vicino  od  intorno  a  ciascun  podere  a  guisa 
di  corona.  La  loro  coltura  è  fatta  nell'Avellinese  con  molta  accu- 
ratezza. Siffatti  sostegni  sono  impiantati  nel  terreno  alla  profondità 
di  metri  0,40  a  0,50  ed  anche  di  metri  0,70,  specialmente  nelle  terre 
sciolte.  Per  piantarli  si  fanno  delle  buche  di  diametro  non  maggiore 
di  metri  0,25  a  0,40,  servendosi  all'uopo  di  una  vanga  speciale,  la 
cui  lama  forma  un  cilindro  vuoto  con  un'  apertura  laterale  per  il 
lungo.  Nelle  buche  così  aperte  si  colloca  il  palo  ed  intorno  si  com- 
prime bene  la  terra. 

Ogni  palo  porta  verso  il  terzo  superiore  le  basi  o  mozziconi  dei  rami, 
di  cui,  come  albero,  era  provvisto,  lunghe  da  metri  0,15  a  0,20.  Ad 
esse  si  appendono  le  frasche,  cioè  dei  rami  di  castagno,  pioppo,  faggio 
O.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura,  45 


690  CAPITOLO   XXII 


od  altro  albero,  provvisti  di  tutte  le  loro  diramazioni,  perchè  servano 
di  presa  e  sostegno  ai  tralci  legnosi. 

La  frasca  si  compone  di  due  rami,  uno  messo  in  alto  detto  ca- 
poncino,  e  1'  altro  più  basso  detto  sottofrasca.  Vengono  uniti  in- 
sieme a  mezzo  di  ligatura  fatta  con  vimini  di  salcio. 

La  potatura  adottata  è  quella  dei  cordoni  speronati  (v.  pag.  684) 
ai  quali  si  uniscono  spesso  tralci  frutticosi  più  o  meno  lunghi. 

Il  modo  di  formare  i  cordoni  è  il  seguente.  Allorché  la  vite  è 
giunta  a  fruttificazione,  il  che  succede  al  sesto  o  settimo  anno,  le 
si  lascia  un  capo  a  frutto  con  8  a  12  gemme,  le  quali  producono 
in  primavera  dei  germogli  in  parte  legnosi,  in  parte  uviferi.  Essi  non 
si  sviluppano  egualmente:  quelli  all'  origine  col  capo  fruttifero,  che 
trovansi  collocati  sulla  curvatura  e  sul  tratto  ad  essa  inferiore,  si 
allungano  maggiormente  (1  m.  a  5  m.),  e  ciò  per  la  posizione  che 
occupano  sul  sarmento  che  li  sostiene  e  per  la  posizione  verticale 
che  prendono  arrampicandosi  alla  frasca.  Quando  la  vite  è  ro- 
busta si  sviluppa  anche  molto  l'ultimo  tralcio.  GÌ'  intermedii  invece, 
cioè  gli  uviferi,  non  oltrepassano  i  metri  0,60  a  1.  Sicché  in 
fine  del  primo  anno  la  pianta  si  trova  ad  avere  un  ramo  prov- 
visto alla  base  di  2  o  3  lunghi  tralci,  all'  estremo  di  altro  tralcio, 
che  possiamo  dire  di  prolungamento,  e  di  tanti  tralcetti  intermedii 
(speroni). 

Al  successivo  anno  la  potatura  vien  regolata  nel  modo  seguente. 
I  tralcetti  intermedii  sono  tutti  tagliati  a  cornetto  con  due  occhi,  e 
i  due  della  base  sono  invece  lasciati  quasi  interi,  asportandosi  sola- 
mente la  estremità  più  sottile.  Questi  due  capi  possono  ravvolgersi 
intorno  al  cordone,  ovvero,  intrecciati  fra  loro,  destinarsi  a  formare 
una  branca  novella.  La  scelta  dipende  dalla  posizione  che  hanno  sulla 
pianta  e  dal  numero  dei  cordoni  che  si  ottengono  dalle  altre  viti  della 
stessa  fossa.  In  generale  se  ne  formano  4;  perciò  i  giovani  tralci 
fruttiferi  ed  i  cordoni  si  distribuiscono  in  tal  modo  da  ottenere  4 
divisioni,  dette  tesole.  Non  mancano  casi  in  cui  tal  numero  è  mag 
giore  o  minore  di  quello  indicato,  Nei  terreni  feracissimi  di  Montoro, 
Forino,  ecc.  di  frequente  da  ciascun  gruppo  di  viti  si  ottengono  5-6 
tesole,  ciascuna  costituita  di  2  o  3  capi  intrecciati.  Questi  sono  te- 
nuti fissi  a  mezzo  di  legatura  fatta  con  salcio. 

Giunta  la  primavera  dell'  anno  seguente,  cioè  del  terzo  anno  di 
fruttificazione,  ogni  vite  vien  potata  nel  modo  seguente:  dei  2  tralci 
sviluppati  sopra  ogni  sperone  se  ne  lascia    un  solo,    allorché   esso  è 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  691 

troppo  debole;  tutti  e  due  sono  messi  a  profitto  invece,  quando  la 
pianta  si  presenta  robusta.  Vengono  tagliati  a  cornetti  con  2  gemme. 
Gli  altri  tralci  nati  sull'ultimo  tratto  del  cordone  sono  pur  essi  ta- 
gliati a  speroni,  meno  l'estremo  che  si  destina  al  suo  prolungamento. 
Quelli  della  base  invece,  o  si  ravvolgono  intorno  alla  branca,  da  cui 
sono  sopportati,  o  si  destinano  a  formare  un  altro  cordone,  o  sono 
tagliati  a  2  gemme. 

L'anno  successivo,  e  quelli  seguenti,  si  ripete  la  stessa  maniera  di 
potatura,  per  cui  le  tesole  vengono  facendosi  man  mano  più  lunghe. 
Quando  si  ha  la  precauzione  di  tagliare  a  metà  o  ad  un  terzo  sol- 
tanto il  tralcio  di  prolungamento  e  le  viti  sono  robuste,  raggiungono 
dimensioni  straordinarie:  arrivano  ad  avere  il  diametro  di  4-6  cen- 
timetri e  la  lunghezza  di  10  a  20  metri.  In  tali  condizioni  i  cordoni 
sono  denominati  passa-sorci  a  Taurasi,  Montemiletto,  Torre  Le  No- 
celle e  Montefredane. 

La  fig.  242  dà  un'  idea  abbastanza  esatta  del  come  si  regola  la 
potatura.  A  rappresenta  una  fossa,  le  cui  viti  solo  in  parte  sono 
potate,  B  invece  rappresenta  altro  gruppo  di  viti  dopo  la  potatura, 
e  perciò  coi  cordoni  pronti  ad  essere  tirati  (intennecchiati).  Nell'e- 
seguire  la  potagione  il  contadino  prende  per  norma  la  robustezza  dei 
tralci,  che  ordinariamente  lascia  in  tutta  la  loro  lunghezza  e  nel  nu- 
mero in  cui  si  trovano.  Con  tale  sistema  si  verifica  spesso,  special- 
mente con  viti  un  po'  deboli,  che  la  vegetazione  si  trasporta  verso 
1'  estremo  dei  cordoni,  facendo  perire  così  i  cornetti  collocati  alla 
base  ed  alla  parte  mediana.  In  tal  caso  la  tesola  l'anno  succes- 
sivo vien  asportata  dalla  sua  base  oppure  dal  punto  ove  sorge  un 
buon  tralcio  giovine,  che  si  destina  alla  formazione  di  un  nuovo 
cordone.  Allorché  le  viti  sono  robuste  e  vengono  legate  opportuna- 
mente, non  mancano  tralci  per  tale  rinnovamento.  In  mancanza  si 
ricorre  ai  succhioni  che  numerosi  si  sviluppano  sul  tronco  e  sui 
rami.  Se  questi  trovansi  ad  altezza  conveniente,  si  piegano  sul  cor- 
done od  anche  in  sua  sostituzione:  quando  invece  sorgono  troppo 
bassi,  al  primo  anno  si  tagliano  con  4  a  6  gemme  e  1'  anno  di  poi 
si  piegano  a  frutto  due  dei  tralci  ottenuti.  I  succhioni,  che  nascono 
su  viti  robuste,  di  frequente  portano  grappoli  d'uva. 

Una  modificazione  apportata  al  sistema  innanzi  descritto  è  quella 
seguita  dai  viticultari  di  Prata,  ove  si  fa  la  potatura  così  detta  a 
terzigno.  Ivi  al  primo  anno  i  capi  a  frutto  si  distendono  a  festoni, 
e  quest'operazione  dicesi  potatizzo.  L'anno  seguente  i  tralci  nati  su 


602 


CAPITOLO  XXII 


di  essi  e  che  portarono  uva,  vengono  tagliati  a  speroni  con  2  o  3 


gemme,  formando  cosi  un    cordone;    mentre  i  tralci    legnosi  non  si 
distendono  orizzontalmente  come  nel  caso  precedente,  ma  dopo  spun- 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  693 

tati  si  lasciano  diritti  ed  attaccati  alle  frasche.  Essi  producono  ger- 
mogli uviferi  al  pari  degli  speroni. 

Alla  primavera  successiva  i  cordoni  vecchi  si  tagliano  ed  in  loro 
vece  se  ne  formano  dei  nuovi,  abbassando  i  tralci  lasciati  l'anno  pre- 
cedente uniti  alle  frasche.  Dopo  due  anni  anch'  essi  vengono  sosti- 
tuiti da  altri  novelli. 

Come  vedesi  questo  sistema  può  dirsi  dei  cordoni  rinnovati  pe- 
riodicamente, cioè  ogni  tre  anni,  e  differisce  da  quello  seguito  ad 
Avellino,  perchè  quivi  la  durata  dei  cordoni  non  è  fìssa,  ma  è  det- 
tata dallo  stato  di  robustezza  della  vite  e  più  di  tutto  dall'  accorgi- 
mento che  si  ha  neh'  allungare  le  tesole,  ed  anche  perchè  i  capi 
fruttiferi  sono  tenuti  sempre  orizzontali,  mentre  a  Prata  si  hanno 
sulla  stessa  vite  capi  a  frutto  orizzontali  ed  altri  tenuti  verticalmente. 

I  sistemi  descritti  hanno  una  base  di  razionalità  e  certamente  sa- 
rebbero molto  più  produttivi,  se  fossero  applicati  con  maggior  discer- 
nimento. Il  potatore,  come  innanzi  abbiamo  detto,  nell'assettare  le  viti 
prende  a  norma  la  lunghezza  ed  il  numero  dei  tralci,  che  lascia  quasi 
nello  stato  e  numero  in  cui  si  trovano;  senza  guardare  che  così  si  ottiene 
spesso  una  grande  produzione  di  legno  inutile,  che  va  a  scapito  della 
quantità  e  qualità  di  uva  e  della  durata  delle  viti.  Il  difetto  più 
grave  che  notasi  nell'applicazione  di  questo  sistema  di  potatura,  si 
è  quello  di  lasciare  ogni  anno  troppo  lungo  il  tralcio  di  prolunga- 
mento. Perciò  verificasi  che  le  viti  deboli  sviluppano  solo  le  ultime 
gemme,  e  lasciano  morire  quelle  della  prima  metà  del  cordone,  che, 
dopo  qualche  anno,  resta  del  tutto  sfornito  di  speroni.  In  questo  caso 
succede  pure  che  non  si  sviluppano  succhioni  sul  tronco,  e  quindi 
non  riesce  possibile  ricavare  capi  fruttiferi.  La  vite  in  tale  stato  vien 
recisa  fin  dalla  base  e  rinnovata  con  altra,  che  ottiensi  propaggi- 
nando qualche  cordone  preso  dalle  fosse  vicine. 

La  potatura  nell'Avellinese  si  eseguisce  dal  gennaio  al  marzo,  se- 
condo il  corso  della  stagione.  Per  eseguirla  si  fa  uso  del  roncolo, 
detto  rondilo,  o  del  pennato,  detto  potatoio,  che  1'  operaio  porta 
sospeso  ad  un  uncino  che  infila  in  una  cinta  di  cuoio. 

Per  i  tagli  che  si  eseguiscono  ad  una  certa  altezza  si  adopera  per 
'salire  la  scala  a  forbici  detta  trepiedi,  dell'altezza  di  2  a  3  metri. 

Potate  le  viti  nel  modo  indicato,  si  passa  alla  legatura. 

II  gruppo  di  viti  viene  legato  saldamente  al  palo  a  mezzo  di  una 
grossa  vermena  di  salcio  detta  torta,  forse  perchè  si  torce  per  non 
farla  spezzare.  Questa  prima  legatura  si  eseguisce  ad  un  metro  circa 
da  terra. 


694  CAPITOLO  XXII 


Poscia  si  appende  al  palo  di  sostegno  la  frasca,  che  si  prolunga 
con  la  sotto-frasca,  in  modo  che  i  suoi  rametti  si  trovino  dove  si 
debbono  sviluppare  i  tralci  legnosi.  Dopo  si  eseguisce  la  seconda  le- 
gatura, detta  incollatura,  la  quale  è  fatta  con  maggiore  accuratezza 
della  precedente.  I  capi  giovani  vengon  legati  a  tale  altezza  da  la- 
sciare un  tratto  verticale  provveduto  di  due  o  tre  gemme.  Quando, 
come  succede  di  frequente,  vi  sono  capi  di  varia  lunghezza,  si  fanno 
due  incollature,  distribuendo  i  tralci  in  maniera  che  si  trovino  nelle 
condizioni  sopraindicate,  per  favorire  così  lo  svolgimento  dei  tralci 
legnosi. 

Non  sempre  queste  avvertenze  sono  seguite  e  perciò  spesso  man- 
cano i  tralci  per  rinnovare  i  cordoni. 

Eseguita  Xincollatura  si  passa  alla  formazione  dei  festoni,  che  si 
dispongono  secondo  i  lati  del  quadrato,  od  anche  delle  sue  diagonali 
se  i  cordoni  sono  in  numero  superiore  a  quattro.  A  quest'operazione 
si  dà  il  nome  dì intennacchiatura  (pag.  691). 

Quando  le  tesole  di  due  gruppi  vicini  sono  tanto  lunghe  da  in- 
contrarsi, si  legano  direttamente  con  salici  sottili;  quando  invece  non 
arrivano  a  toccarsi,  si  uniscono  a  mezzo  di  una  giunta,  cioè  di  un 
rametto  intero  o  spaccato,  secondo  la  grossezza,  di  legno  castagno, 
olmo  od  altro.  Per  non  farlo  scivolare  gli  si  pratica  un  intacco  pel 
quale  passa  il  salice. 

Allorché  qualche  cordone  non  ha  l'altro  in  corrispondenza,  cui  po- 
tersi unire  —  lo  che  si  verifica  all'ultimo  filare  degli  appezzamenti 
o  quando  il  numero  delle  tesole  è  dispari  —  per  tenerlo  teso  si  fìssa 
ad  un  sostegno  qualsiasi  a  mezzo  di  un  uncino,  cioè  di  un  ramo 
che  all'estremo  porta  una  biforcazione  costituita  dalla  base  di  un 
altro  ramo  tagliato  di  una  certa  lunghezza.  Quest'uncino  si  fìssa  ad 
un  palo,  ad  un  albero,  od  altro  sostegno  qualsiasi  a  mezzo  della  bi- 
forcazione e  coll'altro  estremo  si  unisce  col  capo  a  frutto. 

Eseguita  la  legatura,  la  vigna  acquista  l'aspetto  di  una  grandissima 
rete  a  maglie  quadrate  più  o  meno  regolari,  tenuta  sospesa  dal  suolo 
da  m.  1,80  a  m.  3.  —  La  fig.  243  ne  dà  un'idea  abbastanza  esatta 
e  la  fig.  244  rappresenta  una  parte  di  essa  in  piena  vegetazione. 

Pochi  altri  sono  i  lavori  che  si  danno  direttamente  alle  viti.  Le 
zappature  e  sarchiature  non  che  la  concimazione  fatta  per  le  piante 
erbacee  sottostanti  vanno  pure  a  loro  profitto.  Si  eseguiscono  solo  con 
una  certa  diligenza  la  scacchiatura  e  la  solforazione,  ed  una  setti- 
mana prima  della  vendemmia  da  alcuni  anche  una  parziale  sfogliatura. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


695 


Le  altre  operazioni  di  potatura  verde  sono  poco  usate. 
Il  sistema  descritto  preso  nel  complesso  dà  buoni  risultati,  allorché 
viene  applicato  con  discernimento.  Esso  però  è  suscettibile  di  miglio 


ramenti  sensibilissimi,  e  potrebbe  dare  prodotti  più  abbondanti  e  mi- 
gliori di  qualità,  se  venissero  introdotte  alcune  modificazioni.  Fra 
queste  ecco  le  più  notevoli. 

Il  sistema  di  consociare  la  vite  alle  piante  erbacee  secondo  il  Dr. 


096 


CAPITOLO   XXII 


Cartocci   sarebbe    giustificabile    solo    nei  terreni  pianeggianti  ed  in 
quelli  molto  fertili.  Non   è  egualmente  utile  e    necessario  in  collina, 


^sn^m^m^ 


ove  i  cereali  non  pagano  le  spese  di  preparazione  del  terreno  e  di- 
minuiscono sensibilmente  la  quantità  di  uva,  e  questo  è  verissimo. 

La  coltura  erbacea  vien  fatta  fin  presso  le  viti  senza  lasciare  al- 
quanto spazio  libero  per   l'esecuzione  dei    lavori  più    necessarii.  Ciò 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  697 

impedisce  di  eseguire  del  tutto  a  tempo  debito  alcune  operazioni  in- 
dispensabili, con  grave  scapito  della  quantità  e  qualità  del  prodotto. 
Bisognerebbe  invece  adottare  in  pianura  il  sistema  di  lasciare  a  di- 
ritta e  a  sinistra  di  ogni  filare  almeno  mezzo  metro  di  terreno  libero, 
per  poter  circolare  intorno  alle  viti  e  fare  quindi  i  lavori  nel  tempo 
e  nel  numero  dovuti.  Si  potrebbe  adottare  anche  il  sistema  di  di- 
sporre le  tesole  in  una  sola  direzione  da  Nord  a  Sud  ed  impedire 
quindi  che  il  mais  venisse  a  coprire  (come  spesso  succede)  colla  sua 
cima  i  festoni. 

Nei  terreni  di  collina  potrebbesi  abbandonare  del  tutto  la  coltiva- 
zione erbacea  e  lasciare  il  terreno  a  solo  beneficio  della  vite,  e  senza 
dubbio  il  vantaggio  del  maggior  prodotto  di  uva  comprenderebbe  ad 
usura  il  poco  frumento  e  l'incerto  granturco,  che  verrebbero  trascurati. 

Maggiore  avvertenza  dovrebbe  aversi  nel  formare  i  cordoni,  sia 
col  diminuire  alquanto  il  numero  degli  speroni,  sia  tagliando  il  tralcio 
di  prolungamento  molto  più  corto  di  quello  che  vuoisi  abitualmente. 

Dovrebbe  anche  aversi  la  cura  d'impedire  il  rapido  elevarsi  delle 
viti,  locchè  potrebbe  ottenersi  col  lasciare  alla  base  delle  tesole  qual- 
che sperone  per  la  produzione  dei  tralci  legnosi. 

Maggiore  avvertenza  dovrebbe  aversi  pure  nel  fare  i  tagli  dei 
grossi  rami,  i  quali  spesso  vengono  lasciati  lunghi  3-4  centimetri,  e 
quindi  col  marcirsi  danno  luogo  alla  produzione  della  carie  nel  ceppo. 

Nelle  concimazioni  dovrebbe  aversi  un  po'  di  cura  maggiore  e 
completare  il  concime  di  stalla  con  cenere,  vinaccie  distillate  (che 
abbondantemente  trovansi  in  tutta  la  provincia  di  Avellino  e  che 
vengono  di  rado  messe  a  profitto  come  materie  concimanti),  ed 
altre  sostanze  ricche  di  potassa  ed  acido  fosforico. 

Potrebbe  introdursi  anche  qualcuna  delle  operazioni  della  potatura 
verde  e  principalmente  quella  della  spollonatura,  allo  scopo  di  dira- 
dare opportunamente  i  germogli  che  nascono  sui  cordoni  e  che  non 
hanno  uva. 

Oltre  le  avvertenze  indicate  bisogna  ricordare  l'altra  capitalissima 
della  scelta  dei  vitigni  più  adatti  ai  varii  terreni  ed  alle  diverse  espo- 
sizioni, nonché  la  limitazione  del  loro  numero. 

Concludendo  diremo  che  il  sistema  di  educazione  della  vite  nel- 
l'Avellinese senza  essere  dei  migliori  è  però  di  quelli  razionali.  Non 
dà  tuttavia  tutti  quei  vantaggi  di  cui  è  suscettibile,  perchè  non  si 
seguono  quelle  cu^e  minute  e  diligenti  che  costituiscono  veramente 
l'arte  e  che  hanno  tanta  influenza  sul  risultato  ultimo  dell'industria. 


698  CAPITOLO  XXII 


Riporteremo  qualche  cifra  fornitaci  dallo  stesso  Dr.  Carlucci. 

I  pali  che  si  adoperano  per  sostegno  della  vite  costano  in  media 
da  L.  0,80  a  1,30  ed  anche  1,50,  secondo  la  grandezza.  Durano  in 
media  da  6  a  10  anni.  Le  frasche  portate  nella  vigna  costano  in 
media  L.  0,70  il  fascio,  e  bastano  per  n.  10  gruppi  di  viti.    . 

Per  la  coltivazione  di  un  ettaro  di  vigna  occorrono  in  media  per 
i  soli  lavori  dati  alla  pianta,  cioè  potatura,  legatura,  quota  dei  pali,  ecc. 
L.  290  a  300.  A  queste  bisogna  aggiungere  la  quota  dei  lavori  dati 
al  terreno,  del  concime  assorbito  e  del  fìtto.  Sicché  facendo  il  cal- 
colo per  un  ettaro,  complessivamente,  cioè  per  la  coltura  erbacea 
sottoposta  e  per  la  vite,  occorrono  in  media  da  950  a  1000  lire 
l'anno,  comprendendovi  il  fitto  di  L.  300  a  350  per  ettaro,  quanto 
cioè  si  paga  per  i  buoni  terreni  di  Avellino. 

La  produzione  media  dell'uva  per  un  ettaro  varia  sensibilmente: 
oscilla  dai  20  ai  60  quintali.  Nella  parte  del  podere  della  Scuola, 
ove  vien  seguito  ancora  il  sistema  Avellinese  di  educazione  della 
vite,  si  ottennero  per  ettaro: 


nel  1882 

Frumento    . 

.     Ettol. 

23,61 

Uva  . 

.     Quint. 

44,46 

Mais  .     .     . 

» 

22,03 

Id. 

» 

73,53 

Patate    .     . 

.    Quint. 

87,02 
nel  1883 

Id. 

» 

44,72 

Frumento    . 

.     Ettol. 

17,54 

Uva  . 

.     Quint. 

36,57 

Mais  .     .     . 

» 

18,88 

Id. 

» 

38,77 

Patate    .     . 

.    Quint. 

121,43 

Id. 

» 

74,28 

Produzione  media  quintali  47,00  di  uva. 

Bisogna  notare  però  che  tale  vigna  trovasi  buona  parte  in  ter- 
reno argilloso,  e  per  giunta  è  costituita  di  viti  vecchie  in  uno  stato 
non  molto  florido.  Da  vigne  giovani  fatte  di  sanginoso  ed  impian- 
tate in  terreno  alluvionale,  si  ottengono  prodotti  molto  elevati  che 
raggiungono  nelle  migliori  annate  anche  i  200  quintali  1'  ettaro,  e 
nelle  annate  ordinarie  i  100  a  150  quintali.  Il  vino  che  se  ne  ot- 
tiene però  è  debole,  non  contenendo  più  del  5  all'8  p.  0\q  di  alcool. 

«  Le  condizioni  climateriche  e  telluriche  della  provincia,  conclude 
il  Boti.  Carlucci  negli  appunti  favoritici,  sono  adattatissime  alla  prò- 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


699 


duzione  di  buona  uva,  da  cui  possono  ottenersi  degli  eccellentissimi 
vini  da  pasto,  tali  da  poter  rivaleggiare  coi  migliori  oggi  conosciuti 
È  da  sperare  quindi  che  i  proprietarii  imparino  a  valutare  una  buona 
volta  il  tesoro  che  essi  sciupano  senza  comprenderne  il  valore,  e  che, 
abbandonando  i  vecchi  sistemi  di  vinificazione,  si  mettano  su  quella  via 
che  ci  viene  additata  dalle  mutate  condizioni  politiche  ed  economiche.  » 

§  14.  Sistema  del  Suburbio  di  Eoma.  Modificazioni.  —  La 

viticoltura  nel  Suburbio  di  Roma  ha  qualche  lato  lodevole;  senonchè 
qualche  ^rave  errore  che  il  viticultore  commette  nella  potatura  delle 
sue  viti,  rende  nullo  l'effetto  delle  buone  pratiche  ch'ei  segue.  Il  vi- 
gneto si  impianta  su  scasso  reale,  profondo  anche  2  metri  se  si  tratta 
di  terreno  sul  quale  abbia  già  vegetato  altra  vigna;  si  adoperano 
lunghi  maglioli,  che  si  spingono  sino  ad  1  metro  di  profondità,  ser- 
bando loro  2  gemme  fuori  terra,  e  durante  due  anni  si  lasciano  svi- 
luppare a  loro  beli'  agio,  senza  potarli.  Al  terzo  anno  si  taglia  la 
vite  rasente  terra,  e  le  si  lascia  solo  il  più  basso  dei  getti,  che  si 
pota  a  2  gemme.  Alla  primavera  del  quarto  anno,  disposte  tre  canne 
sulla  stessa  linea,   come  nella  fìg.  245,  si  fa  la  potatura  a  3  o  più 


Fig.  215. 


Fiar.  246. 


gemme;  al  quinto  o  sesto  anno  si  lasciano  alla  vite  2  tralci  frutti- 
cosi,  come  nella  fig.  246,  ed  in  progresso  di  tempo  il  numero  di 
questi  tralci  si  porta  anche  a  3. 

Senonchè,  quando  la  vite  dovrebbe  essere  in  piena  produzione,  si 
pratica  come  una  potatura  a  cornetti  di  2  o  3  gemme,  e  cotesti  cor- 
netti o  speroncini  spuntano  su  legno  vecchio  lungo  anche  1  metro: 
ciò  si  fa,  come  ebbe  a  dirci  qualche  viticultore  di  colà,  in  omaggio 


700 


CAPITOLO  XXII 


al  dettato  «  fammi  povera  e  ti  farò  ricco  »  che  si  attribuisce  a  Co- 
lumella.  Già  vedemmo  a  pag.  625  che  i  precetti  di  Columella,  che 
realmente  sono  ottimi  in  gran  parte,  suonano  ben  diversamente;  onde 
speriamo  di  dimostrare  qui  che  il  detto  sistema  di  potatura  è  la  prin- 
cipale causa  dello  scarso  prodotto  delle  viti  nel  Suburbio  di  Roma. 

Quasi  tutte  le  vigne  del  Suburbio  di  Roma  sono  piantate,  secondo 
un  antichissimo  sistema  locale,  ad  ordini  distanti  l'uno  dall'altro  m.  1,20, 
mentre  le  viti  distano  fra  loro  di  cent.  60.  Esse  sono  sostenute  da 
canne,  nel  modo  indicato  dalla  qui  unita  fig.  247;  e  così  ogni  pianta 


Fi"-.  247. 


ha  la  sua  canna  verticale  o  a,  ed  inoltre  2  altre  canne  inclinate  e 
legate  in  o  alla  prima  mercè  un  vimine;  ad  una  di  queste  2  canne 
si  fissa,  con  vimini,  il  tralcio  o  capo  a  frutto  e  che  si  ricurva  for- 
temente e  che  colà  è  detto  «  il  piegatore.  » 

Questo  sistema,  per  chi  è  avvezzo  a  ricercare,  nella  educazione 
della  vite,  l'economia  delle  spese  in  un  coli' entità  del  prodotto, 
appare  difettoso  per  molti  riguardi,  nel  che  conviene  piena- 
mente un  valente  viticoltore  del  luogo,  il  Dolt.  F.  M.  Apotlonj, 
che  ci  fu  valida  e  cortese  guida  nella  nostra  escursione,  fatta 
nel    Suburbio    di  Roma    nel  1881,   Infatti,  col   metodo   in   quistione 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


701 


si  dispongono  anzitutto  le  canne  sullo  stesso  piano  verticale,  e  non 
già  le  une  contro  le  altre  in  guisa  da  formare  un  prisma,  cosicché 
esse  non  oppongono  se  non  una  debolissima  resistenza  all'  urto  dei 
venti,  specialmente  quando  sono  sopracaricate  di  tralci  e  di  grappoli: 
il  sistema  descritto  da  Columella  (V.  pagina  268),  è  bensì  assai 
più  costoso,  ma  non  presenta  questo  inconveniente.  Oltre  a  ciò  il 
metodo  del  Suburbio  esige  l'impiego  di  tre  canne  per  ogni  vite,  ri- 
chiedendo così  un  dispendio  non  indifferente.  Le  canne  sono  poi  di- 
sposte tanto  vicine  le  une  alle  altre,  che  il  capo  a  frutto  vuol  essere 
ricurvato  eccessivamente  così  da  fare  quasi  un  angolo,  massimamente 
nelle  viti  alte:  ora,  si  è  osservato  colà  che  non  di  rado  le  gemme, 
le  quali  si  trovano  sulla  porzione  troppo  ricurva  del  tralcio,  non 
germogliano:  il  sig.  Apoìlonj  ritiene  che  il  succo  nutritore  affluisca 
più  facilmente  alle  gemme  che  si  trovano  all'estremità  del  capo  a 
frutto,  e  che  a  ciò  sia  da  attribuirsi  l'inconveniente  suddetto. 
Per  questi  motivi  lo  stesso  Dr.  Apoìlonj  introdusse  alcune  impor- 


Fig.  248. 


tanti  variazioni  nel  modo  di  tendere  la  vite,  e  le  applicò  negli  stessi 
appezzamenti  già  coltivati  col   metodo  antico.  A   tale    uopo   riunì  a 


702 


CAPITOLO  XXII 


gruppi  di  sei  viti  le  sue  piante,  disponendo  le  canne  a  connocchia, 
come  si  vede  nella  fìg.  248,  ove  sono  disegnati  due  gruppi,  com- 
prendenti 3  viti  di  un  filare  e  3  dell'  altro  vicino.  È  evidente  che 
con  questo  sistema,  che  piacque  a  noi  pure,  si  realizzano  parecchi 
vantaggi:  —  anzitutto  adoperando  una  sola  canna  per  ogni  vite  si 
ha  un  risparmio  di  due  terzi  nella  spesa  dei  sostegni,  risparmio  certo 
non  indifferente;  d' altra  parte  le  canne  essendo  poste  a  connocchia 
le  une  contro  le  altre,  presentano  molta  resistenza  ai  venti,  i  quali 
non  possono  romperle  o  sbatterle,  ed  è  questa  pure  una  cosa  di 
grande  momento  avuto  riguardo  ai  venti  di  scirocco,  ai  quali  si  è 
colà  molto  esposti  in  estate.  Infine,  col  metodo  modificato  dal  signor 
Apollonj,  non  si  è  costretti  a  piegare  eccessivamente  i  capi  a  frutto 
(f  fìg.  248),  ed  inoltre  è  possibile  adottare  anche  la  disposizione  in- 
dicata in  A  B  dalla  stessa  fìg.  248:  A  B  è  una  canna  trasversale 
intorno  alla  quale  si  legano  i  tralci  frutticosi. 

Lo  stesso  viticultore  ha  adottato  in  altre  sue  vigne  un  sistema 
che  è  pure  usato  in  alcuni  Castelli  Romani,  applicandolo  anche  a 
vecchie  viti.  La  fìg.  249  ce  ne  porge  un'  esatta  idea;  esso  consiste 


Fig.  219. 


nel  lasciare  ad  ogni  ceppaia  parecchi  capi  a  frutto,  però  potati  corti, 
e  così  a  5  o  6  gemme;  questi  capi  frutticosi  vengono  legati  ad  una 
canna  trasversale  C  D,  la   quale  è   fuori  del   filare  e   sostenuta  da 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  703 

piccoli"  paletti.  Con  questo  sistema  oltre  ad  avere  un  piccolo  risparmio 
nella  spesa  dei  sostegni  si  ha  un  forte  aumento  di  produzione,  il  che 
ci  attestava  il  sig.  Apollonj  dietro  più  anni  di  esperimento. 

Nei  precedenti  sistemi  (fìg.  248  e  249)  ogni  vite  ha  il  suo  spe- 
rone (detto  dai  Romani  la  testar  ella),  che  fornisce  il  tralcio  a  frutto 
per  l'anno  seguente;  invece  col  metodo  dei  Castelli  si  usa  allevare 
il  tralcio  che  nasce  dalla  gemma  più  bassa  di  ciascun  capo  frutti- 
coso;  questo  tralcio  si  lega  alla  canna  verticale  che  sta  accanto  ad 
ogni  ceppo  (fìg.  249),  e  nel  successivo  anno,  potato  corto,  si  mette 
a  frutto. 

Ma  entriamo  nei  dettagli  di  coltura. 

Nel  Suburbio  di  Roma  la  vigna  generalmente  si  pianta  su  scasso 
reale,  profondo  in  media  1  metro;  questo  scasso  si  fa  tutto  cogli 
uomini,  che  sono  pagati  in  ragione  di  cent.  10  per  ogni  metro  cubo 
ad  1  metro  di  profondità;  la  spesa  ammonta  quindi  a  L.  1000  per 
ettare,  ma  essa  potrebbe  ridursi  circa  di  metà  ove  si  facesse  lo  scas- 
sato col  sussidio  dell'aratro. 

Il  sistema  da  adottarsi  in  tal  caso  sarebbe  quello  descritto  a  pa- 
gina 357,  cui  rimandiamo  il  lettore. 

Il  piantamento  delle  viti  nel  Suburbio  si  fa  spesso  con  talee;  esse 
vogliono  essere  lunghe  circa  un  metro;  nello  scassato  si  aprono  fosse 
profonde  50  centimetri  ed  a  questa  profondità  si  coricano  le  talee 
stesse  per  una  lunghezza  di  circa  50  o  60  centimetri,  drizzandole 
poscia  e  lasciando  2  gemme  fuori  terra,  per  cui  si  hanno  all'incirca 
80  centimetri  sotto  terra  e  20  sopra  terra;  il  suolo  si  comprime  po- 
scia accuratamente,  acciò  le  talee  ne  siano  bene  a  contatto.  Questo 
metodo  di  piantamento  è  costoso,  ma  la  vite  si  giova  molto  delle 
copiose  radici  che  escono  dalle  gemme  della  porzione  coricata,  e  si 
fa  più  vigorosa  e  meglio  resistente  ai  calori  estivi,  tuttoché  vegeti 
su  terreno  siliceo  scioltissimo,  che  proviene  da  roccie  vulcaniche.  In 
queste  condizioni  il  piantamento  profondo  è  fino  ad  un  certo  punto 
razionale;  ma  in  quanto  al  coricare  la  talea,  ci  pare  che  ciò  convenga 
meglio  nei  piantamenti  che  si  fanno  nei  terreni  pingui  e  nei  climi 
freschi,  dove  la  vite  per  un  eccesso  di  succo  acquoso  tende  a  farsi 
per  così  dire  pletorica  e  dove  può  quindi  giovare  un  certo  rallen- 
tamento nel  succo,  appunto  nella  parte  sdraiata  della  talea. 

Veniamo  ora  a  qualche  considerazione  sulla  distanza  dei  pianta- 
menti:  abbiamo  già  detto  che,  in  quasi  tutti  i  vigneti  del  Suburbio, 
fra  un  ordine  (o  filare)  e  l'altro  intercede  una  distanza  di  metri  1,20, 


704  CAPITOLO  XXII 


mentre  le  piante  stantio  a  centimetri  60;  ora,  se  pure  non  ci  ingan- 
niamo, queste  distanze  sono  troppo  esigue,  ed  è  da  attribuirsi  ad 
esse  il  precocissimo  invecchiamento  di  quelle  viti,  che  spesso  a  40 
anni  sono  esaurite  e  non  di   rado    cedono  il    posto  al  frumento. 

Questo  fatto  abbiamo  avuto  occasione  di  notarlo  in  altri  vigneti 
di  paesi  caldi:  quivi,  se  le  ceppaie  sono  molto  prossime  le  une  alle 
altre,  le  viti  soffrono  per  difetto  di  alimento  e  di  umidità,  essendo 
troppo  esiguo  il  cubo  di  terra  posto  a  disposizione  di  ognuna  di  esse, 
e  perciò  si  esauriscono  presto  e  conviene  rifare  il  vigneto  colle  pro- 
paggini. Poniamo  queste  considerazioni  sotto  gli  occhi  dei  viticultori 
del  Suburbio,  poiché  essi  hanno  a  lottare  con  un  clima  assai  arido; 
infatti  colà  da  maggio  a  settembre  il  cielo  è  abitualmente  sereno, 
prova  ne  sia  che  durante  l'estate  l'acqua  caduta  non  supera  in  media 
i  millimetri  82,7,  e  sono  poi  soli  millimetri  775,3  neh'  intero  anno 
(osservazioni  di  un  novennio  (1)  ),  laddove  a  Torino,  ad  esempio,  la 
sola  media  estiva  è  di  millim.  220,4,  a  Milano  174,5,  a  Firenze  210,2, 
e  via  dicendo.  A  noi  pare  quindi  che  non  si  errerebbe  colà  allonta- 
nando le  ceppaie  ed  i  filari,  così  da  porre  le  prime  alla  distanza  di 
1  metro  una  dall'altra,  ed  i  secondi  almeno  a  3  metri.  Ma  andiamo 
oltre. 

Allorquando  si  pianta  una  vigna  si  usa  nel  Suburbio  associarvi 
un  carciofeto;  vedremo  nel  Capitolo  seguente,  sino  a  qual  punto 
ciò  sia  conveniente. 

Abbiamo  già  detto  che  la  potatura  delle  viti  del  Suburbio  si  fa 
generalmente  assai  corta,  in  omaggio  al  precetto  «  fammi  povera 
che  ti  farò  ricco  »  erroneamente  attribuito  a  Columella.  Invece 
questo  dotto  agronomo  latino  consigliava  una  ricca  potatura  per  le 
viti  madronali,  ossia  in  pieno  sviluppo,  e  consentiva  anche  che  per 
ogni  ceppaia  fossero  lasciati  da  6  ad  8  tralci  frutticosi  pendenti  dal 
giogo  o  cavalletto  (fig.  198,  pag.  628),  sempre  quando  però  il  suolo 
fosse  ubertoso.  Infatti  in  questo  caso,  come  pure  quando  si  concima 
convenientemente  il  vigneto,  si  può  anche  forzare  una  abbondante 
produzione  senza  timore  di  esaurire  in  breve  tempo  le  ceppaie. 

La  potatura  troppo  povera,  oltre  a  rendere  esiguo  il  prodotto, 
nuoce  alla  longevità  delle  piante,  perchè  il  loro  sistema  radicale  non 
può  svilupparsi  così   ampio  come   sarebbe   necessario;    è  infatti   una 


(1)   1866-74.  Condizioni  dell'agricoltura  nel  quinquennio  1870-74  (Pubblicazione 
de]  Ministero  d'agricoltura,  voi.  1°,  pag.  133), 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  705 


L. 

150 

» 

75 

» 

100 

» 

430 

Totale  L. 

755 

legge  fisiologica  che  quando  il  sistema  aereo  è  assai  limitato  per  ab- 
bondanti tagli,  anche  quello  sotterraneo  ne  soffre  sensibilmente. 

Il  bravo  sig.  Apollonia  oltre  alla  coltura  ad  alberelli  (che  noi 
crediamo  la  preferibile  sia  per  l'abbondanza  del  prodotto  che  per  la 
qualità)  adottò  pure  una  potatura  più  ricca,  e  ne  ebbe  tosto  un  forte 
aumento  nel  prodotto.  Ecco  alcuni  dati  che  provano  come,  col  si- 
stema in  voga,  non  si  possa  durare  più  a  lungo,  e  che  spiegano  come 
la  vite,  essendo  esaurita  verso  il  quarantesimo  anno,  ceda  man  mano 
il  posto  al  frumento: 

Spese  ad  e  tiare:  Fitto  del  suolo 
Vignaiuolo    . 
Tasse  . 
Coltura 


Ora,  col  prodotto  usuale  delle  viti  coltivate  poco  razionalmente,  di 
15  ettolitri  ad  ettare,  venduto  a  L.  35  in  media,  si  ha  una  perdita 
anziché  un  guadagno.  Il  sig.  Apollonj,  portando  il  prodotto  ad  etto- 
litri 35  con  semplici  pratiche  di  razionale  potatura,  mutò  quella  per- 
dita in  un  beneficio  netto  di  oltre  le  L.  450  ad  ettare.  E  chiunque 
sia  un  poco  versato  in  fatto  di  viticoltura,  saprà  che  un  prodotto 
di  ettolitri  35  ad  ettare,  non  è  certamente  un  grande  prodotto;  prova 
ne  sia  che  lo  stesso  sig.  Apollonj  lo  ha  oltrepassato  di  molto  con 
altre  sue  vigne  delle  quali  diremo  prossimamente.  È  dunque  neces- 
sario che  quelli  fra  i  viticultori  del  Suburbio  i  quali  usano  quella 
potatura  povera,  riflettano  su  quanto  dicemmo  sin  qui;  presso  lo 
stesso  sig.  Apollonj  troveranno  molti  fatti  a  conferma  della  nostra 
tesi,  e  fra  gli  altri  vedranno  un  antico  pergolato  il  quale  fintantoché 
fu  potato  corto,  non  produceva  quasi  nulla,  mentre  ora  che  lo  si 
lascia  ricco  di  lungi  tralci,  i  quali  corrono  per  così  dire  sul  pergo- 
lato stesso,  produce  moltissima  uva. 

Le  operazioni  della  potatura  verde  (scacchiature  cioè  e  cimature) 
sono  praticate  presso  il  sig.  Apollonj  colla  scorta  di  sani  criterii. 
Per  regola  generale  questo  distinto  viticultore  non  ammette  che  deb- 
basi  mutilare  di  troppo  la  vite,  perchè  non  vuole  turbare  soverchia- 
mente l'equilibrio  che  deve  sussistere  fra  le  radici  e  la  parte  aerea; 
d'altra  parte  egli  riconosce  che  sarebbe  un  errore  lo  abbandonare 
la  vite  a  sé  stessa,  cosicché  avesse  a  mutarsi  in  un  arruffato  ce- 
O.  Ottavj,   Trattato  di  Viticoltura.  46 


706  CAPITOLO   XXII 


spuglio,  nel  quale  la  parte  erbacea  e  legnosa  prenderebbe  un  for- 
tissimo sviluppo  a  detrimento  dei  frutti  presenti  e  futuri.  Il  viticul- 
tare mentre  deve  favorire  l'ingrossamento  e  la  maturazione  dei  grap- 
poli pendenti,  deve  anche  coadiuvare  la  buona  costituzione  delle 
gemme  ascellari,  le  quali  debbono  darci  i  germogli  uviferi  nell'anno 
successivo. 

Il  sig.  Apollonj  pertanto  incomincia  in  maggio  collo  scacchiare 
le  sue  viti,  cioè  sopprime  a  dirittura  i  getti  sterili  e  ghiottoni  che 
spuntano  sul  ceppo;  ciò  accade  circa  verso  la  prima  settimana  di 
maggio.  Venendo  poi  sin  verso  il  25  giugno,  egli  pratica  due  altre 
scacchiature,  sempre  collo  scopo  di  portar  via  i  getti  succhioni,  i 
quali  smaltirebbero  inutilmente  una  non  piccola  parte  del  succo  di 
cui  la  vite  abbisogna,  massimamente  in  quel  clima  arido. 

Però  dopo  la  terza  scacchiatura,  la  vite  non  si  tocca  più  presso 
il  sig.  Apollonj,  e  ciò  perchè  durante  il  solleone,  e  quando  il  ca- 
lore è  al  massimo,  è  sempre  assai  dannoso  alle  viti  il  toccarle;  in- 
fatti sarebbe  un  errore  la  semplice  solforazione,  che  provocherebbe 
la  scottatura  degli  acini,  i  quali  rimarrebbero  come  appassiti,  benché 
ancora  verdi. 

Veniamo  ora  alla  cimatura.  —  Il  sig.  Apollonj  lascia  almeno 
due  foglie  sopra  l'ultimo  grappolo,  ed  a  questo  punto  cima  il  ger- 
moglio uvifero,  operando  fra  il  20  ed  il  25  di  maggio:  però  egli  è 
concorde  con  noi  nell'  ammettere  che  sarebbe  bene  lasciare  anche 
quattro  foglie,  e  ciò  per  favorire  la  emigrazione  di  molto  zucchero 
dalle  foglie  stesse  superiori  ai  grappoli. 

Riguardo  ai  tralci  che  dovranno  distendersi  a  frutto  1'  anno  suc- 
cessivo, il  sig.  Apollonj  non  vuole  che  si  privino  dei  loro  pampini, 
per  non  pregiudicare  l'accrescimento  e  lo  sviluppo  delle  gemme  a- 
scellari;  però  egli  accetta  la  spuntatura  di  essi,  appunto  per  con- 
centrare maggior  dose  di  succo  sulle  gemme  stesse  ed  arricchire  così 
il  cuscinetto  o  serbatoio  di  sostanze  alimentari  su  cui  per  così  dire 
riposano.  Noi  abbiamo  proposto  al  sig.  Apollonj  la  ricurvatura  di 
questi  futuri  tralci  frutticosi,  perchè  crediamo  che  con  questa  effi- 
cacissima pratica  otterrebbe  più  uva  che  non  lasciandoli  verticali  sino 
alla  sommità  delle  canne  di  sostegno;  tutti  coloro  che  adottarono 
questa  ricurvatura  ne  ebbero  risultati  completi,  e  ciò  in  disparate 
regioni  italiane,  come  il  Veneto,  il  Piemonte,  la  Toscana  ecc. 

Nel  Suburbio  di  Roma  abbiamo  visto  anche  una  pratica  per  noi 
nuova;  vogliamo  alludere   alla  scacchiatura  dei  viticci.    I  viticci  o 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  707 

capreoli,  si  possono  considerare  come  grappoli  abortiti;  essi  però 
continuano  a  vivere,  quali  parassiti,  a  spese  dei  succhi  nutritori  della 
vite,  alla  quale  ne  sottraggono  una  quantità  non  indifferente  quando 
sono  assai  numerosi,  come  accade  spesso.  Per  questo,  è  uso  gene- 
rale nel  Suburbio  di  levare  a  dirittura  i  viticci  nei  primi  giorni  di 
maggio;  questa  ripulitura  la  praticano  anche  sul  futuro  tralcio  a 
frutto,  per  non  privare  le  gemme  ascellari  d'  una  certa  quantità  di 
succo.  La  soppressione  dei  viticci  giova,  per  quanto  si  è  osservato, 
all'ingrossamento  dei  grappoli,  della  qual  cosa  abbiamo  parlato  lun- 
gamente a  pag.  501. 

Il  sig.  Apollonj  non  pratica  nessuna  sfogliatura  sulle  viti,  e  questo 
lo  troviamo  razionale:  però  qualche  giorno  prima  della  vendemmia 
egli  fa  levare  «  qualche  foglia  »  tal  quale  pratichiamo  noi  nel  nostro 
vigneto,  tanto  per  scoprire  leggermente  i  grappoli.  Le  rimanenti  nu 
merose  foglie  giovano  a  provvedere  di  molto  zucchero  i  grappoli 
sottostanti,  ed  infatti  l'uva  vi  matura  bene,  e  si  raccoglie  fra  la  la 
e  la  2a  settimana  di  ottobre. 

Di  solforazione  quasi  non  si  discorre  nel  Suburbio,  perchè  l' oidio 
è  raro  si  mostri.  Anche  le  altre  malattie  della  vite  vi  sono  poco 
conosciute,  forse  perchè  il  clima  vi  è  assai  arido,  laddove  le  crit- 
togame esigono  una  temperatura  calda  ma  umida. 

Fatto  è  che  il  sig.  Apollonj  produce  vini  ottimi  e  sanissimi,  che 
abbiamo  degustato  con  piacere.  Per  esempio  il  Cesanese  rosso  è 
vino  di  bel  colore,  con  sapore  speciale  amandolato,  con  una  alcooli- 
cità  media  del  13  0[q  in  volumi;  il  Cesanese  rosso  (1)  con  miscuglio 
d'un  po'  d'uva  bianca  nella  proporzione  di  1[4  lo  trovammo  anche 
più  fino  e  delicato;  questo  miscuglio  infatti  è  pure  consigliato  da 
qualche  distinto  enologo  francese.  —  Infine  il  vino  bianco  spumante 
lo  trovammo  pure  distinto,  delicato,  col  12  per  cento  di  alcool,  e 
più  gentile  dello  Champagne. 

Abbiamo  già  fatto  cenno  delle  viti  ad  alberello  del  sig.  Apol- 
lonj: con  questo  sistema  di  cultura  egli  volle  risolvere  il  problema 
di  ottenere  molta  uva  a  buon  mercato,  e  vi  riusci,  come  vi  riu- 
scimmo noi  al  nostro  podere  il  Cardello.  I  suoi  alberelli  sono  pian- 
tati alla  distanza  di  soli  50  cent,  un  dall'  altro  in  tutti  i  sensi,  ma 
sono  tenuti  molto  bassi  e  per  così  dire  poveri;  infatti  a  tre  anni  si 


(1)  Il  Cesanese  è  un  vitigno  prezioso,  perchè  oltre  a  dare  vino  ottimo,  produce 
molto,  sbuccia  tardi  e  non  teme  perciò  le  brine, 


708  CAPITOLO  XXII 


lasciano  loro  due  speroni  frutticosi  con  due  gemme  caduno,  ed  a  4 
anni,  quattro  capi  con  due  gemme  caduno.  Il  loro  tronco  è  alto  20 
centimetri  e  non  di  più,  ed  ogni  pianta  porta  usualmente  da  20  a 
25  grappoli.  Il  prodotto  medio  tocca  i  50  ettolitri  ad  ettare  già  ora 
che  i  piantamene  del  sig.  Apollonj  sono  ancora  giovani;  certo  però 
aumenterà  di  molto  in  avvenire.  È  questo  un  prodotto  cospicuo, 
tanto  più  se  si  riflette  che  le  spese  di  cultura  (canne,  legatura,  mano 
d'opera  ecc.)  sono  ridotte  di  un  terzo  di  fronte  a  quelle  del  sistema 
usuale  del  Suburbio  sovra  descritto.  Di  fronte  a  questi  fatti,  è 
da  augurarsi  che  questo  sistema  ad  alberelli  si  diffonda  anche  nel 
Suburbio,  che  così  il  benefìcio  netto  per  ogni  ettare  vitato  potrà  e- 
levarsi  oltre  le  600  o  le  700  lire. 

La  coltura  della  canna  è  una  conseguenza  del  sistema  di  viticul- 
tura romano,  come  accade  in  alcuni  locali  di  Sicilia  ed  in  molti  del 
Piemonte.  Nel  Suburbio  la  si  coltiva  bene:  si  incomincia  col  praticare 
uno  scasso  a  60  o  70  centim.  di  profondità;  poscia  si  piantano  gli  occhi. 
Il  sig.  Apolloni  li  pianta  a  0,35  cent,  di  distanza  Y  uno  dall'altro: 
mercè  lo  scasso  si  hanno  prontamente  canne  atte  a  sostenere  le  viti, 
ma  la  distanza  di  35  cent,  ci  pare  alquanto  piccola,  e  sarebbe  meglio 
portarla  ad  un  metro.  In  Monferrato,  ove  vi  sono  abili  coltivatori 
del  canneto,  si  usa  disporre  sullo  scassato  le  file  a  due  a  due;  ogni 
fila  dista  40  cent,  dall'altra,  e  fra  ogni  ordine  di  due  file  intercede 
una  distanza  di  3  metri  circa;  così  al  primo  anno  si  ottengono  già 
canne  servibili  per  sostenere  le  viti. 

§  15.  Sistema  Hooinbrenk  a  tralci  inclinati.  —  Questo  si- 
stema, che  si  potrebbe  chiamare  a  tralci  inclinati,  non  fu  inventato 
dal  sig.  Hooinbrenk,  ma  solo  perfezionato;  esso  è  assai  antico  e  ben 
noto  in  Francia.  Il  suo  scopo  è  questo:  inclinare  regolarmente  i  sar- 
menti sia  per  provocare  alla  loro  base  lo  sviluppo  di  getti  sempre 
più  vigorosi,  sia  per  conferire  maggior  vigore  alla  ceppaia.  L'incli- 
nazione adottata  dal  Hooinbrenk  è  di  112  gradi  e  mezzo  circa,  cioè 
22  1(2  sotto  l'orizzontale;  ma  il  sig.  Carrière  crede  che  si  possa 
andare  anche  oltre  a  130  gradi,  ad  esempio  quando  si  voglia  inde- 
bolire la  vegetazione  di  una  parte  qualunque,  a  profitto  di  un'altra: 
ma  scendiamo  ai  dettagli.  —  Supponiamo  che  dopo  il  primo  anno 
di  piantamento  la  vite  —  che  si  sarà  lasciata  crescere  liberamente  — 
si  trovi  nelle  condizioni  indicate  dalla  fig.  250;  al  momento  della  prima 
potatura  si  inclineranno  i  due  sarmenti  inferiori  sotto  la  orizzontale 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


70U 


Fig.  250. 


mantenendoveli  mediante  forchette  di  legno  o  in  qualsiasi  altro  modo, 
e  si  poteranno  ad  una  gemma  i  due  superiori  (fìg.  251  a  b).  Qua- 
lora i  sarmenti  inferiori  fossero  meschini  e  troppo  corti    per  essere 


Fig.  251. 


inclinati,  allora  si  sopprimeranno  i  getti   deboli  e  si  curveranno   gli 
altri  sarmenti,  legandoli  al  ceppo  come  mostra  la  fig.  252;  questi  sar- 


Fig.  252. 


menti  servono  ad  attirare  il  succo  verso  gli  occhi  della  loro  base 
e  ad  attivarne  lo  sviluppo.  Sarebbe  pure  ottimo,  non  volendosi  ri- 
curvare i  getti,  potare  i  due  o  tre  più  forti  a  due  occhi  caduno: 
così  si  avrebbero  l'anno  dopo  ottimi  tralci  da  inclinare. 


710 


CAPITOLO  XX11 


L'inclinazione  si  deve  fare  con  precauzione:  V  angolo  deve  essere 
regolare  e  lontano  da  una  parte  obliqua,  come  sarebbe  in  a  fig.  253, 


Fig.  253. 


perchè  potrebbe  accadere  che  le  gemme  poste  su  quest'ultima  parte 
si  sviluppassero  male,  ed  allora  mancherebbero  i  getti  di  rimpiazza- 
mento.  La  fig.  254  mostra  invece  una  inclinazione  regolare  in  a. 


Fig.  254. 


Ma  ritorniamo  alla  pianta  disegnata  nella  fig.  250  e  251.  I  due  getti 
che  sortono  dagli  occhi  a  e  b  si  sostengono  con  un  tutore;  si  ci- 
mano le  loro  femminelle,  e  si  mozzano  i  due  getti  stessi  allorquando 
hanno  raggiunto  una  lunghezza  di  lm,50  circa.  Alla  potatura  si  in- 
clinano, ed  allora  alla  loro  base  sortono  getti  vigorosi  (a  a  fig.  255) 
che  si  sostengono  con  tutori.  Ogni  anno  si  opera  in  questa  guisa, 
potando  a  due  speroni  ed  a  due  tralci  frutticosi  inclinati. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


711 


Ma  qualora,  per  deficienza  di  vegetazione,  mancassero    i  getti  di 
rimpiazzamento,  specialmente  al  primo  anno  della  inclinazione,  allora 


Fig.  255. 


si  conserva  intatta  la  parte  inclinata,  ma  i  getti  che  sorgono  su  di 
essa  si  speronano  ad  un  occhio,  come  indica  chiaramente  la  fig.  256 


Fig.  256. 


in  a  a  a.  Al  secondo  anno  si  dovranno  poi  cimare  tutti  i  getti  del 
tralcio  a  frutto  al  disopra  dell'ultimo  grappolo,  come  mostra  la  fig.  257 


712 


CAPITOLO  XXII 


in  a  a,  lasciando  sviluppare  liberamente   due  getti  b  b  della  base  i 
quali  formeranno  buoni  tralci  di  rimpiazzamento.  Al  terzo,  od  al  più 


Fig.  257. 


tardi  al  quarto  anno,  la  pianta  è  formata  regolarmente,  e  la  pota- 
tura procede  di  poi  come  or'  ora  dicevamo. 

La  vite,  con  questo  sistema,  può  tenersi  più  o  meno  alta,  a   se- 


Fig.  258. 


conda  del  vitigno  e  delle  circostanze  speciali  in  cui  si  trova  il  vi- 
gneto; per  esempio  si  può  disporla  a  sistema  unilaterale,  come  indica 
la  fig.  258  guidando  i  getti  su  due  fili  di  ferro,  oppure  anche  come 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE   LA  VITE  BASSA 


713 


la  fìg.  259  cioè  più  elevata;  si  può  anche  tenerla    a  sistema  bilate- 


Fig.  259. 


rale,  come   mostra  la  fìg.  260;  e  qualora  si  volessero    sopprimere 


Fig.  260. 


fili  di  ferro,  si    potrebbe  adottare  la  disposizione  della  fìg.  261,  fis- 
sando i  tralci  fruticosi  di  una  ceppaia  b  all'altra  vicina  a.  Faremo 


Fig.  261. 


notare  inoltre  che  invece  di  un  solo  tralcio  a  frutto,  se  ne  possono 
lasciare  due  (fig.  259);  il  secondo  tralcio  può  sorgere  presso  al  primo, 
ma  si  deve  guidarlo  verticalmente  lungo  il  sostegno,  e  poscia  indi* 
narlo,  come  in  a  fig.  261,  oppure  può  sorgere  sopra  un  prolunga- 
mento della  ceppaia,  come  si  vede  in  b. 


714 


CAPITOLO   XXII 


§  16.  Sistema  Aubry  ad  S.  —  Sistema  a  cavatappi.  —  Il 

sistema  ad  S  fu  ideato  dal  Sig.  Aubry,  distinto  viticoltore  di   Tho- 
rigny  (Seine- et- Marne),  ed  è  esso  pure  un  sistema  a  tralcio  frut- 


icoso lungo.  Condotto  il  tronco  principale  all'altezza  cui  si  desidera 
di  tenere  la  vite,  si  tende  un  filo  di  ferro  a  a  fig.  262  sul  quale  si 
distendono  due  tralci  frutticosi  curvandoli  a  guisa  di  una  S.  I  futuri 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  715 

capi  a  frutto  b,  ossia  i  capi  a  legno,  si  guidano  lungo  il  tutore,  op- 
pure si  sostengono  mercè  un  secondo  filo  di  ferro.  La  curvatura 
dei  tralci  a  frutto,  rallenta  il  movimento  del  succo,  con  beneficio 
delle  gemme,  onde  si  hanno  ottimi  capi  a  legno;  inoltre  anche  un 
lungo  capo  a  frutto  occupa  uno  spazio  relativamente  piccolo,  ap- 
punto per  le  curve  che  esso  fa.  Questo  sistema  è  molto  lodato  in 
Francia. 

Sistema  a  cavatappi.  —  Con  questo  metodo  di  potatura  il  tralcio 
frutticoso  anziché  essere  curvato  accanto  ad  un  filo  orizzontale,  è 
come  avviticchiato  a  spirale  attorno  al  palo  di  sostegno,  onde  la 
vite  ricorda  le  spire  d'un  cavatappi.  Il  sig.  Champin  lo  loda  molto 
sia  per  le  uve  da  tavola  sia  per  i  vitigni  bimembri  franco -americani. 
Alla  prima  potatura,  dei  due  getti  più  belli  della  nuova  vite,  il  più 
basso  potasi  a  sperone  con  due  gemme,  ed  il  più  alto  si  attorciglia 
attorno  al  tutore  per  una  lunghezza  di  soli  30  cent.;  al  secondo 
anno  si  potrà  portarlo  a  60  cent,  crescendo  la  lunghezza  col  crescere 
del  vigore  della  pianta,  e  potando  sempre  ad  uno  sperone  ed  un 
tralcio  frutticoso  lungo,  il  quale  dura  solo  un  anno,  ed  è  surrogato, 
alla  potatura,  dal  più  alto  fra  i  due  dello  sperone  legnoso.  Questo 
sistema  è  molto  semplice  e  di  facile  applicazione;  la  curvatura  del 
tralcio  a  frutto  giova  alla  fruttificazione,  ed  i  grappoli  maturano 
assai  bene.  Champin  asserisce  di  aver  ottenuto  con  questo  sistema, 
sin  dal  secondo  anno,  un  paniere  d'uva  per  ogni  ceppo  innestato. 

§  17.  Sistemi  di  Stradella  e  Broni.  —  Secondo  questi  si- 
stemi le  viti  si  coltivano  a  gruppi  anziché  isolatamente  pianta  per 
pianta;  nello  Stradellese  infatti,  nelle  fosse  (le  quali  sono  larghe  un 
metro  e  mezzo,  profonde  80  centim.  e  distanti  fra  di  loro  8m)  si 
piantano  da  9  a  10  maglioli  attorno  a  piccoli  cumuli  di  terra  che 
si  innalzano  entro  le  fosse  stesse:  questi  cumuli  distano  2m,20  in 
pianura  e  1  m  ,80  in  colle.  Dei  maglioli  piantati  non  ne  rappiglia  che 
una  metà  circa,  ma  bastano  anche  soli  4  per  costituire  un  gruppo, 
che  allora  riesce  composto  di  4  piante,  disposte  per  così  dire  ai 
quattro  angoli  di  un  quadrato  avente  50  centimetri  di  lato.  Queste 
quattro  giovani  piante  si  lasciano  crescere  liberamente  al  1°  anno  e 
senza  sostegni;  lo  stesso  si  fa  al  2°  anno,  curando  solo  la  nettezza 
del  suolo.  Alla  fine  del  2°  anno  si  incomincia  a  potare,  tagliando  le 
viti  rasente  terra,  e  piantando  poscia  ad  ogni  gruppo  4  pali  lunghi 
circa  2  metri,  uno  per  barbatella,  in  modo  che  vengano  a  riunirsi  in 


716  CAPITOLO   XXII 


una  sola  punta  —  chiamata  coppa  —  dove  si  legano  con  un  vi- 
mine. Si  chiama  questo  intreccio  di  pali  la  gabbiera. 

Durante  il  terzo  anno  si  lasciano  pur  crescere  liberamente  i  getti, 
e  si  tien  netto  il  suolo  dalle  mal'erbe.  Alla  primavera  del  quarto 
anno  si  potano  a  terra  in  ogni  barbatella  i  piccoli  getti  e  il  mi- 
gliore si  pota  a  due  o  tre  occhi  e  si  lega  al  palo  vicino  della 
gabbiera.  Esso  dà  un  po'  d'uva.  Se  la  vite  è  robusta  si  lascia  un 
maggior  numero  di  gemme  per  modo  che  il  tralcio  sia  lungo  tanto 
da  raggiungere  la  coppa.  Se  lo  è  poco  invece,  si  fanno  al  quarto 
anno  gli  arrotti  chiamati  colà  controfossi.  Questi  si  fanno  a 
70  o  80  centim.  dalle  barbatelle.  Consistono  in  due  fosse  laterali 
fatte  con  due  fitte  di  vanga,  una  sopra  l'altra.  Della  seconda  si  la- 
scia la  terra  vergine  sul  sito,  sulla  quale  si  pone  del  letame  che  si 
copre  colla  terra  della  prima  vangatura.  Alla  primavera  del  quinto 
anno,  il  getto  si  lascia  lungo  tanto  da  raggiungere  certamente  la 
detta  coppa  e  a  quella  del  sesto  anno  il  ceppo  delle  barbatelle  s'in- 
nalza sino  alla  medesima,  poi  si  distende  di  esso  orizzontalmente  il 
miglior  tralcio  frutticoso,  che  vien  detto  colà  il  co,  e  si  va  ad  ap- 
poggiarlo ad  un  palo  posto  in  mezzo  al  tratto  che  separa  l' uno 
dall'altro  gruppo.  Ogni  barbatella  ha  qui  il  suo  palo  posto  in  mezzo 
e  il  suo  co  che  dalla  gabbiera  si  distende  sopra  un  rametto  oriz- 
zontale detto  racca  sino  all'accennato  palo.  A  questo  punto  ogni 
gruppo  si  marita  a  12  pali,  4  alla  gabbiera,  4  diritti  (2  per  parte) 
in  mezzo  ai  gruppi,  e  sui  quali  vanno  ad  appoggiarsi  le  travarse  o 
racche,  infine  4  racche.  Alla  primavera  del  settimo  anno,  non  ba- 
stano i  co  o  tralci  frutticosi  distesi  sulle  racche  e  si  fa  sul  davanti 
—  cioè  verso  l'interfllare  —  il  mezzo  passo  alla  Casalese  (pag.  654) 
da  ambi  i  lati.  Quindi  è  necessaria  l'aggiunta  di  due  altri  pali. 

All'ottavo  si  fa  il  passo  intiero,  quindi  due  altri  pali,  uno  per  lato, 
e  questi  devono  essere  fortissimi  e  lunghi  cinque  o  sei  metri.  Il  fi- 
lare ha  allora  tre  metri  di  spessore. 

Giunte  le  ceppaie  sui  detti  pali  lunghi,  o  pertiche,  i  tralci  frutti- 
cosi  o  co  si  distendono  in  ispalliera  —  vale  a  dire  tra  un  gruppo  e 
l'altro  —  coll'appoggio  di  altre  racche  orizzontali  o  di  altri  paletti 
diritti  posti  tra  l'una  e  l'altra  pertica. 

Al  nono  anno  adunque,  oltre  ai  co  delle  racche  e  quelli  del  mezzo 
passo  e  del  passo,  si  hanno  anche  quelli  della  spalliera  in  una  fila 
orizzontale. 

Al  decimo,  a  questa  fila  se  ne  aggiunge   un'altra;  e   all'undecimo 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


717 


una  terza;  e  sempre  da  ambi  i  lati  del  filare,  se  le  viti  sono  ro- 
buste, loro  si  lasciano  anche  dei  co  obliqui  diretti  cioè  tra  quelli  del 
passo  e  quelli  delle  vacche.  Allora  il  filare  è  completo  e  si  dice 
madronale. 

Non  neghiamo  che  questo  sistema  sia  molto  produttivo  (1)  ma  certo 
è  costosissimo  perchè  richiede  molti  pali  e  molte  pertiche. 

*9  II  sistema  di  Broni  presenta  alcune  buone  varianti;  esso  ci  è 
rappresentato  dalla  fig.  263;  in  essa  vedesi  anzitutto  la  suddetta 
gabbieva  formata  dai  pali  C  D;  dal  basso  partono  le  ceppaie  A,  che 


Fi?.  263 


giunte  all'altezza  di  un  20  centim.  circa,  od  un  poco  più  sul  palo  C, 
sono  legate  con  un  vimine.  Di  qui  esse  prendono  due  principali  di- 
rezioni; il  maggior  numero  si  dirige  lateralmente,  cioè  sul  davanti 
verso  gli  interfilari,  sui  pali  o  pertiche  grosse  e,  come  si  vede  forse 
meglio,  sulla  pianta  nella  fig.  264.  Dai  detti  pali  poi  i  tralci  frut- 
tuosi, in  una  sola  fila,  si  dirigono  orizzontalmente  —  condottivi  da 
rametti  o  vacche  poste  all'altezza  di  circa  un  metro  e  1{2  da  terra  — ■ 


(1)  Il  filagnone  dell'Ori.  Ministro  A.  Depretis,  composto  di  30  gruppi  posti   in 
mezzo  ad  un  prato,  produceva  or  sono  varii  anni  14  ettolitri  di  vino  da  sé  solo! 


718  CAPITOLO  XXII 


verso  il  palo  I  e  l'altro  palo  posto  più  sopra;  tutti,  come  si  vede,  sono 
segnati  colla  cifra  in  bianco  2  collocatavi  internamente.  Co  testa  linea 
orizzontale  di  co  o  tralci  frutticosi  si  chiama  colà  garlanda  o  pa- 
lata. Nelle  vigne  madronali  gli  stomboli  o  speroni  a  a  a  fig.  263 
(che  possono  dare  già  nell'anno  un  po'  d'uva,  ed  ai  quali  non  do- 
vrebbero però  lasciarsi,  nell'atto  della  potagione,  che  due  o  tre  gemme) 
danno  dei  co  robusti  e  numerosi,  che  non  solo  si  distendono  sul  da- 
vanti, lunghesso  le  ceppaie,  che  accompagnano  da  E  in  G  e  da  G 
in  F  (fig.  264)  ma  fanno  a  questo  punto  una  diversione  verso  il  palo 


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$        Pertica 
•       Palo 
«i. ._._..'  Tralcio 


Fiff.  284. 


H  (cifra  1)  e  quindi  una  parallela  alla  suddetta  garlanda  detta  a 
Broni  tironata  o  contropalaia,  sulla  quale  alcuni  prendono  una  di- 
rezione all'infuori,  cioè  verso  il  gruppo  vicino,  e  gli  altri  si  dirigono 
internamente  da  F  in  H.  Si  noti  che  gli  stomboli  dei  pali  E  E  (fi- 
gure 263  e  264)  danno  i  tralci  per  le  direzioni  E  I  ed  E  G  e  quelli 
dei  pali  G  G  le  danno  da  G  in  F  e  da  F  in  H  e  all'infuori,  cioè  per 
la  contropalata.  A  questa  però  servono  meglio  quelli  del  palo  F  fi- 
gura 264,  dove  s'arresta  la  ceppaia  o  tronco  vecchio  della  vite. 

Dicemmo  qui  sopra  che  dalla  prima  legatura  sul  palo  C  (fig.  263)  le 
ceppaie,  o  tronchi,  oltre  la  direzione  sopra  descritta  ne  avevano 
un'altra,  e  questa  ha  luogo  nell'interno  del  filare  stesso,  cioè  verso  il 
gruppo  vicino.  Difatti  tra  due  gruppi  vi  sono  uno  o  due  paletti  che 
non  furono  notati  nelle  suddette  figure  (posti  sempre  vicino  allo  stom- 
bolo), sui  quali  si  distende  una  ceppaia  all'altezza  da  terra  di   circa 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


719 


60  centim.  e  giunta  che  è  sul  palo  C  della  gabbiera  del  vicino 
gruppo,  stende  indietro  uno  o  due  tralci  frutticosi,  verso  la  propria 
gabbiera,  appoggiati  sui  suddetti  paletti  e  all'altezza  di  circa  un  metro 
e  1[2  da  terra.  Al  posto  della  suddetta  ceppaia  nei  primi  anni  vi 
sono  tralci  frutticosi  detti  i  navet,  ma  poi  essendo  questi  coperti  in 
gran  parte  dai  pampini  vicini,  le  si  lasciano  solo  degli  stomboli  che 
mandano  i  loro  germogli  sui  paletti,  e  l'anno  dopo  questi  germogli 
si  stendono  più  in  alto  dei  navet,  cioè,  come  dicemmo,  all'altezza  d'un 
metro  e  mezzo:  danno  frutti  e  si  chiamano  allora  le  bovaline. 
Di  queste  come  dei  navet  si  ha  il  profilo  nella  fìg.  265. 


Fig.  265. 


Tanto  le  bovaline  che  le  contropalate  da  ambo  i  lati  (corrispon- 
denti alla  triplice  fila  di  spalliera  degli  Stradellesi)  non  si  vedono  però 
che  nelle  vigne  madronali  ben   tenute. 

Queste  vigne  danno  buoni  prodotti,  cioè  in  media  1000  miriagrammi 
d'uva  ad  ettare;  però  se  si  tiene  conto  delle  spese  di  palatura,  è  ovvio 
concludere  che  i  descritti  sistemi  oggidì  non  stanno  certo  fra  i  più 
commendevoli. 

§  18.  Sistema  di  Asti.  —  Due  sono  i  sistemi  che  si  seguono  in 
questa  regione,  quello  detto  alla  garret  e  quello  a  spalliera  o  taragna. 
Descriviamo  anzitutto  il  primo:  premetteremo  che  nell'Astigiano  la 
vigna  si  pianta  generalmente  mediante  barbatelle  provenienti  da  pro- 
paggine in  fosse  larghe  1  m.  e  profonde  75  cent,  che  si  aprono  in 


720 


CAPITOLO  XXII 


senso  trasversale  alla  pendenza  del  terreno,  siccome  è  lodevole  con^ 
suetudine  in  Piemonte  ed  in  genere  nell'Alta  Italia.  Durante  il  1° 
anno  si  lasciano  crescere  liberamente  le  piantine;  al  marzo  successivo 
si  tolgono  tutti  i  getti,  meno  uno  che  potasi  a  3  o  4  gemme;  all'altro 
marzo  potasi  invece  a  5  o  6  gemme,  ma  si  allevano  due  tralci; 
al  terzo  anno  si  fa  l'arrotto  (pag.  370).  Ciò  fatto  se  la  vite  è  ro- 
busta si  pota  a  circa  sette  o  otto  gemme  e  si  distende  inclinata 
sin;)  ad  un  secondo  palo  posto  a  circa  40  centina,  più  in  là  nel  fi- 


Fig.  266. 


lare.  Che  se  invece  fosse  un  po'  debole  si  pota  ancora  a  4  o  5  gemme 
come  negli  anni  andati  e  si  attacca  (due  getti  ogni  anno)  vertical- 
mente al  primitivo  palo.  In  questo  caso  che  è  il  più  comune,  il  se- 
condo palo  si  dà  al  principio  del  quinto  anno  ed  il  getto  che,  come 
dicemmo,  si  lascia  con  7  o  8  gemme,  si  chiama  mezza  chena  e  si  di- 
stende obliquamente  come  sopra.  Esso  darà  uno  o  due  grappoli  d'uva 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


721 


e  si  alleveranno  tre  getti.  Un  anno  dopo  il  getto  più  basso  si  pota 
a  3  o  4  gemme  per  fare  lo  scoti  (sperone),  all'altro  si  lasciano  8  o 
IO  gemme  e  formerà  la  mezza  chena,  e  ad  un  terzo  che  sarà  il  mi- 
gliore e  il  più  lungo  si  lascieranno  tutte  o  quasi  tutte  le  sue  gemme, 
cioè  si  conserverà  quasi  intatto  e  formerà  la  chena,  che  si  distende 
orizzontalmente  sino  ad  un  terzo  palo  posto  a  50  centim.  dal  secondo. 

Infine  al  settimo  anno,  se  la  vigna  sarà  vigorosa  e  ben  tenuta, 
oltre  lo  scott  (due  per  ceppaia)  la  mezza  chena  e  la  chena,  si  avrà 
un  ultimo  importantissimo  tralcio  frutticoso,  detto  il  siarè.  È  il  mi- 
gliore fra  quelli  che  darà  la  branca,  che  l'anno  avanti  avrà  portato 
la  chena,  o  la  mezza  chena,  e  si  va  ad  attaccare  ad  un  quarto  palo 
posto  a  60  centim.  all'infuori  del  filare,  dopo  averlo  fatto  passare 
fra  gli  altri  come  si  vede  nella  fìg.  266.  In  essa  c'è  la  mezza  chena, 
la  chena  e  il  detto  siarè,  che  alla  successiva  primavera  (ma  solo 
se  robustissime  le  viti),  si  può  piegare  sotterra,  la  punta  eccettuata, 
cioè  si  può  propagginare  per  avere  nuove  barbatelle  come  si  vede 
alla  lettera  E._ 

Generalmente  la  mezza  chena  non  oltrepassa  il  secondo  palo  e  la 


Fig.  267. 


chena  il  terzo.  La  mezza  chena  al  successivo  anno  dà  la  chen  a 
questa  dà  poi  il  siarè,  il  quale  non  esiste  che  nelle  vigne  vigorose. 
Vediamo  ora  brevemente  in  che  cosa  consiste  il  sistema  delle 


0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura. 


47 


722 


CAPITOLO  XXII 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


723 


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724  CAPITOLO  XXII 


taragne  che  è  il  più  diffuso  nell'Astigiano:  esso  costituisce  una  vera 
spalliera  (fig.  267).  Ad  ogni  70  centina,  di  distanza  vi  ha  un  gruppo 
composto  però  di  sole  due  ceppaie,  una  con  un  tralcio  o  chena  A  e 
D  D,  e  l'altro  con  due  tralci  B,  C,  E  e  F.  Come  vedesi  invece  dello 
stare  (pag.  721)  si  hanno  le  chene,  piegate  ad  arco  come  indica  la 
fig.  267.  Questa  figura  mostra  pure  come  è  costrutta  la  spalliera, 
che  si  rinforza  anche  con  traverse  p  q. 

Tutti  questi  sistemi,  per  quanto  produttivi  e  fino  ad  un  certo  punto 
razionali,  non  sono  troppo  raccomandabili  oggidì,  poiché  ognuno  pro- 
cura di  economizzare  nelle  spese  di  palatura  e  dei  sostegni  in  genere 
a  fine  di  produrre  l'ettolitro  di  vino  al  minor  prezzo  possibile. 

§  19.  Educazione  a  tralcio  lungo  per  le  pianure,  sistema 
Bisinotto  (1).  —  Il  sig.  Giovanni  Bisinotto  già  da  parecchi  anni 
si  studiò  di  risolvere  il  quesito  della  coltivazione  economica  dei  vi- 
gneti specializzati  in  pianura.  Egli  prese  le  mosse  da  questa  consi- 
derazione, che  anzitutto  conveniva  modificare  i  sistemi  comune- 
mente adottati,  avendo  egli  osservato  che  per  l'impianto  di  un'ettaro 
di  vigneto  in  pianura  e  per  l'allevamento  delle  viti  fino  al  4°  anno 
bisognava  spendere  da  2000  a  3000  lire,  prima  di  avere  una  produ- 
zione qualsiasi.  L'anticipazione  è  gravosa  e  impossibile  alla  maggior 
parte  dei  proprietarii,  nelle  presenti  loro  condizioni  economiche.  Al 
sistema  Guyot,  troppo  costoso,  che  richiede  anticipazioni  così  rile- 
vanti, bisogna  quindi  sostituirne  un  altro  più  economico  e  più  adatto 
alle  tristi  condizioni  della  nostra  economia  rurale.  Questo  è  appunto 
quello  che  il  Bisinotto  si  è  studiato  di  fare,  tenendo  conto  tanto 
delle  esigenze  geologiche  e  climatiche,  quanto  dei  precetti  fondamen- 
tali suggeriti  dalla  scienza,  per  la  conveniente  preparazione  del  ter- 
reno e  pel  razionale  allevamento  della  vite.  I  risultati  di  questo  suo 
sistema  economico  corrisposero  pienamente  alla  aspettazione,  di  ma- 
niera che  dal  1°  al  3°  anno  d' impianto  la  produzione  compensò  la 
spesa  sostenuta,  quasi  senza  anticipazione  di  capitale  ;  ed  al  4°  anno 
egli  ottenne  un  reddito  netto  di  lire  300  per  ettaro,  nel  5°  lire  600, 
nel  6°  e  nei  seguenti  da  800  a  1000  lire.  Con  tale  sistema  è  superato 


(1)  V.  Rappresentazioni  grafiche  per  la  coltura  della  vite  in  vigneto  nelle  pia- 
nure, con  esposizione  del  costo  e  prodotti,  secondo  i  risultati  ottenuti  nei  teni- 
menti  del  Senatore  Conte  G.  B.  Giustinian,  nei  distretti  di  Oderzo  e  San  Donò 
di  Piave  per  Giovanni  Bisinotto.  Estratto  dal  fase.  XVI  del  Bollettino  ampelo^ 
grafico,  Roma,   1882. 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  72o 


adunque  l'ostacolo  principale  che  comunemente  si  opponeva  alla  specia- 
lizzazione colturale  della  vite.  Brevi  cenni  basteranno  a  chiarire  il  si- 
stema Bisinotto,  coll'aiuto  delle  unite  figure  268  a  271.  Nell'appez- 
zamento che  egli  vuole  mettere  a  vigneto  fa  economicamente  lo  scasso 
coli'  aratro  a  40  centimetri  di  profondità,  e  con  Y  aiuto  della  vanga 
dispone  il  terreno  smosso  in  ciglioni  larghi  metri  4  da  solco  a  solco 
e  alti  dal  solco  al  colmo  metri  0.80.  Pianta  sulla  cima  del  ciglione 
le  viti,  e  quindi  sopra  un  terreno  alto  ed  asciutto  e  gli  riesce  pos- 
sibile, senza  portar  pregiudizio  alle  viti  stesse,  la  coltura  di  piante 
sarchiate,  da  cui  ritrae  per  ciascuno  dei  tre  primi  anni  il  rimborso 
delle  spese.  Al  quarto  anno  il  Bisinotto  ha  già  la  vite  a  buon  frutto 
e  mercè  la  larghezza  dei  filari  gli  è  dato  applicarvi  il  drenaggio  (di- 
mostrato nelle  figure  270  e  271),  divìdendo,  a  comodo  e  volontà, 
il  dispendio  in  più  anni.  In  conclusione  con  questo  sistema  egli  ritrae 
dal  terreno  i  mezzi  di  far  fronte  all'impianto  ed  allevamento  della 
vite,  e  nel  corso  di  sua  produzione  gli  è  sempre  possibile  effettuare 
i  lavori  di  perfezionamento  al  terreno,  richiesti  per  la  sempre  mag- 
giore sua  fecondità. 

«  Alcuno  potrà  osservare,  nota  il  Bisinotto,  che  si  perde  così  molto 
terreno,  perchè  con  le  file  a  4  metri  e  centimetri  75  da  pianta  a 
pianta  nelle  file,  un  ettaro  non  ne  contiene  che  N.  3333,  mentre  col 
sistema  Guyot,  le  file  che  stanno  a  un  metro  una  dall'  altra,  e  le 
piante  pure  a  un  metro,  un  ettaro  ne  contiene  10,000.  Rispondo  : 
Guyot  dà  ad  ogni  vite  un  metro  quadrato  di  terreno  e  mette  a 
frutto  un  tralcio  lungo  80  centimetri;  col  mio  sistema  dò  ad  ogni 
vite  tre  metri  quadrati,  ma  metto  a  frutto  tre  volte  80  centimetri 
di  tralcio,  ossia  due  tralci  lunghi  metri  1,20  ciascuno,  disposti  come 
vien  dimostrato  nelle  figure  qui  unite:  mi  trovo  quindi  ad  avere  in  un 
ettaro  una  sviluppata  lunghezza  di  tralci  a  frutto  quanta  ne  ha  il 
sistema  Guyot,  a  un  metro.  Il  sistema  Guyot  richiede  che  tutti  i 
lavori  di  preparazione  e  perfezionamento  del  terreno  precedano  l'im- 
pianto delle  viti;  il  sistema  Guyot  non  è  adatto  alla  maggior  parte 
delle  pianure  e  specialmente  ove,  il  terreno  è  di  natura  argilloso  o 
argilloso- calcare,  che  pel  difficile  scolo  delle  acque  vuole  esser  posto 
a  ciglioni  il  più  possibile  elevati;  il  sistema  Guyot  non  permette  la 
coltura  di  alcun  cereale  nei  tre  primi  anni,  in  cui  la  vite  non  dà 
frutto  e  che  pur  dimanda  spese  continue;  di  qui  la  forte  anticipa- 
zione di  capitali,  la  quale  costituisce  appunto  l'ostacolo  che  ho  preso 
a  combattere  e  sono  riuscito  a  superare.  » 


726 


CAPITOLO  XKll 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


7.27 


728  CAPITOLO  XXII 


Per  brevità  dobbiamo  ommettere  i  quadri  dimostrativi  delle  spese 
e  dei  redditi  che  il  sig.  Bisinotto  univa  all'  accennato  opuscolo;  da 
essi  però  risulta  che  il  suo  sistema  merita  di  essere  seriamente  preso 
in  considerazione.  Le  quattro  figure  268,  269,  270  e  271  ne  danno 
una  chiara  idea:  la  fìg.  268  disegnata  esattamente  nel  rapporto  di  un 
centim.  per  metro,  ci  mostra  la  planimetria  d'un  vigneto  alla  Bisinotto.'ìa. 
fìg.  269  ci  porge  tre  sezioni  trasversali  dei  tre  primi  anni;  la  fìg.  270 
ci  rappresenta  le  sezioni  trasversali  del  4°,  del  5°  e  del  6°  anno,  col 
drenaggio  in  quest'ultimo;  infine  la  fìg.  271  ci  mostra  le  sezioni  lon- 
gitudinali del  1°,  2°  e  3°  anno,  col  detto  drenaggio  tubulare  nel  3° 
anno.  Le  viti  sono  sostenute  dal  3°  anno  in  avanti  con  pali  di  acacia 
e  fili  di  ferro,  come  si  vede  nella  fìg.  271;  la  disposizione  dei  capi 
a  legno  e  dei  due  tralci  a  frutto,  è  chiaramente  rappresentata  dalla 
fìg.  270,  anno  5°  e  6°. 

§  20.  Coltura  della  Vite  nelle  dune  e  nelle  sabbie.  —  La 

vite  non  solo  può  coltivarsi  nelle  terre  sabbiose,  ma  vi  dà  ottimo 
prodotto;  questo  è  un  fatto  noto.  Ma  la  vite  può  coltivarsi  eziandio 
nelle  dune,  cioè  nelle  sabbie  quasi  pure:  in  Francia  sono  note  le  vigne  del 
Cap-Breton  (dipartimento  delle  Lande)  coltivate  sovra  dune  presso 
le  coste  dell'Oceano;  queste  dune  sono  quasi  intieramente  composte 
di  piccoli  sferoidi  di  quarzo  ialino,  d'una  grande  mobilità  «  troppo 
leggeri  per  resistere  ai  venti,  ma  non  abbastanza  per  essere  dissi- 
pati come  la  polvere  »  (1).  A  questi  piccoli  cristalli  si  trovano  me- 
scolati dei  detriti  di  conchiglie  visibili  ad  occhio  nudo;  l'analisi  mec- 
canica di  queste  sabbie  diede  98, 80  per  0\q  di  sabbia  silicea,  e 
1,2  per  0[o  di  detriti  conchigliferi  formati  da  carbonato  di  calce: 
l'analisi  chimica  svelò  pure  la  presenza  d'una  piccola  quantità  di  sai 
marino.  Per  impedire  lo  spostamento  di  queste  sabbie,  e  rendere  al- 
lora possibile  la  coltura  della  vite,  quei  coltivatori  dovettero  cingere 
gli  appezzamenti  vitati  con  palizzate,  formate  da  erica  e  paglia,  so- 
stenute da  pali  e  rinforzate  mercè  opportune  traverse:  queste  pa- 
lizzate giovano  eziandio  a  preservare  le  viti  dai  venti  marini  (pa- 
gina 293).  Inoltre  la  vite  vi  si  coltiva  soltanto  sui  versanti  est  delle 
dune,  perchè  opposti  all'azione  diretta  dei  venti  di  mare.  Fra  i  varii 
recinti,  a  forma  di  parallelogrammi  detti  tournets,  nei  quali  si  col- 
tivano le  viti,  esistono  degli  spazii  liberi  dai  quali  togliesi  la  sabbia 


(1)  Così  si  esprime  il  sig.  A.  Petit- La  fitte.  (Ladrey,  op.  cit.  pag.   157). 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  729 

destinata  a  surrogare  quella  dei  recinti  coltivati,  la  quale  va  via  esau- 
rendosi; ciò  corrisponde  alla  tanto  raccomandata  rinnovazione  della 
terra  al  pedale  delle  viti.  L'insabbiamento  si  fa  tutti  gli  anni,  por- 
tando 0m.10  di  nuova  sabbia  entro  i  tournets,  che  si  sparge  alla 
superficie  del  vigneto.  I  vigneti  del  Cap-Breton  datano  dalla  se- 
conda metà  del  XV  secolo:  il  vino  che  producono  è  buono.  De  Can- 
dolle  (1)  dice  che  la  vite  è  tenuta  tanto  bassa  che  i  grappoli  «  ri- 
posano sulla  sabbia,  la  quale  riscaldata  dal  sole,  li  fa  maturare  con 
rapidità.  »  E  Guyot  (2)  .lice  che  i  vini  del  Cap-Breton  hanno  «  il 
bouquet  ed  il  sapore  dei  vini  di  Bordeaux,  e  la  generosità  del  Bor- 
gogna; »  egli  soggiunge  che  vi  riescono  benissimo  il  Cabernet,  il 
Sémillon,  e  specialmente  il  Chasselas,  che  si  vende  a  Bayonne 
come  uva  da  tavola.  Il  prodotto  medio  è  di  30  ettolitri  di  vino  ad 
ettare. 

In  Francia  sono  pure  noti,  anzi  rinomati  dopo  l' invasione  fìllos- 
serica,  i  vigneti  che  sorgono  sulle  sabbie  di  Aigues-Mortes,  nella 
regione  del  Basso  Rodano;  ma  di  questi  diremo  studiando  la  qui- 
stione  della  fillossera. 

In  Italia  eziandio  abbiamo  buoni  esempii  di  viti  coltivate  se  non 
nelle  sabbie  quasi  pure  almeno  in  terre  molto  sabbiose,  ma  conte- 
nenti un  po'  di  calcare;  alludiamo  a  taluni  vigneti  coltivati  sulla  così 
detta  sabbietta  del  Basso  Veneto  (3)  e  tenuti  alla  Guyot,  ma  alla 
distanza  di  lm,25  in  tutti  i  sensi.  Ivi  si  coltivano  il  Raboso,  il  Pinot 
ed  il  Cabernet,  ed  il  prodotto  è  cospicuo. 

Volendosi  impiantare  e  coltivare  razionalmente  un  vigneto  in  si- 
mili condizioni  specialissime  di  terreno,  converrà  attenersi  alle  norme 
seguenti.  I  filari  debbono  tracciarsi  alla  distanza  di  3  metri  l'uno  dal- 
l' altro  e  non  meno,  perchè  le  viti  possano  durare  maggior  tempo; 
con  minori  distanze  vi  sarebbe  a  temere  l' invecchiamento  precoce. 
Le  talee  si  piantino  mediante  uno  speciale  foraterra,  rappresentato 
dalla  figura  272;  ove  A  indica  il  foraterra  a  guisa  di  tubo,  cioè 
vuoto,  e  B  un  ago  di  ferro  che  si  spinge  nella  sabbia  dopo  averlo 
collocato  entro  il  foraterra  colla  punta  conficcata  nella  estremità  in- 
feriore della  talea.  Spingendo  il  tubo    nel  terreno  si  guida   la  talea 


(1)  Voyage  botanìque  et  agronomìque  dans  les  départements  du  sud-ouest. 

(2)  Étude  des  vignobles  de  France,  voi.   1,  pag.  361. 

(3)  Al  podere  Rettinella  (presso  Adria)  dei  Conti  Papadopo li  diretto  dal  signor 
Carlo  Bisinotto. 


730 


CAPITOLO  XXII 


alla  voluta  profondità,  indi  con  una  mano  togliesi  il  foraterra  A, 
mentre  coli'  altra  si  tien  fermo  1'  ago  B  per  impedire  alla  talea  di 
risalire:  dopo  si  leva  anche  1'  ago,  comprimendo  la  sabbia  attorno 
alla  talea  stessa.  Questa   dovrà  avere   una  sola  gemma  fuori  terra, 


l 


B 


Fig.  272. 


la  qual  gemma  è  necessario  ricoprire  con  sabbia  per  ritardarne  lo 
sviluppo,  e  fare  sì  che  non  anticipi  su  quello  delle  gemme  inferiori. 
Al  primo  anno  non  occorrono  sostegni;  al  secondo  si  darà  ad  ogni 
pianta  un  tutore  (paletto  o  canna)  e  si  potrà  poi  educare  la  vite 
o  ad  alberello  o  a  piramide  o  alla   Guyot-Boschiero  e  via  dicendo. 


§  21.  Coltura  delle  viti  a  cordoni  strisciali  ti,  ossia  a  spal- 
liera orizzontale  bassa  (Chain tres).  —  Le  viti  en  Chaintres  (1) 
si  devono  ad  un  contadino  di  Chissay  (2)  chiamato  il  pére  Benys, 
celebrato  da  scrittori  francesi  con  apposite  monografie,  nelle  quali 
si  decanta,  fors'anche  con  esagerazione,  il  sistema  da  lui  ideato;  noi 
crediamo  che    queste    viti    possano    chiamarsi    cordoni   striscianti, 


(1)  A  nostro  avviso  Chaintres  è  una  contrazione  di  Chaines  trainantes,  cioè 
catene  o  cordoni  striscianti.  (Anche  in  Piemonte  i  tralci  frutticosi  chiamansi  ca- 
tene, chene). 

(2)  Presso  Montrichart  (Loire-et-Cher). 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


731 


oppure  spalliere   orizzontali   basse,  e  ciò   apparirà  evidente   dalla 
descrizione  che  ci  accingiamo  a  farne. 

La  figura  273  ci  rappresenta  una  pianta  di  vite  en  Chainti  es  in 
piena  fruttificazione;  le  singole  piante  vogliono  essere  molto  distanti 


Fie  273. 


una  dall'  altra,  e  così  da  4  a  6  metri  tra  fila  e  fila,  e  da  2  a  3 
metri  tra  pianta  e  pianta.  Le  branche  madri,  da  cui  partono  i  capi 
a  frutto,  si  fanno  quindi  strisciare  orizzontalmente  al  terreno,  soste- 
nendole però  con  paletti  biforcati  lunghi  30  a  40  centimetri:  come 
si  vede  abbiamo  una  vera  spalliera  orizzontale  molto  bassa,  ed  è 
per  questo  che  abbiamo  collocato  il  sistema  en  Chaintres  in  questo 
capitolo  dedicato  esclusivamente  alla  vite  bassa. 

Il  piantamento  può  farsi  nei  solchi  aperti  coll'aratro  (come  operava 
il  pére  Denys  o  meglio  nelle  fosse  (come  fanno  oggi  i  suoi  imita- 
tori) dando  ad  esse  la  profondità  di  0m,60  e  la  larghezza  di  1  metro. 
In  fondo  alle  fosse  si  pongono  fascine  e  terra  in  guisa  da  alzarne 
il  fondo  sino  a  25  centimetri  circa,  indi  piantansi  le  barbatelle  o  le 
talee,  potandole  a  2  occhi  fuori  terra.  (È  bene  preferire  quelle  va- 
rietà di  viti,  le  quali  prediligono  la  potatura  lunga).  I  getti  lasciansi 
crescere  liberamente;  l'anno  dopo,  nell'inverno,  si  pota  a  due  gemme 


732  CAPITOLO  XXII 


il  più  bello  e  più  basso,  gli  altri  si  sopprimono.  Al  secondo  anno  si 
pota  nello  stesso  modo:  però  al  terzo  anno  il  getto  più  bello  e  più 
basso  si  pota  lungo  circa  un  metro,  mentre  gli  altri  si  tolgono  tutti. 
Nello  stesso  tempo  si  fa  l'accecamento  delle  gemme,  come  col  sistema 
Vannuccini,  per  un  tratto  di  70  centim.  di  lunghezza  del  tralcio  po- 
tato lungo  un  metro,  lasciandogli  così  le  sole  gemme  della  estremità, 
cioè  del  rimanente  tratto  di  0m,30:  si  debbono  lasciare  intatti  a  poco 
presso  i  soli  tre  occhi  estremi.  È  facile  intendere  che  così  operando 
non  è  possibile  che  si  formino  dei  nodi  lungo  il  tralcio,  che  deve 
divenire  la  futura  branca  madre,  onde  esso  si  serba  assai  pieghe- 
vole e  non  si  rompe  spostando  la  vite  per  operare  i  lavori  cultu- 
rali nel  vigneto.  Volendosi  avere  due  branche  madri,  si  dovrà  la- 
sciare due  di  siffatti  tralci  alla  terza  potagione;  quasi  nessuno  però 
alleva  più  di  due  branche  (fig.  273). 

In  questi  primi  anni  si  deve  dare  un  tutore  alla  vite;  i  getti  delle 
tre  gemme  non  accecate  si  piegano  ad  arco,  nel  maggio,  nel  filare 
stesso,  e  così  si  lasciano  durante  Y  estate.  Al  quarto  anno  il  getto 
di  mezzo  si  sopprime,  gli  altri  due  si  lasciano  intatti. 

L'ultimo  (B  fig.  274)  serve  a  prolungare  la  giovine  branca  madre, 
l'altro  (A  fig.  274)  si  spunta  leggermente;  si  avverta  poi  nella  pri- 
mavera successiva  a  sopprimere  tutti  i  pampini  che  non  portano  uva, 


Kiy:.  274. 


nonché  (in  estate)  tutti  i  getti  ghiottoni  che  nascono  sul  ceppo  e 
sulla  giovine  branca  madre.  Al  quinto  anno  il  ramo  A  scompare  sino 
al  disopra  del  getto  più  basso  locato  su  di  esso,  che  si  lascierà  come 
capo  a  frutto,  e  cosi  si  farà  negli  anni  successivi,  come  se  quel 
punto  fosse  una  pianticella  separata  dalle  altre;  cosa  che  del  resto 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA 


733 


si  pratica  in  pressoché  tutte  le  nostre  vigne.  Del  ramo  B  (fig.  275) 
il  getto  terminale  si  raccorcia,  gli  altri,  0,  2,  3,  4,  ò,  (fig.  275)  si 
sopprimono   all'  eccezione  d' uno    posto  dalla  parte    opposta  a  quello 


Fig.  275. 


lasciato  alla  base  del  ramo  A  (a  40  o  50  centimetri  dal  medesimo) 
e  anch'esso  si  raccorcia  un  poco.  Si  avranno  cosi  tre  capi  a  frutto 


Fig.  276. 


(fig.  276)  che  metteranno  molti  pampini  e  daranno  molt'uva.  Durante 
l'estate  si  potranno  liberare,  colla  scacchiatura,  dai   getti   inutili  e  i 


734 


CAPITOLO   XXII 


più  alti  fra  i  rami  frutticosi  si  potranno  cimare  (il  che  però  non  si  fa 
a  Chissay)  per  favorire  lo  sviluppo  del  più  basso  locato  in  ognuno  di 
essi  e  che  si  dovrà  lasciare  a  frutto  l'anno  dopo.  Cosicché  alla  sesta 
potagione  tutto    ciò  che    sarà  posto    al  disopra    di  questi    due  getti 


irte.  277. 


sarà  tolto,  mentre  si  lascierà  intiero  —  però  colla  solita  raccorciatura 

—  il  solo  getto  terminale  per  prolungare  la  branca  madre.  Si  avrà 
così  un  altro  capo  a  frutto  ed  in  tutto  quattro  a  vece  di  tre  (fi- 
gura 277). 

Si  continua  allo  stesso  modo  negli  anni  successivi  allevando  —  a 
misura  che  si  prolunga  questa  branca  madre  —  dei  nuovi  capi  a 
frutto,  a  40  o  50  centimetri  un  dall'altro  e  or  di  qua  or  di  là  della 
medesima  e  così  alternandoli  appunto  come  si  vede  nella  figura  277 

—  o  meglio  nella  fig.  273. 

A  10  o  12  anni  si  sarà  raggiunta  la  lunghezza  eguale,  poco  su  poco 
giù,  alla  distanza  delle  file,  che  dicemmo  essere  di  4  o  6  metri,  ed  il 
suolo  sarà  pressoché  intieramente  coperto.  Allora  il  getto  terminale 
non  si  dovrà  allungare  di  più  e  si  tratterà  come  i  capi  a  frutto  la- 
terali, troncandolo  cioè  alla  sua  base  ogni  anno  e  lasciando  ivi  per 
l'anno  dopo,  al  suo  posto,  il  più  basso  locato  per  servir  da  capo  a 
frutto. 

Molti  ora  trasformano  le  antiche  vigne  in  vigne  en  Chaincres,  al- 


SISTEMI  SPECIALI  DI  EDUCARE  LA  VITE  BASSA  735 


levando  un  getto,  il  più  basso  locato  possibile,  per  farne  la  branca 
madre  e  svellendo  poco  per  anno  le  piante  più  vicine  se  troppo  fìtte 
tra  le  file  e  nelle  file  sino  alla  distanza  voluta  dai  Chaintres. 

I  piccoli  sostegni  biforcati  vogliono  essere  circa  3  per  capo  a  fratto; 
al  quarto  anno  ne  occorrono  circa  2400  ad  ettare,  e  quando  la  vite 
è  in  pieno  sviluppo,  12  mila,  del  valore  di  L.  6  ogni  mille;  siccome 
la  durata  di  essi  è  calcolata  in  media  a  4  anni,  così  la  spesa  an- 
nuale a   Chissay  è  valutata  appena  a  20  lire  Tettare. 

I  paletti  tolgonsi  dalla  vigna,  tutti  gli  anni,  nell'  inverno;  appena 
finita  la  potatura  e  quando  le  branche  madri  sono  liberate  dai  so- 
stegni, si  sollevano  e  si  distendono  lungo  il  filare,  cosicché  è  poi 
possibile  lavorare  lo  interfilarc  coli'  aratro:  è  così  che  si  opera  a 
Chissay.  Coloro  che  hanno  adottato  il  sistema  en  Chaintres,  asse- 
riscono che  esso  non  impedisce  menomamente  la  caccia  alle  male 
erbe  né  le  operazioni  della  potatura  verde:  noi  ne  abbiamo  intrapreso 
Tesperimento  soltanto  nel  decorso  anno  col  Cabernet,  onde  per  ora 
nulla  possiamo  dire  a  conferma  di  quanto  leggesi  nei  libri  francesi  fra 
cui  quello  dello  stesso  Dr.  Guyot,  il  quale  è  entusiasta  del  sistema 
in  quistione  (1). 

Ci  limiteremo  quindi  ad  accennare  al  vigneto  a  cordoni  stri- 
scianti del  signor  Monpouet,  il  quale  dicesi  produca  175  ettolitri  di 
vino  ad  ettare,  e  di  ottimo  vino;  questo  e  gli  altri  vigneti  si  con- 
cimano moderatamente,  a  preferenza  con  concimi  chimici  a  base  di  fo- 
sfati e  potassa  come  asseverano  l'abate  Frandin  ed  il  Prof.  Bernard; 
la  concimazione  si  pratica  dopo  la  caduta  delle  foglie.  La  Società 
degli  Agricoltori  di  Francia  tenne,  alcuni  anni  or  sono,  una  ap- 
posita seduta  per  discutere  sui  pregi  e  sui  difetti  delle  viti  en  Chain- 
tres', leggendo  il  sunto  di  quelle  discussioni,  alle  quali  presero 
parte  valenti  viticultori  che  già  adottarono  il  sistema  in  discorso,  non 
si  può  a  meno  di  concludere  raccomandando  si  facciano  anche  in 
Italia  dei  saggi  come  già  vennero  fatti,  con  ottimo  esito,  persino  in 
Algeria,  tanto  più  perchè  all'atto  pratico  molte  difficoltà  che  si  affac- 
ciano alla  mente  del  viticultore  leggendo  la  descrizione  del  sistema, 
scompaiono  o  si  attenuano  di  molto. 


(1)  «  Le  viti  en  Chaintres  (dice  l'eminente  scrittore)  sono  l'ultima  parola  della 
filosofia  della  vegetazione,  della  fecondità  f-  della  longevità  delle  vigne,  di  cui 
esse  ne  offrono  la  più  alta  espressione  »  (Op.  cit,  voi.  2°  pag.  707). 


CAPITOLO  XXIII 


Vigneti  specializzati  e  vigneti  misti, 


§  1.  La  nostra  professione  di  fede  —  §  2.  Danni  che  recano  alla  vite  le  colture 
dell'interfilarc  —  §  3.  Danni  che  la  vite  reca  alle  colture  dell'interfilarc  — 
§  4.  La  vite  consociata  alle  patate  —  §  5.  La  vite  consociata  alle  piante  fo- 
raggiere a  lungo  fittone  —  §  6.  Consociazione  della  canapa  coi  filari  di  vite 
nel  Bolognese  —  §  7.  La  vite  consociata  ai  carciofi  nei  dintorni  di  Roma  — 
§  8.  In  quali  condizioni  si  può  ammettere  la  coltura  promiscua  —  §  9.  Ob- 
biezioni alla  vite  specializzata  —  §  10.  La  specializzazione  ed  i  patti  colonici 
—  §11.  Conclusione. 

§  1.  La  nostra  professione  di  fede.  —  L'illustre  agronomo 
britanno  Arturo  Young  traversava  negli  anni  1787-89  il  Veronese 
ed  il  Vicentino,  e  vedendo  quelle  estese  regioni  tutte  coperte  di  viti 
maritate  ad  aceri  e  ad  olmi,  dicesi  che  abbia  esclamato:  «  Che  in- 
venzione! concimare  degli  aceri  e  poi  obbligare  il  grano  a  crescer  sotto 
la  loro  ombra  !  »  Il  padre  dell'agricoltura  inglese,  l'uomo  la  cui  fama 
riempì  l'Europa  agricola  e  giunse  sino  alle  estreme  solitudini  dell'A- 
merica, non  pronunziava  mai  giudizii  alla  leggera;  era  osservatore 
scrupolosissimo,  e  nelle  relazioni  dei  suoi  viaggi  in  Italia,  in  Francia, 
in  Spagna,  si  dimostrò  amatore  costante  del  vero,  anche  a  costo  di 
rendersi  impopolare.  In  Italia  era  ammiratore  del  sistema  lombardo 
d'irrigazione,  e  lodò  anche  assai  la  coltura  asciutta  specialmente  della 
cosi  detta  isola  tra  V  Adda  e  il  Brembo.  Orbene,  per  i  nostri  sistemi 
di  viticultura  promiscua  non  ebbe  che  un  mordace  sarcasmo. 

Accettata  la  censura  di  Arturo  Young,  si  viene  a  dare  una  severa 
condanna  della  viticultura  di  intiere  provinole   italiane.   Quasi   tutto 


VIGNETI  SPECIALIZZATI  E  VIGNETI  MISTI  737 

il  Veneto  e  l'Emilia  vi  sarebbero  compresi,  vi  sarebbero  compresi  il 
Vigevanese,  la  Bnanza,  il  Biellese,  la  Savoja,  la  Toscana,  le  Marche, 
l'Umbria  e  altre  provincie  dell'Italia  media  e  meridionale.  Che  più! 
Sotto  un  certo  aspetto  non  andrebbero  illesi  neanche  i  circondarii  in 
cui  la  coltivazione  della  vite  è  più  intensiva  e  più  razionale,  e  nei 
quali  pure  sono  rarissimi  i  viticultori  che  accettino  la  specializzazione 
nel  senso  più  rigoroso  della  parola.  In  generale  anche  tra  i  filari 
delle  viti  sostenute  da  palo  secco  o  da  canne  si  sogliono  coltivar 
grano,  granturco,  baccelline,  patate  ecc. 

Ma  si  può  egli  dire  che  Arturo  Young  fosse  perfettamente  nel 
vero?  In  altre  parole,  la  vera  specializzazione  della  vite  è  essa  pos- 
sibile e  consigliabile  per  tutti  i  climi,  per  tutte  le  esposizioni,  per 
tutti  i  sistemi  di  coltura  e  di  condizione  dei  fondi  ora  esistenti  nella 
nostra  Italia? 

La  specializzazione  è  quel  principio  pel  quale  una  coltura  deve 
stare  sola  nel  modo  più  assoluto.  —  Nessuna  consociazione  è  am- 
messa, e  ciò  perchè  altre  piante  non  tolgano  a  quella  che  noi  vo- 
gliamo coltivare  e  massimamente  sfruttare  i  principii  nutritori,  per 
impedire  l'ombreggiamento  e  la  scarsa  circolazione  dell'aria,  per  e- 
seguire  con  maggior  comodità  e  cura  i  lavori  necessarii,  per  som- 
ministrare quei  concimi  che  a  quella  data  coltura  sono  più  confa- 
cienti.  In  generale  questa  definizione  è  ammessa,  ed  è  ammesso  in 
viticoltura  ed  accettato  senza  discussione  il  principio  che  chiama  la 
vite  specializzata  una  condizione  per  raggiungere  i  prodotti  più  alti. 
Dice  il  Cìnelli:  «  la  verità  di  questo  principio  scientifico,  che  ha 
per  base  fatti  veri  e  pratici,  non  può  alcuno  disconoscerla  e  trascu- 
rarla »  (1). 

Abbiamo  ricordato  il  Cimili  essendo  egli  uno  fra  i  più  strenui  di- 
fensori dell'attuale  sistema  di  viticoltura  promiscua  nella  Toscana. 
L'aver  egli  accettata  la  specializzazione  come  un  vero  principio  scien- 
tifico dell'economia  rurale  ci  dispensa  dal  mettere  innanzi  l'opinione 
d'altri  autori,  che  formano  una  schiera  compatta,  autorevole  per  la 
dottrina  e  pel  numero,  a  sostenere  le  viti  specializzate  e  le  viti  non 
maritate  ad  albero. 

Il  Prof.  Cinellì  e  quelli  che  la  pensano  come  lui,  (citiamo  il  Ga- 
lanti, il  Mazzini,  ed  altri  che  scrissero  su  questo  argomento)  una 
volta  enunciato  ed  accettato  il  principio  si  affrettano  ad    accampare 


(1)  Quanto  costa  l'uva  ed  il  vino?  Studii  di  0.  Cinelli  pag.  432. 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  48 


738  CAPITOLO  XXIII 


l'eccezione,  e  l'eccezione  è  di  tal  gravità  per  essi  da  far  loro  scor- 
dare ed  abbandonare  il  principio  stesso.  Così  essi  s'inchinano  alla 
necessità  della  vigna  non  specializzata.  La  teoria  —  dicono  —  sa- 
rebbe buona,  ma  la  pratica  non  ci  corrisponde.  Dunque  releghiamo 
la  specializzazione  nei  trattati,  ma  conserviamo  le  nostre  alberate,  i 
nostri  testucchi,  i  matrimonii  di  Bacco  con  Cerere  e  via  via.  Nelle 
nostre  condizioni  speciali  l'attuale  sistema  non  si  può  mutare  senza 
danno. 

A  procedere  ordinati  nello  svolgimento  di  questo  difficile  capo  e- 
numereremo  gli  appunti  principali  che  si  fanno  alla  vite  non  specia- 
lizzata, riassumeremo  in  seguito  le  ragioni  accampate  da  coloro  che 
reputano  la  vera  specializzazione  quasi  sempre  impossibile,  e  d'ognuna 
di  queste  faremo  un  esame  spassionato,  opponendovi  poi  una  breve 
risposta.  Poiché  noi  —  dichiariamolo  senz'altro  —  per  principio  siamo 
seguaci  della  specializzazione  e  se  non  vogliamo  escludere  quei  casi 
in  cui  essa  non  è  possibile,  crediamo  tuttavia  che  tali  casi  non 
siano  molto  frequenti  e  che  molte  fre  le  obbiezioni  che  alla  specia- 
lizzazione si  fanno  possano  con  facilità  essere  rimosse. 

§  2.  Danni  che  recano  alla  vite  le  colture  dell'interfilarc 

—  Diceva  Guyot  che  «  la  vicinanza  delle  piante  erbacee  altera  i 
succhi  dei  frutti  rendendo  questi  più  acidi  e  fiacchi»;  e  altrove  «la 
vicinanza  dei  foraggi  cagiona  la  colatura  delle  viti  nei  bottoni  e  nei 
fiori;  »  e  in  altro  luogo  poi:  «  le  mal'erbe  fanno  marcire  un  terzo 
dell'uva  (1). 

Della  verità  di  queste  asserzioni  nessuno  dubiterà,  essendo  ben  noto 
il  principio  che  una  fra  le  operazioni  più  importanti  per  la  vite  è  quella 
di  tener  soffice  e  monda  la  terra.  Si  dice  e  con  ragione  che  chi 
zappa  la  vigna  in  agosto  la  cantina  riempie  di  mosto;  ma  come 
si  può  introdurre  nelle  vigne  la  zappa,  l'aratro  e  l'estirpatore  se  gli 
interfilari  sono  occupati  dalle  altre  colture?  Queste  faranno  nella  vigna 
lo  stesso  malefico  effetto  delle  mal'erbe,  toglieranno  a  lei  il  nutri- 
mento, e  non  permetteranno  che  si  dia  aria  al  terreno  nella  stagione 
appunto  più  soggetta  al  seccume.  È  verissima  anche  l'altra  asser- 
zione del  Guyot,  che  cioè  le  colture  dell'interfilarc  e  gli  alberi  della 
vigna  favoriscono  la  colatura  (ed  anche  la  càscola),  perchè  nelle  pri- 


(1)  V.   Vignobles  de  France.  Voi.  I,  pag.  519.  587  e  voi.  II,  pag.  714. 


VIGNETI  SPECIALIZZATI  E  VIGNETI  MISTI  739 

mavere  umide  ombreggiando  e  coprendo  il  terreno,  lo  conservano 
per  maggior  tempo  umido  e  freddo. 

Un  altro  svantaggio  lo  vediamo  pure  nella  cattiva  divisione  dei  lavori 
a  cagione  delle  cure  che  richiedono  le  coltivazioni  secondarie.  Certe 
operazioni  di  essenziale  utilità  per  la  vite,  come  la  cimatura,  la  scac- 
chiatura,  o  non  si  fanno  o  si  fanno  male.  Ed  infine  durante  l'estate 
si  urtano  in  mille  modi  i  pampini  colle  gambe,  colla  schiena,  coi  buoi, 
coi  carri,  ritardando  così  ed  inceppando  la  maturanza  delle  uve.  Arature 
e  zappature  estive  negli  interfìlari  e  nelle  prode  non  se  ne  possono 
fare,  e  ciò  nuoce  non  solo  al  prodotto  pendente  ma  al  futuro,  perchè  i 
bottoni  dei  tralci  e  degli  speroni  legnosi  mal  nutriti  si  fanno  poco  fe- 
condi. In  sostanza,  pressati  da  altri  lavori  si  trascura  la  vigna  nel 
momento  appunto  in  cui  essa  ha  più  che  mai  bisogno  dell'opera  no- 
stra. Nella  stagioue  in  cui  essa  ha  maggiormente  bisogno  d'umido 
noi  glie  lo  togliamo  in  tutti  i  modi.  Ogni  chilogramma  di  rugiada 
di  cui  il  suolo  non  trae  profitto  quando  si  tralascia  di  renderlo  sof- 
fìca  e  poroso,  ogni  chilogramma  d'acqua  che  quotidianamente  sper- 
dono coll'evaporazione  le  colture  erbacee  e  le  mal'erbe,  rappresenta 
tanti  litri  di  vino  che  si  raccoglieranno  di  meno. 

E  non  solo  gli  acini  non  si  ingrossano,  ma  l'uva  riesce  meno  ricca 

di  mosto,  come  avemmo  a  provare  noi  stessi  in  uno  sperimento  nel 

quale  confrontammo  l'uva  raccolta  in  filari  specializzati  con  quella  di 

filari  entro  a  cui  era  stato  coltivato  il   frumento.  Dunque  si  scapita 

non  solo  nella  quantità  ma  anche  nella  qualità. 

Dove  poi  si  marita  la  vite  al  sostegno  vivente,  nei  terreni  a  ca- 
napa ricchi  di  materie  azotate,  si  hanno  uve  talvolta  in  gran  copia, 
è  vero,  ma  talmente  ricche  di  albuminoidi  che  i  loro  vini  non  giun- 
gono mai  ad  oltrepassare  l'estate. 

Altri  fatti  che  non  sfuggono  all'occhio  dell'osservatore  sono  quello 
che  la  brina  coglie  di  preferenza  le  viti  non  zappate,  ingombre  di 
mal'  e^be,  o  vicine  a  prati  ed  a  cereali;  quello  che  le  colture  degli 
interfìlari  chieggono  molto  concime,  mentre  escludendole  si  potrebbe 
concentrarlo  sui  prati;  quello  infine  che  esse  diminuiscono  d'un  quinto, 
d'  un  quarto,  d'  un  terzo,  il  prodotto  delle  viti,  e  in  questo  le  cifre 
tolte  a  molte  regioni  italiane  non  si  possono  mettere  in  dubbio. 

§  3.  Danni  che  la  vite  reca  alle  colture  dell'  inter filare. 

—  Se  volgiamo  lo  sguardo  alle  nostre  migliori  regioni  viticole,  se 
domandiamo  ai   pratici,  se   consultiamo  gli   autori,  vi    troveremo  in 


740  CAPITOLO  XXIII 


grande  maggioranza  i  seguaci  della  specializzazione.  Nel  Barese  «  dove 
si  lascia  vegetar  la  vite  sgombra  da  ogni  vegetazione,  essa  dà  ottimi 
risultati,  dove  poi  si  ha  la  smania  di  piantare  nei  vigneti  l'ulivo,  il 
mandorlo,  il  fico  e  tutti  gli  alberi  da  frutta,  non  esclusa  la  semina 
dei  cereali,  si  fa  un  cattivissimo  ricolto  dalle  viti,  dagli  ulivi  e  dagli 
altri  alberi  »  (1).  E  che  il  danno  sia  reciproco,  si  capisce  di  leg- 
geri. Scalzate  le  viti  nel  novembre  o  dicembre,  potate,  mettete  le 
canne,  tirate  il  fìl  di  ferro,  legate,  scortecciate,  date  il  vetriolo  verde 
ai  ceppi,  ecco  tante  operazioni  che  torneranno  tutte  a  danno  del  po- 
vero seminato;  e  questo  sino  a  che,  venuta  la  primavera,  si  fa  poi 
un  cambio  tra  l'agente  e  il  paziente.  La  pecora  si  fa  lupo  e  procura 
all'antico  oppressore  i  danni  che  già  abbiam  detto!  E  quando  poi  a 
disputarsi  il  nutrimento  vi  è,  oltre  alla  vite  e  ai  cereali,  anche  il 
sostegno  vivo,  le  colture  sottostanti  si  trovano  nelle  condizioni  più 
misere  che  mai.  Sotto  gli  alberi  le  piante  panifere,  frumento,  orzo  e 
granturco,  soffrono  l'umido  e  tardano  a  maturare.  Ma  venuti  poi  i 
grandi  calori  l'albero  toglie  con  forza  l'umido  al  suolo,  e  il  cereale, 
il  granturco  specialmente,  benché  posto  all'ombra  soffre  poi  i  danni  del 
secco.  Sotto  i  gelsi,  i  noci,  gli  olmi,  le  viti,  si  vede  infatti  a  giugno 
il  frumento  ancora  molto  addietro,  mentre  più  tardi,  cioè  in  luglio 
e  agosto,  il  granturco,  se  l'anno  corre  secco,  vi  immiserisce  e  secca. 

§  4.  La  vite  consociata  alle  patate.  —  Una  fra  le  colture 
più  dannose  alla  vite  è  quella  della  patata  (pomo  di  terra).  Eppure 
dal  Veneto  al  Napoletano  molti  persistono  nell'associare  alla  preziosa 
ampelidea,  la  tuberacea,  ghiotta  appunto  di  quei  sali  alcalini  e  spe- 
cialmente di  potassa,  che  sono  indispensabili  alla  vite.  Fra  gii  altri  che 
condannano  questa  consociazione  havvi  il  Prof.  Comes,  nel  suo  studio 
Sul  marciume  delle  radici  e  sulla  gommosi  della  vite.  Egli  vede 
nella  difettosa  consociazione  d'altre  piante  alla  vite  una  delie  cause 
che  inducono  alterazione  e  gommosi  nelle  radici.  Disse  egli  parlando 
della  provincia  di  Napoli: 

«  Qui  si  sogliono  d'ordinario  consociare  nei  vigneti  altre  piante, 
fra  le  quali  segnatamente  quelle  che  hanno  bisogno  di  letame.  Ora, 
se  il  letame  che  si  somministra  nei  vigneti  fosse  ben  fermentato  o,  come 
si  dice,  maturo,  di  certo  la  vite,  lungi  dal  soffrire,  ne  avvantagge- 
rebbe; ma  se  questo  letame  è  immaturo,  continuando  a   fermentare 


(1)  V.  Il  Coltivatore,  voi.  XII,  pag\  318. 


VIGNETI  SPECIALIZZATI  E  VIGNETI  MISTI  741 

sotterra,  deve  aggravare  la  malsania  delle  radici  e  indurvi  un  più 
rapido  disfacimento.  Quel  che  poi  riesce  sommamente  dannoso  ai  vi- 
gneti è  la  coltivazione  di  quelle  piante  che  hanno  bisogno  di  molti 
sali  alcalini,  come  le  patate.  Ed  invero,  tali  piante  assorbono  dal  ter- 
reno a  preferenza  quei  sali  che  sono  indispensabili  alla  vite.  Quindi 
se  la  vite  è  debole  per  diminuito  assorbimento  dal  terreno  e  per  de- 
generazione gommosa,  la  coltivazione  delle  piante  concimate  nel  vi- 
gneto l'aiuta  a  ben  morire.  » 

§  5.  La  vite  consociata  alle  piante  foraggiere  a  lungo 
fittone.  —  Lo  sviluppo  preso  in  questi  ultimi  anni  dalla  coltura  dei 
foraggi  è  una  fra  le  principali  cause  del  poco  reddito  delle  viti  in  va- 
rie regioni  italiane.  Noi  crediamo  che  i  prati,  specialmente  quelli  da 
vicenda,  siano  la  coltura  meno  consociabile  alla  vite.  Scrive  il  pro- 
fessore F.  Viglietto  nelle  sue  applaudite  Conferenze  di  viticoltura: 
«  Anche  quando  si  lasciano  libere  due  colmiere  per  ogni  lato  del  fi- 
lare, ciò  che  non  si  fa  quasi  mai,  riesce  enorme  la  sottrazione  di 
materiali  indispensabili  alla  vite  che  si  appropriano  questi  foraggi. 
Quando  poi  viene  il  momento  di  romperli,  moltissime  radici  che  a- 
vevano  potuto  formarsi  ed  ingrossare  ad  una  profondità  accessibile 
all'aratro,  vengono  malamente  lacerate  e  divelte  :  di  più  la  vegeta- 
zione erbacea,  coprendo  la  superfìcie,  la  mantiene  più  umida  e  meno 
riscaldarle  di  quello  che  potrebbero  influire  le  altre  colture  (1). 

Le  piante  foraggere  medica  e  trifoglio,  per  la  lunghezza  del  fìttone 
vanno  a  sfruttare  il  terreno  negli  strati  meno  superficiali,  togliendo 
evidentemente  il  nutrimento  alla  vite.  Nel  giornale  II  Coltivatore  è 
raccontato  l'esempio  di  un  bravo  viticultore  pratico  Monferratese,  il 
quale  avendo  posto  il  trifoglio  biennale  in  mezzo  ad  alcuni  filari  di 
vite  larghi  sei  metri,  e  dal  quale  raccolse  anche  il  seme,  recò  tanto 
danno  a  queste  che  per  otto  anni  di  seguito  non  poterono  riaversi 
del  male  patito  (2).  Il  citato  prof.  Viglietto  afferma  che  la  medica 
è  la  pianta  che  più  di  tutte  le  altre  erbe  danneggia  la  vite.  E  la 
danneggia,  oltre  per  le  cause  già  dette,  anche  perchè  impoverisce  il 
terreno  principalmente  delle  tre  sostanze  che  in  maggior  copia  oc- 
corrono anche  alla  vite.  [(v.   Chimica  della  vite,  Capo  V.) 


(1)  Bollettino  dell 'Associazione  agraria  friulana,  1884,  pag.  70. 

(2)  Vedi  //  Coltivatore  voi.  22,  pag.  73. 


742  CAPITOLO  XXIII 


§  6.  Consociazione  della  canapa  coi  filari  di  vite  nel  Bo- 
lognese. —  Ecco  un  altro  bell'esempio  del  danno  reciproco  che  vite 
e  coltura  associata  si  recano  fra  di  loro.  Abbiamo  visto  che  tra  le 
canapaie  si  raccolgono  uve  grasse  i  cui  vini  si  alterano  colla  mas- 
sima facilità  alla  ventura  estate.  Ma  alla  lor  volta  i  filari  nuocciono 
alla  canapa  perchè  d'estate  fanno  sì  che  i  prodotti  del  suolo  rice- 
vano improvvisamente  i  raggi  del  mezzogiorno,  cosicché  l' investi- 
mento della  luce  e  del  calorico  e  il  conseguente  asciugarsi  della  rugiada 
avvenendo  non  per  gradi  ma  all'improvviso,  ne  segue  quello  sviluppo 
di  piante  parassite  cui  si  dà  volgarmente  nome  di  ruggine  o  di 
melarne  (1). 

§  7.  La  vite  consociata  ai  carciofi  nei  dintorni  di  Roma.  — 

Nei  dintorni  di  Roma  troviamo  spesso,  negli  interfilari,  i  carciofi  i  quali 
si  associano  alla  vigna  sin  dal  momento  del  piantamento:  i  carciofi  si 
piantano  ad  1  metro  circa  di  distanza  nell'interfilare  e  talvolta  si  con- 
tinua in  questa  coltura  promiscua,  cioè  col  vigneto-carciofeto,  mentre 
tal'altra  dopo  cinque  anni  circa  si  sopprimono  i  carciofi,  poiché  si  rico- 
nosce allora  che  le  viti  incominciano  a  soffrire.  La  vicinanza  della  città 
di  Roma  rende  molto  proficua  la  coltura  di  questo  ortaggio;  infatti  po- 
nendo che  in  un  ettare  vengano  a  trovarsi,  ed  è  un  minimo,  4000 
piante  di  carciofo  le  quali  diano  un  reddito  netto  di  soli  0,25  caduna, 
si  ha  in  totale  un  benefizio  di  L.  1000.  Senonchè  il  vino  che  si  ottiene 
da  questi  vigneti-carciofeti  vale  circa  un  terzo  di  meno  dell'altro,  a  ca- 
gione del  sapore  speciale  amaro  (di  carciofo?)  che  contrae;  tale  vino  è 
tosto  conosciuto  dai  consumatori,  che  sogliono  chiamarlo  vino  d'orto 
o  vino  di  carciofeto.  Taluni  attribuiscono  questo  sapore  all'uso  del 
letame  che  si  suol  spargere  a  beneficio  dei  carciofi,  e  senza  di  cui 
il  reddito  loro  sarebbe  assai  esiguo:  ma  noi  crediamo  che  si  debba 
invece  attribuirlo  esclusivamente  al  carciofo  stesso,  perchè  il  letame 
di  stalla,  che  in  alcune  provincie  è  molto  usato  pei  vigneti,  non  con- 
ferisce sapore  amaro  al  vino,  ma  lo  rende  solo  più  instabile,  causa 
una  maggior  ricchezza  dell'uva  in  sostanze  azotate. 

Le  circostanze  speciali  del  Suburbio  di  Roma,  nonché  la  buona  usanza 
di  concimare  il  carciofeto,  rendono  proficua  quella  associazione  senza 
detrimento   delle  viti,  e  permettono  di  far  fruttare  maggiormente  il 


(1)  Conte  F.  Bianconcini.  Belle  convenienze  dì  sopprimere  o  no  i  filari  arborei 
vitati  nelle  terre  da  canapa. 


VIGNETI  SPECIALIZZATI  E  VIGNETI  MISTI  743 

terreno,  cosa  di  grande  momento  di  fronte  ai  molti  gravami  che  deve 
oggi  sopportare  l' agricoltura.  Perciò  noi  non  sapremmo  recisamente 
condannare  questa  promiscuità  di  coltura,  massime  se  ridotta  ai  soli 
tre  o  quattro  primi  anni. 

§  8.  In  quali  condizioni  si  può  ammettere  la  coltura  pro- 
miscua. —  Esposti  sommariamente  i  danni  che  derivano  dal  con- 
sociare alla  vite  le  altre  colture,  facciamo  ora  qualche  riserva,  perchè 
non  ci  si  accusi  d'essere  troppo  assoluti  nei  nostri  precetti.  Invero 
chi  volesse  agli  argomenti  da  noi  svolti  contrapporre  l'opinione  di 
qualche  sommo  agronomo,  non  avrebbe  che  ad  aprire  Gasparin,  il 
quale  a  pag.  512  del  volume  terzo  del  suo  Corso  d'agricoltura,  par- 
lando di  queste  consociazioni  dice:  Les  oullières  (così  chiamansi 
in  Provenza  gli  spazii  ed  interfìlari  delle  vigne)  soni  cultivées  al- 
ternativement  en  blé  et  légumes  et  bien  fumées.  Les  vignes  prò- 
fitent  des  engrais  et  des  cultures,  et  le  prodait  de  ce  genre 
mia) te  de  culture  est  très  considérable. 

Premettiamo  che  noi  Italiani  cadremmo  in  non  lieve  errore  ove 
volessimo  accettare  alla  cieca  i  precetti  degli  scrittori  francesi  di 
viticoltura,  per  quanto  portino  nomi  illustri  come  Gasparin.  V  è 
un  altro  francese  illustre,  il  Guyot,  che  percorse  l' intiera  Francia 
viticola  e  dalle  sue  osservazioni  trasse  molti  precetti;  ma  varie  di 
quelle  norme  che  Guyot  diede  in  modo  assoluto  trovano  una  palese 
contraddizione  nei  fatti  che  la  nostra  Italia  presenta.  Scegliamo  un 
esempio  e  scegliamo  quello  che  si  riferisce  al  nostro  argomento. 

Stando  al  Guyot  non  si  dovrebbero  fare  vangature  né  lavorature 
profonde  nelle  vigne.  Ora,  il  meno  osservatore  tra  i  viticultori  delle 
regioni  calde  d'Italia  avrebbe  un'infinità  di  fatti  da  contrapporre  a 
questo  precetto.  Il  Guyot  parve  scordare  che,  se  nei  paesi  freschi 
o  freddi,  dove  un  certo  grado  d'umido  non  viene  mai  meno  al  suolo, 
è  alla  vite  massimamente  necessario  il  calore,  nei  paesi  caldi  invece 
è  somma  necessità  nell'estate  1'  avere  un  po'  di  freschezza  per  la 
cresciuta  e  la  maturazione  dei  frutti  pendenti  e  per  l'elaborazione  dei 
succhi  destinati  a  fecondare  le  gemme  della  futura  vendemmia. 

Dunque,  bando  ai  consigli  troppo  assoluti;  vogliamo  dare  noi  pei 
primi  l'esempio  della  conciliazione  ammettendo  col  Guyot  la  verità 
dei  suoi  precetti,  ma  in  paesi  nordici.  Anche  in  Italia  abbiamo  zone 
viticole  fresche  e  fredde  in  cui  i  consigli  di  Guyot  possono  venire 
accettati,  come  sarebbero  certe  vallatelle  al  nord,  certe  bassure    hi 


'44  CAPITOLO  XXIII 


cui  però  l'acqua  non  stagni,  come  sarebbero  i  versanti  delle  nostre 
Alpi  dove  la  neve  si  fa  vedere  per  buona  parte  dell'  anno.  Ivi  non 
è  1'  umido  che  manchi,  è  il  calore;  ed  ivi  noi  pure  daremmo  con 
Gnyot  il  bando  alle  lavorature  profonde  e  ci  limiteremmo  a  distrug- 
gere le  malerbe  con  ripetute  superficiali  sarchiature.  In  queste  con- 
dizioni di  clima  la  presenza  dei  cereali  (e  perfino  quelle  delle  ma- 
lerbe) nell'interfìlare  fa  sì  che  molt'acqua  giornalmente  si  evapori,  e 
ciò  rende  il  suolo  molto  duro,  onde  si  riscalda  assai,  ed  ecco  rag- 
giunto l'intento,  se  realmente  è  il  calore  che  manchi.  Invero  un 
eccesso  di  vigore  nella  pianta  ed  una  dose  eccessiva  d'umido  nei  mesi 
di  luglio,  agosto  e  settembre  dovuta  al  terreno,  alle  concimazioni, 
alle  estirpature,  si  opporrebbero  alla  perfetta  fecondazione  delle  gemme 
destinate  alla  futura  raccolta. 

Ecco  adunque  che  V  opinione  di  Gasparin,  il  consiglio  di  Gayot 
e  le  obbiezioni  che  ci  potrebbero  fare  molti  pratici,  si  .possono  con- 
ciliare con  quello  che  noi  abbiamo  premesso.  Noi  crediamo  che  la 
coltura  delle  cereali  nell'interfìlare  possa  essere  tollerata  quando  que- 
sti sono  larghi  otto  e  più  metri,  quando  il  terreno  sia  terreno  av- 
vallato, ferace  per  natura  e  fresco,  ed  in  clima  fresco  e  generalmente 
umido  in  maggio  o  nei  primi  di  giugno,  quando  infine  si  tratti  di 
viti  giovani,  vigorose  e  abbondantemente  concimate. 

Non  si  dimentichi  mai  che  la  concimazione  abbondante  è  in  questo 
caso  indispensabile.  Chi  concima  abbondantemente  può  anche  passati 
i  primi  cinque  o  sei  anni,  e  in  un  interfilarc  si  e  nell'altro  no,  semi- 
nare un  foraggio  autunnale  come  veccia,  e  falciarlo  a  maggio  arando 
subito  dopo  il  suolo  ed  estirpatando.  Tuttavia  se  la  distanza  tra  i 
filari  fosse  maggiore  di  5  o  6  metri  gioverebbe  molto  di  più  —  a 
nostro  avviso  —  piantare  un  altro  filare  in  mezzo  anziché  conso- 
ciarvi il  frumento  o  i  foraggi. 

§  9.  Obbiezioni  alla  vite  specializzata.  —  Detto  fino  a  che 
punto  si  possano  conciliare  le  nostre  idee  con  quelle  dei  nemici  della 
specializzazione,  veniamo  ad  altre  obbiezioni  che  costoro  ci  fanno,  ob- 
biezioni però  alle  quali  crediamo  di  poter  vittoriosamente  rispondere. 
Essi  dicono:  si,  la  specializzazione  è  una  cosa  ottima  anche  in  vi- 
ticultura, ma  non  basta  fare  i  calcoli  solo  col  terreno.  Vuol  essere 
considerata  anche  l'atmosfera,  la  quale  ci  presenta  fenomeni  ora  u- 
tili  ora  dannosi  alla  vegetazione.  Quindi  soggiungono:  non  è  consi- 
gliabile lo  applicarsi  solo  ad  una   coltura,    come  ad    esempio   quella 


VIGNETI  SPECIALIZZATI  E  VIGNETI  MISTI  745 

della  vite,  perchè  se  più  annate  di  seguito  corressero  fortunose,  il 
coltivatore,  privo  d'ogni  risorsa,  precipiterebbe  al  fallimento,  mentre 
se  si  coltivano  più  piante,  mancando  il  prodotto  dell'  una  avremo 
quella  dell'altra,  e  si  conclude  che:  almeno  una  delle  due  colture 
frutterà. 

È  giustissimo  che  1'  agricoltore  debba  badare  non  solo  al  terreno 
ma  anche  al  clima  ;  il  principio  della  specializzazione  suona  infatti 
così:  adatta  le  piante  alla  natura  del  terreno  e  del  clima. 

Ma  se  questo  enunciato  è  vero  noi  dovremo  conchiuderne  che 
qualora  il  clima  fosse  soverchiamente  contrario  alla  vite  in  modo  di 
mettere  in  forse  per  lungo  numero  d'anni  il  prodotto  di  questa  pianta, 
allora  non  sarebbe  più  quistione  di  specializzazione  ma  bensì  di  colti- 
vazione. La  coltura  delle  viti  si  lascerebbe  allora  da  parte.  Non  biso- 
sogna  ostinarsi  a  voler  coltivar  vite  dapertutto.  Lo  dice  anche  il  Ga- 
relli, uno  dei  nostri  buoni  autori  di  viticoltura,  alludendo  special- 
mente alle  regioni  fredde  ed  umide.  Parlando  della  pratica  che  vige 
in  certe  piane  dell'Italia  del  Nord  di  slegare  d'  inverno  i  tralci,  di 
abbassarli,  e  coprirli  di  terra  per  ripararli  dai  danni  del  freddo,  sog- 
giunge: «  Bisogna  pur  dire  che  la  necessità  di  questa  pratica  basta 
senz'altro  ad  indicare  che  sì  fatte  regioni  sono  poco  adatte  alla  col- 
tura della  vite,  o  per  lo  meno  che  la  coltivazione  di  essa  economi- 
camente riesce  forse  più  dannosa  che  utile  »  (1).  E  più  sotto  con- 
chiude: «  si  destinino  le  bassure  e  i  luoghi  umidicci  ad  altre  colti- 
vazioni »  (2). 

Se  adunque  in  una  data  località  la  vite  non  ci  cresce  sicura  o 
per  brine  certissime,  o  per  frequenti  grandinate,  o  per  la  natura  dei 
venti,  o  per  le  eccessive  piogge  o  per  la  eccessiva  siccità,  si  abban- 
doni senz'altro  la  vite  e  si  coltivi  altra  pianta  che  meglio  si  adatti 
a  quelle  condizioni  di  clima. 

Ma  lasciamo  pure  a  parte  questi  climi  contrariissimi  alla  vite,  e 
consideriamo  soltanto  quelli  i  quali,  pur  essendo  adatti  in  gene- 
rale alla  vite,  lasciano  però  che  alle  annate  buone  si  frammettano 
annate  cattive,  come  succede  pur  troppo  in  tutte  le  regioni  viticole; 
studiamo  se  anche  in  questo  caso  generale  sia  proprio  necessario 
abbandonare  la  coltura  specializzata  e  coltivare  la  vite  in  mezzo  ad 
altre  colture. 


(1)  Id.  pag.  30. 

(2)  Garelli,  pag.  25. 


746  CAPITOLO  XXIII 


Innanzi  tutto  quando  in  un  dato  paese  si  consiglia  di  specializzare 
nella  coltura  della  vite,  vale  a  dire  di  coltivare  la  vite  sola,  solis- 
sima, senza  alcuna  altra  coltura  promiscua,  non  si  intende  mica  e- 
scludere  dallo  stesso  paese  qualunque  altra  coltivazione.  Non  è  sem- 
pre facile  trovare  un  tratto  di  terreno  di  qualche  estensione  che  si 
presti  unicamente  ad  una  sola  pianta;  nelle  prime  pendici  dei  monti 
e  nelle  colline,  dove  più  specialmente  si  coltiva  la  vite,  per  la  con- 
figurazione topografica  del  suolo  quasi  sempre  avviene  che  nello 
stesso  podere,  anche  non  molto  vasto,  si  trovino  condizioni  tali  non 
solo  da  permettere,  ma  da  imporre  la  coltivazione  di  piante  diverse, 
quantunque  specializzate  ossia  tra  loro  separate. 

Ne  viene  da  ciò  che  si  può  mettere  in  pratica  l'antico  proverbio: 
la  vigna  è  destinata,  a  dar  uva,  uva  dia  e  seguire  nel  medesimo 
tempo  la  massima:  una  delle  due  colture  frutterà. 

Ma  vi  ha  di  più  :  un  proprietario  può  avere  un  terreno  oppor- 
tunissimo  alla  coltura  della  vite,  ed  allora  scapiterebbe  nel  torna- 
conto finale  se  volesse  destinare  speciali  appezzamenti  ad  altre  col- 
tivazioni. Nessuna  coltura  gli  renderebbe  più  della  vite.  Alcuni  di- 
cono: sì,  la  vigna  non  specializzata  rende  meno,  ma  questa  diminuzione 
è  compensata  ad  usura  dai  prodotti  del  frumento,  del  grano  turco, 
delle  civaie,  della  canapa,  della  foglia  e  della  legna  dagli  alberi  frut- 
tiferi che  si  tengono  fra  le  viti.  Ma  è  questa  una  illusione  derivata 
dal  fatto  che  o  non  si  tengono  conti,  o  si  tengono  in  modo  assolu- 
tamente inesatto.  Infatti  si  è  constatato  che  mentre  un  vigneto  a 
filari  distanti  3  metri  e  specializzato  può  dare  almeno  70  ettolitri  di 
vino  ad  ettare,  un  altro  coi  filari  a  6  metri,  ma  con  frumento  e 
civaie  negli  interfilari,  o  con  foraggi,  ecc.,  non  ne  produce  che  30 
pure  ad  ettare.  Vi  ha  dunque  un  minor  prodotto  di  40  ettolitri  di 
buon  vino,  che  valutati  almeno  almeno  a  25  lire  danno  un  totale 
di  1000  lire,  e  (dedotte  tutte  le  spese,  compreso  il  fitto)  un  totale 
netto  minimo  di  500  lire.  Ora  ognun  vede  che  il  prodotto  in  fru- 
mento o  altro  degli  interfilari,  in  verun  caso  può  ascendere  a  500 
lire  di  beneficio  netto  ad  ettare. 

Le  cifre  che  abbiamo  dato  rappresentano  delle  medie;  non  si  potrà 
dunque  dire:  queste  cifre  sono  ottime  ma  potrebbe  sopraggiungere 
una  grandine,  una  malattia,  un  infortunio  qualunque.  No,  perchè  le 
perdite  per  questi  infortunii  sono  già  state  calcolate  nel  formare  le 
medie  suddette. 

E  qui  cadono    in  acconcio    due  osservazioni.    La  prima    è  che  le 


VIGNETI  SPECIALIZZATI  E  VIGNETI  MISTI  747 

male  annate  sono  assai  più  terribili  per  quei  coltivatori  i  quali  con  col- 
tivazioni promiscue  guadagnando  annualmente  poco  sono,  con  uno  o 
due  cattivi  raccolti,  messi  in  rovina;  mentre  i  coltivatori  che  raccol- 
gono molto  possono  far  fronte  alle  annate  cattive  coi  risparmii  di 
quelle  buone.  La  seconda  osservazione  è  questa  che  la  specializza- 
zione permettendo  una  coltura  più  accurata  serve  a  diminuire  i  danni 
delle  mal'annate;  poiché  permette  di  mettere  in  pratica  colla  massima 
cura  tutti  quei  mezzi  che  si  credono  più  ovvii  a  difendere  la  vite 
dalle  avversità  atmosferiche  e  dai  parassiti;  e  quindi  cimature,  rici- 
mature, piegature  dei  tralci,  salassi,  spampinature,  zappature  ecc. 

§  10.  La  specializzazione  ed  i  patti  colonici.  —  I  diversi 
metodi  di  conduzione  dei  fondi  possono  creare  ostacoli  non  indiffe- 
renti all'attuazione  del  principio  della  specializzazione  nelle  nostre 
plaghe  vitifere.  Nei  contratti  di  colonia  la  divisione  del  prodotto  col 
proprietario  può  essere  regolata  per  modo  che  questi  sopprimendo  i 
filari  a  vite  non  farebbe  che  V  interesse  del  colono  a  cui  per  patto 
spettasse  intiero  o  quasi  tutto  il  prodotto  delle  cereali  sottoposte. 
Intanto  il  proprietario  portata  la  vite  in  speciali  appezzamenti  ne  at- 
tenderebbe pazientemente  per  qualche  anno  il  prodotto,  e  il  colono, 
cui  le  cereali  liberate  dall'inopportuna  compagnia  delle  piante  arboree, 
aumenterebbero  il  prodotto,  godrebbe  solo  i  frutti  dell'iniziato  can- 
giamento di  coltura. 

E  dove  regna  la  mezzadria  le  difficoltà  non  sono  minori.  Il  mez- 
zadro vuole  ad  ogni  costo  produrre  di  tutto,  lo  si  direbbe  bloccato 
nel  suo  possesso,  tanto  da  doversi  produrre  anche  quello  cui  a  stento 
il  suolo  può  dargli.  Dice  Cuppari  che  «  in  Toscana  e  in  molti  altri 
luoghi  d'Italia  ove  prevale  il  sistema  di  mezzeria,  il  contadino  vuol 
ritrarre  dal  suolo  la  maggior  varietà  possibile  di  derrate  »  (1)  e  per 
questo  a  grandissimo  stento  lo  si  può  indurre  a  diminuire  il  numero 
dei  suoi  raccolti.  La  varietà  delle  colture  rende  poco  incerto  l'esito 
complessivo  dell'  annata.  È  un'  agricoltura  ben  meschina  questa,  ma 
pure  diversi  scrittori  toscani  accettano  questo  ragionamento.  Fra  gli 
altri  il  Sig.  Mazzini  negli  Atti  dell'  Inchiesta  Agraria,  il  Dottor 
Fonseca  nella  Viticoltura  del  Fiorentino,  il  quale  dice  il  sistema 
indispensabile  nelle  pianure  e  nelle  mezze  coste,  ed  il  Sonnino,  il  quale 
scrive:  «  Questo  (dell'aver  sempre  assicurato  un  prodotto  medio)  è  un 


(1)  Lezioni  d'agricoltura,  voi.  2°. 


748  CAPITOLO  XXIII 


fatto  importantissimo  per  i  mezzadri,  i  quali  difettano  di  capitali  e 
quindi  non  possono  nelle  annate  cattive  aspettar  le  buone,  e  in  queste 
rifarsi  di  quelle  »  (1). 

E  qui  si  presenterebbero  casi  infiniti  ed  esempi  di  tutte  le  regioni 
italiane  in  tal  numero,  che  non  breve  fatica  sarebbe  l'esaminarli  tutti. 
In  generale  però  a  tutte  queste  obbiezioni  si  potrà  rispondere  che 
non  è  necessario  fare  ad  un  tratto  la  trasformazione,  ma  per  gradi, 
sopprimendo  le  vecchie  piantate  man  mano  che  si  aumenta  la  su- 
perfìcie a  vite  specializzata,  e  cercando  nel  frattempo  di  persuadere 
i  coloni,  specialmente  mostrando  loro  l'esito  eccellente  del  nuovo  si- 
stema di  fronte  all'antico. 

§  11.  Conclusione.  —  Ma  ci  pare  ormai  che  a  questo  tema  della 
specializzazione  abbiamo  data  un'  ampiezza  sufficiente  e  presentata  la 
questione  nei  suoi  diversi  aspetti.  Nelle  nostre  conclusioni  procu- 
rammo di  non  essere  troppo  assoluti,  e  questo  teniamo  a  far  notare; 
che  valenti  pratici  d'ogni  parte  d'Italia,  i  quali  scrissero  in  questi  ultimi 
anni  di  viticoltura,  sono  ben  più  severi  di  noi  nel  condannare  la  vite 
promiscua.  Lasciamo  stare  gli  agronomi  illustri,  e  teniamoci  ai  veri 
pratici. 

Basterà  citare  il  Toscanelli,  il  quale  ha  impiantato  vigneti  bassi 
specializzati  in  pianura  nella  sua  tenuta  di  Cava,  nonché  il  Dott.  Gioiti 
e  1' ' Ardinghi,  toscani,  i  quali  se  qualche  corrispondenza  pubblicano 
sui  giornali  agricoli,  fanno  ciò  rubando  un'  ora  di  tempo  alla  vera 
vita  dei  campi:  ebbene,  essi  condannano  recisamente  la  coltura  pro- 
miscua. 

Uno  tra  i  pia  popolari  scrittori  di  viticoltura,  Nane  Castaldo  {Dottor 
Bellati)  dice:  «  conservate  nel  fare  il  vigneto  l'unità  di  luogo.  »  Il  Vi- 
ghetto,,  che  già  abbiamo  citato,  scrive  dal  Veneto  che  la  vigna  vuol 
essere  esclusiva,  e  che  molti  vecchi  pratici  già  riconoscono  i  gravi 
danni  che  portano  alle  colture  annuali  ì  filari  troppo  addossati  (2). 
Il  Prof.  Rosi,  Direttore  d'una  Scuola  agraria  pratica  nelle  Marche, 
dice  che  il  sistema  di  quella  regione  è  falso  perchè  vi  prevale  la 
promiscuità  dei  vitigni  e  il  sistema  specialmente  delle  alberate  asso- 
ciate alla  coltivazione   ordinaria   erbacea  (3).  T.   Carnevale  dall'  e- 


(1)  Donnino.  La  mezzeria  in   Toscana,  pag.  199. 

(2)  Loc.  cit.  pag.  68. 

(3)  Atti  del  Congresso  dei  produttori  di  vino  a  Roma,  pa^ 


VIGNETI  SPECIALIZZATI  E  VIGNETI  MISTI  749 

stremo  Mezzogiorno  d'Italia  scrive  enumerando  tutti  i  danni  della 
vite  promiscua,  e  conchiude  che  in  quelle  regioni  alla  vite  alta  e 
maritata  ad  albero  si  deve  preferire  quella  bassa  specializ- 
zata (1). 

Esistono  adunque  molti  inflessibili  sostenitori  della  specializzazione, 
i  quali  ad  ogni  costo  vorrebbero  separata  la  vite  da  ogni  coltura:  esi- 
stono al  contrario  altri,  che  il  Marconi  (2)  chiama  opportunisti,  i  quali 
combattono  a  tutt'  oltranza  affinchè  V  unione  o  la  consociazione  sia 
mantenuta  ed  estesa.  Fra  questi  noi,  pur  avvertendo  però  che  le 
nostre  simpatie  sono  per  gli  specializzatori,  vogliamo  esser  conci- 
liativi. A  questo  scopo,  a  differenza  d'altri  autori  di  viticoltura,  de- 
dichiamo un  capitolo  alla  coltura  della  vite  maritata  ad  alberi. 
Ne  condanniamo  come  essi  il  principio;  ammettiamo  però  che  in  certe 
piane  essa  possa  tollerarsi,  che  in  taluni  casi  non  si  possa  difendere 
diversamente  la  vite  dai  geli,  e  che  qualche  vitigno  vi  sia  che  mal 
sopporta  la  potatura  dei  sistemi  a  viti  basse,  come  già  avvertimmo 
a  pag.  616;  ammettiamo  infine  che  molti  per  ora  non  possano  o 
non  vogliano  trasformare.  Ecco  ragioni  bastanti  perchè  ci  abbiamo 
ad  occupare  di  questo  tema,  e  studiare  i  modi  di  rendere  meno  in- 
termittente, più  abbondante  e  più  scelto  il  prodotto  delle  viti  mari- 
tate ad  alberi. 


(1)  V.  Agricoltore  Calabro-Siculo  1884,  pag.  283. 

(2)  Marconi.  Saggio  di  economia  rurale,  pag.  267. 


CAPITOLO  XXIV 


Le  viti  maritate  ad  alberi  ed  i  pergolati, 


§  1.  Scelta  dell'albero  —  §  2.  Le  viti  accoppiate  ai  gelsi  e  il  sistema  Castaldis 
—  §  3.  Piantamento  —  §  4.  Cure  nei  primi  anni  —  §  5.  Potatura  e  legatura. 
Disposizione  della  vite  sull'albero  —  §  6.  Sfrondatura  degli  alberi  —  §  7.  Eco- 
nomia nei  sostegni  —  §  8.  L'albereto  Falisco  —  §  9.  Coltura  dei  pergolati. 

§  1 .  Scelta  dell'  albero.  —  Gli  alberi  che  s'  adoprano  come 
sostegno  vivo  delle  viti  sono  aceri,  noci,  ciliegi,  frassini,  gelsi,  pioppi, 
ulivi  ed  altri  molti,  fruttiferi  o  no.  Tra  questi  i  meno  convenienti 
sono:  il  noce,  perchè  fa  troppa  ombra,  ed  infatti  nel  Veneto  lo  si 
va  man  mano  abbandonando,  mentre  prima  vi  era  comunissimo;  l'olmo 
il  quale  in  terre  compatte,  argillose  si  sostituisce  al  pioppo:  ma  esso 
ha  un  sistema  radicale  troppo  sviluppato;  il  frassino  e  il  rovere  per 
la  medesima  ragione.  L'ulivo  ha  una  ramificazione  ampia,  foglie  nu- 
merose e  persistenti,  e  richiede  poi  cure  e  nutrimento,  per  cui  mentre 
sarebbe  di  danno  alla  vite  ne  soffrirebbe  non  poco  dal  canto  suo. 
In  terreni  paludosi  alcuni  maritano  la  vite  al  pioppo,  al  salice,  le 
quali  piante  possono  sopportare  il  terreno  umido;  non  lo  può  per 
altro  la  vite,  la  quale  ben  presto  vi  intristisce.  Gli  alberi  da  frutta 
non  ci  paiono  convenienti,  quantunque  consigliati  dal  sommo  Ridolfi 
nelle  sue  Lezioni  orali,  perchè  «  produrranno  poco,  diceva  egli,  ma 
pur  sarà  qualche  cosa,  mentre  i  sostegni  infecondi  non  fanno  che 
estenuare  la  terra  inutilmente.  »  Senonchè,  salvo  il  rispetto  al  grande 
maestro,  noi  osserviamo  che  i  nostri  comuni  alberi  da  frutta,  peri, 
meli,  susini,  mandorli  estenuano  troppo  il  terreno,  ed  essendo  troppo 
fronzuti  avrebbero  bisogno  di  forti  e  pericolose  potature. 


LE  VITI  MARITATE  AD  ALBERI  ED  I  PERGOLATI  751 

Ci  paiono  adunque  piuttosto  consigliabili  quegli  alberi  il  cui  sistema 
radicale  è  pochissimo  esteso  e  che  poco  possono  sfruttare  il  terreno. 
In  questa  condizione  trovansi  il  ciliegio  selvatico  e  V  acero  che  fu 
chiamato  dal  Gasparin  un  palo  vivente.  L'acero  campestre  (acer 
campestre)  è  molto  meno  sviluppato  neh'  altezza  che  non  gli  altri 
(acer  pseudoplatanus  e  acer  platanoides),  ha  lento  accrescimento, 
si  accontenta  di  terreni  aridi  e  vien  su  anche  dalla  semente.  Ad  ec- 
cezione dei  terreni  tufacei  esso  prospera  ovunque.  Le  pianticelle  sono 
atte  a  porsi  a  dimora  dopo  4  o  5  anni.  L'acero  ha  radici  brevi  e 
poco  profonde  e  facilmente  si  presta  ad  essere  potato  in  diverse 
foggie. 

L'acero  campestre  riceve  diversi  nomi,  secondo  le  provincie  in 'cui 
viene  coltivato  come  sostegno  vivo  delle  viti:  loppo,  chioppo,  fìstucchio, 
testucchio,  stucchio  e  anche  pioppo.  Il  pioppo  dei  contadini  toscani 
non  è  dunque  il  Populus  comune,  anzi  è  noto  che  in  varie  parti 
della  Toscana  i  contadini  sogliono  dare  il  nome  di  pioppo  o  chioppo 
a  qualunque  sostegno  vivo  delle  viti. 

§  2.  Le  viti  accoppiate  ai  gelsi  e  il  sistema  Castaldis.  —  Il 

gelso  è  accoppiato  alla  vite  in  molti  luoghi,  e  ciò  allo  scopo  di  sostituire 
ad  un  albero  quasi  improduttivo  un  altro  che  dia  colla  sua  foglia 
una  qualche  utilità.  In  generale  si  dispone  il  gelso  a  quattro  branche 
a  sostegno  della  vite  tesa  a  festone,  ma  è  chiaro  che  la  vite  tro- 
vando un  pronto  appoggio  allunga  le  sue  cacciate  avvitichiandosi  al 
gelso  e  in  breve  lo  opprime;  e  d'altra  parte  al  momento  della  sfron- 
datura dell'albero  troppa  diligenza  si  richiederebbe  per  non  danneggiare 
i  getti  ancora  fragili  della  vite.  V  ha  però  un  sistema  nel  Veneto 
col  quale  si  accoppia  la  vite  al  gelso,  sistema  premiato,  ed  accettato 
da  molti  viticultori  di  là  come  buono.  È  il  sistema  Castaldis,  il  quale 
permette  alle  viti  di  essere  vigorose  e  annualmente  in  piena  frutti- 
ficazione. Lasciamolo  descrivere  dal  Prof.  Viglietto  che  lo  studiò 
da  presso  nel  Friuli,  e  conchiuse  che  dove  si  è  costretti  ad  allevar 
alta  la  vite,  il  metodo  Castaldis  permette  la  massima  economia  pos- 
sibile. Esso  ha  il  vantaggio  di  tener  le  viti  molto  distanti  dal  gelso, 
di  modo  che  questo  non  le  nuoce  per  la  vicinanza  delle  radici;  i  tralci 
poi  delle  viti  che  danno  frutto  non  restano  molto  ombreggiati,  se  il 
gelso  è  educato  un  po'  a  piramide  piuttosto  che  a  vaso. 

Ecco  come  il   Viglietto  descrive  il  sistema  del  Castaldis. 

«  La  preparazione  del  terreno  anche  il  Castaldis  la  propone  come 


752  CAPITOLO  XXIV 


quella  consigliabile  nella  piantagione  di  filari  distanti,  cioè  fosse  larghe 
circa  2  metri,  profonde  da  70  centimetri  ad  1  metro  e  preparate 
meglio  che  sia  possibile  molto  tempo  prima  di  mettervi  le  viti.  In 
queste  fosse  si  piantano  alla  distanza  di  metri  5  dei  forti  gelsi  di 
circa  tre  anni;  alla  metà  dello  spazio  che  divide  un  gelso  dall'altro, 
e  distanti  fra  loro  mezzo  metro,  si  pongono  delle  barbatelle  vigorose 
in  modo  che  la  loro  riuscita  sia  certa.  Le  cure  nel  primo  e  secondo 
anno  sono  ancora  quelle  generali  indicate  per  gli  altri  sistemi.  Ma 
al  terzo  anno,  se  la  gettata  è  vigorosa,  la  si  dirige  in  modo  che 
incrociandosi  colla  sua  contigua  formi  una  diagonale  indirizzata  verso 
la  prima  biforcazione  del  gelso  che  è  alta  due  metri  da  terra.  A 
questa  biforcazione  si  arriva  al  quarto  o  quinto  anno  a  seconda  che 
la  vite  è  più  o  meno  forte.  » 

«  Lungo  questa  diagonale  si  ottiene  intanto  la  prima  fruttificazione, 
ed  essendo  la  sua  estremità  piegata  in  alto,  la  forza  vegetativa  si 
spinge  verso  questo  punto.  Così  il  ceppo  facilmente  si  allunga  e  lo 
si  può  adagiare  presto  sopra  la  prima  biforcazione  del  gelso. 

Da  questo  punto  i  tralci  si  stendono  orizzontali  fino  a  raggiungere 
un  palo  che  è  a  metà  della  distanza  fra  due  gelsi.  Una  volta  che 
la  vite  è  legata  a  questo  palo  non  la  si  muove  più,  e  le  ordinarie 
potature  si  limitano  a  diradare  ed  a  scegliere  i  tralci  che  sono  sul 
tratto  dal  gelso  al  palo.  Sicché  nell'interspazio  fra  un  gelso  e  l'altro 
avremo  due  ceppi  nudi  che  si  spingono  diagonalmente  sui  gelsi;  e 
sopra  questi  a  circa  metri  1,50  da  terra  una  piccola  pergola  di  tralci 
fruttiferi  ».  (Ballettino  Ass.  FriuL,  n.  19  —  1884.) 

§  3.  Piantamento.  —  È  assolutamente  da  condannarsi  quel 
sistema  di  piantamento  che  consiste  nell'aprire  tante  buche  della  lar- 
ghezza di  1  metro  quadrato  e  profonde  da  70  a  80  cent,  ed  ivi  in- 
torno al  fusto  delle  piante  collocar  le  talee.  Ciò  è  rappresentato 
dalla  fig.  278,  quantunque  non  esattamente  perchè  la  pianta  e  le 
talee  ad  essa  appoggiate  dovrebbero  stare  nel  mezzo  della  fossa  sca- 
vata e  non  appoggiate  ad  uno  dei  lati. 

Si  deve  adunque  nel  piantamento  adottare  o  il  vero  scasso  del- 
l'intiera striscia  su  cui  sorgerà  il  filare,  o  almeno  il  sistema  delle 
fosse.  Queste  si  aprono  alla  fine  di  settembre  o  nell'  ottobre  larghe 
un  metro  e  mezzo  circa  e  profonde  da  70  ad  80  centimetri.  In  To- 
scana, dove  la  vite  coltivata  ad  alberi  è  tutt'altro  che  trascurata,  e 
dove  molti  intelligenti  viticultori  la  studiano  per  sempre  migliorarne 


LE  VITI  MARITATE  AD  ALBERI  ED  I  PERGOLATI 


753 


la  coltura,  abbiamo  nelle  fosse  una  larghezza  e  una  profondità  di 
m.  1,20  in  colle,  una  larghezza  di  m.  1,50  e  una  profondità  di 
m.  0,90  in  piano.  Il  brutto  sistema  delle  buche  persiste  specialmente 


Fig.  278. 

nel  Veneto  e  nel  Modenese  e  vi  è  condannato  da  chiunque  conosca 
un  po'  le  esigenze    della  vite    e  delle  piante  arboree  in  generale. 

Fatte  le  fosse  nel  Veneto  vi  si  piantano  subito  gli  alberetti  tolti 
dal  vivaio  e  alti  già  da  5  ad  8  metri,  e  tra  una  pianta  e  l'altra  si 
collocano,  sdraiate  nella  fossa,  da  6  ad  8  talee  di  vite  lunghe  da 
un  metro  a  un  metro  e  mezzo  (fìg.  279  b)  talee  che  —  se  l'annata 
corre  propizia  ■ —  possono  radicar  bene  ed  esser  condotte  fin  dal 
secondo  o  terzo  anno  sino  al  piede  della  pianta.  Ciò  lo  spiega  assai 
bene  la  fìg.  279  a.  Fatto  il  piantamento  spargono  lungo  l'intiera  fossa 
un  po'  di  letame,  e  ricoprono  il  tutto  con  terra. 

In  Toscana  si  fa  di  meglio:  queste  fosse  non  si  aspetta  ad  aprirle 
poco  prima  del  piantamento,  ma  si  fanno  d' inverno,  dal  novembre 
all'aprile:  quelle  aperte  in  novembre  si  piantano  in  primavera,  quelle 
aperte  in  aprile  si  piantano,  o  come  dicesi,  si  ritirano  nel  venturo 
novembre.  E  ciò  è  buono  assai,  specialmente  per  quelli  che  lasciano 
le  fosse  aperte  d'estate,  lasciando  così  il  terreno  esposto  agli  agenti 
atmosferici  nella    stagione  più    propizia  per    lo  sverginamento    della 

0.  Ottavi,  Trattato  di  Viticoltura.  49 


754 


CAPITOLO  XXIV 


terra  inerte.  I  vignaiuoli  toscani  pare  che    sieno  ben  compresi  del- 
l'importanza di  ciò,  perchè  cercano  di  aumentare  tale  benefìcio  gra- 


Fìs.  279, 


tuito,  disponendo  il  terreno  cavato  dalla  fossa  in  due  larghi  argini 
lateralmente  alla  fossa  stessa,  e  così  esponendo  all'aria  una  più  grande 
superfìcie  di  terreno. 

La  distanza  tra  gli  alberi  è  di  3  a  5  metri. 


§  4.  Cure  nei  primi  anni.  —  Si  rimpiazzano  gli  alberi  e  le 
viti  che  la  siccità  avesse  già  fatto  soccombere,  si  mettono  alcuni 
pali  o  frasche  attorno  alle  viti  stesse  acciò  i  nuovi  tralci  vi  si  pos- 
sano arrampicare.  Se  il  piantamento  fu  fatto  con  barbatelle  esse,  ap- 
pena piantate,  si  tagliano  a  2  gemme  sopra  terra  per  avere  bei 
getti,  e  si  deve  subito  cominciare  a  zappar  loro  intorno  la  terra 
almeno  2  volte  durante  la  state.  Si  nettano  gli  alberi  dai  polloni  che 
spuntano  sul  tronco.  Ciò  sin  dal  1°  anno.  Al  terzo  si  potano  le  viti 
a  due  gemme  e  si  vanga  e  zappa  l'interfilare  facendo  così  la  guerra 
alle  malerbe.  Questo  interfilarc,  che  nel  Veneto  vien  chiamato  bina, 
vuol  essere  assolutamente  sgombro  per  non  portar  sino  dai  primi 
anni  un  grave  colpo  alla  vitalità  della  vite.  Lasciando  sgombri 
quei  due  o  tre  metri  che  formano  l' interfilarc  si  possono  avere  al 
quarto  anno  le  viti  già  così  robuste  da  poterle  propagginare  e  po- 
tarle con  una  gemma  almeno  fuori  terra,  alla  distanza  di  mezzo 
metro  dall'albero. 

E  cosi  al  quinto  si  può  giungere  a  possedere  tralci  d'una  discreta 


LE  VITI  MARITATE  AD  ALBERI  ED  I  PERGOLATI 


755 


lunghezza    i    quali    vengono    assicurati    al    tronco    dell1  albero    (fi- 
gura 280). 

Anche  l'albero  frattanto  ha  bisogno  di  cure,  come  sarebbero  la 
potatura,  la  mondatura  dei  ramettini  esili,  accorciando  anche  i  ghiot- 
toni, si  deve  cercare  infine  di  dare  all'insieme  dei  rami  la  forma  d'un 
vaso  regolare.  La  forma  di  vaso  o  di  bicchiere,  o  di  paniere  come 
dicesi  in  Toscana,  molto  aperto  nel  mezzo,  si  raggiunge  verso  il  sesto 
o  settimo  anno.  Gli  alberi  vanno  ripuliti  annualmente  dai  piccoli  getti 
inutili,  e  siccome  questa  ripulitura  rigorosa  fa  acquistare  alle  branche 
una  forma  bitorzoluta  si  rimedia  a  ciò  «  lasciando  all'apice  d'ogni 
branca  un  paio  di  germogli,  i  quali  attirando  verso  loro  l'attività  della 
vita  della  pianta,  evitano  in  certo  modo  l'uscita  di  un  maggior  nu- 
mero di  gemme  sulle  branche,  e  mantengono  in  più  miti  proporzion1 
quelle  forme  bitorzolute  sulle  branche  stesse  (1).  » 


Fig.  280. 


Le  viti  si  continuano  a  potare  sempre  a  due  o  tre  gemme  sino  a 
che  dimostrino  di  aver  acquistato  una  certa  vigoria,  e  diano  getti 
della  lunghezza  almeno  d'un  metro.  Non  si  abbia  troppa  premura  a 
tagliar  via  tutti  i  polloni  laterali  che  spuntano  sulla  vite  nel  corso 
dell'anno.  È  necessario  che  il  succo  della  vite  non  vada  tutto  ad  al- 
lungar l'asta,  ma  la  rinforzi  anche  per  cui  questi  polloni  o  si  rispet- 
tano o  spuntano  solo  a  quattro  o  cinque  foglie. 

Giunta  la  vite  all'altezza  dell'albero  la  si  dispone  ed  acconcia  alle 


(1)  Doti.  G.  Fonseca.  La  viticoltura  nel  fiorentino, 


756  CAPITOLO  XXIV 


branche  di  esso  in  uno  dei  molti  sistemi  di  cui  son  ricche  la  Toscana, 
1'  Emilia,  1'  Umbria,  la  Terra  di  lavoro  e  le  altre  che  adottano  questo 
sistema  di  educar  le  viti. 

Siccome  non  è  nostra  intenzione  descrivere  questi  differenti  sistemi, 
il  che  ci  porterebbe  troppo  lungi  dal  nostro  assunto,  ci  limiteremo  a 
dare  alcune  norme  generali,  e  da  non  trascurarsi  in  nessuno  di  essi, 
togliendo  ad  esempio  di  preferenza  la  Toscana  che  è  in  ciò  maestra 
alle  altre  regioni  italiane. 

§  5.'  Potatura  e  legatura.  Disposizione  della  vite  sull'al- 
bero. —  Non  bisogna  applicare  troppo  alla  lettera  il  proverbio: 
fammi  povera  ed  io  ti  farò  ricco.  Esso  si  dee  intender  nel  senso 
che  se  alla  vite  si  lasceranno  più  tralci  fruttiferi  di  quello  che  essa 
ne  possa  portare,  si  avranno  tralci  carichi  d'uva  ma  questa  stenterà 
a  maturare  e  si  scapiterà  non  poco  nella  qualità  del  vino.  Si  prenda 
norma  della  vigoria  della  vite  stessa;  se  essa  non  presenta  che  tralci 
e  tronco  debole  si  lasci  pur  povera  procurando  di  provocare  l'uscita 
di  tralci  da  legno. 

Nelle  vigne  a  basso  ceppo  si  pota  la  vite  a  speroni,  sistema  ra- 
zionalissimo; ora  un  valente  viticultore  modenese,  il  sig.  L.  Terra- 
chini,  volle  provare  questo  risultato  anche  per  viti  alte  e  ne  ottenne 
un  risultato  buonissimo.  «  In  questo  caso,  egli  dice  (1),  i  tralci  corti 
e  tutti  quelli  che  si  tagliano  per  alleggerire  la  vite  si  potrebbero  po- 
tare a  2  o  3  gemme  e  così  si  avrebbero  tralci  vigorosi,  senza  de- 
viare il  corso  del  succhio  diretto  a  quelli  che  devono  portar  uva.  » 

È  da  condannarsi  la  pratica  di  unire,  affastellandoli  e  torcendoli, 
tre  o  più  tralci  per  menarli  poi  ai  pali  o  a  quelli  delle  viti  vicine. 
Così  facendo  si  perderà  una  buona  parte  del  prodotto.  Non  si  uni- 
scano assieme  più  di  due  tralci. 

La  potatura  per  circa  dieci  anni  si  fa  annualmente  nel  Modenese; 
ma  poi  fattosi  forte  l'albero,  non  si  pratica  da  alcuni  che  un  anno 
sì  e  l'altro  no.  L'anno  che  si  pota  ad  ogni  vite  si  lasciano  2,  3,  4,  o 
5  tralci  in  tutta  la  loro  lunghezza  e  si  distendono  a  ghirlande  o  tral- 
ciaie  tra  l'uno  e  l'altro  olmo.  Si  è  osservato  che  nell'anno  in  cui  si 
potano,  le  viti  danno  uve  solo  nelle  ghirlande  o  tralciaie  e  quest'uva 
è  grossa,  dolce,  matura;  nell'anno  in  cui  non  si  potano,  dell'uva  ve 


(1)  Vedi  II  Campagnuolo  1880,  ri.   11, 


LE  VITI  MARITATE  AD  ALBERI  ED  I  PERGOLATI 


757 


n'  ò  anche  nell'impalcatura,  ma  è  uva  più  piccola,  più  dura,  più  ver- 
dognola, specialmente  negli  anni  molto  secchi. 

La  vite  ha  bisogno  d'aria,  di  calore  e  di  luce,  perciò  saranno  sempre 
preferibili  quei  sistemi  che  meglio  mettono  in  grado  la  pianta  di  pro- 
fittare di  questi  preziosi  agenti.  Alla  potatura  cosi  detta  a  testucchio 
(fig.  281)  è  preferibile  adunque  quella  che  ammette   le  penzane  o 


Fie    osi 


Fig.  282. 


catene  o  tirelle  nel  Modenese.  Ivi  i  festoni,  fatti  come  si  sa  intrec- 
ciando i  tralci  fruttiferi  di  due  viti  vicine,  o  sono    sostenuti    da  un 


758 


CAPITOLO   XXIV 


palo  confitto  a  terra  (fìg.  282),  o  sono  doppi  e  si  acconciano  nei  modi 
che  si  vedono  alle  figure  283  e  284;  qualcosa  di  simile  hanno  anche 
i  Modenesi  a  Sorbara  (1).  Uno  dei  migliori  sistemi  di  vite  maritata 


%.  283- 


ad  alberi  è  quello  usato  nel  Chiantifdescritto  dal  Mancini  nell'operetta 
citata.  «  Si  pota  il  testucchio  in  modo  da  lasciargli  due  soli  rami  che 
si  allevano  orizzontali  per  la  lunghezza  di  m.  1,20  e  ad  essi  si  ap- 


Pig.  284. 

poggiano  4  viti,  due  da  una  parte  e  due  dall'altra.  Spesso  i  rami  di 
un  acero  si  congiungono  a  quelli  del  vicino  e  talora  si  saldano  ad- 


(1)  Ing.  C.  Mancini.  La  Toscana  viticola  e  vinicola. 


LE  VITI  MARITATE  AD  ALBERI  ED  1  PERGOLATI 


759 


dirittura  assieme.  Allora  il  vigneto  prende  l'aspetto  d'una  vera  per- 
gola come  dimostra  la  fìg.  285  »   (1). 


FV-    -285. 


§  6.  Sfrondatura  degli  alberi.  —  Nel  Modenese  gli  olmi, 
nelle  piantagioni  già  adulte,  si  sfrondano  ogni  anno.  Quest'operazione, 
si  fa  dalle  donne  generalmente,  mediante  scale  di  25  a  30  gradini. 
La  sfogliatura  comincia  a  San  Pietro  e  dai  coloni  si  procede  dagli 
olmi  potati,  che  essi  dicono  avanzoni  in  pota,  e  si  finisce  coi  non 
potati  detti  avanzoni  in  frasca. 

Ma  cominciando  invece  dall'  avanzone  in  frasca  si  scoprirebbero 
un  po'  per  tempo  le  uve  dell'impalcatura,  e  si  darebbe  maggior  tempo 
agli  olmi  potati  di  rimettersi  dal  danno  avuto  nel  potarli;  le  bestie 
non  sarebbero  esposte  al  passaggio  d'un  alimento  tenero  (quello  degli 
olmi  potati)  ad  un  alimento  assai  duro  (quello  degli  olmi  in  frasca); 
infine  cominciando  dai  non  potati,  la  foglia  di  questi  sarebbe  men  dan- 
neggiata dalle  morsicature  delle  gallerughe  che  ne  sono  ghiottissime. 


§  7.  Economia  nei  sostegni.  —  Dobbiamo  ora  accennare 
ad  alcune  economie  che  si  potrebbero  fare  nei  varii  sistemi  di 
educar  la  vite  alta.  E  noto  che  quali  sussidiarli  agli  alberi  vivi, 
molti  hanno  poi  anche  pali  di  salice,  d'acacia,  e  di  pioppo  ai  quali 
vanno  a  metter  capo  e  s'appoggiano  le  trecce  o  ghirlande  dei  tralci 
a  frutto.  In  certi  sistemi  (Mantovano,  Bolognese)  la  razionale  distri- 


(1)  V.  Op.  citata  pag.  54. 


760  CAPITOLO  XXIV 


buzione  di  queste  trecce  esige  cinque,  sei  spesso  più  di  dieci  pali  per 
ogni  albero.  Ora  non  si  potrebbe  sostituire  ai  costosissimi  pali  il  fìl  di 
ferro?  Il  sig.  TI.  liberti  nel  Giornale  d'Agricoltura,  Industria  e 
Commercio,  si  dichiara  per  esperienza  propria  e  dietro  facili  calcoli  e- 
conomici,  favorevole  assai  a  questa  modificazione.  La  quale  oltre  all'es- 
sere più  economica  dà  luogo  ad  una  distribuzione  di  tralci  perfetta, 
potendo  legare  lungo  il  filo  tutti  i  tralci  isolati  e  non  avvolti  in 
trecce  come  si  fa  nel  caso  della  tiratura  a  pali.  Si  otterrebbe  infine 
una  vegetazione  più  abbondante,  perchè  più  libera,  più  aerata,  più 
esposta  alla  luce  e  al  calore. 

Un'altra  modificazione  è  proposta  dal  Prof.  Viglietto,  il  quale  a 
stento  ammette  la  vite  maritata  ad  alberi  e  anche  nelle  condizioni 
in  cui  è  necessario  tenere  la  vite  molto  alta  vorrebbe  che  il  numero 
di  alberi  vivi  fosse  il  più  piccolo  possibile.  «  Un  albero  fruttifero 
rigoglioso  —  egli  dice  (1)  —  ogni  8  o  10  metri,  e  neh'  intermezzo 
dei  pali  di  basso  costo,  legati  da  tre  o  più  fili  di  ferro  in  senso  lon- 
gitudinale al  filare,  possono  generalmente  sostituire  il  numero  esor- 
bitante di  vivi  coi  quali  imboschiamo  le  nostre  vigne.  »  E  conchiude: 
«  Siamo  dunque  intesi:  vigna  esclusiva  ed  allevamento  sul  secco,  od 
almeno  preponderanza  di  questo  mezzo  di  sostegno.  » 

§  8.  L'albereto  Falisco.  —  Questo  sistema  di  tenere  la  vite 
alta  fu  adottato  e  proposto  dal  distinto  cultore  della  agronomia  Conte 
Dr.  Alberto  Cencelli-Perti  di  Roma  (2)  coll'intento  speciale  di  appli- 
carlo alle  viti  americane.  Certo  è  però  che  può  consigliarsi  anche 
per  la  vite  europea,  ed  in  ogni  caso  con  molti  vantaggi,  poiché, 
mercè  l'albereto  Falisco,  mentre  si  lascia  una  grande  espansione  fo- 
gliacea e  radiculare  alla  pianta,  se  ne  favorisce  la  longevità,  si  ot- 
tiene una  produzione  abbondante  e  costante,  si  ottiene  eziandio  buona 
uva,  ed  il  tutto  con  economia  di  spesa.  Il  Dr.  Cencelli  ha  chiamato 
falisco  questo  sistema  perchè  esso  è  una  modificazione,  abbastanza 
sostanziale  però,  del  sistema  oggi  in  uso  nella  regione  abitata  dagli 
antichi  Falisci,  della  cui  città,  Fabria,  esistono  tuttora  i  maestosi 
avanzi:  questa  regione  comprende  Vignanello,  Vallerano,  Canepina, 
Nepi  e  Fabrica  di  Roma,  ove  il   Cencelli  possiede  i  suoi  vigneti. 


(1)  Bollettino  delV Associazione  agr.  friulana,  1884,  pag\  70. 

(2)  Albereto  Falisco.  —  Sistema  di  viticultura  specialmente  adatto  alla  coltiva- 
zione delle  viti  americane  (Conegliano  1884). 


LE  VITI  MARITATE  AD  ALBERI  ED  I  PERGOLATI  761 

Ecco,  in  breve,  in  che  cosa  consiste  questo  sistema.  Premetteremo 
che  i  filari  debbono  essere  distanti  6  metri,  e  gli  alberi  2m,50;  in 
in  un  ettare  si  hanno  quindi  640  alberi:  le  fosse  vogliono  essere 
larghe  e  profonde  lra,  con  fognatura  di  sassi,  erbacce  ecc.  L'albero 
a  preferirsi  è  l'acero  campestre  (oppio),  ma  il  Cencellì  adopera  anche 
Tornello  (frassino  minore):  in  ogni  caso  è  necessario  farsi  prima  un 
piantinajo  per  avere  dopo  tre  o  quattro  anni  alberi  bene  sviluppati 
ed  ottimi  per  essere  posti  a  dimora.  Il  magliolo  o  la  barbatella  si 
piantino  a  non  più  di  40  centina,  di  profondità  ponendo  il  tralcio 
della  vite  sdraiato  nella  fossa  in  modo  che  la  sua  punta  esca  alla 
superficie  del  suolo  ad  una  distanza  di  1  metro  circa  dal  pedale  del- 
l'oppio; ad  ogni  albero  il   Cencellì  prescrive  si  dia  una  sola  vite. 

Fin  dal  secondo  o  terzo  anno,  secondo  la  robustezza  dei  tralci,  si 
potrà  propagginare  il  sarmento  più  grosso  e  robusto,  che  si  sarà 
ottenuto  da  ciascuna  pianta,  le  cui  estremità,  come  si  ricorda,  di- 
cemmo che  dovevano  farsi  uscir  fuori  dal  terreno  alla  distanza  di 
1  metro  dall'acero.  Con  la  presente  propagginatura,  da  farsi  alla 
solita  profondità  di  40  centina.,  si  porta  la  vite  alla  base  dell'acero, 
al  quale  dovrà  poi  essere  sposata.  In  questo  modo,  secondochè  la 
lunghezza  primitiva  del  magliuolo  fu  di  m.  0,50  o  1,00,  il  tronco 
sotterraneo  della  vite  raggiungerà  una  lunghezza  di  m.  1,50  o  2,00; 
dal  quale,  essendo  tutto  a  una  conveniente  profondità,  uscirà  un  gran 
numero  di  robusti  fasci  di  radici,  che  arrecheranno  copiosissimo 
alimento  alla  pianta. 

Gli  alberi  anch'essi,  se  si  sarà  fatto  uso  di  piantoncelli  robusti  di 
vivajo,  al  secondo  o  terzo  anno  dacché  saranno  stati  messi  a  posto 
nel  vigneto,  potranno  essere  spuntati  all'altezza  voluta,  cioè  a  m.  1,50 
dal  suolo;  e  da  quel  punto  si  avrà  cura  li  formare  la  corona  dei 
rami,  che  dovranno  sostenere  la  vite.  Questi  rami  è  bene  che  siano 
disposti  con  un  certo  ordine  all'  intorno,  a  distanze  più  che  si  può 
eguali  uno  dall'altro,  per  potervi  comodamente  disporre  sopra,  tanto 
i  tralci  che  dovranno  restare  nel  calice  dell'albero,  quanto  gli  altri, 
che  dovranno  formare  i  cordoni.  Questi  rami  o  «  bracciuoli  »  si  fa- 
ranno crescere  in  una  direzione  quasi  orizzontale  e  dovranno  essere 
spuntati  a  una  lunghezza  di  circa  m.  0,35.  In  questo  modo,  l'albero, 
quando  sia  giunto  alla  sua  forma  definitiva,  non  avrà  più  di  m.  1,60 
o  1,70  d'altezza. 

Se  la  vite  si  sarà  coltivata  con  le  debite  cure,  sopratutto  potan- 
dola fin  dal  primo   anno,  al  terzo  si  potrà  avere  un    bel  tralcio  da 


762  CAPITOLO  XXIV 


poter  tirare  sull'albero.  In  seguito,  man  mano  che  la  forza  della  vite 
lo  permetterà,  si  tireranno  i  cordoni  o  tralciaie,  le  quali  si  faranno 
allungare  un  po'  per  anno,  fino  a  raggiungere  l'albero  vicino,  e  in- 
tanto si  sosterranno  o  sul  cordone  formato  nel  modo  anzidetto  di 
due  rami  di  aceri,  o  con  filo  di  ferro  o  con  salci,  ecc.  Di  queste 
tralciaie  non  si  può  stabilire  a  priori  il  numero;  dovendosi  tener 
calcolo  della  feracità  del  terreno,  dell'età  della  vite  e  della  quantità 
di  concime  di  cui  si  può  disporre.  In  generale  si  possono  consigliare 
quattro  tralciaie,  due  da  una  parte  e  due  dall'altra  di  ogni  albero; 
le  quali  incrociandosi  con  le  tralciaie  dell'  albero  vicino,  vengono  a 
formare  tanti  festoni  di  quattro  tralci  ciascuno.  È  bene  che  queste 
quattro  tralciaie  componenti  il  festone  non  si  trovino  addossate  le 
une  alle  altre:  una  distanza  di  circa  m.  0,15  a  0,20  fra  loro  gioverà 
a  favorire  la  libera  circolazione  dell'aria,  quando  ci  saranno  i  pam- 
pini e  i  grappoli,  il  passaggio  della  luce  e  del  calore  diretto  dei 
raggi  del  sole,  e  quindi  l'allegamento  dei  fiori.  La  solforatura  sarà 
anche  facilitata. 

Fin  dal  primo  anno,  in  cui  le  tralciaie  verranno  stabilite,  bisogna 
curare  la  distribuzione  regolare  su  di  esse  degli  speroni  che  dovranno 
servire  alla  produzione  annuale.  L'  avvertenza  principale  è  di  man- 
tenere una  distanza  quanto  più  si  può  uniforme  tra  essi,  perchè  non 
abbiano  coi  grappoli  e  coi  tralci  a  darsi  noia  un  con  l'altro.  La  pota- 
tura di  questi  speroni  si  fa  nel  solito  modo,  lasciando  i  due  capi, 
l'uno  a  legno  e  l'altro  a  frutto. 

I  cordoni,  una  volta  stabiliti,  si  lasciano  per  più  e  più  anni,  cioè 
sino  a  quando  i  suddetti  piccoli  speroni  si  siano  tanto  prolungati, 
che  non  possa  più  con  regolarità  eseguirsi  la  potatura;  purché  però 
a  questo  guaio  non  possa  rimediarsi  con  qualche  tralcio  avventizio 
sorto  alla  base  dello  sperone  stesso. 

Al  quinto  o  sesto  anno,  quando  cioè  la  vigna  comincia  a  produrre 
una  discreta  quantità  di  uva,  e  quindi  il  vignaiuolo  può  permettersi 
qualche  spesa,  cominciando  la  vite  a  prendere  sviluppo  in  propor- 
zioni piuttosto  grandi,  qualora  il  terreno  non  sia  di  buona  qualità  e 
permeabile  alle  radici  della  vite,  il  Cencelli  crede  di  dover  consigliare 
l'apertura  di  nuove  forme,  parallele  e  contigue  alle  prime,  delle  stesse 
dimensioni,  egualmente  fognate,  le  quali  dopo  che  saranno  state  esposte 
qualche  mese  all'  aria,  al  gelo,  alle  pioggie,  ecc.  si  richiuderanno, 
mettendo  sempre  in  fondo  la  terra  che  prima  era  alla  superficie. 

La  fìg.  287  rappresenta  una  proiezione  orizzontale  colla  distribu- 


LE  VITI  MARITATE  AD  ALBERI  ED  I  PERGOLATI 


763 


zione  dei  rami  degli  alberi  di  sostegno  e  dei  tralci  o  festoni  delle 
viti;  mentre  la  fig.  286  ci  mostra  l'albereto  falisco  colla  disposizione 
delle  ceppaie  e  dei  festoni  tirati  sull'albero. 


2S(>. 


Fie.  287. 


Il  Dr.  Cancelli  asserisce  che  questo  suo  sistema  gli  dà  eccellenti 
risultati;  egli  ottiene  circa  70  ettolitri  di  vino  ad  ettare,  pure  colti- 
vando gli  interfìlari.  Inoltre  le  viti  vi  sono  sempre  sanissime  perchè 
più  lontane  dall'umidità  del  suolo,  e  quasi  immuni  dal  gelo:  infine, 
e  questo  ha  certo  grande  importanza,  coltivando  con  tal  sistema  le 
viti  americane  quali  resistenti  alla  fillossera,  si  potrà  andar  sicuri  di 
non  scemarne  la  forza  di  resistenza,  come  accade  certo  coi  sistemi 
a  potatura  corta;  coi  quali  si  lascia  alle  viti  d'  America,  che  hanno 
d'uopo  di  tanta  espansione,  uno  sfogo  vegetativo  soverchiamente  li- 
mitato e  tanto  fatale  per  la  resistenza,  siccome  ci  provano  le  molte 
viti  americane  introdotte  in  Francia  nelle  quali  si  è,  per  così  dire, 
spenta  quella  preziosa  facoltà. 


§  9.  Coltura  dei  pergolati.  —  Un  distinto  viticultore  ligure, 
il  cav.  Accame  di  Pietra  Ligure,  fu  quegli  che  perfezionò  questo  si- 
stema, e  di  esso  solo  pertanto  diremo  qui  in  breve.  I  pergolati  sono 
alti  2m,25  circa,  larghi  2m,25  con  strisce  vuote  tra  uno  e  1'  altro 
di  2m,50,  Nelle  file,  e  da  ambo  i  lati,  le  piante  sono  poste  ad  un 
metro  o  1,50  fra  Luna  e  l'altra.  Il  piantamento,  con  barbatelle  di 
un  anno,  si  pratica  su  scasso  reale  a  un  metro  di   profondità,   e  la 


764 


CAPITOLO  XXIV 


barbatella  si  pota  ad  un  occhio  fuori  terra,    allevando  un  sol  getto 

0  tralcio.  Questo  getto  si  pota  Tanno  dopo  a  due  gemme;  al  terzo 
anno  si  pota  a  un  metro  e  mezzo  di  altezza,  accecando  le  gemme 
più  basse  e  lasciando  solo  le  tre  o  quattro  più  alto  locate.  Al 
quarto  anno  il  pergolato  è  coperto  e  dà  già  molta  uva,  cioè 
circa  40  ettolitri  ad  ettare:  il  tronco  ha  una  altezza  di  lm,50,  ma 
poi  si  alza  ancora  un  poco  e  si  divide  in  quattro  o  cinque  branche. 

1  sostegni  sono  sottili  fili  di  ferro  zincato  (num.  14)  sostenuti  da 
forti  pali  distanti  tre  metri  l'uno  dall'altro;  nelle  pareti  laterali  del 
pergolato  i  fili  di  ferro  sono  però  del  num.  18,  e  l'altro  filo  si  ado- 
pera solo  nella  parte  orizzontale  superiore  del  pergolato  stesso.  Così 
questo  è  più  leggero  che  non  usando  le  pertiche,  e  costa  meno  (1[3). 

Le  figure  288  e  289  mostrano  la  proiezione  verticale  ed  orizzon- 


Fig.  288. 


*W\ 


f 


Fig.  289 


tale  del  pergolato,  colla  indicazione  di  tutte  le  distanze.  Alla  pota- 
gione (febbraio-marzo)  si  lasciano  da  3  a  11  speroni  frutticosi,  in 
media  6  o  7,  con  circa  8  gemme  cadauno.  A  maggio  si  sopprimono 
le  più  grosse  femminelle,  che  hanno  allora  8  o  10  centimetri;  prima 
poi  che  l'uva  fiorisca  si  tolgono  da  due  a  tre  foglie  di  quelle  che 
sono  attorno  al  grappolo,  onde  questo  sia  meglio  esposto  alla  luce 
solare,  senza  di  ciò  l'uva  non  fiorisce  bene  e  accade  la  sgranatura 
o  cascola,  di  cui  diremo  al  capitolo  XXVII.  —  Ai  primi  di  luglio 
si  sfoglia  leggermente,  e  quando  l'uva  incomincia  ad  essere  matura 
si  tolgono  i  due  terzi  delle  fronde,  compresi  non  pochi  germogli,  ma 
rispettando  sempre  le  foglie  della  punta,  cioè  delle  parti  superiori  dei 


LE  VITI  MARITATE  AD  ALBERI  ED  I  PERGOLATI  765 

tralci;  mercè  questa  sfrondatura  si  ottiene  un  arresto  nel  movimento 
del  succo,  il  quale  va  a  tutto  beneficio  delle  gemme  che  sono  de- 
stinate alla  fruttificazione  dell'anno  successivo;  infatti  l'anno  dopo  si 
ottiene  molta  uva;  ma  sono  soltanto  le  viti  vigorose  e  robuste  che 
possono  tollerare  quella  sfrondatura. 

Le  viti  a  pergolato  debbono  esse  pure  coltivarsi  specializzate;  oltre 
a  ciò  il  suolo  deve  essere  mantenuto  fresco,  soffice  e  pulito  mercè 
le  vangature.  La  concimazione  poi  non  deve  far  difetto;  essa  deve 
consistere  in  terricciati  composti  con  tralci  di  viti  tagliati  a  pezzetti, 
letame,  cenere,  residui  del  carbon  fossile,  delle  fornaci  di  calce,  vi- 
naccie,  ecc.  Con  pergolati  trattati  a  questo  modo  si  possono  ot- 
tenere 100  ettolitri  di  vino  ad  ettare;  in  media  60.  La  spesa  an- 
nuale può  essere  di  circa  1000  lire  ad  ettare,  comprendendo  il  fitto, 
i  lavori,  l'ammortizzazione  della  spesa  per  fili  di  ferro  e  pali,  i  con- 
cimi e  via  dicendo.  Ma  quei  60  ettolitri  di  vino  possono  valere  co- 
modamente 30  lire  caduno,  lasciando  così  un  benefìcio  netto  di  800 
lire  al  viticultore  per  ogni  anno  e  per  ogni  ettare. 


CAPITOLO   XXV 


Coltura  delle  viti  nei  giardini 
(Uve  da  tavola). 


§  1.  Importanza  della  produzione  di  buone  uve  da  tavola  —  §  2.  Metodo  dei  cor- 
doni orizzontali  (a  tralci  diritti  ed  a  tralci  inclinati)  —  §  3.  Metodo  dei  cor- 
doni verticali  —  §  4.  Palmetta  a  tralci  inclinati  —  §  5.  Le  contro-spalliere 
§  6.  Coltura  in  vasi  e  in  casse  —  §  7.  Come  favorire  l'ingrossamento  dei  grap- 
poli ed  anticiparne  la  maturazione  —  §8.  Conservazione  e  commercio  dell'uva 
da  tavola. 


§  1 .  Importanza  della  produzione  di  buone  uve  da  tavola. 

—  Non  è  d' uopo  spendere  molte  parole  per  dimostrare  la  grande 
importanza  che  avrebbe  per  l'Italia  la  produzione  di  molta  e  buona 
uva  mangereccia;  un  uomo  molto  autorevole  in  fatto  di  esportazione 
di  prodotti  agricoli,  il  sig.  Cirio,  va  insistendo  da  molti  anni  su 
questo  punto,  e  nelle  adunanze  tenute  in  Roma,  nel  febbraio  del  1884, 
dai  viticultori  italiani  radunati  dal  Ministro  di  Agricoltura,  egli  os- 
servava che  la  esportazione  delle  uve  da  tavola  italiane  va  bensì  cre- 
scendo continuamente,  ma  che  tuttavia  non  può  esplicarsi;  raccontò 
che  l'anno  precedente  non  potè  esportare  neppure  la  decima  parte  di 
quanto  avrebbe  potuto  mandare  nel  Nord  d'Europa;  infine  consigliò 
ripetute  volte  —  quasi  in  ogni  seduta  —  di  estendere  e  migliorare 
la  coltura  delle  uve  da  tavola,  perchè  in  questo  articolo  non  ab- 
biamo tanto  a  temere  la  concorrenza  come  in  altri,  e  quindi  il  viti- 
cultore  può  fare  assegnamento  su  uno  smercio  vasto,  proficuo  e  du- 
revole. 

È  doloroso  dover  constatare  che  l'Italia,  in  fatto  di  commercio  di 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI  767 

uve  da  tavola,  si  trova  propriamente  alla  coda  degli  altri  paesi  vi- 
tiferi del  vecchio  continente.  La  Francia,  l'Austria,  la  Germania,  la 
Crimea  ne  esitano  in  copia  in  Russia,  nella  Gran  Brettagna  ecc. 
entro  apposite  scatole  eleganti  e  ne  ritraggono  non  poco  lucro:  questi 
scelti  prodotti  poteronsi  ammirare  alla  Esposizione  mondiale  di  Vienna, 
ove  spiccavano  sovratutto  le  uve  francesi.  L' Italia  invece  vi  fece 
una  mediocrissima  figura.  Eppure  il  nostro  paese  abbonda  di  squisite 
uve  mangerecce,  e  questo  non  solo  nell'Italia  inferiore,  ma  altresì  nell'I- 
talia superiore,  ove  è  nota  ad  esempio  la  squisita  Erbaluce  di  Caluso 
(Ivrea)  che  noi  coltiviamo  con  ottimo  successo  in  Monferrato.  Confi- 
diamo quindi  che  si  darà  d'or  innanzi  maggior  importanza  a  questa 
coltivazione  speciale,  e  che  le  squisite  uve  italiane  si  faranno  presto  co- 
noscere sul  mercato  mondiale,  specialmente  nel  Nord  ove  il  delizioso 
frutto  di  Bacco  è  avidamente  ricercato  (1).  Il  sig.  Cirio  ci  assi- 
curò più  volte  che  lo  smercio,  quando  il  prodotto  sia  buono,  bello, 
sano  ed  elegantemente  messo,  non  potrà  mai  mancare:  ciò  essendo, 
come  noi  non  dubitiamo  punto,  e  tenuto  calcolo  del  prezzo  cui  si 
vendono  le  uve  mangerecce,  è  facile  intendere  come  la  loro  produ- 
zione non  può  non  riescire  assai  lucrosa. 

Vediamo  pertanto  i  principali  sistemi  di  educazione  della  vite  per 
la  produzione  di  uve  mangerecce,  che  ha  luogo  generalmente  nei 
giardini  o  in  luoghi  cinti  da  muri. 

§  2.  Metodo  dei  cordoni  orizzontali.  —  a)  A  tralci  diruti. 
—  Le  viti  che  voglionsi  educare  con  questo  sistema,  si  piantano 
contro  un  muro,  mettendo  le  barbatelle  o  le  talee  alla  distanza  di 
6  ad  8  metri  una  dall'altra,  col  solito  sistema,  e  si  potano  a  due 
gemme.  Nell'anno  seguente  si  sopprime  il  getto  meno  robusto,  mentre 
l'altro  potasi  lungo  1  metro  circa.  Durante  la  primavera  e  Y  estate 
si  scacchiano  tutti  i  getti  che  sorgono  lungo  il  fusto,  meno  il  più 
alto,  perchè  deve  servire  a  prolungare  il  fusto  stesso;  a  tal  uopo 
anzi  qualche  autore  (2)    consiglia  di    tenerlo  in    posizione  verticale, 


(1)  In  Inghilterra  e  Scozia  si  coltivano  le  uve  da  tavola  nelle  serre.  È  rino- 
mata ad  esempio  quella  del  sig.  Douglas  a  Dalkeith  (Scozia)  la  quale  suole  in- 
viare alle  esposizioni  scozzesi  ed  inglesi  enormi  grappoli,  spesso  del  peso  di  pa- 
recchi chilogrammi. 

(2)  V.  Roda  nell'Enciclopedia  Agraria  (parte  V  282).  Il  Prof.  Roda  è  uno  fra 
i  più  competenti  scrittori  di  questo  ramo  speciale  della  viticultura,  onde  faremo 
tesoro  spesso  de'  suoi  precetti. 


768  CAPITOLO  XXV 


acciò  si  allunghi  maggiormente.  Al  terzo  anno  si  pota  di  nuovo  lungo 
lm  il  tralcio  di  prolungamento  dal  punto  della  sua  inserzione,  sop- 
primendo le  messe  laterali  ma  rispettando  la  cacciata  estrema.  È 
molto  utile,  sopprimendo  questi  getti,  rispettare  le  foglie,  ed  è  facile 
intenderne  il  perchè.  Al  4°  anno  la  vite  è  abbastanza  alta  per  es- 
sere tirata  a  cordoni,  lungo  un  filo  di  ferro  posto  orizzontalmente  a 
50  centim.  al  disotto  del  coperto  del  muro  (  V.  in  seguito).  Ma  ciò  si 
fa  solo  al  5°  anno;  al  quarto  invece  potasi  la  vite  pochi  centim.  al 
disotto  del  punto  lungo  cui  scorreva  il  filo  stesso,  ed  i  due  sarmenti 
(fìg.  290)  delle    due  gemme    superiori    si  allevano    possibilmente    in 


Fig.  290. 


senso  verticale,  scacchiando  tutti  i  getti  inferiori.  Infine  al  5°  anno 
i  due  getti  A  B  si  piegano  uno  a  destra  e  l'altro  a  sinistra,  lungo 
il  filo,  potandoli  lunghi  60  o  70  centim.;  ed  i  getti  che  escono  dalle 


Fig.  291. 


gemme  si  allacciano  ad  un  secondo  filo  posto  a  0,40  sopra  il  primo, 
cimandoli  alla  seconda  foglia  sopra  l'ultimo  grappolo.  Si  avrà  cura 
di  lasciare  però  intatto  il  getto  estremo,  per  poter  prolungare  i  cor- 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI 


769 


doni,  onde  lo  si  terrà  orizzontale.  Al  6°  anno  si  speronano  ad  una 
gemma  (fìg.  291  A)  i  getti  uviferi  dei  cordoni  A  B  (fig.  290),  mentre 
i  due  prolungamenti  si  potano  a  60  o  70  cent.;  i  getti  uviferi  che 
escono  dalla  gemma  degli  speroni  si  allacciano  al  secondo  filo  di 
ferro,  mentre  la  gemma  A  della  corona  o  punto  di  inserzione  si  ac- 
ceca, salvo  si  voglia  fare  uno  sperone  di  rimpiazzamento   (fig.  292, 


Fig.  292 


ove  è  indicata  anche  la  potatura  nell'inverno  successivo,  cioè  la  sop- 
pressione del  vecchio  sperone).  Al  7°  anno  e  nei  seguenti  si  procede 
analogamente.  Il  Prof.  Roda  (1)  dice  che  quando,  dopo  alcuni  anni, 
le  estremità  dei  cordoni  arrivano  ad  incontrarsi,  si  possono  innestare 
fra  di  loro  per  approssimazione  i  due  tralci  opposti,  oppure  (fig.  293) 


Fig.  2J3. 


allevare  orizzontalmente  il  getto  A,    potarlo  poi  in  a  b,    cioè  lungo 
25  o  30  cent.,  ed  esportare  in  D  l'estremità  del  cordone  D  C. 

Il  Roda  dice  che  allorquando   il  muro  di  cinta    è  più  alto  di  3m, 
si  può  coltivare  con  profitto  la  vite  a  cordoni  alti  3m,  e  sotto  edu- 


(1)  Op.  cit.  pag.  283. 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura. 


50 


CAPITOLO  XXV 


care  a  spalliera  peschi  o  albercocchi  (fig.  594);  così  si  utilizza  com- 
pletamente il  muro. 

b)  A  tralci  inclinati.  —   I  cordoni  si  conducono    nello  stesso 


modo  indicato  or'ora,  ma  i  getti  uviferi  si  piegano  ad  angolo  di  115° 
circa,  sul  cordone  stesso,  legandoveli:  la  fig.  295  mostra  chiara- 
mente questo  sistema,  nel  suo  lato  destro,  mentre  il  lato  sinistro 
offre  la  vite  non  ancora  potata,  ma  coi  piccoli  tratti  indicanti  dove 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI 


771 


devesi  potare  per  rendere  uniforme  e  regolare  [il  cordone  coi  suoi 
getti.  Nulla  è  variato  nel  rimanente.  Questo  sistema  si  ritiene  più 
produttivo  di  quello  a  tralci  diritti.    Si    potrebbe  anche    adottare  la 


disposizione  della  fìg.  296,  avvicinando  le  ceppaie;  nel  lato  sinistro 
del  disegno  la  potatura  è  fatta,  nel  lato  destro  vedonsi  i  getti  dei 
tralci  frutticosi,  col  tralcio  a  frutto  di  rimpiazzamento  alla  loro  base, 


772 


CAPITOLO  XXV 


cioè  col  capo  a  legno.  In  tutti  questi  sistemi  si    raccomanda  calda- 
mente di  non  scordare  le  cimature  dei  getti  uviferi. 


§  3.  Metodo  dei  cordoni  verticali.  —  Giova  questo  sistema 
quando  si  vuol  coprire  colle  viti  la  intera  parete  del  muro;  il  Prof. 
Roda  lo  ritiene  preferibile    al   metodo   alla    Thoméry  «  il   quale  è 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI 


773 


troppo  complicato  e  di  lenta  formazione,  quantunque  raccomandato 
dagli  antichi  autori  francesi  (1).  »  Per  ottenere  presto  dei  buoni 
cordoni  verticali,  si  piantano  le  viti  ad   1   metro  di   distanza   contro 


297. 


un  muro,  lungo  il  quale  si  tirano  parecchi  fili  di  ferro  orizzontali 
distanti  l'uno  dall'altro  30  centina.,  mentre  il  primo  dista  40  centim. 
dal  suolo  (fig.  297),  e  si  educano  due  tralci,  uno  laterale  e  F  altro 
di  prolungamento.  Alla  terza  potatura  il   tralcio   laterale  si   pota  al 


^j    Al        i  "Ai       3 


Fig.  298. 


disopra  della  seconda  gemma,  e  quello  di  prolungamento  a  0,30  pro- 
curando che  abbia  una  gemma  a  destra  all'altezza  del  secondo  filo, 
ed  una  gemma  superiore  di  prolungamento.  Alla  quarta  potatura  si 


(1)  Op.  cit.  pag.  284. 


774 


CAPITOLO  XXV 


ha  la  pianta  disegnata  nella  fig.  298,  ove  le  lineette  indicano  come 
si  deve  potare;  il  tralcio  di  prolungamento  si  pota  di  nuovo  a  30 
centim.  ma  questa  volta  si  lascia  una  gemma  al  livello  del  terzo  filo, 


V 

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Fig.  299. 


ma  non  più  a  destra,  bensì  a  sinistra,  e  sempre  con  una  gemma  di 
prolungamento  alla  estremità.  Prima  della  quinta  potatura  si  ottiene 
allora  la  pianta  disegnata  nella  fig.  299,  ove  si  vedono  due  tralci  doppi, 
poi  uno  laterale  a  sinistra,  ed  uno  di  prolungamento:  il  disegno  in- 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI 


775 


dica  pure  come  si  deve  potare  in  quest'anno,  cioè  non  diversamente 
di  quanto  si  è  fatto  nel  4°  anno,  e  così  di  seguito  si  vengono  ad 
avere  le  viti  disegnate  nella  fìg.  300,  la  quale  presenta  una  spalliera 
compiuta.  Dice  il  Prof.  Roda  che  questo  sistema  è  facile  ma  lungo, 
perchè  occorrono  non  meno  di  10  anni  per  coprire  un  muro  alto  3 
metri;  tuttavia  si  può  guadagnare  un  bienno  allevando,  a  partire 
dal  4°  anno,  due  tralci  produttori  ognia  nno  invece  di  uno  solo  e  po- 
tando i  tralci  di  prolungamento  lunghi  60  centimetri  con  2  gemme 
alternate  distanti  30  centimetri. 

§  4.  Palmetta  a  tralci  inclinati.  —  Per  educare  una  vite 
con  questo  sistema,  che  ha  molti  pregi,  si  procede  nel  modo  seguente: 
supponiamo  di  avere,  al  3°  anno  del  piantamento,  la  vite  (fìg.  301), 


Fig.  301. 


con  un  bel  tralcio  a;  allora  gli  altri  due  getti  si  potano  ad  uno  o 
a  due  occhi  per  avere  uva  ed  anche  per  avere  buoni  capi  a  legno; 
il  tralcio  verticale  a  si  deve  inclinare,  come  lo  indica  la  fig.  302;  i 
getti  uviferi  a  a  a  si  lasciano  crescere  a  piacere,  a  meno   che  non 


776 


CAPITOLO  XXV 


si  allunghino  di  soverchio;  si  cimano  invece  le  femminelle.  Verso  il 


Fig.  302. 


Fig.  303. 


finire  dell'  estate,  si  rialza  il  tralcio  inclinato,  e  si  colloca   vertical- 
mente come  lo  indica  la  fig.  303:  i  getti  laterali  a  a  a  si  drizzano 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI 


777 


procurando  di  dare  loro  una  forma  regolare  senza  però  spezzarli; 
piuttosto  si  lascino  crescere  in  libertà.  Il  tralcio  frutticoso  centrale 
si  lascierà  che  si  allunghi  quanto  vuole  per  poter  dare  in  seguito 
alla  palmetta  maggiori  dimensioni.  Al  momento  della  potatura  tutti 
i  getti  laterali  a  a  a  si  conservano  intatti,  inclinandoli  nel  modo 
preciso  indicato  dalla  fig.  304:  però  quelli  soverchiamente  lunghi  vo- 


Kiff.  304. 


gliono  essere  alquanto  raccorciati.  —  La  stessa  inclinazione  si  darà  alla 
parte  terminale  del  tralcio  principale,  come  vedesi  in  b  fig.  304.  — 
Questa  parte  inclinata  si  tratta  poi  analogamente  al  primo  tralcio 
inclinato  (fig.  302),  cioè  lo  si  drizza  verticalmente  quando  i  suoi  getti 
sono  sufficientemente  sviluppati,  e  così  si  prolunga  la  palmetta.  —  I 
getti  uviferi  si  debbono  rimpiazzare  ogni  anno,  allevando  dei  capi  a 
legno  (fig.  305  a)  nella  parte  più  bassa  dei  getti  stessi;  i  capi  a  legno 
non  si  cimano;  si  cimano  però  le  femminelle  e  si  mozzano  i  getti 
uviferi  a  2  foglie  al  disopra  dell'  ultimo   grappolo.  Ma   qualora  fai- 


778 


CAPITOLO  XXV 


lisca  il  capo  a  legno,  allora  si  conserva  il  capo  a  frutto  inclinato  e 


Fig    305. 


Fitr.  306. 


si  pota  a  speroni  (fig.  306  a  a  a);  oppure  si  potano  a  piccoli  tralci 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI 


119 


i  suoi  getti  più  vigorosi,  e  si  legano  al  tralcio  inclinato,  come  indica 
la  fig.  307  a  a  a.  — 


Fig.  307. 


§  5.  Le  contro-spalliere.  —  Le  contro-spalliere  sono  intela- 
jature  lungo  le  quali  conduconsi  le  viti  a  spalliera  in  mancanza  di 
muri.  Quanto  si  disse  pei  cordoni  orizzontali  si  attaglia  a  questo  si- 
stema, di  cui  la  fig.  308  ci  dà  lo  schema.  Per  acquistare   spazio  si 


Fig.  308. 


alternano  ì  piani  dei  cordoni  bipartiti,  e  se  le  piante  sono  molto  ri- 
gogliose, come  spesso  accade  per  le  viti  ad  uve  mangereccie  colti- 
vate nei  giardini,  si  possono  lasciare  4  cordoni  (2  a  destra  e  2  a 
sinistra)  per  pianta,  guidando  i  due  superiori  lungo  il  secondo  filo. 
Questo  sistema,  esperimentato  dai  fratelli  Roda,  diede  ottimi  risultati. 

§  6.  Coltura  in  vasi  ed  in  casse.  —  È  noto  che  la  vite  può 
coltivarsi  anche  in  vasi  od  in  casse;  la  coltura  in    vasi  può   farsi  o 


780 


CAPITOLO  XXV 


ad  alberello  (fig.  309)  o  a  tralcio  lungo,   secondo   che   indica  la  fi- 


<^\/9 


Fig-.  309. 


gura  310.  La  figura  311  mostra  la  coltura  in  casse  per  ornamento 
dei  balconi. 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI 


781 


Dalle  viti  in  vaso,  possono  ottenersi  bellissimi  grappoli  per  la  con- 
servazione. La  fig.  310  mostra  come  deve  ricurvarsi  il  tralcio  a 
frutto;  dopo  l'allegamento  dei  grappoli  è  indispensabile  diminuirne  il 
numero,  riducendolo  ad  uno  solo  per  ogni  germoglio  uvifero  spun- 
tato dal  detto  tralcio  frutticoso;  senza  di  ciò  non  si  otterrebbero 
grossi  grappoli.  Non  debbono  neppure  trascurarsi  l'incisione  anulare 
e  lo  spuntamento  dei  grappoli  stessi,  (pag.  784).  Essendo   piccolo  il 


Fig.  310. 


cubo  di  terra  a  disposizione  della  vite,  è  indispensabile  far  uso  di 
concimi  adattati,  possibilmente  adoperati  in  soluzione  nell'acqua.  Si 
incomincierà  a  somministrarli  dopo  che  i  frutti  avranno  allegato,  e 
si  ripeterà  la  concimazione  per  tre  volte  prima  dell'iniziarsi  della  ma- 
turazione dell'uva.  Se  nel  verno  il  freddo  è  intenso,  è  indispensabile 
sul  finire  dell'  autunno  avvolgere  la  pianta  in  paglia  o  erba  secca, 
in  modo  da  difendere  e  tralcio  e  radici. 

Dalle  viti  in  cassoni  possono  pure  ottenersi  ottimi  grappoli:  la  fi- 
gura 311  riproduce  fedelmente  una  di  consimili  viti  che  adorna  i 
balconi  del  signor  D.  M.  Aranguren,  a  Bilbao,  al  quarto  piano 
della  sua  casa,  in    via  Camiceria  Veja,    num.  12.  Questa    casa  con 


782 


CAPITOLO  XXV 


tutte  queste  pergole  cariche  ò"  uva,  desta  Y  ammirazione  di  chi  la 
osserva.  Il  signor  Aranguren  adopera  cassoni  a  base  rettangolare, 
alti  0m,72,  lunghi  0,48  e  larghi  30;  essi  non  riposano  sul  pavi- 
mento del    balcone,  ma  bensì    entro  una  cassa  di    zinco  contenente 


acqua;  questa  cassa  è  alta  soli  7  centina.,  ma  le  altre  dimensioni 
superano  di  2  centim.  quelle  del  cassone  in  cui  sta  la  vite.  Il  fondo 
di  questo  cassone  porta,  inchiodati,  diversi  traversini  di  legno  di  2 
centimetri  di  lato,  perchè  possa  circolare  l'acqua  anche  per  disotto; 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI  783 

la  parte  del  fondo  che  sta  fra  i  traversini  è  bucherata,  e  così  l'acqua 
può  penetrare  nel  cassone  e  diffondersi  per  capillarità.  La  terra 
vuol  essere  fertile,  ma  il  signor  Aranguren  la  rinnova  ogni  anno: 
la  cassa  di  zinco  deve  sempre  contenere  acqua,  per  cui  nei  forti 
calori  accade  di  doverla  riempire  anche  tre  volte  al  giorno.  Con 
questo  metodo  il  signor  Aranguren  ottiene  grappoli  d'una  bellezza 
rimarchevole. 

Per  riuscire  bene  con  simile  coltura  è  necessario  anzitutto  colti- 
vare vitigni  che  vi  si  adattino;  bisogna  a  tal'  uopo  scegliere  vitigni 
ad  interno  di  corti,  e  questo  è  facile  a  spiegarsi:  vi  si  adattano  assai 
bene  i  diversi  Chasselas,  come  il  Chasselas  Cioutat,  il  Chasselas 
de  Fontainebleau  ed  il  Chasselas  rosa.  Inoltre  conviene  concimare 
convenientemente  il  piccolo  cubo  di  terra  posto  a  disposizione  della 
vite,  per  compensare  appunto  il  suo  piccolo  volume:  a  tal  uopo  è 
necessario  adoperare  miscugli  di  solfato  d' ammoniaca,  perfosfato 
d'ossa  e  cloruro  di  potassa,  mercè  cui  si  possono  ottenere  da  ogni 
pianta  parecchi  grappoli  succosi. 

§  7.  Come  favorire  l' ingrossamento  dei  grappoli  ed  an- 
ticiparne, la  maturazione.  —  A  pag.  607  abbiamo  lungamente 
studiato  come  si  possa  favorire  la  maturazione  dell'  uva;  quanto  ivi 
dicemmo  si  applica  eziandio  alle  uve  mangerecce,  anzi  talune  pra- 
tiche sono  indicate  specialmente  per  queste  uve,  che  ordinariamente 
coltivansi  su  modesta  scala.  Accenneremo  specialmente  alla  torsione 
dei  picciuoli,  che  descrivemmo  a  pag.  610;  ma  oltre  alla  torsione 
può  suggerirsi  la  incisione  anulare,  specialmente  se  si  intende  di 
far  anticipare  la  maturanza  dei  grappoli  per  venderli  a  caro  prezzo 
come  primizie.  Coll'incisione  la  maturanza  può  anticipare  anche  di 
quindici  giorni;  essa  si  pratica  sui  getti  uviferi,  al  disotto  del  primo 
grappolo,  se  ve  ne  sono  due,  operando  delicatissimamente  con  un 
coltello,  in  guisa  tale  da  esportare  un  anellino  di  corteccia,  senza 
però  offendere  l'alburno  (fig.  312);  l'operazione  deve  farsi  appena  si 
sono  formati  gli  acini,  cioè  circa  15  giorni  dopo  la  fioritura  (1). 
Ottime  pratiche  sono  pure  la  cimatura  dei  grappoli  di  cui  par- 


(l)  Il  Prof.  Roda  dice  (op.  cit.  pag.  288)  che  con  questa  incisione  la  linfa  di- 
scendente essendo  ivi  trattenuta,  si  porta  tutta  a  beneficio  del  grappolo  vicino, 
ingrossandolo  maggiormente  ed  accelerandone  la  maturanza. 


784 


CAPITOLO  XXV 


lammo  a  pag.  504,  e  il  loro  diradamento,  consigliato  a  pag.  505: 
rimandiamo  ivi  il  lettore  per  non  ripeterci. 


Fig.  312. 


Ed  infine  vi  si  riesce  anche  coltivando  le  viti  in  apposite  serre  o 
stufe,  cioè  colla  coltivazione  forzata. 


§  8.  Conservazione  e  commercio  delle  uve  da  tavola.  — 

È  assai  importante  il  saper  conservare  bene  le  uve  mangerecce.  A 
tal  uopo  conviene  anzitutto  proteggerle  dagli  insetti  avviluppandole 
in  sacchetti  speciali  (1)  o  anche  con  semplice  carta  e  raccoglierle  non 
soltanto  quando  sono  bene  mature,  ma  quando  sono  asciutte.  Spesso 
però  cogliendo  le  uve  anche  solo  dopo  un  tempo  umido  e  per  quanto 
appaiano  secche,  esse  non  si  conservano:  conviene  quindi,  se  possi- 
bile, raccoglierle  asciutte  e  dopo  una  certa  serie  di  giornate  secche. 


(1  )  Questi  sacchetti,  a  rete  di  tela  cerata,  sono  di  varie  dimensioni;  si  possono  acqui- 
stare presso  l'Agenzia  Enologica  di    Milano,  o  lo  Stabilimento  Barbero  eli  Torino, 


COLTURA  DELLE  VITI  NEI  GIARDINI  785 

Staccati  i  grappoli  si  mondano  con  grandissima  cura  dagli  acini 
guasti  o  rotti,  operando  con  forbici  a  punta  aguzza;  poscia  si  por- 
tano in  locale  apposito,  il  quale  deve  essere  al  primo  piano,  asciutto, 
buio  e  fresco.  L'aria,  il  calore,  l'umido  e  la  luce  debbono  penetrarvi 
il  meno  possibile;  perciò  il  locale  vuoisi  tenere  sempre  chiuso.  Al- 
l'interno si  collocheranno  dei  piani  di  legno,  che  siano  movibili  a 
guisa  dei  cassetti,  per  poter  esaminare  prontamente  tutta  l'uva  che 
si  conserva.  Sui  piani  si  distenderà  anzitutto  uno  strato  di  felci  ben 
secche,  e  sopra  si  disporranno  i  grappoli.  In  Francia,  dove  si  con- 
serva l'uva  negli  appositi  fmiitiers,  si  pone  molta  attenzione  a  che, 
nell'inverno,  non  geli  nel  locale,  e  perciò  o  si  aprono  speciali  bocche 
di  calorifero  oppure  si  portano  nel  locale  bracieri  ardenti,  special- 
mente se  l'umido  accenna  a  danneggiare  i  grappoli. 

Usasi  pure  in  Francia  di  appendere  i  grappoli,  mediante  uncino 
ad  S,  a  fili  di  ferro  tirati  lungo  la  camera,  evitando  che  tocchino  i 
muri:  altri  sostengono  che  il  metodo  più  sicuro  per  conservare  l'uva 
durante  parecchi  mesi  è  quello  di  appenderla  a  cordicelle  entro  grossi 
armadii  posti  in  luogo  secco:  altri  ancora  le  mettono  entro  cassettoni, 
chiusi  poi  ermeticamente  con  striscie  di  carta. 

Infine  vi  sono  quelli  che  conservano  l'uva  mettendo  il  sarmento, 
a  cui  è  attaccato  il  grappolo,  dopo  averlo  sfogliato,  entro  bottiglie 
piene  d'acqua  e  contenenti  uno  strato  di  carbone  vegetale  ben  pol- 
verizzato. Comunque  si  conserti  l'uva,  si  deve  visitare  spesso  il  lo- 
cale, e  ripulire  i  grappoli  dagli  acini  guasti:  penetrando  nella  camera, 
bisogna  adoperare  un  lume  anziché  aprire  le  finestre. 

Nei  paesi  però,  ove  l'autunno  è  molto  umido,  si  riesce  difficilmente 
a  conservare  l'uva,  perchè  questa,  mentre  sta  sulla  pianta,  riceve 
soverchia  umidità.  È  per  questo  che  a  Thoméry  si  proteggono 
contro  le  pioggie  le  viti  per  uve  da  tavola,  mediante  tele  incatra- 
mate larghe  1  metro:  le  uve  così  protette,  si  conservano  sanissime 
per  lungo  tempo,  prima  sulla  pianta  stessa  poi  nei  fruitiers. 

Ci  rimane  a  dire  poche  parole  sul  commercio  delle  uve  man- 
gerecci I  Francesi,  che  in  questo  sono  maestri,  usano  smerciare  l'uva 
da  tavola  in  apposite  scatole  assai  eleganti;  queste  scatole  sono  lunghe 
d'ordinario  30  centimetri,  larghe  20  e  profonde  10;  sono  di  legno 
bianco  a  pareti  sottili,  internamente  rivestite  di  carta  fina  e  assai 
bianca.  I  grappoli  vengono  collocati  uno  accanto  all'  altro,  interpo- 
nendo fra  uno  e  l'altro  dei  ritagli  di  carta,  con  cui  poscia  si  coprono 
tutti,  prima  di  applicare  il  coperchio.  Così  si  evitano  le  ammaccature. 
0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  51 


CAPITOLO  XXVI 


Ampelografìa 


Sed  neque.  quam  multae  species,  nec  nomina  quse  sint, 
Est  numerus;  neque  enim  numero  comprendere  refert. 
Virgilio  (1). 


1.  Scopo  ed  importanza  dell' Ampelografìa  —  §  2.  Sistemi  ampelografici  — 
§  3.  Di  alcuni  vitigni  italiani  —  §  4.  Cenni  su  alcuni  vitigni  forestieri  più  ri- 
nomati —  §  5.  Di  alcune  uve  da  tavola  —  §  6.  Le  viti  americane. 


§  1.  Scopo  ed  importanza  dell'  Ampelografìa.  —  Ampelo- 
grafìa è  parola  formata  da  due  voci  greche  (ampelos  vite,  grafon 
descrizione)  e  significa  precisamente  descrizione  della  vite.  Ma  si 
ingannerebbe  chi  credesse  che  Tampelografia  altro  non  fosse  se  non 
un  arido  catalogo  di  descrizioni,  vale  a  dire  un  inventario  delle  viti 
d'un  dato  paese  colla  sinonimia,  cioè  coi  nomi  che  si  corrispondono 
fra  i  molti  dati  allo  stesso  vitigno:  questa  non  è  che  una  parte  del- 
Tampelografia,  per  altro  utilissima;  ad  essa  debbono  accoppiarsi  tutte 
quelle  nozioni  che  riflettono  la  natura  intima,  le  esigenze,  i  pregi 
d'ogni  vitigno,  onde  l'ampelografia  deve  formare  un  tutto  da  cui  e- 
mergano  i  veri  e  sani  precetti  della  viticoltura  e  della  enologia,  adat- 
tati all'indole  delle  diverse  varietà  e  sotto  varietà  delle  viti  coltivate. 


(1)  Georgica,  Lib.  II. 

Ma  nò  quante 

Sian  lor  specie,  e   quale  il  nome,  esporre 

Potrei;  né  tutte  annoverarle  or  monta. 

G.  Sapio  trod. 


AMPELOGRAFIA  787 


Una  arapelografia  simile,  quando  sarà  completata,  costituirà  il  mi- 
glior libro  sulla  viticultura  e  l'enologia  che  si  possa  offrire,  nel  caso 
nostro,  ai  viticultori  italiani.  Colla  sua  scorta  ognuno  sarà  in  grado  di 
semplificare  la  propria  viticultura,  eliminando  quei  molti  vizzati  a  uve 
mediocri,  che  oggi  ingrombano  i  vigneti  italiani;  allora,  avendosi  pochi 
tipi  costanti  nella  materia  prima,  li  avremo  anche  nel  vino,  purché 
sia  fabbricato  con  quelle  cure  che  la  scienza  e   l'arte   suggeriscono. 

\1  ampelografia  comprende  quindi  tre  ordini  di  studii:  la  sino- 
nimia, V  ampelografia  propriamente  detta  e  Y ampelenologia  (1). 

La  sinonimia  raccoglie  e  raffronta  fra  di  loro  i  nomi  diversi  di 
ciascun  vitigno  nei  varii  paesi  e  nelle  varie  lingue,  raggruppando 
quelli  che  sono  sinonimi:  essa  è  come  l'indice  generale  dell'ampelografia, 
che  ci  guida,  colla  scorta  del  nome,  a  trovare  tutte  quelle  nozioni 
che  si  riferiscono  ad  un  dato  vitigno. 

U1  ampelografia  propriamente  detta  descrive  le  qualità  esteriori 
d'ogni  vitigno,  cioè  la  forma  e  l'aspetto  d'ogni  sua  parte,  le  carat- 
teristiche della  varietà,  nonché  le  sue  esigenze  vegetative.  A  queste 
descrizioni  potrebbe  precedere,  come  giustamente  osserva  il  Barone 
Mendola,  la  storia  del  vitigno,  comprendente  le  notizie  sulla  sua 
stazione  originale  o  consueta,  ed  all'ora  si  avrebbe  1'  ampelografia 
comparata  topografica  o  regionale,  pur  essa  utile  al  viticultore. 

L' 'ampelenologia  infine  (come  lo  indica  il  suo  nome  composto  di 
ampelos  vite,  enos  vino  e  logos  discorso)  studia  la  vite  nel  suo  pro- 
dotto che  è  il  vino,  indaga  cioè  le  virtù  interiori  d'ogni  vitigno,  la 
sua  produttività,  come  e  quando  ne  maturino  i  frutti,  quali  pregii  e 
quali  difetti  questi  abbiano  ed  a  quali  usi,  se  alimentari  o  enologici  o 
industriali,  servano.  Come  si  vede  l'ampelenologia  è  parte  importan- 
tissima della  ampelografia;  ne  è  come  il  succo,  se  ci  è  lecito  così 
esprimerci,  e  perciò  essa  è  più  d'  ogni  altri  giovevole  alla  pratica 
della  viticultura  e  della  enologia. 

Riassumendo  abbiamo: 

Sinonimia  !      cianografica 

(esteriore) 


Ampelografia  (  Ampelografia  propriamente  detta 
Ampelenologia 


viticola 
(indole  e  costumi) 

comparata 
(fra  regioni) 


(1)  V.  il  nostro  giornale  II  Coltivatore,  voi.  XX  ove  il  dotto  ampelografo  Barone 
A.  Mendola  propose  pel  primo  questa  voce,  giustificandola  con  acute  osservazioni. 


788  CAPITOLO  XXVI 


Come  si  vede  è  vastissimo  il  campo  de\Y  ampelografia,  e  però  si 
richiederà  ancora  molto  tempo  e  molto  lavoro  prima  che  questo  studio 
sia  completo.  Oggi  quasi  tutti  i  paesi  vitiferi  se  ne  occupano  atti- 
vamente, ed  in  Italia  questo  arduo  compito  è  affidato  ad  un  Comi- 
tato Centrale  Ampelografìco  (presieduto  dallo  studioso  e  dotto  Cav. 
Giuseppe  di  Rovasenda  e  di  cui  fanno  parte  l'onorando  Bar.  Men- 
dola  ed  altri  specialisti)  il  quale  deve  raccogliere  e  coordinare  i  la- 
vori delle  Commissioni  ampelografiche  provinciali.  Ci  auguriamo  che 
questo  importante  lavoro  sia  presto  compiuto. 

§  2.  Sistema  ampelografici.  —  Varii  sistemi  furono  proposti 
per  classificare  i  vitigni,  basati  or  su  questo  or  su  quest'  altro  ca- 
rattere; ne  diremo  qui  brevemente. 

L' illustre  ampelografo  francese  Conte  Odart  divise  (1)  i  nu- 
merosi vitigni  della  sua  rinomata  collezione  della  Dorée  presso 
Tours,  secondo  il  momento  della  loro  maturità  in  quel  suo  vigneto. 
Classificò  perciò  le  viti  in  sei  epoche  o  gruppi;  la  maturità  delle  uve 
di  ognuno  dei  gruppi  differisce  di  circa  10  giorni  da  quello  dei  due 
gruppi  fra  cui  esso  si  trova:  così  nel  1°  gruppo  troviamo  i  vitigni 
precoci  per  uve  da  tavola  (il  morillon  precoce,  Yuva  d'Ischia,  la 
luglienga,  il  madera  verde  ecc.);  nel  2°  gruppo  ì  pinots,  il  tein- 
turier,  la  malvasia  rossa,  il  chasselas  rosato,  ecc.;  nel  3°  gruppo 
il  merlot,  la  barbera,  il  dolcetto,  il  gros  gamai,  il  pinot  bianco  ecc.; 
nel  4°  gruppo  i  syrrahs,  la  barbera  fina,  il  siloaner  rosso,  la 
malvasia  verde  ecc.;  nel  5°  gruppo  Y  aleatico,  Y  aramon,  il  girò, 
il  canajolo,  il  moscato  ecc.,  e  nel  6°  gruppo  il  g renache,  il  refosco, 
la  vernaccia  e  via  via. 

Questa  divisione  ha  un  valore  soverchiamente  locale,  ma  a  dir 
vero  lo  stesso  Conte  Odart  non  pretese  di  aver  proposto  una 
vera  classificazione;  infatti  il  sig.  Marès  nella  sua  collezione  di 
Launac  (Montpellier),  trovò  notevoli  differenze  nella  maturità  re- 
lativamente alle  epoche  stabilite  dal  Conte  Odart.  D'altronde  questo 
solo  carattere  della  maturità  più  o  meno  precoce  non  può  costituire 
la  base  di  descrizioni  e  classificazioni  ampelografiche. 

L'  Acerbi  nelle  sue  descrizioni  Delle  viti  italiane,  propose  una 
classificazione  fondata  sul  colore  dell'  uva,  sulla  forma  degli  acini  e 
sul  loro  sapore,  con  suddivisioni  fondate  sulla   forma  delle  foglie,  il 


(1)  Ampelographie  univer  selle. 


AMPELOGRAFIA  789 


che  è  molto  importante  per  condurre  ad  una  soddisfacente  classifi- 
cazione dei  vitigni.  Il  sig.  Oudart,  già  presidente  della  Commissione 
Ampelografica  di  Alessandria,  proponeva,  anni  addietro,  le  seguenti 
divisioni: 

Classe:  I.  Uve  colorate  —  IL  Uve  bianche. 
Tribù  :  I.  Uve  ad  internodi  corti  —  II.  Uve  ad  internodi  mediani 
—  III.  Uve  ad  internodi  lunghi. 

Ordine:  I.  Uve  ad  acino  rotondo  —  IL    Uve  ad  acino  oblungo. 
Genere:  I.  Uve  a  sapore  semplice  —  IL  Uve  a  sapore  profumato. 

Questo  metodo  sarebbe  ottimo  se  non  comprendesse  la  divisione 
in  tribù  a  seconda  della  lunghezza  degli  internodi,  che  non  è  per 
nulla  un  carattere  costante;  infatti  esso  varia  per  lo  stesso  vitigno, 
(come  per  esempio  il  moscato,  che  offre  viti  a  internodi  corti,  mediani 
e  lunghi)  e  lo  stesso  viticultore  può  farlo  cangiare  a  suo  talento, 
come  lo  provano  le  esperienze  da  noi  fatte  (pag.  182). 

Il  Cav.  Giuseppe  di  Rovasenda  (1),  il  quale  possiede  a  Ver- 
zuolo  (Saluzzo)  una  raccolta  di  oltre  a  4000  varietà  di  vitigni,  clas- 
sifica le  uve,  dopo  averle  divise  in  uve  nere  rosse  e  bianche,  in 
due  grandi  divisioni:  I.  Uoe  a  sapore  semplice.  IL  Uve  a  sapore 
moscato  o  di  fragola.  Queste  due  classi  si  suddividono  ciascuna  in 
uve  ad  acini  sferici,  uve  ad  acini  sferico-ovali,  ed  uve  ad  acini 
decisamente  ovali.  Il  Rovasenda  tiene  anche  calcolo  dei  caratteri 
delle  foglie,  e  propone  quattro  suddivisioni  dicotomiche:  1°  foglie 
glabre,  foglie  tomentose;  —  2°  foglie  trilobe  o  intiere,  e  foglie 
cinquelobate;  —  3°  germoglio  glabro  e  germoglio  lanuginoso;  — 
4°  foglioline  unicolori  e  foglioline  più  o  meno  colorate.  Con  questa 
classificazione  si  arriva  a  formare  88  divisioni,  corrispondenti  a  88 
caselle  di  colori  differenti  ove  è  segnata  la  forma  degli  acini  e  nelle 
quali  devono  trovare  posto  tutte  le  uve  conosciute.  L'illustre  ampe- 
lografo  francese  V.  Pulliat,  lodando  molto  questa  classificazione, 
conclude  dicendo:  «  a  mezzo  di  questa  chiave  dicotomica  si  può  giun- 
gere a  determinare  una  varietà  di  vite  di  cui  si  ignorasse  il  nome 
o  che  si  conoscesse  sotto  una  denominazione  erronea,  caso  troppo 
frequente  nelle  collezioni.  Non  sappiamo   quali  siano  la  precisione  e 


(1)  Saggio  di  una  ampelografia  universale  (E.  Loescher,  1877).  Sin'ora  è  uscita 
la  parte  La  (Elenco  dei  vitigni)  che  è  completa,  e  destò  grande  rumore  fra  gli 
studiosi.  Facciamo  vivissimi  voti  perchè  le  tengano  dietro  presto  le  parti  II.  e  III. 


790  CAPITOLO  XXVI 


l'esattezza  di  questa  chiave  dicotomica;  in  tutti  i  casi  essa  merita  di 
essere  provata  ». 

Ci  associamo  alle  parole  del  Pulliat,  essendo  a  nostro  avviso  questa 
classificazione  del  Rovasenda  fra  tutte  quelle  proposte  la  preferi- 
bile, inquantochè  con  essa  si  tiene  calcolo  dei  caratteri  principali  e  se- 
condarli più  costanti  e  più  apparenti  delle  viti,  e  perchè  nel  proporla 
il  Rovasenda  ha  tratto  partito  degli  studii  degli  ampelografì,  specie 
Italiani,  che  lo  precedettero.  Che  se  si  volesse  tuttavia  obbiettare 
qualche  cosa  a  questo  sistema,  si  dovrebbe  mettere  in  dubbio  la  co- 
stanza nella  forma  degli  acini,  che  il  Rovasenda  collocò  fra  i  ca- 
ratteri primarii;  lo  stesso  autore  riconosce  tuttavia  questa  menda,  e 
ne  dà  infatti  avviso  agli  studiosi  di  ampelografìa  (op.  cit.  206). 

§  3.  Di  alcuni  vitigni  italiani.  —  Se  volessimo  descrivere 
anche  soltanto  i  principali  vitigni  d'ogni  provincia  italiana  e  d'ogni 
regione  straniera,  ci  occorrerebbe  uno  speciale  volume:  dovremo  quindi 
limitarci  assai  in  questi  cenni  ampelografici,  in  attesa  che  qualche 
lavoro  speciale  e  possibilmente  completo  possa  soddisfare  ai  desiderii 
dei  viticultori.  Diremo  prima  di  alcuni  vitigni  italiani  (per  vini  da 
pasto  scelti  e  comuni,  nonché  per  vini  di  lusso):  —  descriveremo 
poscia  alcuni  vitigni  forestieri  rinomati;  —  indi  accenneremo  alle 
uve  da  tavola.  Tutto  ciò  si  riferirà  esclusivamente  alla  vite  euro- 
pea (1):  in  quanto  alle  viti  americane  vi  dedicheremo  in  modo  spe- 
ciale il  Capitolo  XXXI. 

Nebbiolo  piemontese  (Sin.  Spanna,  Prunent,  Melasca,  Picotener,  Chiavennasca). 
—  Si  coltiva  in  Piemonte,  nel  Novarese  e  nella  Valtellina  in  una  grande  zona 
o  striscia  sulle  falde  delle  Alpi.  —  Germoglio  tomentoso  bianchiccio,  tralci  ros- 
sicci a  lunghi  internodi,  foglie  5  lobate  o  solo  3  lobate  a  seni  larghi  e  profondi, 
alquanto  tomentose  sotto,  glabre  sopra  quasi  liscie,  peziolo  lungo  rossiccio  finis- 
simamente peloso,  grappoli  per  lo  più  lunghi,  alati,  piuttosto  uniti  che  spargoli 
ma  non  serrati,  acini  nericci,  coperti  di  pruina  o  nebbia  d'onde  il  nome;  legger- 
mente ovali,  a  buccia  fina;  maturazione  verso  la  prima  quindicina  di  ottobre.  — 
Soffre  il  freddo  umido  durante  la  fioritura,  è  delicato,  non  riesce  bene  in  pia- 
nura, vuole  terre  sane,  asciutte,  leggere,   discretamente   fertili,    preferisce  la  po- 


(1)  Queste  descrizioni  e  notizie  viticole  ed  enologiche  su  parecchi  vitigni  ita- 
liani sono  il  frutto  delle  nostre  poche  osservazioni  e  dei  nostri  studii  snlle  opere 
di  ampelografìa  italica  sin  qui  pubblicate,  fra  cui  meritano  speciale  menzione 
quelle  dell'Acerbi,  del  Rovasenda,  del  Mendola,  del  Demaria  e  del  Leardi,  del- 
l' Odart  e  la  incipiente  del  nostro  Comitato  Centrale  Ampelografico. 


AMPELOGRAFIA  791 


tatura  lunga.  —  Vino  austero,  fragrante  e  ricchissimo  di  eteri  se  vecchio  e  asciutto, 
alcool  13-14  Oft}  in  volumi,  acidità  6  0{00  e  anche  solo  4,50  nel  vino  vecchio; 
suol  dirsi  barolo  il  nebbiolo  coltivato  a  Barolo  e  La  Morra;  si  chiama  invece  da 
alcuni  nebbiolo  il  vino  dolce  fatto  con  questa  uva.  Il  nebbiolo  secco  può  espor- 
tarsi ed  all'estero  si  è  sempre  fatto  molto  onore;  il  nebbiolo  dolce  è  un  vino  spesso 
spumante  e  ripudiato  come  vino  da  pasto  scelto. 

Dolcetto  (Sin.  Nebbiolo,  Uva  d'Acqui,  Ormeasca,  Bignona,  Uva  del  Monferrato, 
Dolutz  nero).  —  Si  coltiva  in  Piemonte  nell'  alto  Monferrato,  in  Lombardia,  nel 
Genovesato  e  nel  Trevigiano:  il  Prof.  Frojo  lo  introdusse  in  Basilicata  in  regioni 
poste  a  600  metri  sul  livello  del  mare.  —  Tralci  color  nocciola,  nodi  vicini,  foglie 
di  media  grandezza,  più  larghe  che  lunghe,  quasi  lucide  sopra,  poco  tomentose 
sotto,  a  3  o  5  lobi  con  seni  rotondi,  dentatura  frastagliata,  peziolo  rossigno,  ner- 
vature rosse,  grappolo  medio,  piramidale,  alato,  né  troppo  serrato  nò  spargolo, 
acini  neri  turchini  pruinosi  generalmente  rotondi,  che  cadono  facilmente  prima 
di  maturare.  —  Vitigno  precoce  buono  pei  climi  freddi,  non  conveniente  pei  caldi, 
vuole  umido  e  caldo  moderati,  terreno  fertile,  meglio  se  sciolto,  è  molto  fertile 
e  si  adatta  a  varii  modi  di  potatura.  —  Vino  nero,  leggero,  passante,  se  ben  fatto 
e  se  viene  da  luoghi  elevati;  alcool  12  0[0,  acidi  6  OfOO?  Pu0  farsene  vino  dolce;, 
il  dolcetto  è  ottimo  misto  ad  altre  varietà  di  maturanza  meno  perfetta. 

Sangioveto  piccolo  o  forte  (Sin.  Sangiovese).  —  Si  coltiva  in  tutta  la  pro- 
vincia di  Firenze  e  nella  Valle  di  Sieve  nella  tenuta  di  Pomino  e  di  Nipozzano, 
ed  alla  Pievecchia.  —  Germoglio  tomentoso,  foglia  di  media  grandezza  più  lunga 
che  larga,  color  verde  vivo  chiaro,  sopra  glabra,  sotto  verde  chiaro,  pelosa  a  peli 
disposti  a  fiocchetti,  5  lobata,  dentatura  rada,  picciuolo  terete,  grappolo  medio 
conico  piramidale  alato,  molto  serrato,  acini  medii  subrotondi  e  depressi,  buccia 
pruinosa  di  color  nero  violaceo,  resistente.  —  Preferisce  essere  coltivato  alto,  al- 
lora produce  molto  e  dà  grappoli  più  grossi;  vuole  terreno  fertile  argillo-calcareo, 
vuole  potatura  corta,  a  cornetto,  benché  allevato  alto;  maturità  tardiva.  —  Vino 
da  pasto  aspro  da  solo,  ottimo  per  miscugli;  molto  colore;  invecchiando  acquista 
aroma  speciale. 

Sangioveto  grosso  o  dolce  (Sin.  Sangiovese).  —  Si  coltiva  nelle  provincie  di 
Firenze  e  Siena,  ove  forma  la  base  di  quegli  ottimi  vini  (Chianti,  Rufìna,  Po- 
mino, Nipozzano)  associato  a  Canaiuolo  nero  ed  al  Mammolo  nero,  e  da  alcuni 
anche  al  Trebbiano  per  avere  vino  più  morbido.  —  Germoglio  verde  chiaro,  foglia 
completa  più  lunga  che  larga,  color  verde  scuro  opaco,  con  macchie  color  fulig- 
gine in  autunno,  sopra  pellucida  levigata,  sotto  quasi  glabra,  verde  più  chiara, 
3  lobata,  lobi  allungati  in  punta,  seni  regolarmente  profondi,  ellittici,  seno  aperto 
all'inserzione  del  picciuolo,  dentatura  fitta,  grappolo  conico,  con  un  grappolo  in 
appendice  che  si  distacca  dal  peduncolo,  semplice,  sciolto,  corto,  di  media  gros^ 
sezza,  peduncolo  robusto,  corto,  acini  grossi,  ovali,  nero-violacei,  pruinosi,  co- 
riacei, resistenti.  —  Se  allevato  alto  produce  di  più,  ma  può  allevarsi  basso;  anche 
se  alto  devesi  potarlo  a  cornetto  con  due  gemme  per  avere  grappoli  più  volumi- 
nosi; potatura  ricca  ma  corta;  preferisce  esposizioni  Sud  ed  Est,  terre   fertili  ar- 


792  CAPITOLO  XXVI 


gilloso-calcaree;  matura  nella  prima  decade  di  ottobre.  —  Vino  da   pasto    squi- 
sito, color  granata:  però  si  associa  alle  indicate  varietà. 

Canaiolo  nero  comune  (Sin.  Cagnina,  Canaiuola).  —  Si  coltiva  in  Toscana  e 
nelle  Marche:  è  una  fra  le  principali  uve  con  cui  si  fa  il  Chianti,  mista  alla  pre- 
cedente. —  Tralci  striati  fittamente,  color  nocciola,  internodi  lunghi  6-8  centim., 
foglia  completa,  verde  carica,  con  macchie  giallo  chiare  in  autunno,  sotto  molto 
tomentosa,  seni  laterali  elissoidei  stretti,  dendatura  rada,  poco  profonda,  appena 
mucronata,  nervature  rilevate,  picciuolo  lungo,  grappolo  conico  allungato,  un 
po'  alato,  spargolo,  di  media  grossezza;  acini  medii  subovali,  nero  violacei  a  buccia 
sottile,  pruinosa.  —  Preferisce  essere  coltivato  sull'  albero,  produce  poco  a  basso 
ceppo,  ama  i  terreni  argillo-calcarei  e  specialmente  i  galestri,  e  le  esposizioni 
Sud  ed  Est.  —  Vino  troppo  austero  da  solo,  e  molto  colorato;  invecchiando  prende 
Tamaro,  perciò  si  usa  mescolarlo  col  Sangioveto  ed  il  Trebbiano. 

Mammolo  nero  (Sin.  Uva  Mammola  asciutta,  Manteca  di  Novoli?)  —  Si  coltiva 
nella  provincia  di  Firenze,  e,  salvo  errore,  a  Novoli  in  provincia  di  Lecce.  — 
Tralci  striati,  nocciola  chiaro,  internodi  lunghi,  germoglio  verde  chiaro,  foglia 
più  lunga  che  larga,  5  lobata,  seni  profondi,  sopra  rugosa,  sotto  molta  peluria, 
verde  più  chiaro,  seno  della  base  stretto,  dentatura  fitta,  grappolo  conico,  acini 
subovali,  buccia  molto  dura,  nero  violacea.  —  Ama  l'albero,  cioè  educazione  alta, 
ma  può  tenersi  bassa  meglio  degli  altri  vitigni  toscani,  resiste  all'oidio,  ma  vuole 
le  solfature,  ama  il  terreno  argillo-calcare,  fiorisce  tardi.  —  Vino  con  profumo 
di  mammola,  molto  colorato;  si  associa  sempre  alle  altre  uve  del  Fiorentino,  e 
si  ha  vino  più  gentile.  Rovasenda  dice  che  per  le  provincie  settentrionali  il  Mam- 
molo è  un  po'  tardo  alla  maturazione:  tuttavia  ne  consigliamo  la  coltivazione  per 
conferire  gratissima  fragranza  ai  vini  da  pasto  scelti,  uso  Rufina  e  Bordeaux. 

Barbera  (non  ha  sinonimi:  forse  lo  Sciaccarello  nero  di  Corsica,  secondo  noi, 
ma  il  Rovasenda  non  lo  ammette).  —  Si  coltiva  in  Piemonte  e  specialmente  in 
Monferrato.  —  Tralci  nocciola  chiaro,  germoglio  verde,  lanuginoso,  foglie  piut- 
tosto grandi,  5  lobate  a  seni  profondi,  sopra  glabre,  sotto  cotonose,  seno  del  pic- 
ciuolo chiuso  verso  il  margine,  dentatura  larga  e  corta,  grappolo  ramoso,  pira- 
midale, gambo  lungo,  acini  ovali  allungati,  neri  violacei  pruinosi,  buccia  assai 
ricca  di  colore,  maturità  dal  20  settembre  al  1°  ottobre.  —  Vitigno  prezioso  per 
la  sua  fertilità  e  pel  suo  prodotto;  si  adatta  all'alberello  ed  al  tralcio  lungo;  si 
adatta  quasi  ad  ogni  terreno,  ma  predilige  quelli  argillo-ferruginosi  ai  calcari, 
è  robustissimo,  produce  molto;  è  però  soggetto  all'antracnosi  ed  alla  peronospora, 
come  moltissimi  altri  vitigni  (1).  —  Vino  austero,  ricco  di  colore,  d'  alcool  e  di 
materie  estrattive;  alcool  12-14  0{o;  acidità  se  giovane  10  0[00>  se  vecchio  6  0[00 
circa:  resiste  ai  viaggi  se  ben  fabbricato;  ricercatissimo  dai  commercianti.  Mista 
colla  bonarda,  lo  zane,  la  moscatellina  ed  altre  uve  del  Monferrato  dà  vino  da 
pasto  squisito. 


(1)  Chi  desiderasse  dettagliate  notizie  sul  Barbera  vegga  lo  studio  esteso  che  noi  ne  abbiamo  fatto 
nel  <liornale  Vinicolo  Italiano  del  1883. 


AMPELOGRAFIA  793 


Fresia.  (Sin.  Fleisa,  Freisa,  Fresa,  Fresietta;  non  ci  consta  che  esistano  altri  si- 
nonimi). —  Si  coltiva  in  tutto  il  Piemonte,  specialmente  a  Chieri,  Torino,  Asti 
e  Casalmonferrato.  —  Tralci  color  cannella  chiara,  striati,  foglie  5  lobate  piccole, 
lobo  rotondato  e  molto  largo  al  peziolo,  seni  poco  profondi,  rugosa  sopra,  dura, 
con  peli  sotto  ma  senza  lanuggine,  grappolo  quasi  cilindrico,  mediocre,  acini 
alquanto  ovali  color  nero  azzurrognolo,  di  maturità  non  sempre  uguale,  buccia 
opaca  poco  pruinosa.  —  Si  adatta  a  qualsiasi  potatura,  produce  molto,  resiste 
alle  malattie  come  pochi  altri  vitigni.  —  Vino  aspro  che  invecchiando  in  luogo 
caldo  si  fa  squisito,  sul  genere  dei  Borgogna:  alcool  10-12  0[(),  acidi  8-10  0[Q0 
se  giovine,  sempre  meno  invecchiando.  —  Misto  al  barbera  dà  vino  da  pasto  e 
da  commercio,  di  corpo  e  colore  avidamente  ricercato  e  che  si  esporta  molto  in 
Isvizzera. 

Fresia  grossa.  (Sin.  Fratina,  Fresia  maschio).  —  Variante  della  precedente,  con 
grappolo  più  voluminoso,  quasi  conico  ed  acini  più  grossi.  —  Si  trova  a  Valenza 
nell'Alessandrino. 

Fresia  pica.  (Sin.  Fresia  piccola?).  —  Altra  variante:  ha  grappolo  più  piccolo 
e  corto  a  forma  di  pigna,  colore  più  carico  e  nero;  vino  meno  aspro  e  più  colorito. 
La  Fresa  di  Nizza  (Neiretta)  ed  il  Freisone  delle  Langhe,  non  sono  Fresie. 

Grignolino.  (Sin.  o  sotto-varietà,  Barbesino,  Verbesino,  Balestra,  Arlandino,  Gi- 
rodino,  Rossetto).  —  Si  coltiva  in  Piemonte  (Casale  e  Asti).  —  Tralci  canella 
chiaro,  internodi  mediani,  foglia  media,  5  lobata,  seni  profondi  ed  aperti,  sopra 
rugosa,  sotto  poco  lanugginosa,  color  verde  scuro,  grappoli  piramidale  ma  di  forma 
poco  costante,  acini  densi,  serrati,  color  rosato  pruinoso  quando  sta  per  maturare, 
rare  volte  violaceo  carico,  fiocine  sottile.  —  Vuole  siti  caldi,  terre  magre  e  so- 
leggiate, allora  dà  vino  scelto  da  pasto,  molto  passante;  la  sua  coltura  si  va  re- 
stringendo in  Monferrato  ai  soli  luoghi  più  adattati.  —  Vino  passante,  rare  volte 
oltre  al  12  0[0  di  alcool,  poco  colorato  salvo  casi  speciali,  ricco  di  tartrato  po- 
tassico e  perciò  molto  diuretico.  Non  invecchia  molto,  al  secondo  anno  è  general- 
mente al  culmine  della  sua  bontà.  Nelle  annate  poco  calde  e  poco  asciutte  il 
grignolino  è  vino  mediocre.  È  bene  associarlo  al  barbera,  per  avere  ottimo  vino 
da  pasto.  (In  parecchi  libri  di  ampelografia  si  leggono  notizie  molto  inesatte  sul 
grignolino,  che  vien  lodato  oltre  i  suoi  meriti). 

Bonarda.  (Sin.  Crovattina  nera.  Nebbiolo  di  Gattinara).  —  Si  coltiva  in  Pie- 
monte (Casale,  Asti,  Torino).  —  Tralci  canella  rossicci,  internodi  medii,  foglia 
allungata,  5  lobata,  seni  discretamente  profondi,  larghi  e  quasi  circolari  in  fondo, 
sopra  liscia,  sotto  un  po'  tomentosa,  verde  bello,  grappolo  tra  il  conico  ed  il  ci- 
lindrico, alato,  acini  rotondi,  densi  neri,  di  maturazione  uniforme,  buccia  spessa, 
polpa  densa  e  dolce.  —  Vitigno  robusto,  atto  ai  terreni  tufacei,  amante  del  caldo, 
ferace  se  si  sa  potarlo;  bisogna  potarlo  sul  vecchio  cioè  alto,  speronando  i  getti 
bassi  sulla  ceppaia  per  Tanno  successivo:  a  noi  produce  tanto  quanto  il  barbera, 
—  Vino  squisito,  o  dolce  di  lusso  o  da  pasto,  secondo  il  metodo  di  fabbricazione. 
Alcool  12  0[0  in  media  nelle  annate  regolari.  Si  associa  con  molto  successo  al 
"barbera,  al   fresia  ed    al  grignolino.    Acidità  normale,    vino  vellutato,    fragrante, 


794  CAPITOLO  XXVI 


serbevole,  igienico.  L'uva  si  conserva  bene  per  l'inverno,  secondo  le  nostre  nu- 
merose esperienze. 

Bonardone  d'Acqui.  —  Identico  al  precedente  ma  assai  più  voluminoso:  il  vino 
è  meno  pregiato,  perchè  il  mosto  è  più  copioso  e  più  acquoso  nei  grappoli. 

Bonarda  di  Cavaglià,  di  Gattinara  e  Ghemme.  —  Differente  dalla  B.  Piemontese 
(Rovasenda)  è  uva  da  mensa.  (Sin.  Balsamea). 

Croetto  o  Lambnisco.  (Sin.  Croetto,  Crovino,  Porcino  d'  Acqui,  Lambrusca  di 
Alessandria  e  delle  Langhe,  Moretto  di  Asti,  Lambrusa).  —  Si  coltiva  in  Pie- 
monte, in  Lombardia,  nell'  Emilia  e  nell'  Italia  Centrale.  Conta  numerose  sotto- 
varietà. —  Tralci  avana  rossicci,  robusti,  internodi  mediani,  foglia  grande,  5  lo- 
bata, seni  poco  profondi,  rugosa  sopra,  leggermente  tomentosa  sotto,  color  verde 
cupo,  grappolo  lungo,  voluminoso,  acini  copiosi,  rotondi,  talvolta  però  oblunghi, 
nero  azzurri,  che  cadono  con  facilità,  d'  onde  forse  il  nome  di  Croetto  (da  croà, 
cadere)  fiocine  spessa  e  poco  pruinosa,  ricca  di  colore.  —  Vitigno  molto  robusto 
e  produttivo,  mette  tardi  e  non  teme  le  brine,  matura  presto  e  bene,  si  adatta  a 
tutti  i  terreni.  —  Vino  colorato,  ma  un  po'  aspro  e  non  troppo  alcoolico;  ottimo 
per  mescolare  con  altri  più  fini;  allora  ottiensi  vino  assai  domandato  in  commercio 
come  vino  da  pasto  di  grande  consumo. 

La  Lambrusca  di  Sorbara  nera  (Modena)  sarebbe  secondo  alcuni  un  tipo  affatto 
differente  dal  descritto:  così  pure  quella  ad  acino  oblungo.  Le  differenze  non  sono 
però  sempre  tali  da  giustificare  le  creazioni  di  nuovi  tipi,  come  spesso  si  fa  per 
troncare  le  discussioni  a  risparmio  di  fatica! 

Balsamina  nera.  (Sin.  Marzamina  e  Vernaccina  di  Pesaro,  Balsamino  e  Berga- 
mina  di  Ascoli  Piceno).  —  Si  coltiva  nelle  Marche.  —  Tralci  striati  ranciati,  in- 
ternodi alquanto  brevi,  gemma  allungata,  germoglio  poco  lanuginoso,  foglia  5  lo- 
bata, spesso  piccola,  col  lobo  medio  ben  distinto  dagli  altri,  seno  della  base  aperto, 
sopra  glabra  verde  giallastra,  sotto  con  leggera  caligine  verso  le  nervature,  color 
più  chiaro,  margine  irregolare,  acuto,  spiccato,  grappolo  quasi  cilindrico,  lungo, 
non  serrato,  acini    sferici    nero   violacei,  pruinosi,   buccia   poco  resistente,  polpa 

zuccherina  acidula   fragrante.    —    Vuole   terreni    sciolti    calcari-siliceo-argillosi, 

se  no  dà  uva  poco  zuccherina;  si  adatta  ad  essere  educato  alto  e  basso,  è  sog- 
getto all'oidio,  non  ha  tralci  robusti.  Il  vino  da  solo  è  aromatico,  mescolato  con 
altre  uve  dà  buon    vino  da  pasto;  alcool  in    voi.  10  0ft)  in  media,    anche  12-13, 

acidi  6  OjoO-  —   Le  balsamine  di  pianure  asciutte  hanno  poco  aroma   e  possono 

dare  vino  da  pasto  scelto. 

B  alsamina  Galloppa.  (Sin.  Gaglioppa,  Galloppa  o  Galloffa).  —  Vitigno  affine  che 
si  va  sostituendo  al  precedente,  massime  a  Macerata,  Forlì,  Ascoli,  Teramo,  perchè 
più  robusto  e  non  aromatico. 

Be  rzemino.  (Sin.  Merzemino,  Marzamino,  Balsamira).  —   Si  coltiva  in  Monfer- 
rato, nel  Veneto,  in  Lombardia,  nell'  Emilia,    nel  Tirolo.    Non  deve    confondersi 
colla  balsamina  nera.  —  Tralci  avana  rossicci,  robusti,  gemma  alquanto  depressa' 


AMPELOGRAFIA  795 


foglia  grande,  allungata,  3  lobata,  seni  poco  profondi,  leggermente  rugosa  sopra, 
ma  tomentosa  sotto,  color  verde  cupo,  grappolo  conico,  racemoli  grossi  e  spargoli, 
acini  densi,  copiosi,  assai  disuguali,  color  bigio  con  fondo  violaceo  quasi  neror 
fiocine  spessa,  molto  pruinosa.  —  Polpa  senza  profumo.  —  Vitigno  robusto,  di 
media  feracità,  alligna  quasi  in  ogni  terreno,  in  esposizioni  calde  secche  resiste 
all'oidio.  —  Dà  vino  da  pasto  buono  e  fino. 

Lacrima.  (Sin.  Lacrima  di  Napoli,  Lacrima  Christi;  differisce  però  dal  notissimo 
Lacrima  dei  paesi  meridionali  (1)).  —  Si  coltiva  nelle  Marche  ed  anche  un  po' 
negli  Abruzzi.  —  Tralcio  verde  rossastro,  internodi  corti,  foglia  completa,  5  lobata 
mezzana,  dentatura  irregolare,  arcuata,  sopra  glabra  verde  scura,  sotto  glabra 
meno  intensa,  grappolo  lungo,  piramidale,  acini  subovali,  con  lunghi  pedicelli 
violacei,  con  pruina  biancastra  e  buccia  dura.  —  Vitigno  abbastanza  vigoroso,  pre- 
ferisce essere  tenuto  alto  e  potato  lungo,  nemico  dell'esp.  nord:  resiste  alle  pioggie. 
ma  è  soggetto  all'oidio:  produce  poco  ma  il  prodotto  è  eccellente.  —  Vino  rosso 
fra  i  migliori  delle  Marche,  color  rubino,  fragranza  graziosa,  le  bucce  dell'  uva 
si  adoperano  per  dar  colore  agli  altri  vini;  alcool  11-12  Ojo,  acidi  6-7  OfoO- 

Uva  di  Troja.  (Sin.  Troja,  Uva  di  Canosa).  —  Si  coltiva  nelle  Puglie  su  va- 
stissima scala.  —  Tralcio  liscio  rigato,  rossatro,  internodi  corti,  foglia  media  o 
piccola,  sopra  verde  chiara,  rugosa,  senza  peli,  sotto  tomentosa,  verde-bianchiccia, 
5  lobata  regolarmente,  seni  poco  profondi,  dentatura  minuta,  grappolo  cilindrico, 
alato,  acini  medii,  rotondi,  buccia  lucida,  coriacea,  azzurro-cupa,  non  soggetta  a 
marcire,  sapore  dolce,  un  po'  aromatica.  —  Vitigno  robusto,  resistente,  però  mu- 
tabile nei  caratteri  dell'uva,  potendo  dare  vini  coloratissimi  e  vini  poco  colorati. 

—  Vino  notissimo  da  taglio  detto  vin  di  Barletta,  o  vino  di  Bari,  alcool  13  Ojo 
in  mosto,  molto  colore,  si  associa  ad  altre  uve,  fra  cui  il  Somarello  o  Mondonico; 
è  un  vitigno  rinomato  essenzialmente  per  il  vino  da  taglio  o  concia:  non  è  con- 
sigliabile pei  vini  da  pasto  di  diretto  consumo. 

Verdicchio  bianco  (Sin.  Trebbiano  bianco,  Verdea,  Verdicchio  giallo,  peloso).  — 
Si  coltiva  nelle  Marche,  negli  Abruzzi,  nell'Umbria,  in  Romagna  e  fino  nel  Friuli. 

—  Tralci  color  nocciola,  rigati,  ruvidi,  internodi  corti,  foglia  mediana,  5  lobata, 
lobo  di  mezzo  cuoriforme,  seni  stretti,  elissoidei,  sopra  glabra,  ruvida,  verde  scura, 
sotto  con  sottile  peluria,  grappolo  conico,  allungato,  alato,  acini  di  media  gros- 
sezza, sferici,  subrotondi,  buccia  coriacea,  pruinosa,  polpa  un  poco  croccante,  sapor 
semplice,  dolce.  —  Vitigno  di  media  forza  e  produttività,  si  coltiva  basso  o  alto, 
più  spesso  basso;  nelle  terre  sciolte  dà  uva  più  zuccherina,  nelle  terre  argillose 
produce  di  più,  ma  uva  meno  fina:  l'uva  può  conservarsi  anche  nell'  inverno.  — 
Si  può  fabbricare  vino  da  pasto,  o  vino  di  lusso;  se  ne  raccomanda  la  coltiva- 
zione per  produrre  di  preferenza  i  primi,  che  si  potrebbero  esportare  se  secchi, 
limpidi,  bene  depurati.  Alcool  11-12  0\q,  acidi  7  Ojoo- 

Erbaluce  (Sin.  Erbalucente,  Erbalus:  dice  Rovasenda  che  è  erronea  la  sinonimia 


(1)  «  Lacrima,  Lacryma  o  Lagrima  sono  nomi  cosi  diffusi  in  Italia  ed  applicabili  a  tante  uve  di- 
verse, che  non  sarà  cosa  facile  lo  sceverare  le  sinonimie  o  le  diversità  dalle  une  alle  altre  >>  Cosi  iL 
Rovasenda  (Amp.  Un.  96). 


796  CAPITOLO  XXVI 


con  Trebbiano  gentile  affermata  da  varii  ampelografi).  —  Si  coltiva  specialmente  nel 
Canavesano  (Caluso),  ma  anche  nel  Basso  Monferrato  e  nell'Astigiano.  —  Sarmenti 
cannella  giallastri,  internodi  medii,  foglia  piccola,  allungata,  5  lobata,  sottile,  sotto 
e  sopra  glabra,  verde  vivo,  grappolo  cilindrico,  acini  densi,  quasi  compressi,  ro- 
tondi, fiocine  dura,  quasi  senza  pruina,  polpa  croccante,  con  sapore  gradevolis- 
simo benché  non  profumato.  —  Vuole  buone  esposizioni  e  terreni  non  troppo 
tenaci.  È  avvezzo  alla  potatura  lunga  nel  Canavesano;  noi  pure  lo  coltiviamo  a 
lungo  tralcio,  con  eccellenti  risultati.  —  Coli'  appassimento  delle  uve  si  ottiene 
il  famoso  Vin  Santo  di  Caluso;  noi  la  coltiviamo  come  uva  da  tavola;  si  conserva 
assai  bene. 

§  4.  Cenni  su  alcuni  vitigni  forestieri  più  rinomati.  — 

Dobbiamo  limitarci  molto  in  queste  descrizioni,  perchè  non  è  in  un 
libro  dedicato  in  special  modo  alla  coltura  della  vite,  che  si  debbono 
radunare  le  descrizioni  ampelografiche.  Ciò  valga  a  scusarci  presso 
i  lettori. 

Pinot  noir  (Sin.  Pinot  frane,  Noirien,  Sauvignon  noir,  Noirien  des  riceys).  — 
Si  coltiva  nella  Borgogna  ed  è  notisimo  anche  in  Italia,  ove  fu  introdotto  nei 
decorsi  anni.  —  Grappolo  compatto,  corto,  acini  mediani,  rotondi,  serrati,  matu- 
razione precoce,  circa  al  15  settembre.  Rovasenda  dice  che  bisogna  coltivare  il 
Pinot  a  speroni,  in  terreni  poco  ricchi,  e  non  mai  a  potatura  lunga;  il  vino  ò 
squisito,  ma  tende  all'amaro  se  si  raccolgono  le  uve  a  maturazione  troppo  inol- 
trata. 

Cabernet  (Sin.  Cabernet,  Vidure).  —  Si  coltiva  nel  Bordolese  e  specialmente 
nelle  graves  del  Médoc.  Ve  ne  sono  tre  sotto-varietà,  petit  C,  C.  frane  e  C.  Sau- 
vignon. Quest'ultimo  è  il  più  stimato.  Differiscono  poco  una  dall'altra;  grappoli 
conici,  acini  rotondi,  serrati,  neri  violacei,  buccia  consistente,  ricoperti  di  pruina 
abbondante,  sapore  dolce;  foglie  5  lobate,  a  seni  profondi,  color  verde  carico,  a 
denti  larghi,  ottusi.  —  Vuole  terreno  siliceo  pietroso  con  poca  argilla,  esposizione 
aerata  e  soleggiata. 

Molti  credono  erroneamente  che  il  famoso  vino  di  Bordeaux  sia  fabbricato  co^ 
solo  Cabernet;  possiamo  dire  per  le  prove  fatte  che  quest'uva,  se  sola,  non  dà  un 
gran  vino;  nel  Bordolese  si  usa  infatti  mescolare  col  Cabernet  il  Merlot,  il  Malbec 
ed  il  Verdot,  nonché  i  varii  Cabernet,  perchè  si  è  osservato  che  solo  in  questo 
modo  può  ottenersi  quel  rinomato  vino.  L'unità  di  ceppo  colà  non  è  guari  am- 
messa, e  si  consiglia  dai  più  intelligenti  del  luogo,  di  impiantare  il  vigneto,  ad 
esempio,  con  2j3  di  Cabernet  Sauvignon  ed  il  rimauente  con  Merlot,  Verdot  e 
Camernelle  in  uguali  proporzioni  (1|9). 

Sauvignon  (Sin.  Surin,  Fié,  Blanc-fumé,  Servoyen,  Savagnin,  Punechon).  —  Si 
coltiva  specialmente  nel  Bordolese  (Gironda),  ma  anche  nella  Borgogna  ed  in  altre 
regioni  francesi.  Taluni  sostengono  che  il  famoso  Riesling  è  un  Sauvignon;  Odart 
non  lo  ammette  però.  —  Tralci  grigi  giallastri,  meritalli  corti,  foglia  verde  ca- 
rica, grandezza  mediana,  lobi    distinti,  3  lobata,    dentata,  tomentosa  abbondante- 


AMPELOGRAFIA  797 


mente  sotto,  grappoli  serrati,  piccoli,  acini  oblunghi,  piccoli,  color  ambra,  dolci, 
gradevolissimi.  —  Vitigno  di  grandi  pregi;  esso  dà  i  rinomati  vini  di  Sauterne 
e  di  Chàteau-Iquem.  Rovasenda  dice  che  esso  riesce  perfettamente  nelle  colline 
Saluzzesi,  e  noi  possiamo  soggiungere  che  in  Italia  ha  dato  dappertutto  ottimi 
risultati.  Ne  raccomandiamo  caldamente  la  diffusione  nel  nostro  paese,  per  la 
produzione  dei  vini  bianchi  scelti. 

Teinturier  (Sin.  Tintoria,  Tinta  francisca,  Nerone?  Rame  noir,  Titilla  de  Rota, 
Tinto  de  Grenade,  Rome  de  Motril,  Fcerber).  —  Si  coltiva  in  Francia,  in  Italia, 
in  Spagna,  in  Portogallo  e  nei  paesi  Renani.  Si  riconosce  facilmente  per  le  sue 
foglie  macchiate  di  rosso,  vario  tempo  prima  della  vendemmia,  e  rosse  del  tutto 
al  momento  della  raccolta.  Grappoli  rossi,  tondeggianti,  acini  serrati,  neri,  con 
succo  rosso-sangue.  E  una  fra  le  pochissime  uve  che  abbia  la  materia  colorante 
non  solo  nella  parte  interna  della  buccia,  ma  anche  distribuita  nella  polpa.  — 
Vino  mediocrissimo;  serve  solo  per  colorare;  bisogna  usufruttare  anche  le  buccie 
facendole  macerare  in  acqua  alcoolizzata  ed  àcidulata  con  acido  tartrico.  Anche 
le  foglie  contengono  una  materia  colorante  da  noi  trovata  nei  1882  (pag.  217). 

Sirah  (Sin.  Sirac,  Siras,  S'rane  franche).  —  Si  coltiva  nelF  Hermitage  e  nella 
Còte  Ròtie;  fu  introdotto  anche  in  Italia;  in  Monferrato  riesce  bene.  —  Tralci  in 
inverno  di  color  grigio  speciale,  quasi  un  fondo  bruno  coperto  con  velo  grigio, 
internodi  lunghi,  nodi  violetti,  foglie  grandi,  un  po'  cotonose  sotto,  grappoli  ci- 
lindrici, acini  neri,  eguali,  poco  serrati,  oblunghi.  —  Dà  vino  ottimo,  ricco  di 
alcool  e  di  colore;  riesce  bene  quasi  in  ogni  terreno,  specie  però  nel  calcare.  Se 
ne  raccomanda  la  diffusione. 

Gamai  (Sin.  Gamet).  —  Molto  diffuso  in  Francia;  introdotto  con  successo  in 
Italia.  Si  adatta  alla  potatura  corta  ad  alberello.  —  Vi  sono  molti  Gamais;  in 
generale  si  riattaccano  tutti  ad  un  tipo  solo,  con  grappoli  mediani,  serrati,  quasi 
cilindrici,  fiocine  spessa,  nera,  acini  subrotondi,  spesso  deformati  dalla  pressione, 
foglie  mediane,  3  lobate,  a  lobi  larghi,  seni  poco  profondi,  sopra  glabre,  verde 
cariche,  sotto  pochi  peli  e  color  verde  poco  carico.  —  Pianta  assai  fertile,  poco 
soggetta  alle  colature;  vino  rosso  ottimo  da  commercio.  Se  ne  può  estendere  la 
coltivazione  in  siti  elevati  alpestri  e  freddi,  nei  quali  la  vigna  con  altri  vizzati 
non  sarebbe  coltivabile:  così  Rovasenda. 

Grenache  nero  (Sin.  Bois  jaune,  Alicante,  Canonao?  Girò?).  —  Si  coltiva  in 
Francia,  in  Spagna  ed  in  Italia  (Sardegna).  —  Foglia  piuttosto  3  lobata  che  5  lo- 
bata, tralci  color  gialliccio,  grani  poco  serrati,  di  un  bel  colore  nero,  sapore  zuc- 
cherato fino.  —  Vitigno  ottimo  per  fare  alberelli;  produce  molto,  resiste  alle  ma- 
lattie e  dà  vino  ricco  di  alcool  e  di  colore.  Noi  lo  coltiviamo  in  Monferrato  con 
grande  successo;  ne  raccomandiamo  la  diffusione. 

Riesling  bianco  (Sin.  Gentil  aromatique).  —  Si  coltiva  nelle  provincie  Renane, 
nel  Trentino  e  fu  introdotto  anche  in  Italia,  ma  con  esito  non  dappertutto  buono, 
perchè  il  suo  grappolo  serrato  è  soggetto  a  marcire.  —  Legno  fino,  foglia  me- 
diana, profondamente  lobata,  dentatura  ottusa,  sopra  verde  cupa,  sotto  grigio  ver- 


798  CAPITOLO  XXVI 


dastra,  discretamente  pelosa,  grappolo  non  serrato,  acini  rotondi,  verdi  giallastri, 
punteggiati  in  bruno,  buccia  sottile,  con  sapore  speciale  che  si  ripresenta  poi  nel 
vino.  —  I  rinomati  vini  del  Reno,  specie  il  Johannisberg,  sono  fabbricati  con 
quest1  uva. 

§  5.  Di  alcune  uve  da  tavola.  —  Vi  sono  uve  da  tavola  le 
quali  servono  anche  a  fabbricare  vino,  ma  talune  fra  le  migliori  non 
servono  affatto  alla  vinificazione.  Le  uve  mangerecce  debbono  avere 
buccia  spessa  e  polpa  carnosa,  poco  acquosa  cioè  croccante:  inoltre 
i  grappoli  possibilmente  non  debbono  essere  troppo  serrati.  Descri- 
viamone alcune  (1). 

Chasselas  bianchi.  —  Nei  cataloghi  dei  pepinieristi  se  ne  trovano  moltissime 
sotto- varietà,  con  troppi  nomi  differenti  e  spesso  inutili.  Il  Chasselas  bianco,  quello 
di  Bordeaux  e  quello  di  Fontainebleau  sono  buonissime  uve  da  mensa,  precoci,  a 
buccia  sottile  ma  che  non  impedisce  la  conservazione  dell'  uva  per  molto  tempo. 

—  Il  Chasselas  moscato  è  un  vero  Chasselas  bianco  ed  è  pure  un  vero  Moscato, 
ma  più  fino  e  gentile;  acini  poco  serrati,  abbastanza  grossi:  non  è  molto  fertile. 
Quello  di  Fontainebleau  ha  grappolo  mediano  o  grosso,  acini  rotondi,  poco  serrati, 
di  color  bianco  giallo:  rende  molto.  Quello  detto  Cioutat  si  riconosce  facilmente 
per  le  sue  foglie  frastagliate;  uva  non  molto  sapida. 

Chasselas  rosati.  —  Quello  detto  fendant  doux  o  Tokai  dei  giardini,  ha  acini 
rotondi  color  rosa  chiaro:  è  molto  fertile  e  si  conserva  bene:   matura  in  ottobre. 

—  Quello  detto  di  Montauban  ha  grappoli  grossi,  sapore  fino,  si  serban  bene, 
maturano  in  settembre.  Quello  detto  di  Nég?*epont  ha  color  rosa  carico,  acini 
rotondi,  sapore  spiccato  ottimo,  matura  in  principio  di  settembre.  Oltre  a  molti 
altri  C.  rosati,  vi  ha  quello  detto  grossissimo,  perchè  ha  grappoli  voluminosi, 
acini  grossi  sferici;  è  molto  fertile. 

Moscato  bianco.  —  Uva  notissima  e  che  si  coltiva  dovunque  specialmente  per 
far  vino.  LT  accenniamo  solo  per  far  noto  che  ve  ne  ha  una  sola  qualità,  e  che 
il  moscato  di  Siracusa,  quello  di  Asti  e  Strevi,  quello  di  Ciambava,  quello  di 
Frontignan  ecc.  ecc.  è  tutt'uno.  Il  Rovasenda,  che  ha  potuto  fare  studii  di  con- 
fronto, lo  attesta. 

Moscatellone  bianco.  (Sin.  Zibibbo  in  Sicilia,  Saramanna  in  Toscana,  Muscat 
d'Alexandrie  in  Francia).  —  Foglie  per  lo  più  5  lobate,  ma  talvolta  3  lobate: 
acini  ovoidi,  grossi,  poco  serrati,  grappoli  voluminosi,  vitigno  fertile,  vuole  la 
spalliera.  Ottima  uva  profumata;  in  Francia  si  usa  spuntarne  i  grappoli  (v.  pag.  504). 


(1)  Chi  desiderasse  acquistare  barbatelle  di  buone  uve  da  tavola  deve  rivolgersi 
al  sig.  Giuseppe  Ruatta  a  Verzuolo  (Saluzzo)  che  può  fornirle  delle  rinomate  col- 
lezioni del  Rovasenda. 


AMPELOGRAFIA  799 


Luglienga.  (Sin.  Bona-in-ca  nel  Trentino).  —  Uva  notissima,  acini  ovali,  car- 
nosi, con  sapor  semplice  ma  delicatissimo,  rinomata  per  la  sua  precocità.  Bisogna 
coltivarla  ad  esposizione  calda. 

Moscato  di  Madera.  (Sin.  M.  violetto).  —  È  un  eccellente  moscato  nero-violaceo 
per  la  mensa;  taluni  lo  ritengono  il  migliore.  Rovasenda  dice  che  riesce  meglio 
in  vigneto  che  a  pergolato,  perchè  se  vien  dato  grande  sfogo  alla  pianta,  i  suoi 
acini  rimpiccioliscono. 

Muscat  Hambourg.  —  Uva  di  grande  apparenza  e  squisita  per  tavola.  Grandi 
grappoli,  acini  ovali,  neri,  profumati. 

Occhio  di  pernice.  —  Ricercato  per  la  mensa:  si  coltiva  in  Piemonte  ed  in  To- 
scana, ha  sapore  moscato,  acini  belli,  rossi,  croccanti. 

Pansé  precoce.  (Sin.  P.  Sicilien).  —  I  Francesi  chiamano  generalmente  pansé 
le  uve  ad  acini  grossi,  ovali,  giallognoli;  questa  è  abbastanza  precoce,  con  polpa 
tenera  sugosa  ed  è,  a  detta  del  Rovasenda,  una  delle  migliori  per  la  mensa. 

Paradisa  bianca.  —  Coltivata  nel  Bolognese.  Ottima  per  la  tavola;  si  conserva 
bene  fino  all'inverno.  Acini  bianchi,  o  meglio  dorati. 

Gros  Damas  Violet.  (Sin.  Gros  Maroc,  Gros  Ribier?  Damaschener  dei  Tedeschi). 
—  Coltivata  nella  Francia  Meridionale;  aspetto  bellissimo,  acini  grossi,  ovoidali, 
poco  serrati.  Vuole  esposizioni  calde  perchè  l'uva  maturi  bene.  È  vitigno  fertile. 

Honigler  blanc  (Sin.  Mezes  di  Ungheria,  Bela  Okrugla  Ranka,  cioè  bianco  ro- 
tondo precoce).  —  Rovasenda  dice  che  questo  vitigno  è  da  consigliarsi  per  la 
sua  precocità  e  fertilità;  riesce  bene  costantemente  nelle  colline  del  Saluzzese. 
Uva  bianca  da  tavola. 

Morillon  d'  Espagne.  —  Non  è  accertato  che  venga  dalla  Spagna;  coltivato  in 
Piemonte  con  buon  esito.  Pare  una  grossa  luglienga,  matura  più  tardi:  è  una 
fra  le  migliori  uve  bianche  da  tavola. 

Bicane  bianca  (Sin.  Pansé  jaune,  Occhivi).  —  Uva  bianca  da  tavola  di  primis- 
simo ordine;  acini  bianco  dorati,  grossi;  di  aspetto  assai  elegante.  —  Il  vitigno 
però  vuole  terreno  fertile.  Matura  a  mezzo  settembre. 

§  6.  Le  viti  americane.  —  (Veggasi  il  Cap.  XXXI,  ove  sono 
diffusamente  studiate  quelle,  fra  le  V.  americane,  che  sin'ora  meglio 
resistono  alla  fìllosseronosi). 


CAPILOLO  XXVII 


Malattie   della  Vite, 


1.  Spiegazioni  —  §  2.  L'aborto  dei  fiori  o  colatura  —  §  3.  La  sterilità  — 
§  4.  La  càscola  o  caduta  dei  frutti  —  §  5.  La  scottatura  degli  acini  —  §  6.  Il 
marciume  dell'uva  —  §  7.  La  melata  o  manna  —  §  8.  La  clorosi  —  §  9.  La 
rogna  o  malattia  dei  tubercoli  —  §  10.  La  cancrena  o  seccume  —  §  11.  Il 
bastardume. 


§  1.  Spiegazioni.  —  Dividiamo  le  malattie  della  vite  in  tre 
grandi  classi;  quelle  prodotte  dalle  condizioni  speciali  di  clima  e 
di  terreno  in  cui  vive  la  pianta,  quelle  prodotte  da  insetti,  e  quelle 
causate  da  crittogame. 

Le  malattie  della  prima  classe  si  potrebbero  chiamare  infermità 
le  altre  lesioni,  e  crediamo  che  esse  abbraccino  tutte  quelle  altera- 
zioni intrinseche  ed  estrinseche,  le  quali  costituiscono  la  nosologia 
della  vite. 

In  questo  capitolo  studieremo  quindi  le  infermità  principali  cui  la 
nostra  preziosa  pianta  va  soggetta,  e  come  logica  conseguenza  fa- 
remo tosto  seguire  altro  capitolo  sulle  «  avversità  atmosferiche  »  le 
quali  sono  così  spesso  la  causa  di  quelle.  Diremo  poi  degli  insetti 
dannosi  alle  viti  (Cap.  XXVIII),  infine  ci  occuperemo  di  alcune  fra 
le  più   temibili  crittogame  (Cap.  XXIX). 

Le  malattie  della  vite  dovute  alla  influenza  del  clima  o  del  suolo 
sono  essenzialmente  le  seguenti: 

1°)  L'aborto  dei  fiori  o  colatura,  2°)  la  sterilità,  3°)  la  càscola, 
4°)  la  scottatura  degli  acini,  5°)  il  marciume  dell'uva,  6°)  la  melata. 


MALATTIE  DELLA  VITE  801 

7°)  la  clorosi,  8°)  la  rogna,  9°)  la  cancrena  o  seccume,  10)°  il  ba- 
stardume. 

§  2.  L'aborto  dei  fiori  o  colatura.  —  È  questa  una  fra  le 
più  gravi  malattie  della  vite,  cui  essa  va  soggetta  in  primavera:  ac- 
cade allora  che  dopo  la  fioritura  non  si  mostrano  i  piccoli  acini,  in- 
vece il  grappolo  s'allunga  in  viticcio  o  capreolo  (1),  per  cui  si  dice 
che  il  fiore  ha  abortito,  il  frutto  non  ha  attecchito,  è  colato  (fran- 
cesismo venuto  da  coulure).  I  danni  che  arreca  la  colatura  in  tutta 
Italia,  dalla  Sicilia  al  Piemonte,  sono  annualmente  gravissimi,  perchè 
è  ingente  la  quantità  d'  uva  che  per  essa  si  perde.  Ciò  accade  in 
iscala  tanto  più  vasta  quanto  più  le  viti  crescono  in  terreni  pingui 
e  piuttosto  umidi  per  natura,  specialmente  poi  se  V autunno  e  l'in- 
verno furono  tali  da  fornire  all'  arbusto  una  soverchia  quantità 
d'umore,  e  se  piovve  molto  massime  con  tempo  freddo  in  prima- 
vera. Allora  tutte  le  viti  giovani,  rigogliose  e  potate  corte,  vanno 
soggette  all'aborto,  perchè  gli  organi  sessuali  non  possono  acquistare 
quello  sviluppo  che  loro  è  necessario.  Nel  Brindisino  l'aborto  arreca 
gravissimi  danni,  perchè  si  succide  la  vite  (pag.  489);  in  Sicilia  (per 
esempio  Mascali)  si  ha,  in  certi  terreni  e  con  piante  vigorose,  molta 
colatura  {scurritina)  se  si  lascian  pochi  cornetti  o  spalle,  perchè  al- 
lora v'ha  troppo  succo,  ed  i  fiori  rimangono  come  affogati. 

Fra  tutte  le  pratiche  suggerite  per  impedire  la  colatura,  la  mi- 
gliore è  certamente  il  salasso  della  vite  in  maggio,  prima  della 
fioritura.  Il  salasso  è  il  taglio  delle  punte  dei  tralci  legnosi,  da  cui 
sorgono  i  getti  portanti  uva,  e  sua  mercè  la  vite  si  libera  dall'eccesso 
di  umore  acquoso.  Si  esporta  solo  la  punta  del  tralcio,  per  circa  un 
centimetro,  operando  quando  le  gemme  sono  tutte  sbucciate.  Se  l'u- 
mido è  abbondante  si  salassa  di  nuovo,  riaprendo  la  ferita,  locchè 
si  deve  fare  circa  ogni  4  o  cinque  giorni.  L'operazione  si  può  ripe- 
tere quattro  o  cinque  volte,  e  spesso  accade  che  si  veda  la  necessità 
di  ripeterla  anche  otto  volte,  cioè  fino  oltre  alla  metà  di  giugno.  Non 
si  tema  però:  se  ne  avranno  sempre  reali  vantaggi,  purché  però 
la  pianta  richieda  veramente,  essendo  pletorica,  quei   tagli.  Si 


(1)  Si  ritiene  che  quando  spunta  un  viticcio  (o  grappolo  abortito),  per  quanto 
il  germoglio  si  allunghi,  non  porta  più  grappoli  al  disopra  del  viticcio  stesso. 
Questo  aborto  può  anche  verificarsi  per  difetto  di  succo  alimentatore,  ma  più 
spesso  accade  per  un  eccesso  di  succo  acquoso. 

0.  Ottavi,   Trattato  di   Viticoltura.  52 


802  CAPITOLO    XXVII 


noti  poi  che  quando  i  tralci  hanno  già  le  foglie,  il  salasso  giova  a 
provocare  una  perdita  di  umore  di  notte  tempo,  se  non  di  giorno; 
intanto  ciò  influisce  sempre  assai  a  prevenire  1'  aborto.  Il  salasso  si 
fa  col  forbicione,  ed  è  operazione  quanto  mai  spiccia:  abbiamo  del 
resto  constatato  che  la  spesa  occorrente  è  compensata  ad  usura  dal- 
l'aumento grande  che  verificasi  per  certo  nel  raccolto  dell'uva. 

È  superfluo  notare  che  se  la  primavera  trascorre  asciutta,  non 
occorre  salasso,  massime  con  viti  vecchie  e  non  molto  rigogliose; 
anzi  allora  il  salasso  sarebbe  nocivo  assai. 

Altro  mezzo  per  prevenire  la  colatura  è  Yincisione  anulare  dei 
tralci,  per  cui  il  succo  affluendo  con  minor  impeto  sui  grappoli  na- 
scenti, si  elabora  alquanto,  e  non  fa  abortire  i  fiori.  Questo  taglio 
circolare  si  fa  sulla  corteccia  andando  fino  all'  alburno  {che  però 
non  si  deve  intaccare)  e  precisamente  alla  base  dei  tralci  frutticosi 
più  robusti,  operando  prima  della  fìoratura,  come  si  fa  nel  Lazio.  Si 
apre  per  questo  fine  un  coltello,  ma  solo  tanto  quanto  basti  perchè 
tra  la  lama  ed  il  manico  possa  essere  contenuto  in  tutto  il  suo  spes- 
sore il  tralcio  che  si  vuol  incidere.  Quando  il  detto  tralcio  è  così 
collocato,  l'uomo  che  tiene  il  coltello  colla  destra,  gli  imprime  un 
moto  circolare  attorno  al  tralcio  praticando  l'incisione. 

È  però  molto  più  spiccio  incidere  le  viti  mediante  una  apposita 
tenaglia,  a  due  lame  taglienti  nel  mezzo,  e  con  una  molla  da  seca- 
tore  quale  è  disegnata  nella  fig.  313:   con  essa    si  fa  una  incisione 


Fig.  313. 

anulare  della  larghezza  di  4  ad  8  millimetri,    secondochè  il  ramo  è 
più  o  meno  grosso. 

Che  l' incisione  impedisca  in  parte  la  scomparsa  dei  grappoli,  lo 
dimostra  la  seguente  esperienza  da  noi  fatta  al  podere  viticolo  del 
Cardello:  scelte  varie  piante  di  viti  vecchie  e  giovani  nelle  identiche 


MALATTIE  DELLA  VITE  803 

condizioni  le  dividemmo  in  due  categorie:  le  incise  e  le  non  incise. 
Prima  di  praticare  questo  taglio  anulare  contammo  i  grappoli;  li 
contammo  di  nuovo  40  giorni  dopo  la  incisione,  ed  eccone  i  risultati: 

Piante  vecchie  non  incise         .         .         .         grappoli  150 
Dopo  40  giorni »  54 

Perdita  grappoli     96 

Piante  vecchie  incise       ....         grappoli  125 
Dopo  40  giorni »         122 

Perdita  grappoli      3 

Piante  giovani  non  incise         .         .         .         grappoli  116 
Dopo  40  giorni »  80 

Perdita  grappoli    36 

Piante  giovani  incise        ....         grappoli  120 
Dopo  40  giorni »         115 

Perdita  grappoli      5 

Anche  il  sig.  De  Tarrieux  in  Francia,  a  Saint-Bonnet,  ha  fatto 
esperienze  decisive  sull'  argomento,  e  con  tanto  esito,  sia  riguardo 
alla  quantità  che  alla  qualità  del  prodotto,  che  egli  da  quarantanni 
suol  incidere  le  sue  viti.  Egli  però  non  vuole  che  si  faccia  l'operazione 
né  prima  né  dopo  la  fioritura,  ma  quando  questa  è  al  suo  culmine, 
quando  cioè  il  vigneto  è  in  «  piena  fioritura  »  come  egli  si  esprime  (1): 
facendola  prima  l'uva  maturerebbe  circa  10  giorni  prima  del  con- 
sueto, facendola  dopo  l'incisione  non  gioverebbe  più  a  nulla  contro  la 
colatura.  Egli  adopra  la  tenaglia  fìg.  313,  ma  con  moltissima  pre- 
cauzione, poiché  se  si  intacca  l'alburno,  le  foglie  si  fanno  rossiccie, 
cadono  ed  il  ramo  si  essica;  inoltre  egli  procura  di  fare  l'anello  com- 
pleto, perchè  il  più  piccolo  tratto  di  corteccia  non  incisa  rende  inu- 
tile l'operazione,  lasciando  quasi  libero  il  movimento  dei  succhi. 

Un  lavorante  può  incidere  in  una  giornata  30  are  di  vigneto  spe- 
cializzato: l'incisione  costa  quindi  assai  poco,  ma  in  compenso  arreca 
grandi  vantaggi. 


(1)  Comunicazione  alla  Società  degli  agricoltori  di  Francia  —  1877. 


804  CAPITOLO  XXVII 


Non  ostante  questa  rapidità  di  esecuzione,  noi  riteniamo  che  al- 
l'incisione anulare  debba  preferirsi  il  salasso  sovra  descritto,  perchè 
più  efficace  e  perchè  assolutamente  non  pericoloso. 

Contro  l'aborto  ricorderemo  ancora  il  metodo  ideato  dal  Vannuc- 
cini  (pag.  673)  e  quello  del  sig.  Farina  di  Pontecurone  nel  Torto- 
nese,  consistente  nel  ferire  le  ceppaie  sotto  l'impalcatura  e  fuori 
terra,  con  un  coltello  a  punta,  in  guisa  da  provocare  una  perdita 
di  umore.  A  tal'uopo  crediamo  che  gioverebbe  anche  la  incisione  longi- 
tudinale, che  si  pratica  talvolta  per  far  crescere  il  diametro  dei  tronchi. 

Noteremo  per  ultimo  che  se  i  fiori  sono  bene  esposti  al  calore  ed  alla 
luce  solare,  è  difficile  abortiscano;  lo  abbiamo  esperimentato  diretta- 
mente sulla  malvasia  nera,  cimandone  i  germogli  prima  della  fioritura: 
con  ciò  impedimmo  un  soverchio  sviluppo  fogliaceo  ed  una  fìtta  ombra, 
ed  i  fiori  atttecchirono  assai  meglio  che  non  in  condizioni  usuali. 

§  3.  La  sterilità.  —  La  sterilità  delle  viti  può  provenire  da 
varie  cause  che  abbiamo  enumerato  a  pag.  145,  188  e  189;  se  gli 
stami  ad  esempio  sono  più  corti  dell'ovario,  spesso  non  vi  ha  fe- 
condazione, onde  la  pianta  non  dà  uva;  altre  cause  poi  pos- 
sono impedire  la  fecondazione  stessa,  inceppando  il  movimento  ed  il 
trasporto  dei  granuli  pollinici  (p.  144);  infine  abbiamo  visto  a  pag.  191 
che  è  sempre  a  preferirsi  rincrociamento  dei  pollini  delle  varie  piante, 
perchè  allora  la  fecondazione  è  sicura  ed  efficace,  come  è  efficace  in 
sommo  grado  la  fecondazione  mercè  il  polline  dei  soggetti   maschii. 


.0.  sil. 


Fi-    314. 


Ma  come  favorire  questo  incrociamento  ed  impedire  la  sterilità?  In 
Francia  venne  proposta  ed  esperimentata  con  buon  esito  la  feconda- 
zione artificiale  coll'arnese  disegnato  nella  fig.  314.  Esso  consiste  in 
un  grosso  fiocco  di  lana    attaccato  ad  un  bastoncino  a  guisa  di  un 


MALATTIE  DELLA  VITE  805 

aspersorio:  quando  le  antere  si  aprono,  si  passa  questo  pennello  sui 
fiori  operando  con  leggerezza;  così  si  impregna  di  polline,  il  quale, 
mercè  il  movimento  di  va  e  vieni  impresso  al  pennello  stesso,  si 
porta  a  contatto  degli  stimmi,  penetra  così  nell'ovario  e  la  feconda- 
zione non  può  fallire  (pag.  142).  Il  distinto  sig.  Carrière  (1)  ac- 
cenna a  risultati  «  magnifici  »  ottenuti  con  questo  metodo  di  fecon- 
dazione artificiale  sul  Chasselas  Napoléon,  spesso  sterile:  sulla  stessa 
pianta  si  osservò  che  i  grappoli  così  fecondati  avevano  acini  grossi 
e  compatti,  mentre  quelli  non  fecondati  artificialmente,  ma  solo  na- 
turalmente mostravano  pochissimi  acini  e  piccoli. 

§  4.  La  càscola  o  caduta  dei  frutti.  —  Accade  spesso  che 
i  fiori  attecchiscono  e  danno  il  piccolo  acino;  ma  questo  poi  non  al- 
lega, cioè  cade,  e  volgarmente  si  dice  allora  che  i  grappoli  si  sgra- 
nano. Anche  questa  malattia  arreca  talvolta  gravissimi  danni;  ciò 
accade  specialmente  quando  il  mese  di  giugno  trascorre  umido  o 
freddo,  locchè  pur  troppo  non  si  verifica  tanto  raramente:  l'eccesso 
di  succo  acquoso  è  certo  la  causa  di  tale  caduta  (v.  pag.  267). 

Il  malanno  si  può  prevenire  con  varii  mezzi:  il  più  efficace  è  senza 
dubbio  il  salasso  testé  descritto.  Ma  anche  una  buona  solforazione, 
data  o  all'atto  della  fioritura  (2)  o  poco  dopo,  giova  all'allegamento 
dei  frutti;  è  questo  un  fatto  non  spiegato,  rna  bene  accertato  in  pratica. 
La  cimatura  giova  altresì  allo  stesso  intento,  e  giova  pure  il  tener  il 
suolo  ben  prosciugato  e  mondo  dalle  male  erbe.  Noi  avemmo  anche  ot- 
timi risultati  dalla  scalzatura  delle  viti:  a  tal'uopo  in  aprile  o  maggio  si 
apre  come  un  canaletto,  lungo  il  filare  e  sotto  i  pampini,  profondo  circa 
una  spanna  e  largo  tre  o  quattro:  allora  essendo  maggiore  il  riflesso 
del  calore  del  suolo  verso  i  grappoli,  questi  tengono  meglio  gli  acini. 

§  5.  La  scottatura  degli  acini.  —  In  giugno,  e  più  ancora 
in  luglio  ed  agosto,  accade  talvolta  che  scoprendosi  d'  un  tratto  i 
grappoli  nelle  ore  più  calde,  molti  acini  rimangono  come  appassiti 
(v.  p.  265)  benché  verdi,  e  non  proseguono  oltre  nel  loro  sviluppo  co- 
sicché è  ben  raro  che  riescano  a  maturità.  Lo  stesso  fenomeno  accade 
toccando  le  uve  nelle  ore  più  calde,  ad  esempio  per  insolforarle.  Per 
evitare  la  scottatura   si   deve  adunque  sfogliare   al  mattino  dal  lato 


(1)  La  Vigne,  pag.  245. 

(2)  Di  ciò  parleremo  in  disteso  fra  poco. 


806  CAPITOLO  XXVII 


del  filare  non  esposto  al  sole,  ed  a  sera  dall'  altro  lato;  non  mai 
nelle  ore  di  grande  calor  solare,  né  mai  tutto  d'  un  tratto:  sarebbe 
anzi  miglior  consiglio  quello  di  farlo  soltanto,  come  già  consigliammo, 
dieci  o  quindici  giorni  prima  della  vendemmia.  Le  foglie  siano  pure 
al  sole  cocente  e  vivo;  ma  i  grappoli  devono  maturare  all'ombra  e 
adagio.  In  quanto  alla  solforazione,  si  deve  operare,  nel  cuor  dell'e- 
state, solo  al  mattino. 

§  6.  Il  marciume  dell'  uva.  —  Le  uve  colte  dal  marciume 
imputridiscono  prima  di  passare  alla  maturazione  completa,  e  ciò  si 
verifica  tanto  nell'Italia  Meridionale  ed  in  Sicilia,  quanto  nel  Setten- 
trione: il  marciume  non  solo  fa  scemare  la  quantità  del  raccolto,  ma  ne 
deteriora  la  qualità,  poiché  dalle  uve  così  alterate  si  ottengono  vini  sca- 
denti, soggetti  assai  facilmente  a  fermentazioni  di  cattiva  natura.  Questo 
malanno  può  provenire  o  da  soverchia  pinguezza  del  terreno  o  da  in- 
setti. Nel  primo  caso,  che  noi  verificammo  più  volte,  si  ha  un  acino  il 
cui  succo  è  soverchiamente  ricco  di  albuminoidi  provenienti  dalle  co- 
piose letaminazioni  del  vigneto,  ed  allora,  massime  se  l'autunno  tra- 
scorre piovoso,  gli  acini  stessi  marciscono  e  bisogna  affrettarsi  a 
vendemmiare.  Nel  secondo  caso  si  tratta  di  insetti  (forse  le  tortrici) 
che  vivono  allo  stato  di  larva  negli  acini,  e  ne  perforano  poi  la 
buccia  per  uscirne  perfetti:  dopo  tale  perforazione  gli  acini  marci- 
scono. Appoggiandosi  al  fatto  che  nelle  uve  esposte  alla  polvere 
delle  strade  rotabili  questi  insetti  non  recano  danno  agli  acini,  mentre 
nei  vitigni  che  ne  distano  producono  molto  marciume,  si  consigliò 
l'impolveramento,  ripetuto  varie  volte,  dei/grappoli  in  estate;  oppure 
l'uso  di  cenere  vegetale  mescolata  con  zolfo  nelle  solforazioni  ordi- 
narie. Il  prof.  G.  Inzenga  crede,  non  a  torto,  che  la  cenere  mercè 
la  rugiada  andando  in  deliquescenza,  formi  a  poco  a  poco  una  so- 
luzione alcalina  di  potassa  scorrevole  per  V  intero  grappolo  e  che, 
essendo  caustica,  sia  micidiale  per  le  larve  suddette. 

§  7.  La  melata  o  manna.  —  Abbiamo  già  accennato  a  pa- 
gina 268  alle  cause  della  così  detta  melata,  che  è  una  alterazione 
nei  tessuti  delle  foglie  della  vite  la  quale  si  manifesta  mediante  macchie 
rosso-nerastre,  che  riscontransi  anche  sui  giovani  germogli.  Ignoriamo 
perchè  in  Toscana  ed  in  Liguria  si  chiami  con  tal  nome  questa  altera- 
zione dei  tessuti  che  non  ha  nulla  a  che  fare  colla  vera  melata;  essa  in- 
fatti giustamente  da  alcuni  in  Toscana  è  invece  detta  braciola.  La  vera 


MALATTIE  DELLA  VITE  807 


melata  (manna  o  melume)  è  invece  la  emissione  d'una  sostanza  scirop- 
posa zuccherina  dalla  pagina  superiore  delle  foglie  e  dai  rami  gio- 
vani. Della  brùciola  parleremo  al  capitolo  seguente  studiando  le  av- 
versità atmosferiche;  qui  diremo  della  vera  melata. 

La  vera  melata  adunque  si  presenta  di  solito  in  estate,  e  la  so- 
stanza sciropposa  di  cui  parlammo  or'  ora,  impatina  come  una  ver- 
nice i  giovani  rami  e  le  foglie  (massime  la  loro  pagina  superiore) 
senza  risparmiare  i  fiori  ed  i  frutti  (1).  Questa  sostanza  contiene 
zucchero,  mannite  e  sostanze  analoghe  ai  glucosidi;  la  sua  composi- 
zione varia  secondo  le  piante  e  non  ci  consta  che  siano  stati  fatti 
studii  diretti  sulle  viti,  li  Prof.  Comes  accenna  al  fatto  che  «  sugli 
organi  coperti  di  melata  trovansi  concomitanti  (sebbene  non  sempre) 
tanto  alcuni  insetti  (Cocciniglie,  Afidi)  designati  dai  contadini  col 
nome  di  pidocchi,  quanto  una  particolare  crittogama  (fumago  va- 
gansj  denominata  fumaggine,  nero,  morfea,  ecc.  Se  l'abituale  con- 
sociazione degl'insetti  e  della  fumaggine  alla  melata  ha  fatto  credere 
talora  ad  un  nesso  di  causa  ad  effetto  tra  quegli  esseri  e  la  melata, 
tuttavolta  non  mancano  dei  fatti,  i  quali  distruggono  tale  pretesa 
correlazione.  Ed  invero,  hanvi  dei  casi,  in  cui,  mentre  la  melata  in 
larga  copia  si  ravvisa  sulle  piante,  non  si  può  constatare  nel  pari 
tempo  la  presenza  di  tali  esseri;  di  più  foglie  con  melata  alcune  hanno 
insetti,  altre  ne  mancano;  sullo  stesso  organo  con  melata  in  alcuni 
punti  trovansi  gl'insetti,  in  altri  no.  Lo  stesso  si  ripeta  per  la  fu- 
maggine ». 

Il  fatto  è  che  quegli  insetti  sono  ghiotti  del  trasudamento  zuc- 
cherino, e  perciò  vi  si  recano  numerosi  a  succhiarlo;  nello  stesso 
tempo  pungono  la  pianta  per  facilitarne  l'emissione,  la  pianta  perciò 
intristisce  ed  ecco  che  la  fumaggine  trova  a  sua  volta  condizioni 
più  propizie  per  svilupparsi  e  moltiplicarsi. 

Il  Prof  Comes  ritiene  che  la  causa  principale  della  melata  risieda 
quindi,  non  nella  presenza  di  insetti  o  di  crittogame,  ma  nella  diffe- 
renza fra  la  temperatura  del  terreno  e  quella  dell'aria  sovra- 
stante. «  Se  a  misura,  dice  egli,  che  la  temperatura  si  abbassa  nel  ter- 
reno, viene  a  diminuire  il  potere  assorbente  delle  radici,  ed  a  scemare, 
per  conseguenza,  la  quantità  di  acqua  che  dovrebbe  arrivare  nelle 
foglie;  e  se,  a  misura  che  la  temperatura  dell'  aria  s' innalza,  viene 


(1)  V.  la  recentissima  nota  del  Prof.  0.  Comes  «  Sulla  melata  o  manna  e  sul 
modo  di  combatterla  »  (Marzo  1885,,  Portici). 


808  CAPITOLO  XXVII 


ad  aumentarsi  la  traspirazione,  ossia  1'  emissione  del  vapore  acqueo 
dai  tessuti  della  foglia  e  degli  organi  teneri,  poiché  in  questi  organi, 
in  tali  circostanze,  la  resa  in  acqua  risulta  maggiore  dell'  entrata, 
deve  per  necessità  aver  luogo  in  essi  una  concentrazione  negli  u- 
mori.  Successa  tale  concentrazione,  è  molto  probabile,  che  sotto  la 
sferza  dei  cocenti  raggi  del  sole,  in  una  estate  molto  calda  e  secca, 
il  glucosio  formatosi  nelle  foglie  a  spese  dell'  amido,  lungi  dell'emi- 
grare dalle  foglie,  quale  componente  della  linfa  elaborata,  si  modi- 
fichi nella  sua  composizione,  e  si  riversi  alla  superficie  degli  organi 
erbacei  sotto  forma  di  umore  siropposo  ». 

Per  scongiurare  i  danni  del  melarne  il  Doti.  Comes  consiglia  special- 
mente i  lavori  profondi  del  terreno  e  la  caccia  alle  cattive  erbe,  per 
avere  il  terreno  stesso  aerato  e  nudo  di  erbe.  Che  se  il  male  avesse 
colpito  con  intensità  un  vigneto,  rendendo  stanche  le  piante,  allora 
sarebbe  necessaria  nell'autunno,  dopo  la  vendemmia,  una  concima- 
zione copiosa  e  razionale,  escludendo  lo  stallatico,  come  ben  consiglia 
lo  studioso  autore. 

§  8.  La  clorosi.  —  Chiamiamo  clorosi  l'ingiallimento  delle 
foglie  prodotto  non  già  da  crittogame  bensì  dalle  condizioni  speciali 
del  terreno  su  cui  vegeta  la  vite.  A  pag.  369  abbiamo  accennato  a 
questa  infermità,  che  colpisce  tanto  la  vite  europea  quanto  quella 
americana,  e  1.  abbiamo  detto  che  in  generale  la  si  attribuisce  alla 
deficienza  di  ferro  nel  terreno,  a  cagione  di  che  non  può  formarsi 
il  verde  delle  foglie  o  clorofilla  (pag.  136):  abbiamo  pure  indicato 
come  deve  adoperarsi  a  tal  uopo  il  solfato  di  ferro.  Dobbiamo  tut- 
tavia qui  accennare  che  il  Prof.  G.  Foèx,  il  quale  fece  studii  spe- 
ciali sulle  cause  della  clorosi  nelle  viti  americane  e  specialmente  nel- 
THerbemont  (1)  non  crede  che  questa  malattia  sia  dovuta  alla  man- 
canza del  ferro  necessario  alla  vigna.  L'analisi  gli  avrebbe  dimostrato 
che  le  ceneri  di  viti  venute  in  terre  rosse  non  contengono  quantità 
di  ferro  più  considerevoli  eli  quelle  del  medesimo  vitigno  venuto  su 
altro  terreno.  Il  perossido  di  ferro  piuttosto  che  un'  azione  chimica 
avrebbe  secondo  il  Foèx,  nel  color  rosso  che  dà  al  suolo,  un'influenza 
considerevole  sulla  temperatura  di  quest'ultimo. 


(1)  Mémoire  sur  les    càuse  de  la    clorose  de  1' Herbemont   (Revue  des    sciences 
naturelles)  Montpellier. 


MALATTIE  DELLA  VITE 


809 


La  riescita  dell1  Herbemont  in  terre  rosse  sarebbe  dunque  dovuta 
alle  loro  proprietà  assorbenti  rispetto  ai  raggi  calorifici. 

Avvertiamo  inoltre  che  la  clorosi  può  anche  provenire  da  soverchia 
umidità  del  suolo,  come  ci  è  spesso  accaduto  di  notare;  in  questo 
caso  è  rimedio  sicuro  la  fognatura  o  drenaggio  (pag.  371). 

§  9.  La  rogna  o  malattia  dei  tubercoli.  —  La  rogna  dei 
vitigni  o  malattia  dei  tubercoli  non  è  del  tutto  sconosciuta  in  Italia  (1); 
il  tronco  ed  i  rami,  non  mai  però  quelli  dell'annata,  offrono  speciali 
escrescenze  a  forma  di  bitorzoli  (fìg.  316)  la  corteccia  è  rotta  a 
tratti,  e  quando  è  caduta  il  colore  dei  tubercoli  passa  dal  giallo- 
bruno  ad  una  tinta  quasi  nera.  Allora  il  tessuto  legnoso  dei  tuber- 
coli si  sfibra  e  si  altera  del  tutto  comunicando  poi  il  male  all'interno 
del  fusto  (fìg.  315).  Le  viti  affette  dalla  rogna  muoiono  presto,  ta- 
lora in  due  anni.  Secondo  ogni  probabilità  la  causa  di  questa  alte- 
razione nel  tessuto  corticale  sarebbe  a  ricercarsi  nelle  brine  tardive 


Kisr    315  e  316. 


primaverili  e  nei  rapidi  disgeli,  che  offendono  e  disorganizzano  in 
alcuni  punti  il  tessuto  cellulare  o  cambio  destinato  a  formare  il  legno 
dell'annata,  e  che  sta  fra  il  legno  e  la  corteccia;  infatti   il  malanno 


(I)  V.  Giornale  Vinicolo  Italiano,  nota  di  A.  F.  Negri  (1880,  pag.  126).  In 
Germania  è  notissima,  secondo  R.  Goethe,  da  cui  togliamo  le  due  fìg.  315  e  316, 
nonché  secondo  Thumen  che  1'  anno  scorso  pubblicava  una  nota  (Ber  Pilzgrind 
der   Weinreben)  sulla  rogna. 


810 


CAPITOLO  XXVII 


si  rivela  in  modo  quasi  esclusivo  nei  vigneti  esposti  a  tali  geli,  e 
infierisce  poi  con  molta  veemenza  negli  anni  in  cui  le  brine  tardive 
danneggiano  assai  le  viti:  —  si  consiglia  il  taglio  dei  tubercoli,  e 
la  successiva  spalmatura  delle  ferite  con  un  mastice  da  innesto;  ma 
in  certe  località  basse  ed  umide,  se  questa  malattia  si  sviluppa  con 
veemenza,  bisogna  abbandonare  la  coltura  della  vite,  a  meno  che 
non  si  riesca  a  risanare  quei  terreni  colla  fognatura. 

§  10.  La  cancrena  o  seccume.  —  Questa  infermità  della  vite 
è  nota  in  Italia  (1),  in  Spagna  e  nel  Portogallo  (2),  nonché  in  altri 
paesi  vitiferi.  Ecco  come  essa  si  manifesta:  in  estate,  nei  momenti 
dei  forti  calori  agostani,  le  foglie  delle  viti  colpite  incominciano  ad 
ingiallire,  indi  si  fanno  rossiccie,  i  contorni  si  arricciano,  quasi  fos- 


Fig.  317. 


sero  scottati  con  ferro  rovente,  e  poco  stante  cadono.  Non  è  infre- 
quente il  caso,  nota  il  Prof.   Viglietto,  che  una  vite  in  breve  tempo 


(1)  Bullettino  dell'Associazione  Agraria    Friulana,    studio    del  Dott.    Viglietto 
n.  5  —  1885. 

(2)  Los  vinos  y  los  aceites  —  Madrid  (n.  2,   1883)  —  e  Gaceta  dos  Labradores 
—  Lisboa  (1883). 


MALATTIE  DELLA  VITE 


811 


rimanga  coi  grappoli  semi-maturi  totalmente  spoglia  dei  suoi  organi, 
la  qual  cosa  è  accaduto  a  noi  pure  di  osservare.  Noteremo  però  che 
spesso  già  in  primavera  osservansi  le  viti  affette  da  cancrena,  cac- 
ciare germogli  poco  vigorosi  e  di  un  verde  poco  intenso;  talvolta 
questi  germogli  ingialliscono,  si  atrofizzano  e  cadono,  tal'  altra  con- 
tinuano a  vegetare,  ma  la  loro  uva  non  resiste,  e  cade  essa  pure. 
Osservando  bene  un  germoglio  colpito  dal  seccume,  si  vedono  ta- 
lune macchie  cancrenose  presso  alle  gemme,  ossia  presso  alla  inser- 
zione del  picciuolo  della  foglia  (fig.  317),  le  quali  macchie  vanno 
quasi  sempre  approfondendosi  sino  al  midollo.  Tagliando  longitudi- 
nalmente un  ramo  infetto,  si  osserva  nella  parte  superiore,  che  ap- 
pare sana,  come  certi  vasi  molto  vicini  all'  astuccio  midollare,  sono 
più  neri  del  tessuto  vascolare  rimanente.  Se  con  una  lamina  bene 
affilata  si  continua  a  tagliare  il  ramo  per  seguire  la  direzione  di 
quei  vasi,  si  nota  che  vanno  a  terminare  all'  epidermide  del  ramo 
nei  punti  2  2  fig.  318,  ove  trovansi  i  nodi  e  ove  nascono  i  pedicelli 


Fig.  318. 


delle  foglie.  Come  già  dicevamo  è  in  questi  punti  che  si  incomincia 
ad  osservare  la  cancrena,  la  quale  guasta  così,  a  poco  a  poco,  il  tes- 
suto vascolare,  in  guisa  che  i  vasi  paiono  iniettati  di  un  liquido  color 
caffè. 

La  malattia  prosegue  generalmente  dalle  parti  alte  alle  parti  basse 


812 


CAPITOLO  XXVII 


della  pianta,  cosicché  le  radici  possono  essere  sanissime  e  la  parte 
esterna  ammalata;  ma  la  cancrena  invade  più  tardi  le  radici  stesse 
ed  allora  la  pianta  muore.  È  facile  all'inizio  del  male  riconoscere  la 
cancrena  esaminando  il  legno  della  vite  presso  i  tagli  delle  potature; 
a  tal  uopo  si  debbono  praticare  i  tagli  stessi  sul  tronco,  come  è  in- 
dicato nella  fig.  319  e  320:  se  la  vite  è  sana  i  tagli  vecchi  si  pre- 


Fig.  319  e  320. 

sentano  perfettamente  cicatrizzati  (fig.  319),  se  è  ammalata  si  mo- 
strano come  indica  la  fig.  320,  e  tanto  più  affetti  da  seccume  e 
marciume  quanto  più  il  taglio  della  potatura  è  antico. 

Questa  osservazione,  unita  ad  altre  analoghe,  hanno  indotto  nella 
convinzione  che  la  causa  della  cancrena  risieda  nei  tagli  male  ese- 
guiti, per  cui  le  acque  piovane,  infiltrandosi  nel  legno,  ne  provocano 
il  marcimento.  Sono  specialmente,  anzi  quasi  esclusivamente,  le  viti 
vecchie  che  ne  sono  colpite,  e  questo  prova  indirettamente  l'influenza 
della  mala  potatura,  d'onde  il  consiglio  vecchio,  ma  pure  molto  tra- 
sandato, di  fare  sempre  quando  si  pota,  tagli  netti  (pag.  486). 


§  11.  Il  bastardume.  —  Con  questo  nome  si  suole  designare 
una  infermità  della  vite  per  la  quale  essa  cessa  dal  dar  frutti,  pur 
continuando  a  vegetare;  oppure  porta  grappoli  i  quali  non  maturano, 
mostrano  gli  acini  più  piccoli  del  consueto,  od  anche  mostrano  acini 
grossi  ed  acini  piccoli  sullo  stesso  grappolo,  i  grossi  poco  maturi,  i 
piccoli  acerbi  del  tutto  e  con  colori  svariati  dal  verdognolo  al  ros- 
sastro se  le  uve  sono  colorate.  La  pianta  ha  un  aspetto  rigoglioso, 
ma  è  infeconda  del  tutto. 

I  casi  di  bastardume  sono   abbastanza   comuni  in   tutti  i    vigneti, 


MALATTIE  DELLA  VITE  813 

e  noi  ne  abbiamo  osservati  nelle  differenti  regioni  viticole  d' Italia, 
tanto  nel  Nord  che  nel  Sud,  in  terreni  differenti  e  svariati,  in  ogni 
esposizione  ed  in  ogni  sistema  di  educazione.  Qualche  vecchio  viti- 
cultore  ci  ha  confermato  che  piantando  una  talea  di  vite  bastarda 
se  ne  ha  sicuramente  una  pianta  essa  pure  bastarda;  in  ciò  non  vi 
ha  nulla  di  strano.  Ma  come  spiegare  la  degenerazione  delle  piante 
fertili,  le  quali  imbastardiscono?  Se  fosse  il  sistema  di  coltura,  perchè 
il  male  non  si  estenderebbe  all'intero  vigneto  invece  di  colpire  qua 
e  là  le  piante  saltuariamente?  Tuttavia  riflettendo  che  non  tutte  le 
ceppaie  d' uno  stesso  vigneto  hanno  un  egual  grado  di  vigorìa,  e 
perciò  non  tutte  vogliono  uguali  trattamenti  di  potatura  secca  e  verde, 
mentre  il  viticultore  tutte  le  tratta  nell'istesso  modo,  o  per  ignoranza 
o  per  acquistare  tempo,  si  sarebbe  indotti  a  cercare  appunto  in 
questi   fatti  la  causa  del  bastardume. 

La  potatura  secca  deve  variare  a  seconda  delle  condizioni  spe- 
ciali delle  singole  piante,  ed  è  qui  che  si  vede  l'abilità  del  potatore; 
lo  stesso  dicasi  della  potatura  verde,  su  di  che  abbiamo  a  lungo  di- 
scusso nei  Capitoli  XIII  e  XIV.  Trattando  opportunamente  le  piante 
bastarde  noi  crediamo  che  si  possa  mutarne  il  loro  vigore  in  fe- 
condità. 

§  12.  Inoculazione  o  umettamento  di  liquidi  entro  i  tes- 
suti della  vite.  —  L'idea  di  preservare  la  vite,  ed  altre  piante, 
dalle  malattie  mercè  la  inoculazione  di  speciali  liquidi  è  assai  vecchia; 
gli  antichi  autori  latini  ne  fanno  cenno,  e  più  tardi  qualcuno  credette 
persino  di  poter  modificare  il  sapore  dei  frutti  con  tale  sistema!  Ul- 
timamente venne  citato  un  libro  (1)  nel  quale  si  consiglia  questo 
procedimento:  si  fa  un  foro  nel  tronco  dell'albero  con  un  succhiello 
e  poscia  si  riempie  il  foro  con  scamonea  o  colloquintida  o  rabarbaro, 
e  simili  sostanze,  ciò  basterà  perchè  i  frutti  riescano  purgativi... 

Nel  1860  si  parlò  di  injettare  lo  zolfo  in  polvere...  (?)  entro  il  tronco» 
delle  viti,  operando  in  marzo  e  mercè  un  foro  fatto  con  un  suc- 
chiello da  falegname;  le  prove  fatte  pare  abbiano  dato  buoni  risul- 
tati (2)  ma  taluno  attribuisce  giustamente  questo  successo  alle  fa- 
vorevoli condizioni  dell'annata,  che  fu  secchissima  e  quindi  poco  pro- 
pizia allo  sviluppo  dell'oidio  (volg.  crittogama).  Nel  1875  i  giornali 


(1)  De  Art.  Magnet.  —  Kirker,  Parigi  1719,  Capo  IV  pag.  224 

(2)  Il  Coltivatore  anno  IX  pag.  615. 


814  CAPITOLO  XXVII 


agrari  (1)  narrarono  pure  degli  esperimenti  riusciti  bene  per  cura  di 
un  viticultore  palermitano,  il  quale  inoculò  lo  zolfo  entro  i  tessuti 
della  vite  !  Pochi  anni  or  sono  (2)  nella  Revue  horticole  si  leggeva 
che  una  commissione  di  agronomi,  la  quale  visitava  la  Turenna,  fece 
la  conoscenza  di  un  viticultore  che  da  molto  tempo  vaccinava  (?) 
le  sue  viti  per  preservarle  dalla  crittogama,  cosa  che  non  gli  riesci 
mai  ugualmente  bene  solforandole  coi  metodi  usuali:  a  tal  uopo  egli, 
in  un  foro  fatto  al  basso  del  ceppo,  introduceva  una  discreta  quan- 
tità di  granelli  d*  uva  molto  crittogamati,  indi  chiudeva  il  foro  e  la 
vaccinazione  era  fatta.  Credat  Judaeus  Apelta,  ego  non,  deve 
aver  detto  la  prefata  Commissione! 

Ma  veniamo  a  tentativi  più  serii.  Nel  1880  l' illustre  viticultore 
viennese  Barone  Di  Babo,  direttore  della  rinomata  Scuola  viti- 
cola di  Klosterneuburg ,  propose  di  incettare  una  soluzione  di 
solfato  di  rame  nel  legno  dei  ceppi  fìllosserati,  allo  scopo  di  farla 
giungere,  per  tutti  i  vasi  delle  radici,  sino  alle  più  piccole  radichette; 
con  questa  injezione  la  vite  deve  bensì  immancabilmente  perire,  ma  con 
essa  perirà  pure  la  fillossera,  per  difetto  di  alimento;  onde  dato  un 
vigneto  di  recente  invaso,  si  sarà  sicuri  di  distruggere  completamente 
la  fillossera,  impedendo  che  il  male  si  allarghi.  Ognuno  vede  quanta 
importanza  avrebbe  un  risultato  simile  per  limitare  e  soffocare  le 
invasioni,  senza  dover  ricorrere  allo  sradicamento  e  ad  altre  costose 
operazioni  d'esito  incertissimo.  Senonchè  il  Prof.  Babo  fece  le  sue 
prove  in  laboratorio,  su  una  vite  estratta  di  fresco  dal  terreno,  che 
in  pochi  minuti  e  colla  sola  pressione  di  una  atmosfera  potè  imbi- 
bire di  liquido  così  da  farlo  sgocciolare  dalle  estreme  radichette; 
mentre  le  contro  prove  fatte  dal  compianto  Dr.  Macagno  su  una 
vite  coltivata  in  vaso,  colla  pressione  di  3  atmosfere  durante  due 
ore,  diedero  risultati  negativi:  l'injezione  riesci  completa  solo  quando 
egli  la  sottopose  alla  pressione  di  1  atmosfera  e  Indurante  ben  14 
ore  consecutive:  con  questo  metodo  riuscì  ad  iniettare  una  soluzione 
intensa  di  fucsina  sino  alle  più  piccole  barboline.  Concludendo,  è 
possibile  uccidere  una  vite  con  questo  sistema  ed  in  ogni  sua  parte, 
ma  il  tempo  che  si  richiede,  rende  inattuabile  il  processo. 

La  soluzione  di  solfato  di  rame  e  quella  di  solfato  di  ferro  vennero 


(1)  Il  Coltivatore  anno  XXIII,  voi.  I.  pag.  253. 

(2)  Conversazioni  agrarie  di  G.  Marchese,  pag.   133. 


MALATTIE  DELLA  VITE  815 

proposte  anche  dal  sig.  De  La  fitte  (1)  per  attossicare  il  succo  della 
vite  e  far  perire  così  le  fillossere,  rispettando  però  la  pianta:  non 
pare  tuttavia  che  le  esperienze  fatte  abbiano  corrisposto. 

Accenneremo  infine  ad  una  osservazione  fatta  dal  Prof.  Goethe  (2) 
il  quale  avendo  concimato  con  sali  potassici  un  melo  molto  invaso 
dai  cosidetti  pidocchi  sanguigni,  li  vide  sparire  completamente;  il 
Prof,  Goethe  non  volle  trarre  conclusioni  precipitate  da  questo  fatto, 
ma  solo  si  chiese  se  il  succo,  più  ricco  di  potassa,  non  avesse  reso 
per  caso  impossibile  la  vita  di  quei  pidocchi. 

Nulla  di  positivo  può  quindi  dirsi  sin'  ora  sui  vantaggi  della  ino- 
culazione di  sostanze  antisettiche  nei  tessuti  della  vite  per  preser- 
varla dai  parassiti. 


(1)  La   Villa  e  la  Fattoria  n.  7  —  1883  pag.  97. 

(2)  Wiener- Obst  und  Garten  Zeitung  (1876). 


CAPITOLO   XXVIII 


Avversità  atmosferiche. 


§   1.  La  grandine  —  §  2.  Le  brine  —  §   3.  Il  gelo  —    §  4.  La    manna    o  bra- 
ciola —  §  5.  Le  pioggie,  il  soverchio  calore,  le  nebbie  ed  i  venti. 

§  1.  La  grandine.  — Abbiamo  già  studiato  a  pag.  278  questa 
funestissima  idrometeora,  onde  qui  poco  ci  rimane  a  dire.  È  triste 
dover  confessare  che  non  esistono  mezzi  pratici  per  impedire  che  la 
gragnuola  si  formi,  o  per  impedire  che  colla  sua  percossa  danneggi 
le  viti:  a  semplice  titolo  di  curiosità  accenneremo  ai  tentativi  fatti 
nei  paesi  che  circondano  il  lago  di  Ginevra  (1)  dove,  per  sottrarre 
l'elettricità  alle  nubi  e  scaricarle,  si  popolarono  i  vigneti  zon  para- 
grandini  composti  di  lunghe  pertiche  armate  di  punte  metalliche  e 
munite  di  fili  conduttori;  senonchè  una  abbondante  e  funesta  gran- 
dinata dimostrò  la  insufficienza  di  questo  sistema,  ed  i  paragrandine 
scomparvero.  Nel  1874  furono  riproposti  in  Italia  dal  Prof.  Gianni 
di  Pistoia,  ma  il  consiglio  rimase  lettera  morta.  Il  celebre  Arago 
propose,  a  titolo  di  esperimento,  di  lanciare  verso  le  nubi  tempora- 
lesche dei  palloni  armati  di  punte  metalliche,  sempre  coli'  intento  di 
scaricare  le  nubi  stesse  della  loro  elettricità,  che  secondo  parecchi 
fisici  sarebbe  la  causa  principale  della  gragnuola:  Gasparin  acca- 
rezzò a  sua  volta  l' idea  di  Arago;  non  ci  consta  però  che  siano 
state  fatte  esperienze  al  riguardo.  Berti- Pichat  (2)  si  domanda  perchè 


(1). Gasparin  —  Cours  d' Agricolture  t.  II,  pag.   171 
(2)  Istituzioni  di  Agric.  voi.  5°,  pag.  1289. 


AVVERSITÀ  ATMOSFERICHE  817 

mai,  dal  momento  che  si  sono  adottati  i  ripari  diretti  contro  la  brina, 
non  si  adottano  anche  contro  la  grandine  Perchè  non  si  esperiinentano 
ad  esempio  le  tele  imbevute  in  soluzioni  di  solOp  di  rame?  Senonchè 
il  Laivley,  raccomandandole  per  le  brine,  calcola  la  spesa  in  L.  570 
Tettare,  compresa  l'ammortizzazione  e  la  mano  d'opera  annua:  come 
si  vede  è  una  spesa  enorme.  D'  altronde  come  mettere  in  pratica 
questo  sistema  dei  ripari?  La  cosa  ci  pare  impossibile,  tenuto  calcolo 
del  lungo  periodo  durante  il  quale  può  cadere  la  gragnuola. 

Il  rimboschimento  dei  monti  gioverebbe  certamente  a  moderare  la 
frequenza  delle  grandinate;  infatti  è  noto  che  i  paesi  disboscati  sono 
oggi  assai  più  soggetti  alla  funesta  idrometeora:  il  Basso  Monferrato 
ce  ne  porge  un  esempio. 

In  quanto  alle  compagnie  di  Assicurazione,  esse  generalmente  pre- 
tendono un  premio  di  16,  17  o  più  lire  per  ogni  100  lire  di  capi- 
tale assicurando,  riducibile  bensì  a  seconda  dell'  entità  di  questo  ca- 
pitale, ma  che  è  sempre  tanto  elevato  da  meritarsi  l'appellativo  iro- 
nico di  «  tempesta  assicurata  »!  Ma  se  d'altra  parte  quelle  Società 
riducessero  di  soverchio  il  premio,  allora  avrebbero  la  certezza  di 
rimetterci,  e  non  presenterebbero  sufficiente  garanzia  pel  viticoltore 
oculato.  Bisogna  dunque  guardarsi  dalle  Società  che  si  accontentano 
di  premii  troppo  moderati.  Si  è  anche  proposto  il  pagamento  di  una 
tassa  al  Governo,  il  quale  risarcirebbe  poi  i  danneggiati;  ma  ciò  sa- 
rebbe una  ingiustizia,  benché  in  Francia  nel  bilancio  dello  Stato  vi 
sia  un  fondo  di  oltre  a  2  milioni  per  soccorrere  l'agricoltura  in  caso 
di  disastri,  fondo  che  in  fin  dei  conti  non  è  altro  che  il  risultato 
d'un  aumento  d'imposta.  Il  miglior  sistema  è  perciò  quello  delle  As- 
sociazioni mutue  fra  i  viticoltori. 

*%  Vediamo  ora  come  debbono  trattarsi  le  viti  colpite  dalla  gran- 
dine. In  tesi  generale  esse  debbono  potarsi  esportando  le  parti  molto 
offese;  così  si  salva  il  prodotto  avvenire  serbando  per  questo  qualche 
getto  basso  locato  o  qualche  sperone.  Ma  questa  potatura  energica 
non  si  deve  fare  subito  dopo  la  caduta  della  grandine;  sarà  bene 
invece  di  aspettare  cinque  o  sei  giorni,  acciò  la  vite,  malconcia,  possa 
invigorirsi  alquanto  e  sopportare  i  tagli;  abbiamo  visto  a  pag.  279 
quale  abbassamento  di  temperatura  segua  sempre  alla  caduta  della 
gragnuola,  ed  in  questo  periodo  non  ci  pare  conveniente  toccare  le 
viti.  Si  deve  poi  avere  molta  cura  di  solforare  le  uve  colpite  par- 
zialmente, perchè  è  un  fatto  constatato  che  dopo  la  percossa  della 
grandine  l'oidio  si  sviluppa  prontamente. 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  53 


818  CAPITOLO  XXVIII 


Questo  parlando  in  generale;  volendo  scendere  ai  dettagli  diremo 
che  se  la  gragnuola  pade  quando  i  germogli  uviferi  sono  già  svilup- 
pati, la  potatura  doV-rà  farsi  a  speroni  di  circa  due  occhi  caduno,  i 
quali  ci  daranno  buoni  e  fecondi  getti  per  la  fruttificazione  avvenire: 
coloro  i  quali  nel  funesto  1884  seguirono  in  Monferrato  questo 
metodo  di  potatura,  se  ne  dichiararono  soddisfatti.  Bertì-Pichat 
nelle  sue  Istituzioni  narra  che  nel  23  giugno  1868  la  grandine  de- 
vastò le  vigne  di  Clermont-l'Hérault  non  lasciando  che  i  più  grossi 
tralci  scortecciati  e  scapezzati.  A  tanto  male  un  viticultore  di  quel 
dipartimento  rimediò  in  parte  potando  tutti  i  tralci  ad  un  sol  occhio. 
In  tal  modo  ebbe  ottimi  tralci,  da  cui  ebbe  pure  uve  buone  quan- 
tunque alquanto  acidule. 

Il  sig.  Petit-Lo  fitte  nella  sua  monografia  sulle  viti  del  Bordolese, 
loda  il  sistema  seguito  varie  volte  dal  sig.  Bouchereau  e  dal  conte  di 
Kercado,  valenti  viticultori,  che  consiste  appunto  nella  potatura  e- 
nergica  a  uno  o  due  occhi  degli  stessi  getti  uviferi  dell'anno  in  corso, 
cioè  di  quelli  che  si  sarebbero  potati  nell'inverno  successivo. 

È  adunque  saggio  partito  quello  di  potare,  e  chi  non  lo  facesse, 
per  conservare  i  pochi  grappoli  rispettati  dalla  gragnuola,  otterrebbe 
poca  uva  talora  anche  durante  tre  anni  di  seguito. 

Se  poi  la  gragnuola  avesse  a  cadere  più  tardi,  cioè  nel  luglio  o 
nella  prima  metà  di  agosto,  sarà  pure  sempre  utile  la  potatura  più 
o  meno  energica  secondo  la  maggiore   o  minor  gravità  del  male. 

Quando  infine  la  grandine  cadesse  in  principio  del  periodo  vege- 
tativo, cioè  quando  le  cacciate  sono  affatto  tenere,  allora,  se  il  danno 
é  grave,  bisogna  sopprimere  queste  cacciate  erbacee,  operando  con 
molta  delicatezza  col  forbicione,  per  non  danneggiare  il  secondo  oc- 
chio o  contr'occhio,  che  sta  all'ascella  della  cacciata  stessa,  e  che  è 
come  un  provvido  bottone  di  riserva.  Soppressa  la  cacciata,  questo 
occhio  di  soccorso  si  sviluppa  prontamente,  e  se  la  stagione  non  è 
troppo  avanzata,  si  può  sperare  di  ottenere  ancora  un  certo  raccolto. 

§  2.  Le  brine.  —  Abbiamo  già  lungamente  studiato  la  brina 
dal  lato  meteorologico  (pag.  282)  e  come  danneggi  le  viti  (pag.  285); 
qui  dobbiamo  esaminare  questo  grave  soggetto  dal  lato  strettamente 
viticolo,  per  vedere  se  sia  possibile  impedire  la  formazione  delle  brine, 
se  sia  possibile  ovviare  ai  loro  danni  e  come  si  debbano  trattare  le 
viti  danneggiate. 

Ecco  i  mezzi  principali  per  impedire  che  la  brina  si  formi: 


AVVERSITÀ  ATMOSFERICHE  819 

a)  Uno  fra  i  mezzi  che  se  non  impedirebbe  affatto  la  formazione 
delle  brine  le  renderebbe  però  rarissime  in  aprile  e  maggio  (e  sono 
queste  le  brinate  nocevoli,  perchè  tardive)  quello  sarebbe  di  popo- 
lare di  boschi  le  nostre  alte  montagne.  Ma  invece  da  molti  anni  noi 
lavoriamo  a  disboscare  senza  pensare  ai  danni  gravissimi  che  ne 
sono  la  conseguenza,  e  fra  questi  non  ultima  la  brina.  Tutte  le  no- 
stre valli  che  scendono  dalle  Alpi  o  dagli  Appennini  hanno  quasi  an- 
nualmente a  lamentare  brinate  tardive  che  distruggono  in  un  coi  te- 
neri germogli  delle  viti,  la  foglia  dei  gelsi,  con  incalcolabile  danno 
della  bachicultura:  or  bene  di  codesto  si  deve  incolpare  l'inconside- 
rato disboscamento  delle  vette  alpine  ed  appenniniche.  Da  queste  par- 
tono quei  freddi  venti  che  nelle  notti  primaverili  producono  notevoli 
abbassamenti  di  temperatura,  come  abbiamo  detto  a  suo  luogo,  ab- 
bassamenti che  sono  affatto  fuor  di  stagione  e  che  le  piante  non  rie- 
scono a  sopportare  essendo  spesse  volte  la  causa  delle  brinate.  Se 
tali  montagne  fossero  coperte  di  boschi  ciò  non  avverrebbe. 

Anche  in  Francia  si  accagionano  le  tante  e  sì  frequenti  brine  pri- 
maverili al  disboscamento,  e  non  andrà  molto  che  il  Governo  dovrà 
preoccuparsene  seriamente  fissando  all'occorrenza  dei  premii  per  ogni 
nuovo  bosco  impiantato. 

Per  l'Italia  poi,  simili  provvedimenti,  uniti  ad  altri  che  non  è  qui 
il  caso  accennare,  sono  ancor  più  necessarii  trattandosi  d'un  paese 
che  è  per  oltre  i  due  terzi  montagnoso. 

Ma  lasciamo  questo  argomento,  che  eravamo  però  in  obbligo  di 
toccare  almeno  di  passaggio,  e  veniamo  a  quegli  altri  mezzi  per  im- 
pedire la  formazione  delle  brine  i  quali  sono  in  potere  dell'agricoltore. 
bj  II  miglior  mezzo  che  siasi  sino  ad  oggi  suggerito  per  impe- 
dire la  formazione  della  brina  sui  teneri  germogli  delle  viti,  quello 
si  è  di  solforare  precocemente  la  vite  in  quelle  fra  le  sue  parti  che 
possono  soffrire  dalle  brinate. 

Si  fu  l'intelligente  ed  appassionato  agrofilo  Dott.  Demetrio  Giotti 
di  Empoli  che  pel  primo  pensò  di  impedire  che  si  formi  la  brina 
sulle  giovani  messe  delle  viti  ricoprendole  d'una  sostanza  che  facesse 
ostacolo  all'irradiazione  notturna.  Il  Dott.  Giotti  per  tanto  si  vale  da 
qualche  anno  del  metodo  seguente,  di  cui  egli  dicesi  contentissimo: 
appena  apertesi  le  gemme  egli  fa  dare  la  prima  solfatura  e  la  fa 
dare  abbondantissima,  non  già  col  soffietto  bensì  col  bussolotto.  E 
per  non  isprecare  troppo  zolfo,  egli  fa  un  miscuglio  di  due  o  tre 
parti  di  cenere  stacciata   ed  una  di  zolfo.  Quantunque  in  certo  qual 


820  CAPITOLO  XXVIII 


modo  si  ammonticchii,  con  questo  sistema,  buona  dose  della  predetta 
mistura  sulle  gemme,  pure  non  si  viene  a  consumare  in  definitiva 
che  la  quantità  di  zolfo  occorrente  per  una  solforazione  ordinaria. 
Se  per  caso  poi  V  acqua  dilavasse  le  parti  solfate  od  il  vento  fa- 
cesse cadere  il  miscuglio  di  cui  sono  ricoperte,  dovrebbesi  ripetere 
tosto  l'operazione  e  ciò  quante  volte  fosse  a  temersi  più  o  meno  una 
brinata.  Non  v'ha  dubbio  che  queste  tre  o  quattro  solforature  co- 
stano qualche  cosa,  ma  ciò  è  un  nonnulla  di  fronte  alla  perdita  del 
prodotto  ed  allo  strazio  delle  viti. 

Abbiamo  qui  parlato  di  tre  o  quattro  solforazioni:  si  badi  però  che 
ne  potrebbero  occorrere  anche  di  più,  perchè  il  tralcio  cresce  sempre, 
e  gli  ultimi  getti  han  bisogno  di  essere  coperti  siccome  quelli  che 
sono  i  più  teneri. 

Se  ora  prendiamo  ad  esaminare  il  sistema  Giotii  dal  lato  dei 
principii  scientifici  su  cui  si  fonda,  troviamo  che  esso  non  urta 
contro  la  teoria  di  Wells  sulla  formazione  della  brina;  anzi  questa 
ne  costituisce  il  fondamento.  Ci  pare  infatti  che  non  sia  affatto  fuor 
di  proposito  l'ammettere  che  quella  cenere  e  quello  zolfo  facciano 
l'ufficio  di  corpi  riflettenti  i  raggi  calorifici  che  tenderebbero  a  pas- 
sare dai  germogli  negli  spazi  celesti;  per  essi  dunque  verrebbe  ad  im- 
pedirsi quella  irradiazione  dalla  quale  hanno  origine  il  gelo  prima  e 
di  poi  la  brina.  Ove  poi  non  volesse  accettarsi  questa  spiegazione,  si 
dovrebbe  per  lo  meno  ammettere  che  la  mistura  suddetta  che  sta 
sui  germogli  è  atermana,  cioè  non  lascia  passare  che  a  stento  il 
calorico  raggiante  dei  germogli  stessi. 

Comunque  siano  le  cose,  raccomandiamo  questo  procedimento  al- 
l'attenzione dei  lettori  acciò,  se  non  altro,  ne  facciano   dei  saggi. 

e)  Anche  con  una  leggera  variante  alla  tanto  raccomandata  po- 
tatura in  due  tempi  si  può  impedire  che  si  formi  moka  brina  sulle 
gemme  del  tralcio  o  dei  tralci  frutticosi.  Ricorderemo  che  il  potare 
in  due  tempi  consiste  essenzialmente:  1°  nel  togliere  durante  il  verno, 
od  al  più  tardi  in  febbraio,  buona  parte  del  sarmento  che  ha  dato 
frutto  l'anno  prima,  lasciando  però  provvisoriamente  molto  ricca  la 
vite;  2°  nel  togliere  poi  il  rimanente  dei  tralci  lasciati  in  più  ai  primi 
di  aprile  od  anche  più  tardi  se  le  viti  sono  rigogliosissime  e  se  è 
pingue  il  terreno;  quando  insomma  la  vite  potata  piange.  —  È  un 
sistema  di  trattar  la  vite  che  si  diffonde  oggi  presso  i  migliori  vi- 
ticultori  perchè  presenta  tre  rilevanti  vantaggi;  infatti,  colla  prima 
potagione  si  viene  a  ripulire  quasi  totalmente  la  vite  in  una  stagione 


AVVERSITÀ  ATMOSFERICHE  821 

in  cui  non  si  hanno  altri  lavori,  o  ben  pochi,  generalmente  parlando; 
—  colla  seconda  si  fa  piangere  la  vite  con  grandissimo  vantaggio 
della  fruttificazione,  poiché  codesta  perdita  di  umori  scema  l'afflusso 
soverchio  del  succo  verso  i  grappolini  nascenti  e  previene  così  in 
essi  il  danno  dell'aborto;  —  infine  con  questa  potatura  in  due  tempi 
noi  possiamo  tenere  verticale  il  tralcio  frutticoso  sino  a  che  non 
siano  scomparsi  affatto  i  timori  delle  brinate,  ma  nello  stesso  tempo 
non  manchiamo,  come  si  disse,  di  mondare  una  prima  volta  la  vite 
durante  il  verno,  con  sensibile  economia  del  lavoro. 

A  quest'ultimo  proposito  del  tralcio  verticale  diremo  come  siasi 
osservato  che  quanto  più  le  gemme  sono  prossime  al  suolo,  tanto 
più  sono  tartassate  dalla  brina:  quindi  il  consiglio,  dato  anche  dal 
compianto  Doti.  Guyot,  di  tenere  alto  e  diritto  sia  il  tralcio  che  deve 
poi  distendersi  a  frutto  quanto  l'altro  destinato  a  dare  lo  sperone,  le- 
gando il  tutto  al  palo  di  sostegno,  o  alle  canne  se  nel  sistema  del 
Basso  Monferrato.  Si  è  tuttavia  fatta  una  obiezione  a  questo  sistema, 
obiezione  che,  come  vedremo,  cade  di  per  sé  seguendosi  il  sistema 
della  potatura  in  due  tempi,  che  il  Guyot  però  non  conosceva.  — 
Si  disse  adunque  che  il  consiglio  di  lasciar  verticale  il  tralcio  frut- 
tuoso è  ottimo,  ma  che  è  lungo  e  dispendioso  poi  il  piegare  e  legare 
in  due  o  tre  punti  cotesti  tralci  con  messe  che  contano  già  qualche 
buon  centimetro  di  lunghezza  e  che  hanno  la  base  tenera  così  che 
il  più  piccolo  urto  basterebbe  a  farle  cadere  per  terra. 

Si  capisce  benissimo  che  facendosi  cotale  operazione  in  presenza 
dei  teneri  germogii  si  può  danneggiare  la  vite;  ma  ci  pare  che  si 
possa  facilmente  ovviare  a  questo  guaio  fissando  verticalmente  i 
tralci  suddetti  al  momento  della  prima  potatura,  cioè  nel  verno:  al- 
lora non  ne  possono  soffrire  in  nessuna  maniera. 

Piuttosto  può  reggere  l'obiezione  che  un  tale  metodo  non  può  se- 
guirsi che  con  viti  alla  Casalese,  alla  Guyot,  e  dove  si  seguono 
sistemi  analoghi  di  potatura,  come  in  Valle  San  Martino  di  Ber- 
gamo, ecc,  e  non  ad  esempio  colle  viti  all'  italiana,  senza  sostegni, 
ad  alberello,  o  all'  Héraultiana.  —  Dopo  tutto  però,  ciò  nulla  toglie 
all'efficacia  del  sistema. 

d)  Le  nubi  artificiali  servono  pure,  ad  impedire  la  formazione 
della  brina.  Su  questo  tema  si  è  tanto  scritto  in  questi  anni,  così  in 
Italia  come  in  Francia,  che  non  staremo  qui  a  ripetere  cose  dette  e  ri- 
dette le  mille  volte.  Tuttavia,  siccome  dalle  numerosissime  prove  fatte 
in  proposito  ne  sono  risultati  utili  ammaestramenti  non  a  tutti  noti, 


822  CAPITOLO  XXVIII 


così  scenderemo  a  poche  considerazioni  tutt'affatto  pratiche  e  forse 
non  prive  d'interesse  per  chi  volesse  tentare  novelle  prove  in  pro- 
posito. 

Anzitutto  in  tesi  generale  può  ritenersi  che  se  il  termometro,  col- 
locato come  dicemmo  a  pag.  284,  indica  meno  di  cinque  gradi  C.  a 
2  ore  del  mattino  (1),  fa  mestieri  porsi  tosto  all'opera  onde  pro- 
durre fumo.  Non  si  tema  di  anticipare,  poiché  è  naturale  che  se  le 
nubi  sono  prodotte  assai  per  tempo,  l'irradiazione  del  calorico  vien 
diminuita  sensibilmente;  tardando,  spesso  non  si  arriva  più  in  tempo 
e  la  vite  si  è  già  raffreddata  al  punto  da  coprirsi  di  brina  anche  in 
presenza  del  fumo  artificiale.  Di  qui  molti  degli  insuccessi  lamentati 
in  questi  ultimi  anni. 

La  scelta  del  combustibile  ha  anche  molta  influenza  sul  buon  e- 
sito  dell'operazione:  l'esperienza  ha  dimostrato  che  la  loppa  e  la  se- 
gatura di  legno  mescolate,  umidiccie,  al  residuo  delle  storte  del  gaz, 
(godrone  o  brek)  sono  le  sostanze  più  convenienti  sotto  tutti  i  rap- 
porti. Esse  mescolansi  in  proporzioni  tali  che  la  loppa  sia  ben  co- 
perta dal  bitume:  nella  vigna  si  preparano  delle  buche  larghe  circa 
60  centimetri  e  profonde  tanto  da  contenere  su  per  giù  8  litri  del 
miscuglio;  ogni  15  metri  vuoisi  praticare  una  di  tali  buche,  e  non 
importa  se  avesse  a  piovere  sopra  il  combustibile  così  preparato, 
poiché  esso  brucerebbe  egualmente  presentandosene  il  bisogno.  Si  è 
calcolato  che  con  tre  ettolitri  di  tale  combustibile  si  può  preservare 
un  ettare  di  superficie.  —  Altri  si  trovarono  molto  contenti  dall'uso 
del  suddetto  godrone  collocato  entro  ciotoli  o  vasetti  di  ghisa  della 
capacità  di  2  litri  almeno:  in  4  o  5  ore  ogni  ciotolo  consuma  da  8 
a  10  litri  di  godrone.  L'accendimento  di  questo  bitume  è  cosa  facile; 
basta  prendere  dei  piccoli  pezzi  di  stoffa  in  cotone,  impregnarli  d'olio, 
accenderli  qumdi  ad  una  torcia  ed  allora  collocarli  con  una  pinzetta 
alla  superficie  del  godrone  che  subito  prenderà  fuoco.  Siccome  poi 
trascorsa  una  mezz'ora  dall'accensione,  la  superficie  del  godrone  ri- 
copresi  d'un  buon  strato  di  carbone,  cosi  farà  mestieri  levarla  con 
un  cucchiaio  in  ferro.  Non  v'ha  dubbio  che  il  primo  sistema  è  molto 
preferibile  al    secondo. 

Abbiamo  detto  sopra  che  si  reputano  sufficienti  3  ettolitri  circa  di 
miscuglio  fra  bitume  e  loppa  per  un  ettare  a  viti;  or  se  stiamo  alle 


(1)  Talvolta  indica  solo  un  grado  già  a  mezzanotte:    allora  il    pericolo  di   una 
brinata  è  quasi  certo. 


AVVERSITÀ  ATMOSFERICHE  823 

accurate  esperienze  eseguite  gli  scorsi  anni  dal  chiarissimo  enologo 
Ippolito  Pestellini  di  Firenze,  ce  ne  vorrebbero  almeno  10,  se  pure 
vuoisi  produrre  uno  strato  di  fumo  sufficiente  ad  impedire  l'irradia- 
zione. È  necessario  tener  conto  di  questa  osservazione  dell'egregio 
agrofilo. 

Ma  le  nubi  artificiali  non  giovano  sempre  contro  le  brine;  infatti 
siccome  è  molto  difficile  che  nelle  notti  serene  d'  aprile  o  maggio 
l'aria  sia  affatto  tranquilla,  così  accade  soventi  che  il  fumo  prodotto 
in  una  vigna  va  a  beneficare  altro  vigneto  vicino.  Bisognerebbe  fare 
dei  consorzii.  ed  allora  riescirebbe  molto  più  agevole  di  conseguire 
lo  scopo  prefissosi.  E  non  bisogna  lasciarsi  illudere  dei  vantaggi  con- 
seguiti negli  orti,  poiché  ivi  sonovi  quasi  sempre  dei  muri  di  cinta 
che  impediscono  alle  correnti  suddette  di  spingere  via  il  fumo:  al- 
l'aperta campagna  la  bisogna  corre  molto  diversamente. 

/¥  Vediamo  infine  come  si  debbano  trattare  le  vigne  danneggiate 
dalla  brina.  Si  possono  dare  due  casi:  o  la  brina  sopraggiunge  a  sta- 
gione poco  inoltrata,  oppure  è  veramente  tardiva:  nel  primo  caso 
naturalmente  troverebbe  una  vegetazione  poco  sviluppata  e  in  certe 
condizioni  non  potrebbe  arrecare  che  danni  assai  lievi;  nel  secondo 
caso  invece,  la  vite  essendo  già  tutta  in  certo  qual  vigore,  avrebbe 
campo  a  produrre  maggiori  guai  come  accadde  nel  1874  nell'  Um- 
bria. Allora  la  brinata  della  notte  fra  il  27  ed  il  28  aprile  rovinò 
circa  i  due  terzi  eli  quelle  deliziose  vigne  le  quali  avean  dei  getti 
lunghi  sino  a  20  centimetri  che  i  viticultori  già  s'apparecchiavano  ad 
insolforare.  Disastri  simili  s'  ebbero  in  quel  di  Siena  (28  aprile)  in 
quello  di  Parma  e  Piacenza  (28  aprile)  nel  Bresciano  (29  aprile) 
e  via  dicendo. 

Facciamo  anzitutto  il  primo  dei  suddetti  casi  e  vediamo  se  con- 
venga o  non  potare  la  vigna  danneggiata.  Riteniamo  fermamente 
che  se  la  vigna  ha  le  gemme  così  dette  principali  da  poco  sbucciate 
e  se  il  tralcio  frutticoso  è  bello  e  rigoglioso,  non  sia  conveniente  di 
potare.  In  queste  condizioni  muore  bensì  pel  gelo  il  primo  bottone,  ma 
siccome  all'ascella  ne  v'ha  un  altro  (il  sott'occhio)  che  in  allora  non 
è  ancora  morto,  noi  possiamo  far  sì  che  esso  si  sviluppi  e  rimpiazzi 
l'occhio  principale.  Si  può  ben  dire  che  in  ciò  la  natura  fu  molto 
provvida,  essendo  questi  due  occhi  (che  talvolta  sono  anche  in 
numero  di  tre)  una  vera  provvidenza  per  molti  tristi  casi  di  bri- 
nate precoci:  la  vite,  il  pesco,  l'arancio,  ecc.  si  trovano  appunto  in 
queste  condizioni  di  aver  gemme  duple.  Dunque  bisogna  trarne  par- 


824  CAPITOLO  XXVIII 


tito.  In  questo  intento  noi  ci  regoleremmo  nel  modo  seguente:  taglie- 
remmo con  lama  bene  affilata  la  gemma  guasta  ed  il  suo  piccolo 
germine,  procurando  di  non  toccare  all'occhio  secondario  che  le  sta 
d'accanto.  Così,  se  veramente  la  vite  si  trova  nelle  suddette  condi- 
zioni, ci  sarebbe  dato  di  salvare  anche  buona  parte  del  prodotto  pen- 
dente: quel  sott'occhio  che,  vegetando  il  principale,  sarebbe  andato 
perduto  per  difetto  d'alimento  tutto  assorbito  dal  cacchio  soprastan- 
tegli,  ora  invece  troverebbesi  in  condizioni  da  svilupparsi;  un  po' 
con  ritardo  se  vogliamo,  ma  pur  sempre  in  tempo  per  dare  una  di- 
screta vendemmia.  E  discreta  vendemmia  negli  anni  di  forti  e  ge- 
nerali brinate  (rari  assai  in  Italia)  vuol  dire  raccolta  ubertosa. 

Si  obietterà  a  questo  procedimento  che  esso  richiede  troppo  tempo 
non  potendosi  quel  taglio  fare  grossolanamente,  cioè  senza  una  tal 
quale  delicatezza  nell'operare.  E  tutto  ciò  è  vero.  Però  se  la  gemma 
prima  è  appena  sbuciata,  si  potrà  far  a  meno  del  taglio  e  lasciar 
che  la  natura  faccia  da  sé  e  si  sviluppi  la  gemma  secondaria.  Quando 
invece  da  quel  bottone  è  già  uscito  un  germoglio,  il  taglio  diventa 
necessario  se  non  affatto  indispensabile;  e  tutt'al  più,  ove  si  volesse 
economizzare  un  poco  di  tempo  nel  mandarlo  ad  effetto,  potremmo 
consigliare  di  farlo  con  forbici  bene  taglienti  ad  un  centimetro  al 
disopra  dell'inserzione  del  suddetto  getto  sul  tralcio  frutticoso. 
Così  ci  pare  che  l'operazione  procederebbe  più  spiccia. 

Ma  veniamo  al  secondo  caso.  Qui  i  cacchii  sono  abbastanza  svi- 
luppati e  la  gemma  secondaria  ha  quasi  sempre  perduto  ogni  vita- 
lità: perciò  non  possiamo  più  nulla  sperare  da  essa.  Ma  se  i  sot- 
t'occhi  non  ci  servono  più,  possiamo  bene  trar  partito  delle  gemme 
basso  locate  del  tralcio  frutticoso.  Queste  infatti  sono  tanto  più  tarde 
a  svilupparsi  quanto  più  stanno  presso  il  ceppo  da  cui  il  tralcio 
parte:  le  prime  a  muoversi  sono  quelle  dell'  estremità  e  son  anche 
quelle  i  cui  getti  portano  quasi  sempre  grappoli,  quando  invece 
non  ne  vediamo  spesse  volte  agli  occhi  della  base  del  sarmento. 

Ora  è  facile  il  comprendere  che  se  una  brinata  tardiva  ci  di- 
strugge le  messe  degli  occhi  che  chiameremo  superiori,  noi  dobbiamo 
affrettarci  a  tagliare  quella  parte  del  tralcio  frutticoso  che  li  porta, 
affinchè  il  succo  nutritore  faccia  capo  ai  bottoni  rimanenti  e  ne  coa- 
diuvi lo  sviluppo:  non  praticando  il  taglio,  come  alcuni  inconsidera- 
tamente consigliano,  noi  veniamo  ad  annullare  il  prodotto  pendente, 
nonché  a  pregiudicare  seriamente  quello  avvenire.  Annulliamo  il  pro- 
dotto pendente  perchè  il  tralcio  non  porterà  quasi  più  sarmenti  frut- 


AVVERSITÀ  ATMOSFERICHE  825 

tiferi,  né  alla  base,  né  al  centro,  né  all'estremità,  tutto  il  succo  ve- 
nendo assorbito  dai  getti  ghiottoni  che  non  si  vollero  portar  via 
dopo  la  brinata:  pregiudichiamo  il  raccolto  del  successivo  anno  perchè 
né  alla  base  del  tralcio  frutticoso,  né  allo  sperone  potremo  forse 
trovare  uri  nuovo  sarmento  in  condizioni  tali  da  potersi  distendere 
a  frutto  con  qualche  buona  speranza. 

Coloro  che  misero  in  pratica  la  suddetta  potatura  o  raccorciatura 
ne  ebbero  i  più  lusinghieri  resultati  ed  alle  volte  giunsero  a  salvare 
più  della  metà  del  raccolto.  Dobbiamo  anzi  dire  che  per  alcuni  quella 
è  operazione  tanto  utile  che  la  praticano  senza  fidarsi  molto  delle 
gemme  secondarie  sulle  quali  dicemmo  testé:  quando  brina  essi 
tagliano  tosto  quanto  v'ha  di  brinato,  badando  a  far  sviluppare  bene 
quel  che  rimane. 

E  se  del  tralcio  frutticoso  non  resta  altro  fuorché  una  specie  di 
sperone  con  due  o  tre  gemme? 

In  tal  caso  vuol  dire  che  si  sarà  almeno  salvato  il  prodotto  del- 
l'anno successivo,  mentre  non  potando  si  sarebbe  perduta  ogni  cosa. 

Qui  dovremmo  far  le  solite  distinzioni  fra  viti  maritate  ad  alberi, 
viti  a  palo  secco  e  viti  alla  Casalese,  o  alla  Guyot.  In  breve  di- 
remo che  con  viti  molto  alte  spesso,  ma  non  sempre,  le  gemme  se- 
condarie reintegrano  il  viticoltore  di  buona  parte  della  raccolta:  del 
rimanente  poi  il  danno  è  in  questo  caso  sempre  più  lieve  di  quello 
che  tocca  alle  viti  basse  le  quali,  comunque  si  educhino,  si  dovranno 
sempre  trattare  negli  indicati  modi. 

*%  Come  appendice  a  quanto  dicemmo  più  sopra  dobbiamo  risol- 
vere il  quesito  seguente:  debbonsì  o  non  lavorare  i  terreni  vitati, 
allo  scopo  di  attenuare  la  formazione  della  brina?  —  Alcuni  di- 
cono che  bisogna  zapparli,  altri  invece  consigliano  di  non  lavorarli; 
in  una  nostra  esperienza  diretta,  fritta  in  un  vivaio,  constatammo  che 
la  brina  aveva  recato  gravi  danni  solo  ai  germogli  del  tratto  non 
zappato  e  coperto  di  male  erbe  alte  circa  25  centimetri;  invece  nel 
Viterbese  si  ritiene  che  nel  terreno  lavorato  uno  od  anche  due  giorni 
prima  della  venuta  della  brina,  le  viti  soffrono  di  più.  Vi  ha  poi  chi 
non  vuole  né  male  erbe  né  lavorature,  e  trova  che  son  entrambe  dan- 
nose. Noi  crediamo  anzitutto  che  convenga  distinguere  fra  vivaio, 
viti  basse  e  viti  maritate  ad  alberi:  pei  vivai  devesi  consigliare  la 
lavorazione  del  suolo;  il  terreno  smosso  irradia  assai  meno  che  il 
terreno  duro,  perchè  V  aria  rotta  e  suddivisa  fra  la  terra  presenta 
grande   resistenza  alla   propagazione  del   calor  del  suolo:  ora  il  vi- 


826  CAPITOLO  XXVIII 


vaio,  che  è  pochissimo  distante  dalla  terra,  risente  assai  l'influenza 
delle  condizioni  della  terra  stessa.  Lo  stesso  devesi  dire  per  le  viti 
educate  basse,  essendovi  moltissime  esperienze  che  dimostrano  l'uti- 
lità per  esse  del  terreno  smosso  e  pulito  da  ogni  pianta  erbacea.  In- 
fine le  viti  maritate  ad  alberi  si  trovano,  perchè  alte,  in  condizioni 
da  temere  pochissimo  le  brine,  tanto  più  che  lo  sviluppo  delle  loro 
messe  è  ritardatario. 

§  3.  Il  gelo.  —  Abbiamo  già  studiato  il  gelo  ne'  suoi  rapport1 
colle  viti  a  pag.  291.  Qui  dobbiamo  esaminare  i  mezzi  proposti  per 
ovviarne  i  danni,  spesso  assai  gravi. 

Questi  mezzi  sono  il  sotterramento  delle  viti,  le  rincalzature,  i 
piantamenti  sul  colmo  di  appositi  ciglioni,  i  fossi  di  scolo  appiè  delle 
ceppaie,  i  lavori  profondi  prima  dell'inverno,  ed  il  drenaggio. 

Il  sotterramento  delle  viti  è  praticato  su  vasta  scala  in  Germania, 
in  Austria  ed  anche  in  molte  località  dell'Italia  settentrionale  per  le 
viti  di  pianura.  A  novembre  si  sgrossa  alquanto  la  vite  levando  i 
sarmenti  affatto  inutili,  quindi  la  si  sdraia  lungo  il  filare;  in  seguito 
passando  coll'aratro  vicino  al  filare  si  aprono  due  solchi  laterali,  uno 
per  parte,  versando  la  terra  verso  il  filare  stesso;  infine  colle  zappe 
a  mano  si  completa  il  sotterramento.  Oppure  sdraiata  la  vite,  an- 
ziché coprirla  completamente  di  terra,  la  si  cuopre  soltanto  qua  e 
colà  con  grosse  zolle  erbose,  perchè  si  conservi  più  che  sia  possibile 
asciutta.  Però  tanto  nell'un  caso  come  nell'altro,  se  allo  scioglimento 
delle  nevi  o  dopo  abbondante  pioggia  succede  subitamente  un  forte 
gelo,  la  vite  resta  sempre  alquanto  danneggiata. 

Senza  ricorrere  all'estremo  mezzo  di  sotterrare  la  vite  sdraiandola 
a  terra,  si  può  anche,  sempre  allo  stesso  intento,  rincalzare  soltanto 
prima  dell'inverno,  e  così  a  novembre,  le  ceppaie  fino  ad  una  certa 
altezza  dal  suolo,  colle  zappe  a  mano;  o  più  economicamente  facendo 
passare  1'  aratro,  come  abbiamo  detto  di  sopra,  vicino  al  filare,  a- 
prendo  due  solchi  laterali  uno  per  parte,  versando  la  terra  verso 
il  filare  stesso  e  completando  la  rincalzatura  con  le  zappe  a  mano. 
E  con  ciò  non  vi  è  solo  la  terra  che  materialmente  difenda  dal 
freddo  le  ceppaie,  ma  la  terra  smossa  nella  rincalzatura  si  riempie 
d'aria  e  diventa  cattiva  conduttrice,  rendendo  così  più  difficile  che 
il  calore  del  terreno  appiè  delle  viti  si  disperda.  L'illustre  agronomo 
francese  Gasparm  asserisce  d'aver  esperimentato  con  pieno  successo 
l' incalzatura  degli  ulivi  e  di  altr  e  piante,  appunto  per  prevenire  i 
danni  dei  grandi  freddi;  lo  stesso  succede  della  vite. 


AVVERSITÀ   ATMOSFERICHE  827 

Ma  ciò  che  durante  le  gelate  più  direttamente  contribuisce  a  pro- 
durre i  danni  che  si  verificano  è  l'umidità,  ed  ecco  perchè:  l'acqua 
passando  dal  terreno  alle  piante  vi  riempie  i  canaletti  interni;  ora 
durante  i  forti  freddi  F  acqua  si  congela  e  per  legge  fisica  aumenta 
molto  di  volume,  per  ciò  anche  i  canaletti  della  pianta  si  dilatano 
assai,  talvolta  soverchiamente,  e  si  lacerano;  a  ciò  s'aggiunga  an- 
cora che  l'acqua  congelata  nei  canaletti  interni,  al  disgelo,  special- 
mente se  repentino,  per  legge  fisica  sottrae  alla  pianta  una  ingente 
quantità  di  calore,  abbassando  così  sempre  più  la  già  bassa  tem- 
peratura. E  nel  terreno  è  anche  l'umidità  che  durante  i  forti  freddi 
produce  i  mali  maggiori,  poiché  l'aumento  di  volume  dovuto  all'acqua 
può  lacerare  le  tenere  radici  e  può  da  queste  distaccare  la  terra 
cui  prima  erano  fissate  e  da  cui  devono  suggere  le  sostanze  nu- 
tritive. 

Per  questo  onde  menomare  i  danni  che  alla  vite  possono  arrecare 
i  geli,  più  ancora  del  difenderle  materialmente  dal  freddo,  gioverà 
liberarle  dall'umidità. 

Egli  è  a  tale  intento  che  nel  piantamento  delle  viti  in  pianura,  in 
quelle  località  che  sono  soggette  ai  forti  freddi,  si  consiglia  nei  lavori 
preparatomi  di  foggiare  il  terreno  a  ciglioni  e  di  piantare  le  viti 
sulla  cresta  del  ciglione.  L'  avvallamento  che  naturalmente  si  trova 
al  piede  del  ciglione,  la  fa  da  fosso  di  scolo,  facilitando  così,  durante 
le  piogge  e  durante  lo  scioglimento  della  neve,  l'asciugarsi  del  ter- 
reno. 

Egli  è  per  la  stessa  ragione  che  si  raccomanda  nei  siti  piani  dove 
la  vite  non  è  coltivata  a  ciglione  ed  anche  nei  colli  a  dolce  pendìo, 
di  aprire  prima  dell'inverno  dei  profondi  fossi  di  scolo  a  pie  dei  fi- 
lari, e  di  nettarli  sovente  durante  l' inverno,  specialmente  allo  scio- 
glimento delle  nevi,  acciocché  la  terra  trascinata  dalle  acque  non  li 
ostruisca,  arrestando  ed  accumulando  così  al  piede  delle  viti  quella 
umidità  che  si  vorrebbe  eliminare. 

Così  pure  per  prevenire  i  danni  dell'  umidità  si  consiglia  di  lavo- 
rare accuratamente  il  terreno  al  pie  delle  vici,  sempre  prima  del- 
l'inverno. In  tal  modo  con  tale  lavoro  si  introduce  nel  terreno  una 
quantità  d'aria,  che  essendo  corpo  cattivo  conduttore  del  calorico, 
rende  la  terra  assai  più  calda  d'inverno.  Oltre  a  ciò  nei  terreni  la- 
vorati l' acqua  proveniente  dalle  piogge  e  dallo  scioglimento  delle 
nevi,  non  si  ammassa  e  non  si  ferma  nello  strato  superficiale,  ma  si 
suddivide  su  un  grosso  volume  di  terra  rendendola   così  in  propor- 


828  CAPITOLO  XXVIII 


zione  assai  meno  umida:  quindi  lentamente  si  raccoglie  negli  strati 
inferiori  del  terreno,  di  dove  poi  per  capillarità  risale  a  benefìcio 
delle  radici  nella  stagione  asciutta. 

Ma  il  mezzo  che  meglio  d'  ogni  altro  raggiunge  lo  scopo  di  me- 
nomare i  danni  delle  gelate  col  liberare  i  terreni  dalla  umidità,  è  il 
drenaggio.  Esso  toglie  l'eccessivo  umido  attirandolo  nei  suoi  tubi  e 
portandolo  fuori  della  vigna  ed  introduce  nel  terreno  una  certa  quan- 
tità d'  aria,  la  quale  corre  dietro  all'  acqua  e  ne  occupa  il  posto 
quando  questa  se  ne  è  andata  via;  è  quindi  tutto  ciò  che  si  de- 
sidera pel  caso  nostro.  Oltre  a  ciò  arreca  i  suoi  vantaggi  non 
solo  nell'  inverno  ma  eziandìo  nelle  altre  stagioni  mentre  la  vite 
è  in  piena  vegetazione  e  fruttificazione.  Quindi  non  è  esagerato 
il  dire  che  il  drenaggio  è  una  delle  operazioni  più  utili  alla 
vite. 

Ed  a  questo  proposito  rimandiamo  il  lettore  a  pag.  370,  ove  ne 
abbiamo  parlato  di  proposito. 

§  4.  La  manna  o  brùciola.  —  Sono  così  chiamate  certe 
macchie  (pag.  268)  rosso-nerastre,  che  si  osservano  sulle  foglie  e 
sui  germogli  della  vite  in  primavera.  La  brùciola  è  più  frequente 
nei  paesi  marini,  specialmente  in  aprile  o  nei  primi  di  maggio; 
quando  la  produzione  di  rugiada  è  abbondante,  il  danno  è  assai  più 
grande;  accade  lo  stesso  dopo  le  nebbie  marine.  Il  doti.  D.  G.  Bo- 
schi in  una  sua  nota  sulla  manna  scritta  sin  dal  1791  dice:  «  nelle 
sere  fresche  con  nebbie  marine  casca  qua  e  colà  ad  intervalli 
disuguali  ed  incerti  della  rugiada,  e  questa  ha  delle  qualità  ab- 
bruciane e  caustiche  »  per  cui,  egli  soggiunge,  periscono  i  ger- 
mogli delle  viti.  Ma  nei  paesi  marini  anche  i  venti,  come  già  di- 
cevamo a  pag.  294,  possono  produrre  delle  bruciature  sulle  parti 
tenere  delle  viti;  nelle  vigne  del  Campidano  (Cagliari)  quando 
soffia  il  vento  di  levante  umido,  detto  colà  «  maledetto  levante  » 
se  dura  quattro  o  cinque  giorni  in  luglio  ed  agosto,  per  le  gociolette 
di  rugiada  che  ogni  mattina  si  trovano  sui  grappoli  e  per  1'  azione 
loro,  gli  acini  si  vuotano  e  si  essicano.  Sono  quindi  varie  le  cause 
della  brùciola,  e  certo  il  sai  marino  contenuto  nelle  rugiade  di 
detti  paesi  e  portato  eziandio  coi  venti,  non  vi  deve  essere  to- 
talmente estraneo.  Disgraziatamente  rimedii  non  se  ne  conoscono: 
forse  una  solforazione  abbondante  con  un  miscuglio  in  parti  uguali 
di  zolfo  e  cenere  potrebbe    servire  come  di  riparo   contro   l'abbru- 


AVVERSITÀ  ATMOSFERICHE  829 

ciamento;   ciò   si   fa   già   con    buon    esito  "contro   le   brine    (v.   pa- 
gina 819). 

§  5.  Le  pioggie,  il  soverchio  calore,  le  nebbie  ed  i  venti. 

—  Nulla  abbiamo  da  aggiungere  a  quanto  dicemmo  alle  pagine  265, 
266  e  291;  onde  rimandiamo  ivi  il  lettore. 


CAPITOLO  XXIX 


Insetti  dannosi  alle  viti  ed  all'uva. 


1.  La  lotta  contro  gli  insetti  in  genere  —  §  2.  La  fillossera  devastatrice  — 
§  3.  11  rinchite  della  vite  —  §  4.  L'  apate  della  vite  —  §  5.  L'  eumolpe  — 
§  6.  La  melolonta  comune  —  §  7.  La  melolonta  della  vite  o  ronzone  — 
§  8.  La  tortrice  dell'uva  —  §  9.  La  pirale  della  vite  —  §  10.  La  zigena  della 
vite  —  §  11.  L'albinia  vochiana  o  bruco  dell'uva  — §  12.  La  noctua  aquilina 

—  §  13.  L' altica  mangia-viti  o  pulce  delle  viti  —  §  14.  L' otiorinco  — 
§  15.  Il  letro  —  §  16.  La  forbice  o  forfecchia  —  §  17.  L'  hoplophora  arctata 

—  §  18.  L'anguillula  radicicola  —  §  19.  L'erineo. 


§  1.  La  lotta  contro  gli  insetti  in  genere.  —  Gli  insetti 
che  danneggiano  le  viti  sono  pur  troppo  numerosi,  ma  fortunata- 
mente non  tutti  sono  ugualmente  nocivi;  senonchè  la  moltiplicazione 
di  questi  ultimi,  quando  non  è  in  qualche  modo  intralciata  dal  viti- 
cultore,  può  giungere  a  tal  punto  da  recare  gravi  darmi  ai  vigneti. 
È  adunque  saggio  consiglio  quello  di  dare  la  caccia  senza  tregua  a 
tutti  gli  insetti  che  si  scoprono  nelle  proprie  vigne;  questa  raccolta 
degli  insetti,  che  si  deve  affidare  a  ragazzi,  se  si  effettua  sin  dai 
primi  .momenti  della  loro  comparsa,  non  presenta  tutte  quelle  diffi- 
coltà che  si  incontrano  più  tardi,  quando  cioè  il  male  si  è  già  esteso: 
anche  in  questo  caso  conviene  pertanto  arrestare  il  male  sin  da'  suoi 
inizii,  mettendo  in  pratica  il  priiicipiis  obsta  di  Ovidio. 

Ma  come  complemento  di  questa  lotta  incessante  ed  incominciata  per 
tempo,  è  necessaria  l'unione  nella  lotta  stessa  fra  i  varii  viticultori 
d'una  data  località;  è  facile  intendere  come  possano  spesso  riescire 
inutili  gli  sforzi  fatti  isolatamente  da  un  viticultare  per  liberarsi  da 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'UVA  831 

certi  insetti,  se  i  suoi  vicini  non  si  curano  di  fare  altrettanto  e  per- 
mettono che  i  loro  vigneti  diventino,  come  oggi  si  dice,  veri  foco- 
lari di  infezione.  Conviene  adunque  costituire  dei  piccoli  consorzii  di 
difesa  fra  i  possessori  di  vigneti  d'  una  determinata  località,  e  con 
apposite  squadre  di  ragazzi  dar  la  caccia  senza  tregua  a  tutti  gli 
insetti  che  si  incontrano  sulle  viti.  Con  questo  sistema  in  poco  tempo 
la  quantità  oggi  non  piccola  di  insetti  i  quali  guastano  i  nostri  vigneti, 
sarebbe  ridotta  a  proporzioni  insignificanti:  si  aggiunga  che  queste 
squadre  di  ragazzi  potrebbero  anche  raccogliere  le  foglie  ammalate 
per  crittogame,  la  qual  cosa  è  senza  dubbio  di  grande  utilità  per 
impedire  la  diffusione  mercè  la  disseminazione  delle  spore. 

In  alcuni  paesi  vi  sono  speciali  leggi  che  determinano  la  forma- 
zione di  simili  comitati  di  difesa,  e  chi  non  ne  adempie  le  prescri- 
zioni è  punito  con  multe;  l'onorevole  deputato  Berti,  già  Ministro 
di  Agricoltura,  progettava  egli  pure  una  legge  in  questo  senso  (1) 
ed  è  a  deplorarsi  che  non  sia  stata  discussa  ed  approvata. 

Taluni  non  si  preoccupano  guari  della  comparsa  e  della  moltipli- 
cazione degli  insetti  nei  vigneti,  perchè,  dicono  essi,  generalmente 
scompaiono  di  per  sé  stessi,  senza  che  il  viticoltore  debba  spendere 
danari  e  fatiche  per  cacciameli.  Ciò  infatti  è  talvolta  accaduto;  ma 
l'osservazione  dimostra  che  gli  insetti  non  scomparvero  di  per  sé, 
bensì  a  cagione  di  circostanze  atmosferiche  loro  avverse,  e  senza 
delle  quali  avrebbero  continuato  a  moltiplicarsi  a  tutto  loro  agio; 
talvolta  pure  scomparvero  perchè  si  moltiplicarono  altri  esseri,  pa- 
rassiti degli  insetti  stessi,  come  ci  insegnano  gli  studiosi  della  stona 
naturale. 

Insistiamo  quindi  sulla  lotta  contro  gli  insetti  ampelofagi,  mercè 
l'unione  dei  viticoltori. 

Oltre  alla  caccia  diretta  agli  insetti,  cioè  la  loro  raccolta,  sonovi 
altri  mezzi  di  distruzione  assai  energici.  Accenneremo  qui  ai  principali. 

Ottimo  mezzo  è  il  calore,  quantunque  non  siasi  trovato  sin  qui 
un  mezzo  molto  spiccio  per  trarne  partito:  sin  dal  1840  Benoit 
Raclet  propose  di  lavare  le  ceppaie,  i  tralci  ed  i  sostegni  delle  viti 
con  acqua  bollente;  certo  gli  insetti  e  le  loro  ova  sono  così  distrutti, 
ma  la  quantità  d'acqua  che  occorre  e  la  spesa  del  combustibile  per 
portarla  all'ebollizione  rendono  il  sistema  poco  pratico.  —   Il  signor 


(1)  V.  il  testo  di  tale  legge  nel  Bollettino  di  notizie   Agrarie  del  Ministero  di 
Agricoltura,  num.   14,  marzo  1883. 


832  CAPITOLO  XXIX 


Montoy  ideava  più  tardi  un  apparecchio  leggiero  e  portatile  nel 
quale  l'acqua  si  riscalda  rapidamente  a  100°  attraversando  un  ser- 
pentino che  sta  nel  focolare.  Quest'apparecchio  si  porta  nella  vigna, 
ove  un  operaio  riempie  varie  caffettiere  con  acqua  bollente,  le  tra- 
smette alle  donne,  le  quali  vanno  a  versarle  sulle  ceppaie:  ogni  caf- 
fettiera contiene  un  litro  d'acqua  ed  ha  una  doppia  parete  per  im- 
pedire il  raffreddamento.  Nell'adoperare  l'acqua  bollente  si  deve  aver 
cura  di  risparmiare  le  gemme;  sempre  poi  si  deve  operare  durante 
l'inverno,  quando  la  vegetazione  dorme.  Ma  il  sistema  più  pratico 
pare  sia  quello  ideato  nel  1881  dall'lng.  meccanico  sig.  Gaillot  di 
Beaune  (Costa  d'oro);  per  applicarlo  bisogna  provvedersi  del  flo- 
goforo  da  lui  inventato,  consistente  in  una  specie  di  piccola  canna 
metallica  nella  quale  si  produce  una  fiamma  mediante  il  petrolio;  con 
tale  apparecchio  un  sol  uomo,  lavorando  con  una  sola  mano  e  quasi 
senza  fatica,  può,  bruciando  due  litri  di  petrolio,  infiammare  in  una 
giornata  2000  ceppi  di  vite  (ceppi  bassi)  nonché  la  superfìcie  del 
suolo,  ove  si  possono  trovare  uova  o  larve  frammezzo  a  detriti  di 
foglie  od  altri  detriti.  Le  esperienze  fatte  in  Francia,  alla  presenza 
di  apposite  Commissioni,  riuscirono  molto  bene,  e  perciò  crediamo  di 
poter  raccomandare  questo  infiammatoio  automatico. 

Altro  mezzo  efficace  di  lotta  contro  gli  insetti  è  l'uso  della  nafta- 
lina, proposto  da  qualche  anno  dal  distinto  cultore  della  enologia  e 
della  viticoltura  I)r.  Alessandro  Bizzarri  di  Firenze;  la  naftalina 
è  infatti  utilissima  per  allontanare  gli  insetti  dalle  ceppaie,  e  si  può 
adoperare  facendone  una  miscela  a  parti  eguali  collo  zolfo,  il  quale 
serve  per  polverizzarla  e  suddividerla,  acciò  si  possa  darla  coi  sof- 
fietti con  cui  si  dà  ordinariamente  lo  zolfo  stesso.  Ma  il  Bizzarri 
facendo  esperienze  sull'uso  della  naftalina  in  soluzione,  specialmente 
contro  il  baco  dell'uva,  trovò  che  una  soluzione  nella  benzina  al  10  per 
100,  mentre  non  offende  l'uva  come  farebbe  l'alcool,  penetra  la  ra- 
gnatela che  difende  il  baco,  ed  evaporandosi  vi  lascia  uno  strato 
di  naftalina,  il  quale  resta  aderente  onde  non  se  ne  disperde  nulla, 
ciò  che  non  può  dirsi  invece  quando  si  adopera  questa  sostanza  in 
polvere.  La  soluzione  si  somministra  con  un  pennello. 

Ha  pure  dato  spesse  volte  buoni  risultati,  contro  gli  insetti  in 
genere,  un  miscuglio  di  calce  viva  in  polvere  con  due  volte  tanto 
di  zolfo,  il  tutto  passato  per  finissimi  setacci.  Con  questa  miscela 
si  debbono  fare  le  solite  solforature  nelle  vigne  invase  dagli  insetti, 
come  se  si  adoperasse  lo  zolfo  da  solo. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  833 

Alcuni  adoperano  con  successo  la  cenere  dei  forni  da  calce; 
infine,  da  qualche  anno,  hanno  acquistato  credito  come  insetticidi  i 
cascami  di  tabacco,  specialmente  dopo  le  esperienze  fatte  per  cura 
del  nostro  Ministero  d'Agricoltura.  Questa  polvere  di  tabacco  deve 
essere  adoperata  allo  stato  di  massima  suddivisione;  la  più  efficace 
pare  sia  la  polvere  num.  2,  contenente  50  0[q  di  tabacco,  30  0[q  di 
zolfo  e  20  0[Q  di  cenere.  Tale  polvere  non  si  trova  che  presso  i  Magaz- 
zeni di  deposito  dei  tabacchi  o  presso  la  Direzione  Generale  delle  Ga- 
belle; pare  però  che  si  voglia  autorizzare  alla  vendita  anche  i  tabaccai. 

§  2.  La  fillossera  devastatrice.  —  a)  Invasione  in  Francia. 
Il  giorno  15  luglio  1860  i  signori  Planchon,  Gaston  Bazille  e 
Sahut  scoprirono  la  fillossera  in  Francia:  la  Francia  fu  quindi  il 
primo  paese  d'Europa  invaso,  benché  taluno  asserisca  che  anzitutto 
l'insetto  si  mostrò  in  Portogallo  nonché  nelle  serre  dell'Inghilterra, 
dell'Irlanda  e  della  Scozia  (1). 

È  noto  che  varie  viti  americane  godono  di  una  certa  resistenza, 
talvolta  assoluta,  agli  attacchi  dell'  Oidium  Tuckeri,  che  per  anto- 
nomasia noi  usiamo  di  chiamare  la  crittogama.  Questa  malattia  si  ma- 
nifestò (2)  nel  Mezzogiorno  della  Francia  nel  1851,  e  andò  sempre  in- 
fierendo sino  al  1857,  anno  in  cui  si  incominciò  a  solforare  nell'Hérault: 
or  bene  si  notò,  durante  quel  periodo,  che  le  Viti  americane  Isabella  e 
Katawba  resistevano  abbastanza  bene  all'oidio.  Siccome  nei  primi  anni 
in  cui  si  adoperò  lo  zolfo,  si  verificarono  nel  suddetto  Mezzogiorno 
molti  insuccessi,  così  varii  viticultori  ebbero  pel  momento  maggior 
fede  nelle  viti  americane,  le  quali  furono  per  un  certo  tempo  molto 
ricercate;  esse  si  facevano  venire  dall'America. 

Ciò  appunto  accadde  specialmente  nel  Mezzogiorno  della  Francia 
perchè  ivi  la  crittogama  (favorita  dalle  condizioni  climatologiche) 
recava  danni  enormi  ed  aveva  gettato  un  vero  sgomento  fra  quei 
viticultori;  codesto  lo  desumiamo  dai  rapporti  officiali  pubblicati  nel 
1852  dai  signori  Ledere  e  Rendu. 

Or  bene,  appunto  in  quegli  anni,  mentre  si  importavano  viti  d'A- 


(1)  Laliman,  valente  ampelografo  di  Bordeaux,  dice  che  nel  1862  la  fillossera 
fu  segnalata  per  la  prima  volta,  e  contemporaneamente,  in  Portogallo  ed  in  In- 
ghilterra. Nel  1863  poi,  venne  constatata  nelle  serre  della  Scozia  e  dell'Irlanda, 
sotto  il  nome  di  Peritymbia  vitisana  (Westwood).  Dappertutto  l' insetto  fu  im- 
portato con  viti  provenienti  dall'America  (Fatio,  pag.   17). 

(2)  Des  vignes  du  Midi  de  la  France,  par  H.  Marès,  pag.  355. 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  54 


834  CAPITOLO  XXIX 


merica  in  Francia,  si  importò  con  esse  la  fillossera.  È  infatti  oramai 
accertato  che  questo  parassita  fu  introdotto  nel  territorio  francese 
nel  1858,  o  giù  di  lì,  e  fu  introdotto  per  l'appunto  nel  Mezzogiorno. 
Fu  così  che  l'America,  la  quale  ci  diede  molti  parassiti,  quali  la  do- 
rifora delle  patate,  V  insetto  lanoso  del  melo,  ecc.,  ci  regalò  anche 
il  più  accanito  nemico  della  vite.  E,  come  vedremo,  furono  sempre 
le  viti  americane  quelle  che  lo  portarono  nei  varii  paesi  d'  Europa, 
esclusa  forse  l'Italia. 

Nel  periodo  trascorso  fra  il  1858  ed  il  1868  la  fillossera  estese 
il  suo  dominio  in  Francia,  non  solo  nel  Mezzogiorno  ma  anche  nel- 
l'Occidente, —  nel  Bordolese  (Gironda).  Però  durante  quel  decennio 
non  si  parlò  mai  di  fillossera,  ma  soltanto  di  una  malattia  inespli- 
cabile ed  ignota  che  uccideva  le  viti,  la  quale  segnalossi  principal- 
mente nell'anno  1863  a  Pugault  nel  Gard  (Mezzogiorno)  dove  erano 
state  portate  molte  viti  dall'  America  precisamente  come  era  ac- 
caduto nel  Bordolese. 

Finalmente  nel  1868  il  Prof.  Planchon  scoprì  in  un  vigneto 
presso  Mompellieri  (Hérault)  il  pidocchio  che  era  la  causa  di  tanti 
disastri.  Nel  seguente  1869  il  sig.  Lichtenstein  di  Mompellieri  azzardò 
pel  primo  l'opinione  che  quel  pidocchio  fosse  identico  all'altro  cono- 
sciuto in  America  e  descritto  dal  dott.  Asa  Fitch,  entomologo  dello 
Stato  di  Nuova- York,  sotto  il  nome  di  Pemphigus  viti fo lice.  Nel 
1870  un  altro  distinto  naturalista  americano,  il  Riley,  stabilì  l'identità 
fra  le  due  fillossere,  e  poco  dopo  Planchon,  Balbiani,  Signor  et, 
Cornu,  Roessler  ed  altri  studiosi  confermarono  la  cosa. 

La  fillossera,  cui  Planchon  impose  il  nome  di  Philloxera  Va- 
sta trix,  fu  dunque  scoperta  in  Francia  nel  1868,  dopo  che  vi  era 
stata  celata  durante  dieci  anni  ed  aveva  in  questo  frattempo  potuto 
estendersi  sopra  10  mila  ettari,  in  modo  tale  cioè  da  rendere  poi 
impossibile  l'attuazione  di  quei  processi  coi  quali  si  rallenta  di  molto, 
se  pur  non  si  arresta  affatto,  l'invasione. 

Alla  fine  del  1874,  mentre  si  perdeva  colà  un  tempo  prezioso  nel  di- 
scutere se  la  fillossera  fosse  la  causa  del  male  o  la  conseguenza  d'uno 
stato  patologico  della  vite,  il  pidocchio  aveva  invaso  ben  200  mila  ettari. 

Alla  fine  del  1878  la  Francia  contava  356,000  ettari  invasi,  e 
288,000  distrutti;  alla  fine  del   decorso  1884  (1)  si   noveravano  53 


(1)  Situation  des  vignobles  pkylloxérés  —  E.   Tisserand,  Directeur  de  l'Agri- 
griculturc  (v.  Journal  d'Agricult.  di  Lecouteux,  numeri  18  e  19,  1885). 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  835 

dipartimenti  invasi,  per  una  superficie  di  429,000  ettari:  prima  dell'in- 
vasione questi  dipartimenti  contavano  2,485,829  ettari  a  vigna;  oggi  ne 
contano  invece  2,056,713,  vale  a  dire  che  vi  ha  una  differenza  in  meno 
di  429,116  ettari.  Ma  questo  deficit,  come  ben  osserva  il  sig.  Tisse- 
rand,  non  dà  la  misura  esatta  della  perdita  subita  dai  vigneti  fran- 
cesi; il  male  è  infatti  assai  più  considerevole.  La  perdita  causata 
dalla  fillossera  si  eleva  realmente,  oggidì,  ad  un  milione  di  ettari: 
senonchè  molti  vigneti  furono  ricostituiti  o  con  viti  francesi  o  con 
viti  americane,  o  utilizzando  nuovi  terreni  e  via  via,  cosicché  600 
mila  ettari  circa  furono  ripiantati  e  disputati  al  nemico. 

b)  Invasione  in  Italia  ed  in  altri  paesi  d'Europa.  —  In  Italia 
la  fillossera  fu  scoperta  neh1'  agosto  del  1879  a  Valmadrera  (prov. 
di  Como)  sovra  21  ettari  di  vigneti  a  coltura  mista;  pochi  giorni 
dopo  si  scoprivano  circa  altri  3  ettari  infetti  ad  Agrate  Brianza 
(Monza).  Nel  1880  si  trovarono  altri  due  centri  infetti  assai  piccoli, 
(6575  metri  q.)  nel  comune  di  Porto  Maurizio,  e  pure  nel  1880 
si  scoprirono  due  centri,  disgraziatamente  di  qualche  estensione,  in 
Sicilia;  uno  a  Riesi  ed  a  Butera  (Caltanissetta)  di  ettari  23,  l'altro 
a  Messina  di  circa  ettari  10.  Nel  1882  si  scopriva  altra  infezione 
a  Ravanusa  (Girgenti);  nel  1883  si  accertava  una  grossa  macchia 
filloiserica  in  Sardegna  a  Sorso,  JJsini  e  Sennori  (Sassari)  di  circa 
30  ettari,  ed  altra  a  Reggio  Calabro  di  circa  100  ettari.  Come  si 
vede  l'infezione  in  Italia  è  ancora  per  fortuna  molto  limitata,  onde 
si  spera  di  tenerla  in  questi  stretti  limiti,  coi  mezzi  di  lotta  dei  quali 
faremo  cenno  fra  poco,  e  col  concorso  dei  \iticultori;  dai  quali  si 
richiede  sovratutto  molta  circospezione  nell'introdurre  vitigni  o  piante 
qualsiansi  dai  luoghi  infetti  o  sospetti,  in  quelli  sani. 

«  L'Austria  ha  delle  estese  infezioni  nella  bassa  Austria,  derivate 
da  quella  del  vigneto  modello  di  Klosterneuburg.  Le  ultime  ricerche 
facevano  ascendere  queste  infezioni  a  circa  100  ettari,  ai  quali  de- 
vonsi  aggiungere  oltre  100  ettari  infetti  dell'Istria,  ed  altrettanti 
della  Stiria. 

«  L'  Ungheria  alla  fine  dell'  anno  1882  aveva  32  focolari  d' infe- 
zione sparsi  in  17  comuni,  senza  tener  calcolo  di  un'  altra  dozzina 
di  centri  fìllosserati,  nei  quali  si  praticarono  le  distruzioni  negli  anni 
1880  e  1881.  Complessivamente  giudicavasi  che  la  infezione  occu- 
passe già  nel  1882,  in  Ungheria,  circa  1500  ettari.  L'  Austria- Un- 
gheria tentò  di  difendersi  dalla  fillossera  con  varii  mezzi,  ma,  quanto 
a  pare  dai  fatti,  con  risultati  punto  felici.   Vuoisi   però   notare  che* 


836  CAPITOLO  XXIX 


ad  onta  dell'insuccesso  avuto  nelle  operazioni  fatte  a  Klosterneuburg, 
non  esitò  a  praticare  la  distruzione  dei  focolari  dell'Istria  e  di  qualche 
altra  località. 

«  Nella  Russia  fu  constatata  la  fillossera  sulla  costa  Sud-Est  della 
Crimea,  fino  dal  1880,  sopra  23  ettari  di  vigna.  Nel  1881  si  sco- 
persero nuovi  e  numerosi  focolari,  dei  quali  alcuni  fra  le  viti  sel- 
vatiche. D'ordine  del  Governo  russo,  coll'uso  degli  insetticidi  e  me- 
diante una  sommersione  prolungata  per  molti  mesi,  dove  la  sommer- 
sione era  possibile,  fu  operata  la  distruzione  dei  vigneti  infetti.  Queste 
operazioni  costarono  circa  300,000  rubli,  ma  non  è  noto  se  sia  o 
no  riapparsa  la  fillossera  nei  vigneti  circostanti  a  quelli  distrutti. 

«  In  Germania  si  constatarono  soltanto  delle  limitate  infezioni, 
quasi  esclusivamente  nei  vivai,  sopra  viti  americane,  o  su  vitigni 
europei  coltivati  in  prossimità  dei  primi.  A  tutto  il  1881  il  numero 
dei  focolari  scoperti  ascendeva  a  26,  e  fra  questi  notasi  un  vigneto 
ad  Heimersheim.  In  tutti  i  centri  scoperti  si  applicò  il  metodo  di- 
struttivo con  esito  soddisfacente,  poiché  intorno  a  molti  di  questi  le 
ulteriori  ispezioni  diedero  dei  risultati  negativi. 

«  La  Svizzera  ebbe  centri  infetti  ne'  cantoni  di  Ginevra  e  di  Neu- 
chàtel,  e  delle  sue  infezioni  curò  sempre  con  molta  sollecitudine  ed 
energia  la  distruzione.  L'  area  distrutta  complessivamente  dal  1874, 
data  della  prima  scoperta  della  fillossera  in  Isvizzera,  fino  a  tutto 
il  1883,  ascende  a  poco  più  di  17  ettari. 

«  In  Ispagna  l'infezione  era  già  gigante  allorché  fu  scoperta  nel 
1878,  nella  provincia  di  Malaga;  oggi,  secondo  i  calcoli  del  signor 
Lichtenstein,  riguardansi  come  già  perduti  in  quella  provincia  50.000 
ettari  di  vigna.  Ed  infezioni  rilevanti  si  accertarono  anche  nelle  Pro- 
vincie di  Gerona,  Barcellona,  Tarragona  ed  altrove.  Da  principio  la 
Spagna  impegnò  la  lotta  contro  la  fillossera  col  metodo  distruttivo, 
imitando  la  Svizzera;  ma,  di  fronte  alla  estensione  del  male  ed  al- 
l' opposizione  della  popolazione,  dovette  limitarsi  a  tentare  la  difesa 
coi  metodi  colturali  e  coli'  impianto  dei  vitigni  d'  America. 

«  Anche  nel  Portogallo  la  malattia  si   sviluppò   rapidamente.  Già 

nel  1877  circa  3000  ettari  di  vigneti  erano  assai  compromessi,  e  nel 

1881  portavasi  a  15,000  ettari  la  superficie  colpita  nel  solo  Doero  »  (1). 

e)   Cause  della  invasione  fillosserica  europea.  I  viticoltori  si 


(1)  Togliamo  questi  dati  dagli  Atti  del  Congresso  fillosserico  internazionale  di 
Torino  del  1884  —  Relatore  Franceschini  —  (pag.  52-53). 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  837 

fanno  con  insistenza  una  domanda  ed  è  questa:  come  mai  abbiamo  ora 
la  fillossera  in  Europa?  Essi  vogliono  sapere  d'onde  sia  venuta,  dato 
che  sia  venuta  da  qualche  luogo,  oppure  se  per  caso  non  avesse  a 
ritenersi  siccome  la  conseguenza  d'un  deperimento  delle  viti. 

Anche  noi  ci  siamo  fatti  a  suo  tempo  una  simile  interrogazione; 
leggendo  poscia  la  storia  dell'invasione  in  Francia,  in  Germania,  in 
Austria,  in  Ungheria,  in  Isvizzera  ed  in  Ispagna  e  riflettendo  sulle 
cause  dell'  invasione  in  Italia,  abbiamo  trovato  una  risposta  molto 
semplice,  risposta  già  dataci  del  resto  dai  più  distinti  fillosseristi: 
essa  è  la  seguente: 

«  La  fillossera  si  trova  oggidì  in  molti  vigneti  europei  perchè 
vi  fu  importata.  »  Ed  ecco  parecchi  fatti  che  lo  dimostrano  in  modo 
palmare:  del  deperimento  delle  viti  parleremo  più  tardi,  combattendo 
con  molti  dati  di  fatto  parecchi  errori  che  furono  stampati  al  ri- 
guardo in  questi  ultimi  tempi. 

È  stato  detto  dall'  illustre  Drouin  de  Lhuys  che  bisogna  preoc- 
cuparsi non  di  dove  sia  venuta  la  fillossera  ma  bensì  come  si  possa 
mandarla  via.  Questo  sta  benissimo  per  un  paese  molto  invaso; 
ma  per  noi  Italiani,  che  fortunatamente  abbiamo  ancora  illese 
quasi  tutte  le  nostre  vigne,  è  un  altro  affare.  Noi  dobbiamo  sa- 
pere di  dove  venga,  perchè  abbiamo  la  certezza  che  se  non  in- 
trodurremo il  pidocchio  nei  nostri  vigneti,  e  se  impediremo  che  ci 
venga  mercè  le  sue  emigrazioni  naturali,  quei  vigneti  saranno  esenti 
da  tanta  jattura.  Studiamo  dunque  l'origine  della  fillossera. 

Anzitutto  dobbiamo  ricordare  un  fatto,  già  accennato  a  pag.  58, 
cioè  «  la  impossibilità  di  coltivare  nell'America  del  Nord  la  vite  Eu- 
«  ropea  o  Asiatica  ».  Le  molte  congetture  fatte  per  ispiegare  questa 
strana  inospitalità  del  Nuovo  Mondo  per  le  pregiate  varietà  della 
vera  vite  da  vino,  si  riassumevano  in  poche  parole:  «  il  suolo  inadatto, 
il  clima  improprio  ».  Sono  queste  le  solite  argomentazioni  che  si 
mettono  in  campo  in  simili  frangenti;  eppure,  nel  caso  in  quistione, 
non  era  molto  difficile  persuadersi  che  quel  vasto  paese  americano 
possiede  benissimo  e  suolo  e  clima  che  si  prestano,  tanto  come  quelli 
dell'Europa  meridionale,  alla  coltura  della  nostra  vite:  ben  dicono  i 
distinti  viticultori  americani  signori  Bush  e  Meissner  (1)  che  il  loro 
vasto  paese  «  possiede  un  grande  numero  di  località  dove  il  suolo 
«  ed  il  clima  sono  tutt'affatto  simili  a  quelli  di  molte  parti  dell'Eu- 


(2)  Risiedono  a  Bushberg  nel  Missurì. 


838  CAPITOLO  XXIX 


ropa  dove  la  vigna  dell'Antico  Mondo  prospera  ».  E  giustamente 
soggiungono:  «  or  bene,  è  egli  ragionevole  di  supporre  che  nessuna 
delle  numerose  varietà  coltivate  in  Europa,  sotto  condizioni  clima- 
teriche così  variate,  da  Magonza  a  Napoli,  dal  Danubio  al  Rodano, 
non  possa  trovare  un  punto  equivalente  agli  Stati  Uniti  in  un  paese 
che  comprende  quasi  tutti  i  climi  della  zona  temperata?  Se  il  suolo 
ed  il  clima  sono  così  poco  appropriati,  come  va  che  le  giovani  e 
deboli  vigne  d'Enropa  attecchiscono  così  bene  e  danno  tante  spe- 
ranze durante  qualche  stagione  e  qualche  volta,  nelle  grandi  città, 
durante  anche  molti  anni?  Come  spiegare  che  le  migliori  varietà  eu- 
ropee d'altri  frutti,  per  esempio  la  pera,  vengono  perfettamente  qui?  ». 

Dopo  aver  incolpato  il  suolo  ed  il  clima,  si  disse,  da  alcuni  viti- 
cultori  americani,  che,  per  acclimatare  colà  la  nostra  vite  era  indi- 
spensabile seminare  i  vinacciuoli  della  vite  europea  ed  allevarne  poi 
due  o  tre  nuove  generazioni  nel  suolo  e  sotto  il  clima  d' America. 
Ebbene;  si  fecero  varie  prove  appunto  in  questo  senso,  e  si  ebbero, 
come  era  da  aspettarsi,  piante  più  robuste:  però  dopo  alcuni  anni 
anche  queste  viti  perirono,  tal  quale  come  le  altre,  mostrando  solo 
una  qualche  maggior  resistenza  all'incognito  malore. 

I  piantamenti  falliti  furono  in  parte  rimpiazzati  con  viti  indigene, 
ed  allora  si  ebbero  vigne  durature. 

Così  capitò  ad  un  tedesco,  certo  Th.  Rush,  che  nel  1860  tentò 
la  coltivazione  (nell'isola  Kelley)  della  vite  europea;  egli  la  vide  pe- 
rire nel  1864,  ma  la  rimpiazzò  prontamente  colla  vite  americana  Ca- 
tawba,  e  riusci  pienamente,  poiché  suo  figlio  la  coltiva  ancora  oggidì 
con  successo  (1). 

Infine  si  tentarono  gli  incrociamenti  della  vite  europea  coll'americana; 
ma  anche  questi  ibridi  fallirono  come  ci  dice  l'illustre  Dr.  Engelman. 

Perchè  adunque  la  vite  oV  Europa  non  può  acclimatarsi  nel- 
l'America del  Nòrd?  Perchè  la  fillossera  della  vite  (che  è  quivi 
indigena,  nella  stessa  maniera  per  esempio  che  la  cocciniglia  è  indi- 
gena del  Messico)  vi  si  oppone  (2).  Diremo  poi  a  suo  luogo  parlando 
delle  viti  americane  perchè  esse  resistano  al  pidocchio. 


(1)  È  questo  un  fatto  singolare,  poiché  è  noto  che  la  Catawba  in  Europa  non 
resiste  alla  fillossera.  Convien  proprio  dire  che  la  fillossera  in  America  viva  più 
sulle  foglie  che  non  sulle  radici. 

(2)  Riley,  distinto  entomologo  americano,  e  Planchon,  naturalista  francese, 
hanno  realmente  constatato  che  la  fillossera  è  indigena  nel  continente  Nord-ame- 
ricano, all'Est  delle  Montagne  Rocciose. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'UVA  839 

E  perchè  prima  del  1858  all'incirca  non  si  lamentavano  affatto 
in  Europa  (e  più  precisamente  in  Francia)  quel  deperimento  e  quella 
morìa  delle  viti  che  ora  tanto  ci  allarmano?  Perchè  prima  d'allora 
la  fillossera  non  era  ancora  stata  importata  in  Francia,  del  che  ci 
occuperemo  fra  breve. 

E  perchè  infine  il  temuto  pidocchio  si  trova  ora  in  tutti  i  paesi 
vitiferi  d'Europa,  esclusa  la  Grecia?  Perchè  fu  inconsideratamente 
importato  ovunque,  non  potendosi  nemmeno  supporre  per  un  mo- 
mento che  vi  sia  stata  generazione  spontanea,  come  è  stato  detto 
ridicolmente  da  taluno. 

È  bene  sapere  che  questa  generazione  spontanea  o  eterogenia, 
che  ancora  oggidì  ha  tanti  oppositori,  non  è  neppure  ammissibile, 
secondo  alcuni  valenti  morfologi  panspermisti,  per  quegli  organismi 
semplicissimi  che  compongono  per  esempio  il  fermento  alcoolico  (Sac- 
charomyces  ellipsoideus  di  Rees)  (1).  Come  parlare  adunque  sul 
serio  della  generazione  spontanea  di  fillossere?  Si  ritornerebbe  alle 
antiche  credenze,  quali  per  esempio  che  il  fieno  umido  generi  le  pulci, 
il  formaggio  i  vermi,  le  paludi  le  rane,  come  si  credeva  nel  secolo 
XVII!  Un  illustre  nostro  compaesano,  il  Redi,  rinomato  membro  del- 
l'Accademia del  Cimento,  fu  il  primo  a  scalzare  dalla  loro  base  questi 
errori,  dimostrando  ad  esempio  come  i  vermi  della  carne  in  putre- 
fazione non  erano  che  larve  delle  uova  di  mosche.  Che  nessuno  a- 
dunque  nella  patria  del  Redi  creda  più  a  quelle  strane  idee  sulla 
generazione  spontanea!  In  nessun  vigneto  d'Europa  possono  trovarsi 
le  fillossere  se  non  vi  sono  importate,  oppure  se  non  vi  si  stabi- 
liscono da  loro  stesse  per  mezzo  della  trasmigrazione  dei  pidocchi  o 
delle  farfalline. 

Vediamo  ora  come  sia  stato  introdotta  la  fillossera  nei  principali 
paesi  vitiferi  d'Europa. 

A  pag.  833  abbiamo  già  detto  che  nella  Francia  meridionale  la 
malattia  fu  importata  con  viti  americane  resistenti  all'oidio;  null'altro 
abbiamo  da  aggiungere  qui,  salvo  poche  parole  sulla  Corsica,  le  cui 
viti  fillosserate  visitammo  nell'agosto  del  1878.  Nell'anno  1868  il 
sig.  Paolo  Tedeschi  medico   militare,   comperava  nel   Mezzogiorno 


(1)  È  bene  notare  che  gli  stessi  eterogenisti  (fra  cui  varii  illustri  italiani)  non 
vanno  più  in  là  della  generazione  spontanea  di  organismi  inferiori  che  si  for- 
mano da  sé  nelle  infusioni  organiche.  Fra  questi  organismi  citeremo  le  amibe, 
semplicissimi  infusori  ottenuti  da  G.  Balsamo- Crivelli  e  L.  Maggi. 


840  CAPITOLO  XXIX 


della  Francia  delle  barbatelle  di  viti  in  vivaj  fillossera  ti  e  le  portava 
a  Corte  in  Corsica,  piantandovi  due  belle  vigne  nella  valle  di  Chiata 
e  Costa-Longa:  egli  ignorara  l'esistenza  della  fillossera,  scoperta  solo 
in  detto  anno  come  già  dicemmo.  Poco  stante,  verso  il  1870,  quelle 
viti  cominciarono  a  mostrarsi  ammalate,  e  nel  1874  il  male  si  era 
esteso  ai  vigneti  attigui  del  Comm.  Sabiani  e  del  sig.  Calisti:  al- 
lora, mercè  le  premure  dell'egregio  sig.  Francesco  Mignucci,  si 
scoprì  la  fillossera.  Essa  venne  poi  trovata  pure  presso  Ajaccio, 
perchè  ivi  pure  erano  state  piantate  viti  con  barbatelle  provenienti 
dalla  Francia  Meridionale.  In  Corsica  il  suolo  è  durissimo  (granitico) 
e  le  viti  sono  generalmente  meschine,  perchè  non  si  concimano  mai; 
per  queste  ragioni  il  male  si  estende  con  lentezza,  ma  si  estende. 
Anche  in  Corsica  adunque  si  ha  la  fillossera  perchè  vi  fu  importata 
dall'uomo. 

In  Portogallo  il  pidocchio  fu  portato  nel  1863  o  1864  nella  par- 
rocchia di  Gouvinhas  nel  Duero  con  viti  americane  (1).  Pochi  anni 
dopo  la  fillosseronosi  si  era  estesa  nei  vigneti  dell'Alto  Duero,  bella 
vallata  che  dà  i  rinomatissimi  vini  di  Porto.  È  stato  pubblicato  che 
la  fillossera  è  comparsa  in  Portogallo  prima  che  in  Francia,  e  che 
ora  non  se  ne  parla  più;  tutto  ciò  è  inesatto.  La  fillossera  comparve 
in  quel  Regno  durante  gli  stessi  anni  in  cui  fu  segnalata  in  Francia, 
anzi  vi  comparve  qualche  tempo  dopo:  —  il  male  poi  si  è  tutt'altro 
che  arrestato;  anzi  nella  vallata  del  Duero  progredisce  pur  troppo 
d'anno  in  anno,  come  si  rileva  da  un  opuscolo  del  sig.  José- Luis 
De  Barros  di  Lisbona,  il  quale  valuta  il  danno  attuale  a  L.  3,300,000 
annuali. 

In  /spagna  la  fillossera  fu  scoperta  nel  1878  in  una  proprietà 
chiamata  l' Indiana  a  18  chilom.  da  Madrid,  ove  nel  1878  stesso 
eranvi  già  5000  ceppi  distrutti.  La  malattia  si  manifestò  nel  1876, 
facendo  perire  poche  piante,  ma  due  anni  dopo  il  male  s'era  assai 
allargato.  Nel  1879  la  Spagna  già  contava  100  focolari  d'infezione 
in  un  perimetro  di  circa  2500  ettari  di  vigne  nella  provincia  di  Ma- 
laga. Il  metodo  d'estinzione  del  malanno  è  quello  dell'estirpamento; 
ma  pare  che  non  corrisponda  all'aspettativa.  Il  clima  favorisce  molto 
la  prodigiosa  riproduzione  dei  pidocchi,  e  già   in    marzo    si  trovano 


(1)  Notizie  comunicate  dal  Prof.  Manoèl  Paulino  di  Oliveira,  al    Dott.    Fatto. 
—  (V.  Atti  del  Congresso  di  Losanna,  pag.  28). 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  841 

dei  rigonfiamenti  sulle  radicelle  !  Ora  Malaga,  V  Ampurdan  e  Sala- 
manca sono  invase,  ed  i  centri  infetti  aumentano  dovunque. 

Nell'isola  di  Madera  la  fillossera  arreca  serii  danni;  nel  solo  co- 
mune di  Camara  de  Lobas,  ove  un  tempo  si  raccoglievano  8000  pipe 
di  vino,  l'invasione  ha  già  prodotto  una  forte  diminuzione  di  pro- 
dotto: il  numero  delle  pipe  è  ora  sceso  sotto  i  300. 

In  Inghilterra,  in  Irlanda  ed  in  Iscozia  la  fillossera  fu  portata 
nelle  serre  da  viti  o  graperies  con  vitigni  americani,  e  vi  fu  sco- 
perta sin  dal  1862-63  come  già  dicemmo  nella  nota  la  pag.  833. 
Ivi  l'insetto  è  confinato  nelle  serre,  non  coltivandosi  la  vite  in  pien 
campo:  dalle  graperies  però  vennero  le  fillossere  che  ora  danneg- 
giano la  Svizzera.  Bisogna  dunque  evitare  ogni  importazione  di  colà. 

In  Isvizzera  la  fillossera  fu  importata  dalle  suddette  graperies 
della  Inghilterra;  nell'anno  1868  il  barone  Rothschild  faceva  venire 
di  costì  alcune  varietà  di  viti  americane  per  collocarle  in  due  sue 
serre  che  trovansi  nel  comune  di  Prégny  presso  Ginevra:  ma  tali 
viti  erano  cariche  di  fillossere,  come  dicono  il  D.  Fatio  ed  il  D. 
Forel.  Dalle  serre  del  Rothschild  la  malattia  venne  portata  in  una 
vigna  coi  detriti  ed  avanzi  delle  serre  stesse,  e  di  qui  si  diffuse  in 
alcuni  vigneti  e  giardini  dei  dintorni:  finalmente  nel  1874  si  scoperse 
l'insetto  e  si  procedette  subito  alla  distruzione  delle  piante  della  zona 
invasa,  per  una  superficie  di  circa  4  ettari,  sradicandole  ed  abbru- 
ciandole. Oltre  a  questo  punto  d'infezione  la  Svizzera  ne  ha  un  altro 
presso  Neuchdtel,  a  Colombier,  Bondry  e  Corcelles.  Queste  tre  mac- 
chie fillosseriche  furone  scoperte  nel  1877,  e  nello  stesso  anno  si  sco- 
persero pure  alcune  piante  straniere,  molto  fillosserate,  nel  centro  me- 
desimo della  città  di  Neuchdtel  nei  giardini:  l' insetto  vi  fu  impor- 
tato con  viti  straniere,  in  parte  americane,  le  quali  ultime  vennero 
spedite  dalla  pepiniera  d' Annaberg  vicino  a  Bonn  (Germania)  nel- 
l'anno 1869  a  Neuchdtel,  e  da  quivi  poco  per  volta  diramate  ap- 
punto nei  luoghi  ove  esiste  ora  1'  infezione.  In  tutto  si  distrussero 
colà  oltre  a  7  ettari  vitati.  Infine  si  trovò  pure  nel  1877  la  fillos- 
sera sopra  alcuni  ceppi  di  viti  americane  spedite  da  Neuchàtel  a 
Willisau  (Lucerna):  essi  furono  pure  distrutti.  In  conclusione  anche 
la  Svizzera  ha  la  fillossera  solo  dove  fu  importata  con  piante  eso- 
tiche. 

In  Germania  l'infezione  fillossera  risale  a  prima  del  1874.  In  questo 
anno  venne  trovata  la  fillossera  sovra  ceppi  di  viti  americane  im- 
portati, dice  il  D.  Fatio,  alcuni  anni  prima  in  una  pepiniera  vicino 


842  CAPITOLO  XXIX 


a  Bonn  (a  Annaberg).  Poco  stante  si  trovò  in  altre  pepiniere,  e,  si 
noti  bene,  sempre  su  piante  nord-americane  o  almeno  straniere  al 
luogo  infetto.  Nel  1877  vi  erano  in  Germania  19  punti  o  macchie; 
queste  macchie  sono  quasi  tutte  in  stabilimenti  viticoli  i  quali  costi- 
tuiscono certamente  un  pericolo  per  V  Europa  per  la  ragione  che 
fanno  molto  commercio  di  piante,  anche  a  dispetto  dei  divieti.  Una 
prova  di  ciò  si  può  averla  leggendo  la  circolare  che  riportammo  nel 
nostro  Giornale  Vinicolo  Italiano  del  1878  p.  478,  nella  quale  cir- 
colare si  promette  con  tutta  sicurezza  di  far  giungere  in  Italia  in 
buon  stato  le  casse  di  piante!  Del  resto  è  noto  che  alcuni  centri 
infetti  per  es.  Neuchdtel  ebbero  la  malattia  dalle  dette  pepiniere. 
Ed  è  pure  noto  che  dai  giardini  di  Erfurt  (Sassonia)  venne  l'infe- 
zione che  si  lamenta  non  solo  nelle  loro  adiacenze  ma  altresì  a  Gotha 
ed  Arlesberg,  ed  anche  a  grandi  distanze  come  ad  Orleans  in 
Francia,  a  Rausohwitz  in  Slesia  ed  alla  Scuola  viticola  di  Pian- 
lières  presso  Metz  (Lorena).  È  noto  che  in  Germania  le  macchie  fil- 
losseriche  sono  distanti  l'una  dall'altra;  ciò  è  facilmente  spiegabile  se 
si  riflette  al  cennato  modo  d' introduzione  della  fillossera  per  mezzo 
di  piante  esotiche  infette.  Tale  è  il  caso  dei  punti  infetti  che  si  tro- 
vano in  giardini  privati  a  Carlsruhe  ed  a  Vernigerode  nell'Arz; 
a  Klein- F lo ttbeck  (1)  e  Bergedorf  presso  Amburgo;  a  Proskau  (1) 
in  Slesia,  ed  a  Bollweiler  (1)  in  Alsazia.  Ed  anche  in  Germania 
dunque  la  vera  causa  dell'invasione  fu  l'importazione  di  piante  infette. 

V Austria  ebbe  la  fillossera  direm  così  per  mezzo  dell'Istituto  Eno- 
logico di  Klosterneuburg  (Vienna):  questa  rinomata  scuola  importò 
nel  1868  dei  ceppi  di  viti  americane  e  con  essi  importò  nel  suo  vi- 
gneto sperimentale  il  terribile  pidocchio,  che  vi  fu  poi  scoperto  nel 
1872.  lì  male  si  estese  tosto  a  varie  piante  di  pinot  vicine  alle  a- 
mericane,  e  poscia  passò  nei  vigneti  adiacenti,  di  dove  fu  poi  tra- 
sportato dal  lato  del  sud-est  nei  vigneti  di  Nussdorf. 

In  Ungheria  la  fillosseronosi  fu  segnalata  nel  1875  a  Pancsova 
presso  la  frontiera  serba  e  non  lungi  da  Belgrado,  ed  in  quell'anno 
erano  già  35  gli  ettari  invasi.  Il  male  fu  importato  da  un  viticul- 
tore  di  Pancsova  il  quale  sino  dal  1870  aveva  introdotto  clande- 
stinamente colà  vitigni  americani. 

Anche  adunque  in  Austria- Ungheria  il  male  si  dovette  all'  opera 
dell'uomo. 


(1)  Scuola  viticola. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  843 

Sempre  a  sostegno  della  nostra  tesi  —  cui  attribuiamo  molta  im- 
portanza nelle  attuali  ancor  felici  condizioni  dell'  Italia  —  citeremo 
qui  un  caso  d'invasione  fuori  d'Europa,  in  Australia.  Ivi,  e  preci- 
samente nei  vigneti  della  colonia  di  Victoria,  si  scoprì  la  fillossera 
nel  1878,  ove  fa  rapidi  progressi  a  Geelong  (città  marittima  di  23,000 
abitanti);  l'afide  vi  fu  importato  dall'Europa  e  dall'America.  Sono  gli 
Europei  che  diffusero  la  vite,  massime  nella  Nuova  Galles  meridio- 
nale, e  naturalmente  portarono  viti  dai  loro  paesi  (senza  badare  al- 
l'infezione) per  mezzo  dell'  attivissimo  commercio  che  si  fa  col  sud- 
detto porto  di  Geelong.  Tanto  la  Camera  alta  quanto  la  bassa  si 
occuparono  tosto  colà  seriamente  d'un  progetto  di  legge  contro  l'in- 
vasione fillosserica,  perchè  l'industria  vinicola  è  per  quel  paese  assai 
importante,  permettendo  l'emancipazione  dall'importazione  dei  vini  e 
delle  bevande  spiritose  dall'Europa. 

Da  tutto  quello  che  precede  risulta  dimostrato  coli'  evidenza  dei 
fatti  —  e  di  fatti  indiscutibili  —  che  se  il  commercio  delle  piantine 
di  viti  non  si  fosse  incaricato  di  diffondere  in  molti  punti  dell'Eu- 
ropa la  fillossera,  questo  acerrimo  nemico  delle  viti  o  sarebbe  ancora 
confinato  nel  suo  paese  d'origine  (il  Nord-America  all'est  delle  Mon- 
tagne Rocciose)  o  si  sarebbe  solo  diffuso,  mercè  le  sue  emigrazioni 
naturali,  nello  stesso  Mezzogiorno  della  Francia;  mentre  la  Sviz- 
zera, la  Germania,  V Austria-  Ungheria,  la  Spagna,  V  Italia  evia 
dicendo  sarebbero  ancor  esenti.  Ma  pur  troppo  il  commercio  suddetto 
aiutò  in  potentissimo  modo  la  diffusione  del  male,  anche  nella  stessa 
Francia  meridionale;  e  così,  tanto  per  citare  sempre  dei  fatti,  (perchè 
in  questo  nostro  studio  noi  non  vogliamo  basarci  altro  che  sui  fatti) 
si  sa  di  certo  che  nei  primi  punti  infetti  del  Nizzardo  (presso  Nizza, 
Cannes  e  Cagnes)  la  fillossera  vi  fu  importata  sopra  barbatelle  di 
Aramon  provenienti  dall' Hérault;  senza  di  ciò  si  può  ritenere  con 
tutta  sicurezza  che  il  Nizzardo  sarebbe  tuttodì  esente  dalla  fillos- 
seronosi. 

Ci  rimane  a  parlare  deWItalia.  È  accertato  nel  modo  più  evi- 
dente che  anche  nei  nostri  centri  infetti  la  fillossera  fu  introdotta  dal- 
l'uomo;  prendiamo  ad  esempio  la  Sardegna:  a  Sorso,  in  mezzo  a  vi- 
gneti  sgombri  affatto  da  naturali  ostacoli,  il  malaugurato  insetto 
venne  importato  quattro  o  cinque  anni  or  sono  con  piantine  d'aglio, 
di  cipolle  e  di  tuberi  di  patate  provenienti  dalla  Corsica,  la  quale, 
come  dicemmo,  è  invasa  già  da  varii  anni. 

A  S.   Giorgio  (Sassari)  la  fillossera  fu  importata  da  un  francese, 


844  CAPITOLO  XXIX 


il  signor  Vieta,  il  quale  quantunque  non  abbia  mai  fatto  importazione 
di  viti,  fece  però  piantamenti  di  piante  ornamentali  nel  giardinetto 
aderente  al  vigneto  ove  si  scoperse  1'  anno  scorso  la  presenza  del- 
l'insetto. Onde  si  può  sospettare  che  l'infezione  sia  stata  trasportata 
o  su  quelle  piante  o  colle  materie  d'imballaggio. 

Per  l'infezione  di  TJsini  (il  terzo  e  più  piccolo  centro  infetto  della 
Sardegna)  un  proprietario  espose  il  sospetto  che  l'importazione  possa 
esser  stata  operata  da  cacciatori  francesi,  frequenti  in  quella  con- 
trada. 

Essendovi  una  legge  in  Italia  la  quale  proibisce  l'importazione  di 
sostanze  vegetali  dai  paesi  infetti,  bisogna  dedurre  che  cagione  prin- 
cipale delle  nuove  e  vecchie  infezioni  sia  stato  il  contrabbando,  il 
quale,  per  quanto  grande  sia  la  vigilanza  ai  confini,  riescirà  sempre 
a  frodare. 

Ammettiamo  quindi  anche  noi  che  sia  obbligo  del  nostro  Governo 
di  far  aumentare  la  sorveglianza,  ma  ci  permettiamo  di  ricordare 
che  anche  i  cittadini  debbono  per  conto  proprio  contribuire  a  che 
il  funesto  nemico  non  si  introduca  per  nuove  vie  in  Italia.  L'on.  Mi- 
rag  Ha  raccontò  in  seno  alla  Commissione  Fillosserica  come  un  me- 
dico di  Casa  Reale  avesse  chiesto  un  premio  al  Ministero  per  aver 
scoperto  il  rimedio  contro  la  fillossera  (!).  Interrogato  rispose  di 
aver  importate  le  radici  dalla  Francia  e  di  averle  per  suoi  esperi- 
menti piantate  in  vasi  a  Torino.  Aveva  agito  in  ciò  ignorando  per- 
fettamente la  legge  ;  fu  processato  e  condannato,  onde  ne  morì  di 
crepacuore!  Nel  nostro  Giornale  Vinicolo  (1884  pag.  154)  il  signor 
Frizzoni  accenna  al  contrabbando  che  si  fa  dalla  Francia  fillosserata 
(Hérault)  in  Piemonte,  con  viti  americane  resistenti  non  disinfettate! 
È  doloroso  dover  constatare  fatti  simili! 

Gli  amanti  di  floricoltura,  se  hanno  un  po'  d'amor  patrio,  devono  essi 
pure  rifiutare  le  offerte  di  alcuni  disonesti  speculatori,  i  quali  loro  of- 
frono piante  e  fiori  provenienti  dalla  Francia  e  dalla  Svizzera.  E  real- 
mente il  più  sfacciato  commercio  di  questi  generi  di  contrabbando  si  fa 
nelle  principali  città  d'Italia.  L'on  Froio  lo  ha  constatato  a  Napoli, 
l'on,  Lawley  a  Firenze,  ove  si  promette  coir  aumento  oVun  tanto 
per  cento  sul  prezzo  di  costo,  il  trasporto  a  domicilio  di  piante 
di  qualunque  provenienza. 

Gli  agricoltori  dal  canto  loro  stiano  apparecchiati perchè  la  fil- 
lossera si  propaga  anche  naturalmente.  In  Sicilia  ad  esempio  è  fa- 
cilissimo   che  durante    le  zappature    della    vigna,  gli    ovuli   vengano 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  845 


alla  superficie  e  colla  forza  del   vento  siano  trasportati   da  Riesi,  a 
Mazzarino,  a  Terranova,  a  Vittoria. 

d)  Lo  stato  delle  viti  e  la  loro  pretesa  resistenza  alla  in- 
vasione. Lo  studio  dell'invasione  fìllosserica  ne'  suoi  rapporti  collo 
stato  di  vegetazione  delle  viti  ha  secondo  noi  una  importanza  capi- 
tale, massimamente  per  un  paese  come  Y  Italia,  dove  Y  invasione  è 
ancora  limitatissima, 

Uomini  chiari  per  coltura,  ma  non  bene  al  corrente  della  grave 
quistione  della  fillossera,  propalarono  una  dottrina  che,  se  pure  non 
ci  inganniamo  grossolanamente,  sarebbe,  ove  venisse  accettata  ad 
occhi  chiusi,  la  rovina  della  nostra  viticoltura,  come  già  lo  fu  della 
viticoltura  francese.  Cotale  dottrina  si  può  così  riassumere  in  poche 
parole:  «  lo  stato  della  vegetazione  delle  viti  ha  una  grande  in- 
fluenza sullo  sviluppo  della  fillosseronosi,  per  cui  sarebbe  a  ritenersi 
che  le  viti  rigogliose  non  temono  il  terribile  pidocchio,  mentre  sol- 
tanto le  viti  meschine  se  ne  ricoprirebbero.  » 

Ora  da  ciò  i  viticultori  trassero  prontamente  la  seguente  conclu- 
sione, che  ci  udimmo  ripetere  le  cento  volte:  «  coltiviamo  bene  le 
nostre  viti,  diamo  al  vigneto  molto  e  buon  concime,  e  la  fillossera 
non  verrà  a  molestarci  quand'  anche  importassimo  piante  o  concimi 
o  altro  dai  paesi  infetti.  »  In  tutti  i  paesi  dove  si  coltiva  con  amore 
la  vite,  questa  conclusione  viene  spontanea  sulle  labbra  dei  viticul- 
tori, i  quali,  fidenti  nel  loro  buon  metodo  di  coltura,  stanno  a  dor- 
mire fra  due  guanciali  e  si  ridono  dei  divieti  di  importazione,  delle 
misure  di  precauzione  d'ogni  specie  prese  dal  Governo,  e  di  noi  che 
scriviamo  memorie  e  monografie  sulla  fillossera! 

È  facile  vedere  quanto  male  ne  verrebbe  alla  viticoltura  italiana 
qualora  uno  di  questi  viticultori  introducesse  nel  suo  territorio  il 
temuto  pidocchio:  che  se  in  questo  territorio  la  vite  predominasse, 
sarebbe  poi  impossibile  arrestare  l'invasione,  mentre  ciò  si  farà,  noi 
ne  siamo  sicuri,  in  Lombardia,  colà  dove  la  viticoltura  non  è  inten- 
siva, ma  intercedono  lunghi  tratti  fra  un  filare  e  l'altro,  e  sovra- 
tutto  fra  un  vigneto  e  l'altro. 

Noi  diciamo  invece  che  le  viti  rigogliose  si  ricoprono  di  pi- 
docchi in  maggior  quantità  che  non  le  viti  meschine  e  malaticcie; 
le  viti  della  Francia  meridionale  paragonate  a  quelle  di  Valmadrera 
ce  ne  offrono  la  prova  più  chiara  che  si  possa  desiderare. 

Certamente  una  vite  robusta  può  resistere  qualche  anno  di  più 
agli  attacchi  dei  pidocchi;  ma  dopo   quattro  o  cinque    anni  al  mas- 


846  CAPITOLO  XXIX 


simo  finirà  essa  pure  col  soccombere.  Al  contrario  le  viti  meschine, 
se  sono  collocate  a  filari  molti  distanti  fra  loro,  possono  resistere 
più  a  lungo.  Ciò  è  accaduto  a  Valmadrera;  ivi  la  fillossera  vi  esiste 
da  almeno  10  anni,  come  risultò  dalle  indagini  praticate  dai  delegati 
del  Governo,  nonché  dalla  ispezione  giudiziale;  or  bene  ciò  nonostante 
non  vi  si  diffuse  molto,  perchè  in  primo  luogo  le  viti  non  essendo 
molto  rigogliose  (a  causa  sovratutto  delle  colture  spossanti  degli  in- 
terfìlari)  non  potevano  offrire  gran  copia  d'alimento  ai  pidocchi;  in 
secondo  luogo  perchè,  causa  tale  deficienza  dell'  alimento,  la  molti- 
plicazione delle  fillossere  era  intralciata;  in  terzo  luogo  infine  perchè 
la  diffusione  dell'insetto  era  resa  assai  diffìcile  dai  larghissimi  inter- 
filari. 

Invece,  se  prendiamo  a  considerare  per  poco  le  viti  fillosserate 
del  fertile  Mezzogiorno  della  Francia,  quale  differenza  !  Queste  viti 
erano  rigogliosissime  —  come  lo  sono  oggidì  le  superstiti  —  ed  ogni 
due  o  tre  anni  si  concimava  il  vigneto  con  abbondanza,  onde  poter 
sfruttare  annualmente  la  vigna  stessa  senza  indebolirla  e  farla  in- 
vecchiare precocemente.  Il  distinto  sig.  Marès  ce  lo  dice  chiara- 
mente nella  sua  preziosa  monografìa  intitolata  «  Des  vigne  du 
Midi  de  la  France  »  stampata  —  si  noti  bene  —  prima  dell'inva- 
sione; ecco  le  sue  testuali  parole: 

«  Si  danno  ivi  ad  ogni  pianta  di  vite  circa  5  chilog.  di  letame 
di  stalla,  cioè  22  mila  chilog.  ad  ettare  (4400  ceppi)  ogni  tre  anni 
in  terre  buone;  certi  proprietarii  adoperano  talvolta  quantità  doppie  » 
e  quando  non  si  adopera  letame  «  si  adoperano  8  chilog.  per  ceppo 
di  vinaccie  (35,000  ad  ettare)  ricche  in  azoto  ed  in  potassa  (il  26 
p.  0[o  di  carbonato  potassico,);  »e  spesso  si  adoperano  «  le  terre  ed 
i  composti  terrosi,  sopratutto  quando  contengono  ceneri  di  vegetali.  » 

Da  questi  dati  risultano  due  cose  importanti  a  sapersi;  la  prima 
si  è  che,  come  volevamo  dimostrare,  la  fillossera  non  rispetta  me- 
nomamente le  vigne  ben  coltivate  (1),  ben  concimate  e  rigogliose; 
la  seconda  si  è  che,  qualunque  sia  il  concime  che  si  adoperi  (letame, 
ceneri,  conci  potassici,  vinaccie)  la  vite  non  resiste  perciò  meglio  al 
rostro  della  fillossera,  ed  è  condannata  tardi  o  tosto  a  perire  irre- 
missibilmente. 

È  stato  detto  e  stampato  che  le  viti  della  Francia  furono  molto 
danneggiate   dalla    fillossera  perchè    esauste  dai    copiosi    prodotti  in 


(1)  Anche  in  Isvizzera  le  viti  fillosserate  stanno  fra  le  migliori  {Fatio;  31). 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  847 


uva  che  quei  viticultari  solevano  ricavarne:  ciò  è  inesatto,  perchè 
vi  sono  regioni  fillosserate  in  Francia  dove  il  prodotto  non  è  supe- 
riore ai  30  od  ai  50  ettolitri  ad  ettare,  prodotto  questo  che  non  può 
esaurire  alcuna  vigna,  massime  se  è  aiutata  dal  concime  di  tanto  in 
tanto.  Nel  Mezzogiorno  però  il  prodotto  è  di  molto  superiore  ai  50 
ettolitri,  ma  quivi  le  viti  sono  tutt'altro  che  esauste;  anzitutto  per- 
chè se  continuano  a  produrre  molto,  vuol  dire  che  si  conservano  in 
ottime  condizioni,  eppoi  perchè  il  Marès  ci  dice,  nel  citato  libro,  che 
«  le  letaminazioni  che  ivi  si  danno  alle  viti  sono  più  che  sufficienti 
per  rimpiazzare  le  perdite  che  le  raccolte   fanno   subire  al  suolo,  » 

È  stato  pure  detto  e  stampato  che  concimando  il  vigneto  con  in- 
grassi potassici,  la  vite  avrebbe  resistito  alla  fillossera:  ciò  è  smen- 
tito da  centinaia  di  fatti.  Nel  citato  Mezzogiorno  della  Francia,  se 
stiamo  alle  dosi  di  concime  sopra  riferite  dal  Marès,  vi  sarebbe  nel 
suolo  grande  quantità  di  potassa,  eppure  le  viti  soccombettero  e  van 
soccombendo  tuttodì.  Eppoi  che  influenza  può  mai  avere  la  potassa 
sulla  resistenza  delle  radici  alle  punture  dei  pidocchi?  Essa  induce 
forse  delle  modificazioni  nel  tessuto  corticale?  No  di  certo.  Ed  allora, 
come  concepire  questa  vantata  resistenza?  Ma  non  vogliamo  tratte 
nerci  più  oltre  su  ciò,  dal  momento  che  tutti  i  viticultori  francesi 
di  qualche  levatura  ci  asseriscono  il  contrario. 

Infine  è  stato  consigliato  di  non  far  la  guerra  alla  fillossera,  ma 
invece  di  rinvigorire  la  vite,  perchè  (a  parere  di  taluni)  la  vite  la 
quale  ripiglia  la  salute  si  sbarazza  da  sé  dei  parassiti. 

Questo  consiglio,  ove  venisse  accettato,  sarebbe  (ripetiamolo  pure) 
la  rovina  della  nostra  viticoltura.  Eppure  varii  giornali  se  ne  fecero 
l'eco,  forse  perchè  non  avevano  riflettuto  a  quanto  segue: 

In  Francia  da  principio  non  si  fece  la  guerra  alla  fillossera,  e  si 
pensò  solo  a  ripiantare  vigne  (Cornu;  Etudes,  ecc.  48)  nei  punti 
fillosserati  ed  a  raddoppiare  le  concimazioni;  fu  tutto  tempo  e  de- 
naro sprecato,  perchè  l'insetto  ebbe  campo  a  moltiplicarsi  in  modo 
spaventevole.  Ora  noi  non  sappiamo  se  in  Francia  si  riescirà  ad  ar- 
restare l'invasione. 

Ebbene,  si  consiglia  all'  Italia  la  stessa  linea  di  condotta,  e  non 
si  pensa  che  rinvigorendo  la  vite,  nessun  pidocchio  muore;  e  se  non 
muore  nessun  pidocchio  vuol  dire  che  la  fillosseronosi  si  diffonde  vie- 
meglio d'anno  in  anno.  Se  il  rendere  vigorose  le  viti  facesse  diven- 
tare talmente  duro,  come  dicevamo  testé,  il  tessuto  corticale  delle 
radici,  così  da  impedire  al  pidocchio  di  infiggervi  il  suo  rostro,    al- 


848  CAPITOLO  XXIX 


lora  noi  saremmo  i  primi  a  raccomandare  quel  sistema  di  lotta.  Ma 
ciò  assolutamente  non  accade;  la  vite  rinvigorita  caccia  un  mag- 
gior numero  di  radichette,  il  cui  succo  è  precisamente  quello  che  le 
fillossere  ricercano,  perchè  esse  amano  sovratutto  i  succhi  delle  viti 
vegete,  ed  abbandonano  le  piante  che  stanno  per  perire. 

Come  dunque  periranno  quei  pidocchi  che  per  caso  la  pianta  a- 
vesse  sopra  di  sé?  Di  fame,  no  di  certo.  Per  causa  degli  insetticidi, 
no,  perchè  (secondo  il  sistema  suddetto)  non  si  deve  sprecar  denaro 
a  far  la  guerra  direttamente  alla  fillossera.  Adunque  non  ucciden- 
dosi le  fillossere  è  chiaro  che  non  si  arresterà  menomamente  l'in- 
vasione. 

Vi  sono  bensì  degli  insetti  i  quali  —  come  il  gorgoglione  —  as- 
salgono solo  le  piante  deboli;  ma  la  fillossera,  come  già  dicemmo, 
vive  meglio  invece,  e  si  propaga  più  facilmente,  sulle  piante  vegete  i 
cui  succhi  le  sono  graditissimi.  La  fillossera  può  ferire  comodamente 
anche  una  pianta  robusta,  e  son  poche,  anche  fra  le  viti  selvaggie, 
quelle  che  le  resistono.  Delle  viti  europee  intanto  nessuna  resiste  e  non 
resistono  moltissime  nel  Nord- America,  nonostante  una  splendida  ve- 
getazione.  Non  è  quindi  vero  che  la  vite  vigorosa  si  sbarazzi  da  sé 
dei  pidocchi,  perchè  questi  persistono  anche  sulle  viti  americane  re- 
sistenti. 

La  conclusione  di  tutto  ciò  è  pertanto  la  seguente: 

«  Bisogna  evitare  l'importazione  della  fillossera  nei  vigneti  sani, 
perchè  anche  se  questi  fossero  rigogliosi  e  robusti  soccomberebbero 
in  pochi  anni. 

«  Data  r  invasione  bisogna  far  tosto  la  guerra  direttamente  ai 
pidocchi  col  solfuro  di  carbonio,  o  venire  a  transazione  mediante  le 
viti  americane. 

«  In  quanto  all'avere  viti  robuste  ed  a  trattare  il  vigneto  con  con- 
cimi opportuni,  questo  gioverà  sempre  al  viticultore,  vi  sia  o  non 
vi  sia  la  fillossera.  » 

e)  Come  possano  i  viticoltori  scoprire  la  fillossera.  Quan- 
d'anche il  viticultore  non  conoscesse  la  fillossera,  potrebbe  pur  tut- 
tavia scoprire  la  infezione,  ed  ecco  come.  Vi  è  un  fatto  sul  quale 
non  si  sono  mai  sollevati  dubbii  né  dagli  studiosi  né  dagli  uomini 
della  pratica,  ed  è  il  seguente:  «  dovunque  vi  ha  la  fillossera,  le 
radici  delle  viti  presentano  dei  rigonfiamenti  gialli  aventi  una 
speciale  forma  ad  uncino  ».  Si  potranno  trovare  rigonfiamenti 
un  po'  somiglianti  a   quelli    della    fillossera   senza   che   vi  sia    fillos- 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  849 

sera  (1),  ma  assolutamente  non  è  mai  accaduto  che  siasi  trovata  la 
fillossera  senza  i  tubercoletti  in  questione  che  le  sono  proprii.  Il 
sig.  Massimo  Corriti,  che  ha  fatto  studii  tanto  accurati  sulla  pro- 
duzione di  questi  rigonfiamenti,  descrive  fra  gli  altri  il  seguente 
esperimento  dal  quale  risulta  che  mentre  le  viti  sane  hanno  le  loro 
radicelle  o  barboline  ben  distese  e  senza  nodi,  se  si  pongono  su  di 
esse  alcune  fillossere,  si  formano  in  breve  tempo  i  suddetti  caratte- 
ristici rigonfiamenti  generalmente  uncinati  (veggasi  la  Tavola  II 
qui  unita,  dove  nella  fig.  12  in  &  a.  a,  vi  sono,  in  grandezza  na- 
turale, i  rigonfiamenti,  e  nelle  fig.  13,  14  e  15  i  rigonfiamenti 
ingranditi  tre  volte): 

Egli  prese  una  pianta  di  vite  vegetante  in  un  vaso  da  fiori  ed 
avente  le  radici  sanissime,  come  era  sanissima  la  pianta  stessa;  su 
tali  radici,  che  attorniavano  le  pareti  del  vaso  e  che  erano  ben  svi- 
luppate, pose  alcune  fillossere.  Dopo  sei  giorni  vi  si  vedevano  di  già 
dei  rigonfiamenti  assai  spiccati,  d'una  lunghezza  di  circa  3  millimetri 
e  con  un  colore  giallo  d'oro  caratteristico.  Questi  rigonfiamenti,  do- 
vuti esclusivamente  all'  azione  dell'  insetto,  cioè  delle  sue  punture, 
erano  tutti  terminali,  vale  a  dire  che  erano  prodotti  tutti  dal  tes- 
suto giovane  ed  in  via  di  formazione  dell'  estremità  delle  radicelle 
che  chiamasi  «  punto  vegetativo  »:  non  si  mostrò  nessuna  nodosità 
sulle  parti  già  completamente  sviluppate  della  radice  o  della  radi- 
chetta. Il  Corriti  soggiunge  infatti  che  allorquando  la  fillossera 
può  scegliere  liberamente  il  suo  posto  non  s"  attacca  che  alle 
parti  piii  giovani,  perchè  sono  le  più  ricche  in  succhi. 

Ecco  come  si  formano  tali  rigonfiamenti:  supponiamo,  per  sempli- 
ficare la  cosa,  che  una  sola  fillossera  si  porti  sopra  una  barbolina; 
allora,  appena  vi  avrà  infitto  il  suo  robusto  pungiglione  o  rostro, 
avverrà  della  radichetta  quello  che  avviene  quando  si  lega  con  forza 
un  tronco  od  un  ramo;  cioè  al  disopra  ed  al  disotto  del  punto  in- 
taccato si  accumuleranno  materiali  e  si  formeranno  delle  prominenze. 
Infatti  la  radichetta  si  gonfia  attorno  al  pidocchio,  sopratutto  però 
al  disopra  di  esso  (tal  quale  come  avviene  nel  caso  d'una  legatura, 
perchè  anche  qui  il  bordo  superiore  è  più  pronunciato).  Dicendo  al 
disopra  del  pidocchio  intendiamo  dire  dal  lato  della  parte  terminale 
della  radichetta,  la  quale  continuerà  a  crescere,  ma  però  ricurvan- 
dosi;  ed  ecco  la  forma  d'uncino  o  di  becco,  che  è  la  predominante. 


(1)  V.  più  innanzi  quanto  è  detto  svlY  angui  llula  radicicola  (§  18). 

0.  Ottavi,   Trattato  di   Viticoltura.  55 


850  CAPITOLO  XXIX 


Il  pidocchio  rimane  quindi  come  ricoverato  entro  la  ricurvatura, 
cioè  entro  la  depressione  che  è  la  conseguenza  della  sua  puntura; 
ivi  rimane  attaccato  fortemente,  continuando  a  succhiare  1'  umore 
della  vite. 

Ma  parecchie  fillossere  possono  attaccare  la  stessa  radichetta;  al- 
lora evidentemente  le  nodosità  non  possono  più  assumere  la  rego- 
lare forma  uncinata,  come  si  vede  chiaramente  nella  detta  fig.  12 
a  a  Tavola  II;  gli  uncini  però  si  può  dire  che  non  mancano  mai. 
Iti  tal  caso  la  porzioncina  di  radice  attaccata  assume  forme  diverse 
a  seconda  della  posizione  che  hanno  le  une  rispetto  alle  altre  le  fil- 
lossere, perchè  per  esempio  quando  due  di  esse  stanno  una  da  una 
parte  e  l'altra  dall'altra  della  radichetta  (cioè  quando  occupano  due 
punti  opposti)  il  rigonfiamento  rimane  quasi  diritto,  essendoci  un 
effetto  di  compensazione  fra  le  due  torsioni,  e  parrebbe  allora  che 
avesse  avuto  luogo  una  legatura  intorno  alla  radichetta.  In  regola 
generale  però  si  deve  ritenere  che  ad  ogni  pidocchio  corrispon- 
dono da  un  lato  una  cavità  e  dal  lato  opposto  ima  ricurvatura 
convessa,  o  piccola  gobba,  la  quale  è  più  o  meno  pronunciata 
e  nettamente  disegnata  a  seconda  che  altre  punture  d'altre  fil- 
lossere vengono  o  non  a  modificarla.  (Noi  ci  esprimiamo  qui  in 
modo  popolare,  epperciò  non  diciam  nulla  di  composizione  di  forze 
e  di  risultanti,  rimandando  coloro  che  desiderassero  nozioni  più  pro- 
fonde all'opera  del  Cornu:  crediamo  però  di  non  tralasciare  qui  nulla 
di  tutto  quanto  può  giovare  nella  pratica). 

Dobbiamo  qui  avvertire  che  noi  abbiamo  sempre  parlato  delle 
barboline,  cioè  del  cappellamento,  o  in  termini  più  precisi,  di  ra- 
dici d' un  diametro  uguale  od  inferiore  ad  un  millimetro.  Se 
esse  hanno  un  diametro  uguale  o  superiore  a  due  millimetri  al- 
lora non  si  vedono  più  uncini,  ma  rigonfiamenti  più  o  meno  pro- 
nunciati secondo  che  sono  1'  effetto  della  puntura  di  una,  due  o  più 
fillossere,  ed  accompagnati  da  leggere  deviazioni:  adunque  allora 
non  si  vedono  mai  ricurvature  pronunciate. 

Però  abbiamo  detto  or'ora  che  vi  possono  essere  rigonfiamenti 
senza  fillossere:  è  necessario  chiarire  il  meglio  possibile  questo  punto. 
In  primo  luogo  diremo  che  questi  rigonfiamenti,  per  uno  che  li  os- 
servi con  attenzione,  presentano  una  certa  differenza  da  quelli  sopra 
descritti,  per  cui  non  dovrebbe  accadere  confusione;  ma  ad  ogni  modo 
la  ricerca  della  fillossera,  se  si  vuole  coll'aiuto  d'una  lente,  dissiperà 
facilmente  ogni  dubbio,  e  questa  ricerca  se  non  crede  di  poterla  fare 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'UVA  851 


il  viticultare  stesso,  potrà  affidarla  ad  uno  dei  molti  Delegati  gover- 
nativi, provinciali  o  circondariali,  che  oggi  vi  sono  in  paese. 

Quelle  nodosità  che  non  dipendono  dalla  fillossera  possono  dipen- 
dere 1°)  da  bacterii,  ma  allora  è  soltanto  su  radici  di  leguminose  (1) 
che  si  osservano:  queste  radici  però  possono  trovarsi  mescolate  (se 
così  possiamo  esprimerci)  con  quelle  delia  vite,  e  —  come  è  già 
accaduto  sotto  i  nostri  occhi  —  venir  confuse  con  quelle.  Ma  ogni 
confusione  sarà  impossibile  se  si  rifletterà  (vedi  Tavola  IT,  fig.  17, 
trifoglio  bianco  o  ladino,  i  rigonfiamenti  sono  litografati  in  gran- 
dezza naturale)  che-  non  si  trovano  mai  all'estremità  delle  radicelle, 
ma  lateralmente,  e  che  d'  altronde  sono  globulosi,  non  mai  uncinati 
e  sempre  di  color  pallido  o  biancastro  invece  del  giallo  vivo  o  del 
nero  o  bruno  carico  dei  rigonfiamenti  fillosserici  della  vite;  2°)  da 
speciali  piccole  anguillule  (2),  che  sono  parassiti,  specie  di  minu- 
tissimi vermi  del  gruppo  di  quelli  che  tutti  hanno  potuto  vedere 
nell'  aceto  o  nelle  sostanze  in  decomposizione  o  neh'  acqua  dolce  o 
salata  o  nel  suolo  stesso.  Fra  le  anguillule  parassitiche  è  nota  quella 
delle  granelle  del  frumento;  ma  a  noi  interessano  ora  solo  -quelle 
dette  anguillule  radicicole,  i  cui  rigonfiamenti  possono  vedersi  nella 
Tavola  II  (fig.  16,  lupinella,  grandezza  naturale).  Essi  differi- 
scono da  quelli  della  vite  perchè  hanno  un  color  bruno  uniforme, 
e  poi  tagliandoli  trasversalmente  presentano  nel  loro  centro  delle 
vesciche  (cisti?)  piuttosto  ampie,  rare  volte  solitarie,  ma  più  spesso 
riuniti  in  gruppi  di  due  o  tre:  esse  si  vedono  bene  colla  lente,  ma 
anche  ad  occhio  nudo,  e  contengono  delle  ova  o  delle  anguillule; 
3°)  infine  dal  marciume  o  fracidume  delle  radici,  prodotto  da 
funghi  sotterranei  o  cordoncini  a  ramificazioni  biancastre  (rizomorfe 
e  rizoctonie);  ma  i  rigonfiamenti  in  tal  caso  non  sono  uncinati  né 
ricurvi,  ma  allungati,  e  diversi  perciò  da  quelli  delle  viti  fillosse- 
rate.  Il  marciume  è  abbastanza  diffuso  nei  vigneti  italiani,  e  quindi 
bisognerà  badare  bene  di  non  prendere  abbagli,  come  già  accadde 
a  taluno. 

Da  tutto  quello  che  precede  si  può  dedurre  che  esaminando,  anche 


(1)  Acacia,  trifogli,  erba  medica,  lupinella  (sanofieno),  fagiuoli,  fave,  piselli, 
lenti,  veccie,  ecc. 

(2)  I  primi  a  scoprire  queste  anguillule  sulle  viti  europee  furono  (nel  1881)  i 
IJott.  Saccardo  e  Bellati  in  Alano  di  Piave  (Belluno).  Veggasi  il  cenno  che  ne 
facciamo  più  innanzi  al  §  18. 


852  CAPITOLO  XXIX 


ad  occhio  nudo,  le  radici  d'una  pianta  di  vite  si  possono  scor- 
gere facilmente  i  rigonfiamenti  prodotti  dalla  fillossera;  e  questo 
esame  potrà  farlo  benissimo  lo  stesso  viticoltore  nell'atto  dei  lavori 
del  suolo  che  si  fanno  ad  esempio  in  primavera.  Il  viticultore  co- 
nosce benissimo  (come  constatammo  varie  volte)  le  radici  delle  viti 
e  le  distingue  da  qualsiasi  altra  radice  che  potesse  per  avventura 
essersi  con  quelle  intrecciata;  ora  è  stabi bito  che  sulle  radici  della 
vice  non  si  trovano  altri  rigonfiamenti  uncinati  o  ricurvi,  coi 
caratteri  sovra  descritti,  alVinfuori  di  quelli  prodotti  dalla  fil- 
lossera. Se  il  contadino  trova  adunque  tali  nodosità,  e  se  è  sicuro 
che  quella  radicella  è  della  vite,  è  certo  che  nel  vigneto  esiste  la 
fillossera:  per  non  spargere  però  falsi  allarmi,  sarà  prudente  chia- 
mare una  persona   che   sappia    distinguere  la  fillossera  colla  lente. 

Ma  intanto,  se  il  viticultore  non  trova  rigonfiamenti,  può  star 
sicuro  che  non  vi  ha  fillossera,  perchè  la  fillossera  è  sempre 
accompagnata  dalle  nodosità  uncinate  sovra  descritte. 

Adunque  il  mezzo  più  sicuro,  più  spiccio,  più  economico  e  più  fa- 
cile per  ispezionare  i  vigneti  italiani  è  quello  di  ordinare  ai  conta- 
dini che,  neh'  atto  delle  zappature  o  delle  vangature,  esaminino  se 
le  radichette  delle  viti  sono  belle  e  distese,  oppure  se  sono  tuber- 
colate. Chi  non  avesse  fiducia  nei  proprii  contadini,  si  dia  la  pena 
di  seguirli  per  qualche  tempo  durante  le  dette  lavorazioni  del  suolo 
e  faccia  egli  stesso  gli  esami.  In  caso-  di  dubbio  poi  ricorra  al  De- 
legato governativo. 

Raccomandiamo  quindi  a  tutti  coloro  cui  sta  veramente  a  cuore 
l'avvenire  della  viticoltura  patria,  di  diffondere  queste  nozioni:  esse 
ci  offrono  il  mezzo  di  sorprendere  la  fillossera  al  primo  anno  (anzi 
nei  primi  mesi)  dell'invasione,  cosa  d'un'importanza  grandissima  per 
la  facilità  con  cui  allora  si  può  soffocare  il  male. 

f)  Perchè  muoiono  le  piante  fillosserate?  Questa  domanda 
potrà  a  primo  aspetto  sembrare  oziosa,  ma  non  è  tale;  perchè  la  let- 
tura di  varii  scritti  minori  sulla  fillossera  ci  ha  provato  che  non 
sono  pochi  coloro  i  quali  ignorano  la  vera  risposta  che  si  deve  dare 
a  quell'importante  quesito.  Si  crede  generalmente  che  i  pidocchi  sot- 
terranei assorbano  tanto  succo  nutritore  dalle  radichette  della  vite, 
da  far  morire  quest'ultima  di  inanizione;  or  bene,  ciò  non  è  esatto. 
La  vite  ha  tale  una  potenza  di  vegetazione  da  non  temere  molto 
queste  sottrazioni  di  succo,  per  quanto  numerose;  noi  non  diciamo 
che  ove  le  fillossere  fossero    straordinariamente    numerose,    la    vite 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  853 

non  si  risentirebbe  punto  per  tale  alimento  meno  abbondante;  di- 
ciamo solo  che  codesto  non  potrebbe  mai  essere  la  causa  della  morte 
della  pianta  quale  avviene,  in  pochi  anni,  nei  ceppi  flllosserati.  È 
anzi  curioso  il  fatto  osservato  in  Francia  che,  dopo  le  prime  pun- 
ture, la  vite  mostra  come  un  maggior  risveglio  vegetativo,  quasi 
fosse  stata  stimolata,  come  allorquando  si  tagliano  le  radici  di  un 
albero  da  frutta  acciò  fruttifichi  in  maggior  copia.  Ciò  accade  con 
viti  robuste  ma  infruttuose,  le  quali  al  primo  anno  dell'invasione  si 
mettono  infatti  a  dar  frutti,  quasiché  le  punture  fillosseriche  avessero 
fatto  su  di  esse  l'effetto  dei  salassi  primaverili  che  noi  facciamo  sui 
tralci  quando  la  primavera  è  umida  assai  e  la  vite  pletorica. 

Adunque  il  parassitismo  dei  pidocchi  può  indebolire  la  pianta,  ma 
non  potrà  mai  ucciderla,  massime  quando  la  vite  è  coltivata  con 
amore,  ed  aiutata  spesso  col  concime. 

Per  confermare  vieppiù  questo  fatto,  diremo  che  allorquando  si 
produce  un  rigonfiamento  sulle  radici  (pag.  849)  la  vite  non  si  dà 
per  vinta,  ma,  mercè  la  sua  potenza  vegetativa,  getta  subito  nuove 
radichette  colle  quali  può  continuare  ad  alimentarsi.  Preghiamo  i 
lettori  a  voler  esaminare  la  Tav.  II  e  precisamente  le  fìg.  13  e  14: 
ivi  si  vede  come  la  vite  lotti  contro  la  fillossera.  Appena  prodottesi 
le  nodosità,  ecco  che  spuntano  piccole  radici  a  a  a,  massimamente 
dalla  parte  convessa  del  rigonfiamento  stesso,  come  accade  anche 
sulle  convessità  accidentali  delle  radici  sane:  mercè  queste  nuove  ra- 
dichette la  vite  continua  a  vivere  a  dispetto  dei  pidocchi.  Tal'  altra 
volta  accade  che  l'estremità  giovane  ed  in  via  di  formazione  delle 
radichette  (il  così  detto  punto  vegetativo)  non  è  intaccata  e  non  ha 
sofferto,  ed  ecco  che  allora  essa  continua  ad  allungarsi,  non  ostante 
i  rigonfiamenti  che  si  trovano  sulla  radichetta  stessa.  Ed  è  notevole 
il  fatto,  osservato  principalmente  dal  Cornu,  che  le  nuove  radici  le 
quali  prendono  origine  dalle  nodosità,  sono  vigorose  e  sane  ed  in- 
tieramente simili  a  quelle  che  provengono  da  radici  sane  in  piena 
vegetazione:  esse  s'accrescono  rapidamente  quasiché  fossero  destinate 
ad  un  pressante  e  straordinario  lavoro  d'assorbimento. 

Un  altro  fatto  ci  mostra  che  la  vite  non  cede  tanto  facilmente 
alle  depredazioni  della  fillossera.  Le  radichette  che  nascono  dalle 
convessità  dei  rigonfiamenti  (radichette  che  si  comportano  tal  quale 
come  una  radice  ordinaria,  dando  anche  origine  a  nuove  barboline 
secondarie)  portano  spesso  dei  peli  radicali,  locchè  è  un  segno  certo 
che  esse  servono  ad    assorbire  elementi    nutritivi    dal  suolo:    infatti 


854  CAPITOLO  XXIX 


quei  peli  altro  non  sono  che  allungamenti  tubulari  delle  cellule  esterne 
delle  radichette  medesime,  e  servono  a  moltiplicare  straordinariamente 
il  numero  dei  punti  di  contatto  della  radice  col  terreno.  Ognuno  avrà 
certamente  visto  dei  peli  radicali;  il  frumento  per  esempio  ne  è  assai 
riccamente  provvisto,  e  se  noi  ne  sradichiamo  una  pianta  vediamo 
che  le  particelle  terrose  sono  fortemente  trattenute  dai  peli  delle  ra- 
dichette più  giovani. 

Or  bene,  questi  peli  si  trovano  non  solo  sulle  radichette,  ma  anche 
sui  rigonfiamenti,  cioè  sulle  nodosità:  adunque  anche  per  queste 
parti  ipertroSzzate  delle  radici,  la  vite  continua  ad  assorbire  nutri- 
mento dal  suolo. 

Ma  se  la  vite  non  si  dà  per  vinta,  non  cede  punto  dal  canto  suo 
la  fillossera.  Infatti,  non  appena  sono  cresciute  le  radichette,  esse 
sono  punte  dal  pidocchio  e  vi  si  producono  perciò  delle  nodosità; 
queste  nodosità  possono  dar  origine  ad  altre  radichette,  ma  la  fil- 
lossera se  ne  impossessa,  perchè  essa  ama  principalmente  le  parti 
succulenti  e  più  giovani  delle  radici.  Cosi  si  arriva  sino  alla  fine 
dell'estate,  momento  in  cui  il  sistema  radicale  si  può  dire  che  riposa, 
mentre  l'uva  compie  la  sua  maturazione.  Se  nel  successivo  anno  le 
radici  delle  viti  si  trovassero  ancora  nello  stato  in  cui  erano  al  fi- 
nire dell'anno  vegetativo  precedente,  allora  la  vite  potrebbe  ripren- 
dere la  sua  lotta  per  l'esistenza,  e  benché  debole,  continuerebbe  a 
dar  frutti:  aiutandola  poi  con  opportuni  concimi,  potrebbe  vegetare 
a  dispetto  dei  pidocchi. 

Pur  troppo  però  le  cose  non  si  passano  per  tal  maniera;  perchè 
alla  fine  dell'estate,  come  dicevamo  testé,  le  nodosità  scompaiono 
come  per  incanto,  come  disse  con  frase  efficace  l'illustre  Balbiani. 
Ora  scomparendo,  succede  necessariamente  che  la  vite  rimane  pri- 
vata di  tutte  le  sue  radici  attive  (cioè  del  cappellamento)  e  non  po- 
tendo più  assorbire  elementi  nutritizii  nel  suolo,  deve  deperire  dap- 
prima per  qualche  tempo  finché  ha  ancora  radici  sane  (le  quali  non 
scompaiono  già  come  i  rigonfiamenti)  e  poi  irremissibilmente  morire. 

Dunque  la  vite  fillosserata  muore  perchè,  collo  scomparire 
delle  nodosità,  perde  le  sue  radichette  d'  assorbimento:  dal  che 
si  deduce  che  qualora  si  trovasse  il  modo  di  impedire  che  i  rigon- 
fiamenti, come  si  suol  dire,  morissero,  si  sarebbe  anche  trovato  il 
modo  d'aver  uva  a  dispetto  della  fillossera. 

Ma  che  cosa  è  questa  morte  delle  nodosità?  Si  designa  con 
questa  espressione  il  fatto  incontestabile  che,  verso  il  finir  dell'estate 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'UVA  800 

tutti  i  rigonfiamenti,  qualunque  siano  le  loro  dimensioni  e  qualunque 
sia  la  loro  età,  cangiano  colore  assumendo  prima  una  tinta  giallo- 
rossastra,  poi  un'altra  bruna,  infine  una  nera,  divenendo  poco  dopo 
come  appassiti  0  avvizziti;  in  una  parola  essendo  morti  in  tutto  il 
significato  della  parola.  Infatti  non  giovano  più  a  nulla  come  organi 
d'assorbimento,  e  perciò  la  vite  finisce  col  morire. 

L'avvizzimento  incomincia  dalle  parti  più  giovani  e  più  tenere  del 
sistema  radicale,  e  poco  a  poco  si  estende  alle  sue  ramificazioni  più 
importanti;  diciamo  poco  a  poco,  ma  non  convien  credere  che  quel- 
l'appassire  sia  lento,  perchè  al  contrario  è  abbastanza  rapido,  ed  al 
finire  dell'estate  in  terre  aride  le  nodosità,  muoiono  simultanea- 
mente, cioè  ad  un  tempo. 

NeìYHérault  (Mezzogiorno  della  Francia)  i  rigonfiamenti  spari- 
scono nella  prima  quindicina  del  mese  di  agosto:  nella  Gironda  e 
nella  Charente  invece  muoiono  soltanto  nella  seconda  quindicina 
dello  stesso  mese:  in  Lombardia  ciò  accade  solo  in  settembre,  circa 
nelle  due  prime  decadi  od  anche  più  tardi  se  il  suolo  è  umido.  In- 
fatti dietro  le  numerose  esperienze  fatte  in  Francia,  e  dietro  l'osser- 
vazione di  quanto  accadde  nel  1879  appunto  in  Lombardia,  può 
stabilirsi  che  se  il  terreno  è  umido,  i  rigonfiamenti  tardano  molto 
a  morire;  mentre  se  è  assai  secco,  periscono  senza  fallo  durante 
il  mese  di  agosto. 

Infatti  quando  una  vice  soffre  la  siccità,  il  cappellamento  delle  sue 
radici  (cosa  nota  a  tutti  i  viticultori)  quasi  avvizzisce,  cioè  si  dissecca 
l'estremità  delle  radichette,  ossia  il  loro  punto  vegetativo;  nei  ter- 
reni freschi  invece  la  vegetazione  continua  anche  durante  i  grandi 
calori,  e  si  hanno  allora  acini  più  grossi  e  più  ricchi  di  mosto. 

Da  ciò  noi  crediamo  di  poter  dedurre,  appoggiandoci  altresì  a 
molti  fatti  osservati  nel  Bordolese  (PalusJ,  che  tenendo  fresco  il 
suolo  d'estate  al  pedale  delle  viti,  si  impedisce  in  parte  la  morte  dei 
rigonfiamenti;  adunque  «  chi  vanga  la  vigna  in  agosto,  la  cantina 
riempie  di  mosto  »  non  solo  ma  può  prolungare  la  esistenza  delle 
piante,  se  fillosserate.  Ma  non  si  deve  fare  soverchio  assegnamento 
su  di  ciò,  quantunque  sia  stato  detto  dal  Cornu  che  le  copiose  in- 
nafnature  delle  viti  che  il  signor  Faucon  (propugnatore  strenuo  del- 
l'allagamento) pratica  in  estate  durante  le  giornate  più  calde,  pos- 
sano avere  uno  speciale  effetto  sulle  radicelle,  impedendo  loro  di  av- 
vizzire e  di  farsi  floscie. 

Non  bisogna  però  credere  che  la  morte  dei  rigonfiamenti  sia  una 


856  CAPITOLO  XXIX 


putrefazione,  come  è  stato  erroneamente  detto  da  taluno:  qui  non  si 
tratta  affatto  di  marcimento,  si  tratta  di  vero  appassimento,  e  di- 
fatti noi  non  adoperammo  mai  altra  espressione  che  questa.  Le  no- 
dosità adunque  si  raggrinzano,  si  increspano,  si  fanno  piatte  e 
cessano  così  di  essere  organi  attivi  d'  alimentazione:  la  loro  decom- 
posizione è  poi  lenta,  e  si  afferma  da  taluni  in  Francia  che  anche 
lungo  tempo  dopo  si  può  trovarne  alcune  nere  ma  intatte,  framezzo 
al  letame  al  piede  delle  viti  fillosserate. 

Perchè  questo  avvizzimento?  Il  sig.  Cornu  mise  sopra  un  rigon- 
fiamento isolato  e  rotto  a  metà,  una  fillossera  madre  addì  17  ottobre 
1873;  questo  pidocchio  incominciò  a  deporre  ova,  e  ne  depose  mol- 
tissime. Dal  detto  giorno  sino  al  27  dicembre,  e  così  durante  due 
mesi  e  dieci  giorni,  le  ova  schiusero,  i  giovani  pidocchi  si  fissarono 
essi  pure  su  quel  pezzo  di  rigonfiamento,  ma  quest'  ultimo  non  av- 
vizzì punto,  e  si  conservò  intatto.  Dunque  non  è  vero  che  la  fillos- 
sera, introducendo  un  veleno  nelle  nodosità,  le  faccia  perire.  Del 
resto  i  rigonfiamenti  muoiono  all'  epoca  stabilita,  anche  quando  da 
qualche  tempo  non  hanno  più  fillossere  sovra  essi. 

La  causa  pertanto  della  morte  dei  rigonfiamenti  è  diversa,  e  si 
ritiene  possa  essere  la  seguente:  durante  i  calori  estivi  dovrebbe  ef- 
fettuarsi il  passaggio  delle  radicelle  dallo  stato  erbaceo  allo  stato 
legnoso,  cioè  il  fenomeno  della  lignificazione;  ma  la  loro  natura  es- 
sendo stata  modificata  anatomicamente  e  sovratutto  fisiologicamente, 
quella  trasformazione  non  può  aver  luogo,  massime  se  1'  umidità  fa 
difetto;  ed  esse  periscono  in  un  coi  rigonfiamenti.  Ciò  accade  anche 
nelle  viti  sane,  poiché  è  noto  che,  durante  i  grandi  calori,  esse  pos- 
sono perdere  parecchi  teneri  cappellamenti,  i  quali  non  riescono  a 
diventare  radici,  cioè  non  possono  diventare  organi  più  importanti, 
ed  allora  muoiono.  Or  lo  stesso  accade  delle  nodosità  a  cagione  delle 
modificazioni  che  in  esse  induce  la  fillossera. 

Si  chiederà:  è  egli  possibile  impedire  la  morte    dei  rigonfiamenti? 

Se  si  trattasse  solo  di  impedire  gli  effetti  sinistri  della  siccità,  la 
quistione  si  potrebbe  forse  risolvere  abbastanza  facilmente;  ma  noi 
sappiamo  che  in  un  terreno  fresco  le  nodosità  periscono  solo  più 
tardi,  ma  tuttavia  periscono.  Opporsi  alle  cause  interne  che  hanno 
per  effetto  la  loro  morte  non  pare  cosa  possibile;  infatti,  come  im- 
pedire che,  dietro  le  punture  della  fillossera,  si  modifichino  le  cel- 
lule delle  radichette?  L'osservazione  ci  mostra  che  quelle  prossime 
alla  puntura  restano  atrofizzate,  mentre  le  altre  lontane  od  opposte 


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0.  Ottavi  —    Trattato  di   Viticoltura. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  857 

ingrossano  di  molto  cagionando  appunto  la  nodosità:  or  come  impedire 
ciò  se  noni  mpedendo  che  la  radichetta  venga  punta  dal  pidocchio? 
Presso  la  puntura  si  ha  agglomerazione  di  amido,  abbandonato  dai  suc- 
chi, i  quali  non  possono  più  passare  per  le  cellule  atrofizzate  e  vanno 
quindi  ad  ingrossare  le  cellule  sane;  ma  come  opporsi  a  codesto? 

Concludendo,  pur  troppo  dobbiamo  dire  che  allo  stato  odierno 
delle  nostre  cognizioni  sulla  fillossera,  non  è  possibile  opporsi  alla 
morte  dei  rigonfiamenti,  ed  è  perciò  indispensabile  far  la  guerra 
direttamente  ai  pidocchi  mercè  gli  insetticida  o  resistervi  colle 
viti  americane. 

g)  Caratteri  distintivi  della  fillossera  della  vite.  Procureremo 
ora  di  far  conoscere  nel  modo  il  più  chiaro  ed  il  più  esatto  possi- 
bile, quali  siano  i  caratteri  distintivi  della  fillossera  della  vite,  acciò 
non  cadano  in  errore  gli  esaminatori  poco  addentro  nella  storia  na- 
turale di  questo  afide.  Esso  fu  descritto  da  valentissimi  naturalisti, 
sin  ne'  suoi  più  minuti  particolari,  per  la  qual  cosa  non  è  più  pos- 
sibile, a  nostro  avviso,  cadere  ora  in  quegli  errori  che  un  tempo  erano 
scusabili  anche  presso  persone  avvezze  allo  studio  degli  insetti. 

Il  lettore,  per  seguirci  con  profìtto  in  questa  descrizione,  deve 
porsi  sott1  occhio  le  tavole  litografiche  I  e  II  qui  unite  e  che 
crediamo  fermamente  siano  disegnate  con  esattezza.  Ciò  permesso, 
prendiamo  le  mosse  da  un  raffronto  che  dissiperà  molti  possibili  e- 
quivoci:  ed  eccolo. 

Tutti  avranno  certamente  osservato  quei  pidocchi  vegetali  lunghi 
un  paio  di  millimetri,  di  color  verde,  che  trovansi  numerosissimi  sulle 
rose;  ebbene  la  fillossera  della  vite  appartiene  alla  stessa  famiglia,  che 
è  quella  degli  afidi  o  gorgoglioni,  famiglia  a  cui  appartiene  anche 
la  cocciniglia,  nota  a  tutti  per  il  bel  carmino  che  contiene.  Tutti 
questi  gorgoglioni  hanno  una  prodigiosa  facoltà  di  moltiplicazione,  e 
pur  troppo  l'ha  pure  la  fillossera  della  vite;  ma  mentre  sotto  questo 
aspetto  si  è  tratto  partito  della  cocciniglia,  poiché  per  ogni  settan- 
tamila insetti  disseccati  si  ha  un  mezzo  chilogramma  di  vero  car- 
mino, dalla  fillossera  non  si  ebbero  che  quei  gravissimi  danni  che 
tutti  conoscono. 

La  fillossera,  come  molti  altri  insetti,  va  soggetta  durante  la  sua 
vita  alle  tre  metamorfosi  caratteristiche,  (larva,  ninfa  e  insetto  per- 
fetto) che  sono  notissime,  fra  gli  altri,  agli  allevatori  dei  bachi  da 
seta.  Per  renderci  più  chiari  seguiremo  il  nostro  terribile  afide  in 
cotali  sue  metamorfosi. 


858  CAPITOLO  XXIX 


Le  uova  delle  fillossere  —  e  diciamo  le  uova  e  non  l'ovo,  per 
non  generare  confusione  coll'ovo  d'inverno  di  cui  diremo  fra  breve 
—  sono  rappresentate  nella  Tavola  I  dalle  fìg.  1  e  2  ingrandite 
105  volte.  Queste  ova  hanno  una  lunghezza  media  di  0mm,30, 
cioè  tre  decimi  di  millimetro,  ed  una  forma  ovale;  in  a  fìg.  1  si 
vede  poi  che  le  due  estremità  sono  più  pallide,  perchè  contengono 
un  liquido  più  chiaro  della  sostanza  giallognola  che  costituisce  l'in- 
terno  delie  ova  stesse.  Il  colore  di  queste  è  infatti  giallo  vivissimo 
quando  sono  deposte  di  recente;  ma  poi,  continuando  nel  loro  svi- 
luppo, esse  diventano  rossastre,  poscia  brune,  la  qual  tinta  indica 
che  sono  sane  e  suscettibili  di  riprodurre  altre  fillossere.  Non  passa 
molto  tempo  che  nell'interno  dell'ovo  (mercè  il  fenomeno  della  seg- 
mentazione scoperto  sin  dal  1824  da  Préoost  e  Dumas)  si  vedono 
comparire  le  varie  parti  che  andranno  poi  a  costituire  il  giovine  pi- 
docchio; e  così  (fìg.  2)  in  b  vedonsi  tre  tacche  rosse  che  sono  gli 
occhi,  e  poi  il  lungo  succhiatoio,  le  zampe  ripiegate,  le  antenne  pure 
ripiegate  e  via  dicendo:  in  a  vedesi  poi  una  linea  nera  che  pare  una 
cresta  dentellata,  la  quale,  secondo  Cornu  ed  altri,  avrebbe  per  uf- 
ficio di  tagliare  i  tegumenti  dell'ovo  per  lasciar  libera  uscita  al  pi- 
docchio; questo  però,  quando  è  uscito  dall'ovo,  non  presenta  più  co- 
tale cresta,  che  appartiene  forse  all'ovo;  ciò  però  non  è  ammesso  da 
Balbiani,  che  dice  invece  che  essa  appartiene  all'embrione,  il  quale 
nell'atto  della  schiusura,  la  rigetta,  come  accade  presso  altri  insetti 
secondo  J.  Kùnckel.  Ma  lasciamo  questo  punto  che  per  noi  non  ha 
grande  interesse  e  proseguiamo. 

Il  pidocchio  che  esce  dall'ovo,  si  suol  chiamare  più  propriamente 
giovine  larva;  esso  ha  una  lunghezza  che  oscilla  fra  0,  mm.  60  a 
0,  mm.  70  (cioè  fra  6  a  7  decimillimetri)  ed  una  forma  ovata,  come 
lo  indica  chiaramente  la  fìg.  3  (Tavola  I;  ingrandita  105  volte)  a 
meno  che  esso  non  contragga  gli  anelli  dell'addome,  nel  qual  caso 
assume  una  forma  più  arrotondata.  Questo  pidocchio,  il  quale  vive 
sulle  radici,  ha  sei  zampe:  questo  carattere  che  chiunque  può  con 
grande  facilità  constatare,  può  dissipare  gravi  errori;  infatti  si  tro- 
vano talvolta  sulla  vite  piccoli  insetti  che  possono  prendersi  per  fil- 
lossere (come  è  già  accaduto)  mentre  esaminandoli  con  una  lente  è 
facile  scorgere  che  hanno  otto  zampe  e  che  sono  quindi  acari  e  non 
afidi,  perchè  questi  ne  hanno  solo  sei.  (Fra  gli  acari  sono  notissimi 
quello  del  formaggio  vecchio,  quello  che  produce  la  scabbia  sulla 
pelle  umana,  quello  dei  fichi,  ecc.).  La  fillossera,  come   si  vede  nella 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'EVA  8o§ 

fig.  3  (a)  ha  due  antenne  ai  lati  del  capo,  le  quali  sono  divise  in 
tre  parti,  cioè  in  tre  articoli:  invece  gli  acari  non  hanno  antenne. 
Insistiamo  su  questo  raffronto  degli  afidi  cogli  acari,  perchè  ricor- 
diamo che  alcuni  poco  esperti,  i  quali  visitarono  le  viti  filìosserate 
di  Valmadrera,  stamparono  poi  che  non  si  trattava  della  fillossera 
bensì  di  una  scabbia  vegetale  prodotta  da  acari;  or  questo  è  un  grave 
errore,  facile  a  riconoscersi  dietro  le  indicazioni  che  qui  abbiamo  dato. 
Le  antenne  della  giovine  fillossera,  come  si  vede  nella  fig.  19  della  Ta- 
vola II,  hanno  alla  loro  estremità  un  robusto  pelo:  inoltre  l'ul- 
timo articolo  di  esse  antenne  ha  una  forma  ovata  ed  ellittica,  come 
si  vede  in  a  fig.  3,  Tav.  I.  Oltre  a  ciò,  sul  corpo  dei  pidocchi  gio- 
vani non  si  vedono  tubercoli,  mentre  negli  adulti  (vedi  fig.  5)  se  ne 
trovano  sul  dorso  ben  settanta,  secondo  Cornu.  Il  colore  di  queste 
giovani  larve  è  variabile  dal  giallo  vivo  al  verdastro  e  al  bruno;  sul 
colore  dunque  l'osservatore  poco  esperto  non  potrà  fondarsi  molto 
per  decidere  se  si  tratta  di  pidocchio  giovine  o  adulto;  perciò  egli 
potrà  fondarsi  sui  caratteri  precedenti  che  sono  abbastanza  spiccati 
da  non  lasciare   dubbii. 

La  fillossera  cangia  la  pelle,  cioè  subisce  delle  mute,  similmente  a 
quanto  accade  pel  baco  da  seta.  Il  giovane  pidocchio  è  giallo  vivo 
appena  ha  cangiato  la  pelle,  poco  dopo  diventa  giallo  oro,  poi  giallo 
verdastro,  per  ultimo  diventa  un  po'  bruno;  i  tubercoli  (fig.  5)  in- 
cominciano a  vedersi  dopo  la  prima  muta,  a  misura  che  scompare 
la  tinta  giallo-vivo.  Le  mute  sono  generalmente  tre,  una  ogni  cinque 
giorni  al  massimo;  poscia,  dopo  quindici  giorni  al  più,  il  giovine  pi- 
docchio diventa  pidocchio  adulto,  o  larva  partenogenica,  così  detta 
perchè  —  dopo  cinque  giorni  circa  —  depone  ova  senza  il  concorso 
del  maschio,  genera  cioè  essendo  vergine:  maschi  non  ve  ne  sono 
infatti,  ed  è  per  questo  che  è  molto  più  giusto  dire  la  fillossera  che 
non  il  fillossera  come  stampano  alcuni  scrittori  italiani  e  tutti  poi 
quelli  francesi.  Il  pidocchio  adulto  (fig.  5  e  6  ingrandito  60  volte) 
è  lungo  da  0,  mm.  70,  ad  un  millimetro  e  più  (1,20).  Esso  si  di- 
stingue facilmente  dal  giovine:  anzitutto  l'articolo  terminale  delle  an- 
tenne è  perfettamente  cilindrico  (fig.  20,  Tavola  II)  mentre  prima 
ovato  (fig.  19),  ed  il  secondo  articolo  è  più  largo,  come  si  vede  be- 
nissimo nella  detta  figura  20:  in  a  poi  si  vede  un  apparecchio  che 
si  ritiene  essere  l'organo  sensitivo  del  tatto  e  dell'odorato.  Gli  occhi, 
costituiti  da  tre  macchie  rosse,  stanno  ai  lati  del  capo  e  sono  assai 
visibili.  Esaminando  un  pidocchio  dalla  parte  del  dorso,  non  si  scor- 


860  CAPITOLO  XXIX 


gono  le  sei  zampe  (fig.  5),  perchè  sono  corte,  e  ben  osserva  il  Negri 
che  è  mirabile  questa  disposizione  delle  zampe  «  per  un  insetto  de- 
stinato a  vivere  sotterra  e  che  ha  appunto  bisogno  di  corti  gambe 
onde  far  pressione  col  dorso  sugli  ostacoli  che  ha  sempre  attorno 
a  sé,  senza  esporsi  alla  fatica  od  al  pericolo  di  dover  spingere  nella 
terra  o  contro  altri  impedimenti  le  sue  zampe  staccandole  dall'og- 
getto cui  aderisce  ».  Nella  figura  6,  in  b,  e,  e,  f,  g,  h,  sono  indicati 
gli  organi  della  respirazione,  cioè  gli  stimmi,  che  sono  aperture  che 
conducono  l'aria  necessaria  alla  vita  entro  tubetti  detti  trachee. 

Ma  l'organo  che  più  ci  interessa  nella  fillossera  è  il  becco,  o  ro- 
stro, o  succhiatelo,  (a  figura  6)  che,  quando  è  in  riposo,  sta  ap- 
poggiato contro  il  ventre  entro  un  fodero,  cioè  una  guaina  (fi- 
gura 22,  e).  Il  succhiatoio  è  costituito  da  tre  setole  che  si  vedono 
ben  disegnate  in  d  fig.  6,  ed  in  a  fig.  22;  siccome  però  la  mediana 
è  doppia,  sarebbero  in  tutto  quattro,  protette  alla  base  da  un  pezzo 
conico  robusto  che  si  vede  nella  fig.  23  e  nella  fig.  22  in  b,  sul 
quale  si  appoggiano:  questo  pezzo  conico,  rappresenterebbe,  da  quanto 
si  legge,  il  labbro  superiore  dell'apparato  boccale,  mentre  le  setole 
rappresentano  le  mandibole  e  le  mascelle.  La  guaina,  che  è  chiara- 
mente disegnata  in  a  fig.  6,  nonché  in  e  fig.  22,  è  una  membrana 
che  presenta  un  solchetto  per  tutta  la  sua  lunghezza,  solchetto  entro 
cui  si  adagia  il  succhiatojo  quando  il  pidocchio  si  riposa.  Quando 
invece  esso  vuol  succhiare  alza  il  rostro  e  spinge  le  tre  setole  riu- 
nite nei  tessuti  della  pianta,  e  forse  allarga  poi  le  due  laterali,  fis- 
sandosi meglio  e  fortemente  alla  radice  e  succhiando  una  maggior 
quantità  di  umore. 

Abbiamo  detto  che  al  massimo  in  quindici  giorni  un  giovine  pi- 
docchio diventa  adulto;  e  che  dopo  altri  cinque  giorni  incomincia  a 
deporre  ova,  le  quali  schiudono  dopo  sei,  sette  o  al  più  otto  giorni. 
Son  dunque  circa  25  giorni  in  tutto.  Ma  un  pidocchio  adulto  può  vi- 
vere due  mesi  circa,  e  deporre  in  media  da  due  a  tre  ova  al  giorno: 
è  facile  adunque  vedere  quale  sterminato  numero  di  fillossere  si  ge- 
nereranno dalla  primavera  all'autunno.  Così,  faccia m  pure  dei  cal- 
coli modestissimi:  poniamo  che  una  madre  partenogenica  deponga  20 
uova  in  30  giorni  incominciando  a  marzo  nei  paesi  caldi,  come  ad  es. 
la  Sicilia;  in  marzo  avremo  dunque  20  fillossere,  le  quali  daranno 
origine  ad  altre  20  almeno  per  caduna;  in  aprile  saranno  adunque  400; 
in  maggio  8000;  in  giugno  160,000;  in  luglio  3,200,000;  in  agosto 
64,000,000;  in  settembre  1,280,000,000!  in  ottobre  infine  oltre  a  25 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'UVA  861 


miliardi.  Certamente  questa  progressione  geometrica  non  segue  il  suo 
corso  regolare,  perchè  moltissimi  pidocchi  muoiono;  ma  ove  su  25 
miliardi  ne  rimanessero  anche  soli  3  o  4,  la  fillossera  sarebbe  pur 
sempre  «  il  flagello  dei  vigneti  »  perchè  se  una  sola  può  generare 
a  milioni,  che  dire  poi  delle  legioni  di  pidocchi  che  coprono  le  ra- 
dici fillosserate  ? 

Ma  vi  sono  alcuni  pidocchi  che  vivono  meno  in  fretta  di  quelli  sin 
qui  descritti;  essi  infatti  impiegano,  per  cambiare  tre  volte  la 
pelle,  non  15  giorni  ma  40,  e  oltre  a  ciò  dopo  la  terza  muta 
non  depongono  ova,  ma  invece  subiscono  un  quarto  cangia- 
mento di  pelle,  locchè  accade  verso  il  mese  di  luglio:  queste  fil- 
lossere vivono  e  si  nutrono  preferibilmente  sulle  radichette,  e  per 
questo  migliore  e  più  copioso  alimento  finiscono  col  diventare  insetti 
perfetti.  Infatti  dopo  la  quarta  muta  suddetta  si  vede  un  pidocchio 
come  quello  della  fig.  7,  Tavola  I  (ingrandito  50  volte)  avente  ai 
lati  due  sacchi  a  nei  quali  stanno  i  rudimenti  delle  future  4  ali. 
Questo  pidocchio  corrisponderebbe  alla  crisalide  del  baco  da  seta,  ed 
è  detto  la  ninfa:  esso  ha  il  corpo  più  allungato,  le  antenne  nerastre 
coll'articolo  terminale  un  po'  ristretto  nel  mezzo,  come  nella  farfalla, 
e  con  colore  fulvo- giallastro.  Le  ninfe  non  depongono  uova;  esse  ri- 
salgono alla  superficie  del  terreno  ove  subiscono  una  quinta  muta 
diventando  farfalle:  prima  di  subire  questa  ultima  muta  si  mostrano 
inquiete,  non  si  fissano  sulle  radichette,  ma  Raggirano  qua  e  là. 

La  fillossera  alata  (fig.  8,  ingrandita  50  volte)  appena  dopo  la 
quinta  muta  della  ninfa,  ha  un  colore  giallo-d'oro  vivissimo  e  bril- 
lante, le  ali  bianche  ed  è  in  movimento  continuo.  Poco  dopo  essa 
distende  le  sue  ali  e  si  presenta  così  sotto  l'aspetto  d'una  piccola 
mosca  di  color  giallo-d'oro.  Infine  le  ali  finiscono  col  diventare  grigie, 
una  parte  del  torace  nera  ed  il  resto  dell'insetto  fulvo-rossastro:  no- 
teremo che  l'alata  non  ha  tubercoli  e  che  ha  sei  zampe  lunghe  e  due 
antenne  pure  lunghe. 

È  facile  confondere  la  fillossera  alata  con  altri  insetti,  e  special- 
mente colla  fillossera  della  quercia;  per  non  cadere  in  simili  errori 
bisogna  osservare  due  cose:  1°)  che  l'articolo  terminale  delle  antenne 
(fig.  8  e  21)  presenta  nella  sua  parte  mediana  una  strozzatura,  un 
restringimento,  per  cui  l'articolo  non  si  può  dire  cilindrico,  ma  par- 
rebbe quasi  composto  di  tre  parti;  però  queste  tre  parti  non  sono 
distinte  una  dall'altra  e  l'articolo  terminale  suddetto  è  integrale:  (gli 
è  su  questa  integrità  che  secondo  Signoret  si  basa  in   parte  la   di- 


862  CAPITOLO  XXIX 


stinzione  del  genere  Philloxera):  2°)  che  questo  articolo  terminale 
presenta  (fig.  8  e  21  a,  b)  due  castoni  (1)  aventi  una  forma  ovale, 
laddove  nella  fillossera  della  quercia  il  castone  ha  la  forma  più  al- 
lungata d'una  soletta.  Il  castone  potrebbe  anche  dirsi  organo  sensi- 
tivo del  tatto,  dell'udito  o  dell'odorato;  esso  ha  l'aspetto  d'un  pic- 
colissimo timpano  convesso,  circondato  da  una  specie  di  cornice  più 
spessa.  La  natura  ha  provvisto  di  due  castoni  1'  articolo  terminale 
delle  antenne  della  fillossera  alata,  perchè,  dovendo  essa  emigrare 
da  un  vigneto  all'altro,  ha  d'uopo  di  un  senso  più  delicato  che  non 
i  pidocchi  sotterranei. 

La  fillossera  alata  ha  un  organo  visivo  perfetto  e  panoramico  com- 
posto di  sette  occhi;  infatti  oltre  all'occhio  semplice  che  le  sta  sulla 
fronte  (a,  fig.  8)  ne  ha  altri  due,  grossi  e  composti,  ai  lati  del  capo 
(e,  fig.  8),  poi  altri  due  semplici  e  piccoli  sopra  cadun  occhio  com- 
posto (b,  fig.  8),  ed  infine  altri  due  (d)  sotto  l'occhio  composto,  i 
quali  hanno  3  cristallini  caduno.  Gli  occhi  composti  risultano  da  nu- 
merosissimi cristallini  emisferici  (2),  come  si  vede  in  d,  fig.  11,  la 
qual  figura  è  ingrandita  360  volte;  in  essa  si  vede  bene  uno  degli 
occhi  semplici,  detto  anche  ocello  e,  nonché  uno  degli  occhi  a  tre 
cristallini  a,  b,  e,  corrispondenti  agli  occhi  dei  pidocchi. 

La  parte  mediana  del  torace  (g,  fig.  8)  dell'  alata  è  colorata  in- 
tensamente in  bruno,  a  meno  che  si  tratti,  come  già  dicemmo,  d'una 
alata  giovanissima;  ma  l'imbrunimento  non  tarda  molto  sul  mesoto- 
race:  su  di  esso  sono  inserite  le  due  grandi  ali  h.  Le  piccole  sono 
inserite  più  in  basso  (sul  metatorace),  e  queste  ali  stanno  sotto  le 
precedenti. 

Le  fillossere  alate,  benché  munite  del  succhiatoio,  non  risulta  che 
prendano  alimento:  esse  sono  poi  partenogeniche,  come  i  pidocchi 
adulti;  i  maschi  non  esistono.  Cotali  farfalle  depongono,  sul  terreno 
stesso,  o  sulla  pagina  inferiore  delle  foglie,  o  sulla  corteccia,  da  4 
a  0  ova  di  due  dimensioni  e  di  due  tinte:  le  più  piccole  danno  luogo 
alla  nascita  di  pidocchi  maschi,  le  più  grosse  producono  delle  fem- 
mine. Eccoci  dunque  finalmente  ad  una  fillossera  sessuata,  cioè  che 
ci  presenta  i  due  sessi.  Questo  pidocchio,    che  è   senza   ali  e    senza 


(1)  Assomigliano  infatti  al  castone,  cioè  a  quella  parte  dell'anello  ove  è  posta 
la  gemma. 

(2)  I  lamponi  possono  dare  un  idea  abbastanza  esatta  della  disposizione  di  tali 
cristallini  degli  occhi  composti. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  863 

succhiatoio,  è  facilissimo  a  distinguersi  dai  pidocchi  sotterranei:  la 
fig.  10  della  Tavola  II  ci  mostra  il  maschio  ingrandito  70  volte,  ed 
in  a  vedonsi  i  rudimenti  del  succhiatoio:  la  fìg.  9  ci  mostra  la  fem- 
mina, ed  in  a  il  rudimento  pure  del  succhiatoio.  Questi  due  pidocchi 
non  hanno  né  apparato  boccale  né  organi  di  digestione;  essi  pertanto 
non  si  nutrono,  tal  quale  come  avviene  per  le  farfalle  del  baco  da 
seta:  la  loro  missione  è  solo  quella  di  accoppiarsi.  Il  maschio,  che  è 
piccolissimo,  muore  dopo  l'accoppiamento;  la  femmina  invece  (che  è 
lunga  0,  inni,  40  a  0,  mm.  50,  cioè  da  4  a  5  decimillimetri)  depone 
un  ovo,  l'avo  d'inverno,  così  detto  dall'illustre  Balbiani,  perchè 
deve  passare  l'inverno  come  le  ova  dei  bachi  da  seta  e  di  altri  in- 
setti, per  poter  schiudersi  alla  successiva  primavera.  Uovo  d'inverno 
è  molto  grosso  (0,  mm.  33)  relativamente  all'  insetto,  e  ne  occupa 
quasi  tutto  l'addome,  come  vedesi  nella  fìg.  9,  Tavola  I:  esso  ha  un 
colore  bruno- nerastro,  ed  appare  marmorizzato  di  nero.  Vieri  deposto 
in  settembre  (od  in  agosto  nei  paesi  caldi  (1)  ),  fra  gli  interstizi) 
della  corteccia  cui  aderisce  per  mezzo  di  un'  appendice  a  forma  di 
coda. 

A  primavera  quest'  ovo  schiude  e  ne  esce  un  pidocchio  verso  la 
metà  di  aprile,  il  quale  scende  nel  suolo,  si  fissa  sopra  una  radice 
col  suo  pungiglione,  subisce  ivi  le  tre  mute  di  cui  dicevamo  or'ora, 
e  così  si  ritorna  alle  fillossere  delle  radici,  dalle  quali  abbiamo  preso 
le  mosse. 

Però  a  primavera  non  vi  sono  sotto  terra  soltanto  queste  fillos- 
sere provenienti  dall' ovo  d'inverno:  vi  sono  anche  quelle  dell'anno 
precedente,  le  quali  passarono  l' inverno  sulle  radici,  abbandonando 
però  le  radichette  estreme  e  sottili.  Queste  fillossere  sono  raramente 
madri  partenogeniche,  ma  per  lo  più  giovani  pidocchi  che  non  compi- 
rono tutte  le  loro  tre  mute.  Son  detti  fillossere  ibernanti,  sono  pic- 
colissime e  son  disegnate  nella  fig.  4  ingrandita  50  volte.  Quando 
la  temperatura  del  terreno  scende  sotto  i  10°  C,  subentra  questo 
stato  di  letargo;  i  pidocchi  assumono  un  colore  marrone  scuro,  si 
riuniscono  nelle  fessure  o  anfrattuosita  della  corteccia  delle  radici,  e 
rimangono  raggruppati,  inerti,  però  prendendo  forse  un  po'  di  cibo. 

Le  fillossere  delle  radici  si  possono  dire  morte  quando  oltre  al 
presentare  un  colore  bruno  o  nerastro,  si  staccano  facilmente   dalle 


(1)  Vedi  il  num.  20  del  Giornale   Vinicolo  (1880)  pag.  241,  dove  il  siy.  Graells 
dice  d'aver  trovato,  nel  sud  della  Spagna,  Povo  d'inverno  già  nel  mese  di  agosto. 


864  CAPITOLO  XXIX 


radici  stesse,  il  succhiatoio  non  essendo  più  conficcato;  invece  è  dif- 
ficile staccare  un  pidocchio  ibernante,  il  quale  si  tiene  saldo  mercè 
le  setole  del  suo  succhiatoio.  Ponendo  poi  le  fillossere  morte  sotto 
alla  lente  e  cimentandole  con  un  eccitante  qualunque  (alcool  allun- 
gato) non  muovono  più  le  estremità. 

Riassumendo  il  fin  qui  detto,  concluderemo  che  la  fillossera  la 
quale  danneggia  direttamente  e  realmente  le  viti  è  quella  rappre- 
sentata dal  pidocchio  partenogenico  (senza  ali,  attero;  senza  distin- 
tivi sessuali,  agamo):  —  la  fillossera  che  allarga  l' infezione  è  la 
farfalla  (forma  alata  e  agama)  benché  anche  i  pidocchi  passino,  sopra 
terra  e  sotto  terra,  da  vite  a  vite:  —  infine  la  fillossera  incaricata 
per  così  dire  di  rinforzare  la  stirpe  coll'intervento  del  maschio,  è  il 
pidocchio  a  sessi  distinti  {sessuato)  da  cui  viene  l'ovo  d'inverno. 

La  diffusione  della  fillosseronosi  può  avvenire  anche  per  mezzo 
delle  alate;  queste  infatti,  se  il  vento  le  aiuta,  possono  andare  sino 
ai  15  chilometri  di  distanza,  mentre  i  pidocchi  possono,  in  un  anno, 
invadere  una  piccola  zona  di  10  o  12  metri  all' ingiro  del  punto  in 
cui  si  trovano.  Sono  dunque  le  fillossere  alate  che  ci  fanno  la  mag- 
gior paura;  però  bisogna  sapere  che  quelle  le  quali  son  portate  dal 
vento  sovra  terreni  non  coltivati  a  vite  vanno  perdute,  con  grande 
vantaggio  pel  viticoltore. 

E  così,  tra  la  zona  infetta  di  Lombardia  e  le  altre  regioni  viti- 
cole d'Italia,  stanno  vaste  piane  in  cui  possono  certamente  perire 
molte  farfalle,  anche  supposti  i  venti  favorevoli.  Se  poi  la  fillossera 
si  estese  così  poco  a  Valmadrera,  questo  deve  a  nostro  avviso  at- 
tribuirsi al  fatto  che  il  vento  dominante  (il  quale  va  dalla  Brianza 
al  Lago  di  Lecco)  invece  di  portare  le  alate  verso  le  terre  coltivate 
le  portò  verso  il  lago  e  verso    una  zona  dove  non  vi  sono  più  viti. 

In  Francia  invece,  nei  dipartimenti  invasi,  sono  o  meglio  erano 
tante  le  viti,  che  forse  nessuna  farfalla  andò  mai  perita:  per  questo 
l'invasione  si  allargò  in  modo  spaventoso. 

i)  La  lotta  contro  la  fillossera.  —  Contro  la  fillossera  si  sono 
escogitati  dei  mezzi  di  resistenza  e  dei  mezzi  di  distruzione:  i  mezzi 
di  resistenza  sono  essenzialmente  la  coltura  di  certe  viti  americane 
e  X insabbiamento;  i  mezzi  di  distruzione  consistono  nella  ricerca 
dell'uovo  d'inverno,  negli  insetticidi  e  nella  sommersione.  Delle 
viti  americane  parleremo  diffusamente  al  Gap.  XXXI;  degli  altri 
mezzi  di  lotta  diremo  qui. 

Insabbiamento,  —  Nell'Hérault,  a  Pavalay,  vi  ha  un  piccolo  vi- 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'UVA  865 

gneto  di  40  ettari  piantato  nella  sabbia  sulle  rive  del  mare;  ebbene, 
esso  è  affatto  immune  dalla  fillossera,  benché  in  paese  assai  fìllos- 
serato.  La  fillossera  adunque  non  vive  nei  terreni  sabbiosi,  o  per  lo 
meno  si  propaga  con  estrema  difficoltà:  la  Commissione  internazio- 
nale per  la  fillossera  constatò  in  Francia,  nel  ISSO,  che  mentre  le 
viti  soccombono  facilmente  nei  terreni  argillosi  e  compatti,  resistono 
invece  nei  sabbiosi,  e  tanto  più  lungamente  quanto  maggiore  è  la 
proporzione  della  sabbia.  In  seguito  a  queste  ed  altre  osservazioni 
anteriori,  alcuni  in  Francia  insabbiano  e  con  pieno  successo  i  terreni 
che  vogliono  piantare  a  viti.  Ma  le  sabbie  pure,  se  realmente  sterili, 
non  servono  alla  coltivazione  della  vite;  bisogna  dunque  che  siano 
alquanto  fertili  {'Bayer  ad  esempio  trovò  in  sabbie  cosidette  fertili 
il  12  0(0  di  calce:  la  vite  vi  prosperava  benissimo  non  ostante  la 
fillossera).  La  Sicilia  è  certo  ricca  di  tali  sabbie,  ed  ha  inoltre  in 
gran  parte  le  sue  vigne  nelle  sabbie  (1)  e  molti  terreni  sabbiosi  su- 
scettibili d'essere  piantati  a  vigna:  crediamo  che  da  questi  fatti  si 
possano  trarre  lieti  auspici  per  la  viticoltura  di  quell'isola,  che  ora 
ha  la  fillossera  in  varii  punti,  come  già  abbiamo  detto  più  sopra. 

Ricerca  de  ir  uovo  d'inverno  e  trattamento  preventivo  contro 
la  fillossera.  Nel  1882  il  naturalista  francese  G.  Balbiani  iniziò 
esperienze  su  un  nuovo  metodo  di  distruzione  della  fillossera  basan- 
dosi sul  modo  di  riproduzione  dell'insetto  che  abbiamo  visto  espli- 
carsi con  generazioni  partenogenetiche.  Il  Balbiani,  come  dicemmo, 
ha  affermato  pel  primo  che  l'uovo  d'inverno  della  fillossera  è  ap- 
punto l'origine  degli  individui  che  ricominciano  il  ciclo  e  danno  vita 
alle  generazioni  destinate  a  moltiplicarsi  per  qualche  tempo  colla  par- 
tenogenesi. Posto  ciò,  trovare  il  mezzo  sicuro  di  distruggere  V  uovo 
d'inverno  sarebbe  come  trovar  la  maniera  di  liberarsi  dalla  fillossera. 
Ecco  la  base  degli  studii  che  da  due  anni  si  stanno  facendo  dal 
Balbiani  e  da  altri;  avvertiamo  che  a  proposito  di  questi  studii  va- 
lenti fillosseristi  francesi  già  dichiararono  di  non  credere  che  possano 
approdare  a  qualcosa  di  pratico  (2),  ed  uno  dei  più  strenui  propu- 
gnatori del  Balbiani,  il  sig.  P.  de  Lafitte,  confessa  che  per  ora  le 
esperienze  non  ebbero  risultato  alcuno,  poiché  per  varie  cause  non 
si  poterono  effettuare  come  precisamente   le   intendevano    gli  speri- 


(1)  Così  l'ingegnere  delle  miniere  del  distretto  di  Caltanissetta,  signor  P.  Toso 
(Bollettino  del  Ministero  d'Agricoltura,  n.  22,   1880). 

(2)  V.   Comptes  rendus  de  VAcadémie  des  Sciences,  I  voi.  1885. 

0.  Ottavi,   Trattato  di   Viticoltura.  56 


866 


CAPITOLO  XXIX 


mentatori  (1).  Noi  quindi  non  faremo  che  accennare  brevemente  e 
con  riserva  a  questo  nuovo  sistema  di  lotta,  come  lo  preconizza  il 
Balbiani. 

La  prima  difficoltà  è  di  poter  trovare  queste  uova  d' inverno.  Il 
Valéry -May  et  della  Scuola  di  Montpellier  osservò  che  1'  uovo  fe- 
condato non  è  deposto  a  caso  su  d'un  ceppo  qualunque  di  vite,  ma 
pare  al  contrario  che  ci  siano  in  ogni  regione  delle  località,  degli 
angoli  di  vigna  dove  lo  si  trova  più  facilmente.  Questi  luoghi  d'elezione 
si  riconoscono  per  le  galle  (fig.  321)  che  ogni  anno  ricoprono  le  foglie. 


Fig.   321 


Ma  essendo  queste  galle  provenienti  dalle  fillossere  escite  dall'  uovo 
fecondato,  è  logico  il  dedurre  che  dove  ogni  anno  si  trovano  molte 
di  queste  escrescenze  la  si  depongono  ogni  anno  molte  uova  d'in- 
verno. Ora  distruggendo  tutte  le  foglie  coperte  da  galle  e,  indi- 
pendentemente da  ciò,  distruggendo  pure  coi  comuni  trattamenti 
degli  insetticidi  il  più  gran  numero  possibile  di  uova  d'inverno,  si 
potrebbe  venire  ad  aver  ragione  dell'insetto  specialmente  se  tali  e- 
nergici  trattamenti  si  ripetessero  ogni  anno.  La  prima  operazione  deesi 


(1)  V.  Journal  d'Agricutture  pratique,   1885,  n.   18. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  867 

fare  prima  del  20  giugno  perchè  le  fillossere  che  non  si  fissano 
alle  foglie  discendono  alle  radici  e  le  prime  discese  cominciano  alla 
fine  di  giugno,  mentre  i  primi  freddi  dell'autunno  vi  spingono  tutte 
le  giovani  fillossere  dell'ultima  generazione.  La  seconda  operazione 
si  può  fare  in  tutte  le  località  della  vigna  dove  ogni  anno  si  tro- 
vano galle  sulle  foglie,  e  non  trattando  che  il  legno  di  due  o  tre 
anni  il  quale  solo  è  capace  di  riparare  l'uovo  d'inverno  (1). 

Ma  altri  trattamenti  furono  più  recentemente  consigliati  per  la 
distruzione  dell'  uovo  d' inverno.  Citeremo  quello  del  sig.  Elia  Mi- 
repooc,  encomiato  dallo  stesso  Balbiani.  Consisterebbe  esso  nel  fare 
arrivare  sui  tronchi  delle  piante  un  getto  di  vapor  d'acqua  a  120°; 
ciò  si  ottiene  mediante  un  generatore  della  forza  di  quattro  cavalli, 
il  vapor  d'acqua  viene  diretto  mediante  tubi  speciali  di  caoutchouc 
di  20  m.  di  lunghezza. 

Il  Balbiani  consiglia  però  altri  trattamenti  più  economici,  consi- 
stenti in  bagnature  delle  viti  con  una  miscela  così  composta: 

Olio  lourde  (è  un  prodotto  della  distillazione  del 

catrame) i.     .     20  parti 

Naftalina  greggia 30     » 

Calce  viva 100      » 

Acqua 800     » 

Questa  miscela  si  applica  con  un  grosso  pennello  o  con  una  spaz- 
zola su  tutta  la  superficie  del  ceppo,  senza  preoccuparsi  delle 
gemme  e  delle  sezioni  messe  a  nudo  dalla  potatura.  La  miscela  de- 
v'essere piuttosto  densa  ma  non  troppo.  Preparata  da  qualche  tempo 
si  rapprende  e  allora  bisogna  diluirla  con  nuova  acqua.  Questo  trat- 
tamento è  abbastanza  economico  per  essere  applicato  a  tutte  le  viti; 
il  Balbiani  consiglia  di  applicarlo  a  viti  immuni  ma  esposte  per  la 
vicinanza  al  pericolo  dell'invasione  fillosserica.  Esso  avrebbe  per  ef- 
fetto di  impedire  la  schiusura  delle  uova  d'inverno  e  la  formazione 
di  colonie  radicicole  per  mezzo  degli  insetti  usciti  da  queste  uova: 
sarebbe  in  una  parola  un  vero  trattamento  preventivo  contro  la  fil- 
lossera. L'epoca  migliore  per  applicarlo  è,  secondo  l'autore  citato,  l'in- 
verno e  specialmente  dal  febbraio  al  marzo  quando  l'uovo  d' in- 
verno termina  la  sua  invernazione.  Se  le  viti  sono  vecchie  e  a  cor- 


(1)  V.  Messager  agricole  du  Midi,  I  voi.  1882. 


868  CAPITOLO  XXIX 


teccia  piuttosto  spessa  si  farà  precedere  lo  scortecciamento,  e  questo 
una  volta  per  sempre,  senza  cioè  ripeterlo  negli  anni  venturi.  Se  le 
viti  sono  giovani  e  la  corteccia  sottile  questo  scortecciamento  po- 
trebbe invece  nuocere.  Un  altra  precauzione  per  questo  trattamento 
preventivo-  è  quella  di  esportare  dal  vigneto  alla  potatura  tutti  i 
tralci  tagliati,  e  bruciarli  o  almeno  conservarli  in  luogo  riparato  e 
secco,  non  esposto  all'aria  e  all'umido  (1). 

Tale  è  il  metodo  consigliato  dal  Balbiani  ai  viticoltori  francesi, 
invitandoli  a  sperimentarlo  costantemente  per  diversi  anni,  e  pro- 
mettendo loro,  se  riesce,  una  notevolissima  economia  nei  comuni  trat- 
tamenti curativi  contro  il  funesto  insetto. 

Gli  insetticidi.  —  Fra  le  centinaia  di  insetticidi  proposti  per  di- 
struggere la  fillossera,  solo  due  si  sostengono  ancora  oggidì,  e  cioè 
il  solfuro  di  carbonio  ed  i  solfo  carbonati  alcalini.  Da  principio 
l'uso  del  solfuro  di  carbonio  ha  dato  luogo  a  gravi  disappunti,  poiché 
non  si  erano  ancora  fatti  studii  sufficienti  intorno  al  suo  modo  di 
agire  ed  alla  maniera  più  opportuna  per  adoperarlo;  si  ebbero  gli 
stessi  insuccessi  quando  si  incominciò  ad  applicare  lo  zolfo  contro 
1'  oidio,  ma  perseverando  sua  mercè  si  riuscì  a  vincere  la  malattia. 
Così  va  verificandosi  per  il  solfuro;  ce  lo  attesta  il  valente  Direttore 
dell'Agricoltura  in  Francia,  Eug.  Tisserand  (2)  colle  seguenti  te- 
stuali parole:  «  L'  uso  degli  insetticidi,  sempre  meglio  inteso,  dà  ri- 
«  sultati  eccellenti;  gli  insuccessi  sono  meno  frequenti.  I  viticoltori 
«  sono  bene  iniziati  al  trattamento,  che  applicano  dappertutto  essi 
«  stessi,  e  di  cui  le  spese  si  riducono  ovunque  all'acquisto  del  sol- 
«  furo,  perchè  il  viticultore  ha  sempre  a  sua  disposizione,  mercè  le 
«  sue  braccia  e  quelle  de'  suoi  figli,  la  possibilità  di  effettuare  i  la- 
«  vori  necessarii  al  trattamento,  il  quale  si  fa  precisamente  nella 
«  stagione  ove  egli  ha  il  meno  a  fare  ».  Queste  poche  parole  di- 
mostrano meglio  di  ogni  lunga  discussione,  che  l'uso  degli  insetticidi 
non  è  impossibile  ed  assurdo  in  pratica,  come  molti  autori  italiani 
pretendono,  basandosi  su  vecchi  dati;  conviene  tener  dietro  ai  con- 
tinui progressi  che  si  vanno  facendo  in  Francia  a  questo  riguardo 
per  poterne    parlare  colla  dovuta  imparzialità.  Il  sig.   Tisserand  ci 


(1)  V.  Instructions  pratiques  'pour  le  badigeonnage  antìphylloxérique  des  vi- 
gnes,  per  G.  Balbiani. 

(2)  Situatìon  des  mgnobles  philloxérés.  Rapporl  à  la  Commission  swjpèrieure  du 
phil.  —  Aprile,   1885  corrente. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA 


869 


porge  anche  il  seguente  specchio,  che  dà  un'idea  esatta  dello   stato 
attuale  della  lotta  contro  la  fillossera  in  Francia: 


Superficie 

invasa  d  illa 

fillossera 

ma  ancora 

resistente 

Mezzi  di  difesa,  o  di  ricostituzione 

Totale 
degli  ettari 

difesi 

0 

ricostituiti 

Anni 

Sommer- 
sione 

Solfuro 

di 
carbonio 

Solfocar- 
bonati 

Viti 
americ. 

N  2 

O       ; 

è  * 

ettari 

ettari 

ettari 

ettari 

ettari 

ettari 

1878 

243.048 

2.837 

2.512 

845 

1.356 

7.550 

3.10 

1879 

319.730 

5.114 

3.122 

627 

3.830 

12.693 

•    3.94 

1880 

454.254 

8.093 

5.547 

1.472 

6.441 

21.553 

4.74 

1881 

582.604 

8.195 

15.933 

2.809 

8.904 

35.841 

6.15 

1882 

642.978 

12.544 

17.121 

3.033 

17.096 

49.793 

7.74 

1883 

642.363 

17.792 

23.226 

3.097 

28.012 

72.137 

11.23 

1884 

664.511 

23.303 

33.446 

6.286 

52.777 

115.812 

17.42 

Come  vedesi,  le  viti  americane  occupano  il  primo  posto,  da  due 
anni  a  questa  parte,  ma  anche  F  uso  del  solfuro  di  carbonio  si  è 
esteso  notevolmente;  ogni  anno  intanto  si  perfezionano  gli  istru- 
menti  necessarii  per  adoperarlo,  pali  injettori,  aratri  solfurosi,  ecc.; 
le  applicazioni  si  fanno  a  piccole  dosi  ripetutamente,  nelF  inverno  o 
sul  principio  della  primavera.  Così  non  si  danneggia  la  pianta,  mentre 
la  si  libera  d'una  grande  quantità  di  fillossere,  la  qual  cosa  mentre 
basta  perchè  essa  non  abbia  a  soccombere,  permette  pure  che  vegeti 
normalmente  e.  dia  normali  prodotti,  specialmente  se  la  vite  è  aiu- 
tata da  opportune  concimazioni,  come  sempre  è  necessario  qualunque 
sia  il  sistema  di  lotta  o  di  resistenza  prescelto. 

Fra  le  comunicazioni  più  recenti  e  più  attendibili  riguardo  all'im- 
piego del  solfuro  di  carbonio  come  curativo  della  fìllosseronosi, 
dobbiamo  accennare  a  quelle  fatte  nel  marzo  del  decorso  anno  1884 
alle  Réunìons  vìticoles  organizzate  dalla  benemerita  Socie  té  Cen- 
trale d 'Agricullure  de  l'Hérault,  certo  non  sospetta  di  soverchia 
tenerezza  pegli  insetticidi,  poiché  è  noto  invece  che  essa  crede  sovra- 
tutto  nelle  viti  americane.  A  pag.  70  e  seg.  della  relazione  si  legge  che 
il  sig.  Paslre  di  Béziers  sulfura  i  suoi  vigneti  da  quattro  anni  ed  il 
Jaussan  pure  di  Béziers  da  sette  anni  con  ottimi  risultati  e  con  una 
spesa  massima  di  cento  sessanta  lire  per  ettare;  vi  si  legge  pure  che  il 


870  CAPITOLO  XXIX 


sig.  Narbonne,  membro  del  Consiglio  generale  dell' Aude,  spende  sole 
settantacinque  lire  per  ettare,  avendo  sostituito  al  palo  iniettore  Ya- 
ratro  sulfuratore  a  getto  continuo  del  Simonin  di  Libourne:  egli  a- 
dopera  al  massimo  150  chili  di  solfuro  per  ettare,  che  gli  costano,  in  ra- 
gione di  L.  40  al  quintale,  L.  60;  il  detto  aratro  sulfura  2[3  d'ettare  al 
giorno.  Il  sig.  Pastre  afferma  che  il  sulfuro  di  carbonio  ha  meriti 
incontestabili  e  che  è  adoperato  con  grande  successo  nel  circondario 
di  Béziers,  sempre  però  accompagnato  da  buone  concimazioni:  «  il 
sulfuro  di  carbonio  è  un  elemento  serio  di  conservazione  per  le  vi- 
gne fillosserate  »  così  egli  soggiunge  a  pag.  71;  però  il  sulfocarbo- 
nato  costa  troppo  e  finirà  molto  probabilmente  per  essere  abbando- 
nato da  tutti. 

La  sommersione  e  la  irrigazione.  —  La  sommersione  delle  viti 
è  un  mezzo  sicuro  per  uccidere  le  fillossere.  Il  promotore  strenuo 
di  questa  energica  cura  è  il  signor  Faucon;  l'acqua  vuole  essere  ab- 
bondante, il  terreno  ben  livellato  e  suscettibile  di  conservare  l'acqua 
stessa,  cosicché  sia  possibile  tenere  il  vigneto  fillosserato  sott'acqua 
per  un  quaranta  giorni  tra  il  finir  del  settembre  e  1'  ottobre,  cioè 
quando  le  fillossere,  non  essendo  ancora  entrate  nel  periodo  di  tor- 
pore invernale,  periscono  più  facilmente.  Disgraziatamente  nella  mas- 
sima parte  dei  vigneti  italiani  il  metodo  dell'allagamento  è  imprati- 
cabile. In  Francia  si  è  provato  ad  allagare  in  inverno  dei  vigneti 
con  uno  strato  d'acqua  alto  0m,50,  e  si  osservò  che  la  vite  non  soffre, 
ma  produce  uva  come  al  solito,  purché  però  si  lavori  bene  il  ter- 
reno in  primavera  ed  in  estate,  e  si  concimi  riccamente  con  ingrassi 
azotati  e  con  potassa. 

La  fig.  322  mostra  una  pompa  in  azione,  mossa  da  una  macchina 
a  vapore  locomobile,  per  la  sommersione  dei  vigneti;  questa  instal- 
lazione è  stata  fatta,  presso  alcuni  viticultori,  dalla  Société  francaise 
de  materiel  agricole. 

Anche  della  irrigazione  estiva  ed  autunnale,  si  parla  oramai 
come  di  un'ottima  pratica  antitìllosserica,  e  ciò  specialmente  nel  di- 
partimento francese  dell' Hérault.  Il  sig.  H.  Mares  (1)  scrive  che 
nelle  piane  dell' Hérault  e  dell'Orb  ormai  si  contano  a  centinaia  i 
pozzi  scavati  in  due  o  tre  anni  allo  scopo  di  alimentare  delle  norie. 
Il  solo  comune  di  Vias  ne  contiene  trecento.  I  piccoli  proprietarii 
non  esitano  a  spendere  anche  1000  o  1200  lire  per  aver  dell'acqua. 


(1)  V.  Bulletin  de  la  Société  centrale  d ag riculture  de  VHérault   1884  p.  ^49. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA 


871 


Queste  irrigazioni  in  tempo  di  siccità  cominciano  in  settembre,  per 
continuare  se  è  necessario  durante  tutto  l'inverno:  sospese  per  qualche 
mese  in  primavera  si  riprendono  verso  la  fine  di  maggio  e   si  con- 


tinuano sino  all'epoca    che  precede    la  maturanza;  —    ne  viene  che 
l'acqua  scende  ad  imbevere  profondamente  anche  il  sottosuolo. 
Continua  il  Marès  affermando  che    numerose  vigne    sottoposte  a 


CAPITOLO  XXIX 


questo  trattamento  sono  a  poco  a  poco  ricostituite  e  ridonate  alla 
vita. 

Come  si  fanno  queste  irrigazioni?  Il  sig.  Maistre  (1)  che  le  pra- 
tica da  7  anni  con  successo  e  se  ne  dice  contentissimo,  scava  tra  i 
ceppi  tante  fosse  di  75  cent,  di  lunghezza  per  45  di  larghezza  e  35 
di  profondità,  e  le  riempie  d'acqua  ogni  15  giorni.  La  terra  estratta 
dalle  fosse  serve  ad  incalzar  le  viti  e  favorisce  lo  sviluppo  di  radici 
superficiali.  Il  sig.  Maistre  dice  che  preferisce  l'irrigazione  alla  som- 
mersione, perchè  la  quantità  d'acqua  con  cui  sommergerebbe  d'in- 
verno due  ettari,  gli  basta,  coll'irrigazione  continua,  per  dodici. 

Dobbiamo  avvertire  che  gli  studiosi  ed  i  viticultori  dell'  Hérault 
non  sono  ancora  perfettamente  d'accordo  sul  momento  più  opportuno 
per  questa  irrigazione.  V  ha  chi  la  vorrebbe  praticata  solo  d'  e- 
state.  chi  d'estate  la  ritiene  pericolosa.  Alla  irregolarità  dei  risultati 
ottenuti  certo  in  gran  parte  contribuisce  la  diversa  natura  del  ter- 
reno. 

§  3.  Il  rincliite  della  vite  (2)  detto  anche  punteruolo  o  ta- 
gliadizzo  in  Toscana,  moschetta  nel  Lazio,  sigaraio  nel  Napoletano, 
snas  in  Piemonte  —  è  un  colleottero  a  corpo  splendente,  ordina- 
riamente di  color  verde  dorato  al  disopra  e  rosso-rameo  variegato 
di  verde  al  disotto,  oppure  di  color  bleu  o  violaceo  al  disopra,  verde 
al  disotto,  con  antenne  nerastre,  con  capo  liscio  e  rostro  più  lungo 
del  capo,  quasi  cilindrico  (3):  è  lungo  circa  7  millimetri  ed  ha  il 
petto  o  ventre  punteggiato.  In  principio  di  maggio  si  vedono  sui 
pampini  quei  rinchiti  che  riuscirono  a  superare  l'inverno:  essi  si  ac- 
coppiano e  restan  talvolta  accoppiati  anche  per  una  intera  giornata. 
Allorquando,  colle  loro  piccole  mandibole,  hanno  intaccato  tutt'all'in- 
giro  i  picciuoli  dei  pampini,  questi  si  piegano  all'ingiù  e  restan  pen- 
denti: allora  la  femmina  depone  le  ova  sulla  foglia  e  poi  l'accartoccia 
quasi  per  proteggere  le  ova  stesse;  poi  depone  altre  ova,  e  quindi 
ripiega  nuovamente  la  foglia  e  così  di  seguito  sino  a  formare  ciò 
che  i  viticoltori  napoletani  chiamano  acconciamente  sigarette.  Dopo 


(1)  Log.  cit.  p.  247. 

(2)  Rynchites  bacchus,  o  R.  betuleti  o  R.  alni?  Quest'ultimo  pare  sia  il  vero 
sigaraio  dei  Napolitani.  Al  Rincliite  si  dà  da  alcuni  anche  il  nome  di  Attelabiis 
die  veramente  appartiene  ad  altro  genere. 

(:ì)  A.  ('osta.   Degli  inselli  —  (Napoli  1877,  presso  G.  Nobili). 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA 


873 


una  decina  di  giorni  le  ova  schiudono  e  le  larve  (che  sono  vermi- 
ciattoli senza  piedi  di  color  bianco  sudicio  uniforme)  perforano  il 
cartoccio  e  ne  escono  dopo  un  mese,  durante  il  quale  si  sono  nutrite 
colle  parti  più  morbide  del  cartoccio  stesso.  Uscite  che  sono,  cadono 
al  suolo  e  ivi  restano  in  letargo  fino  alla  primavera  successiva.  I 
rinchiti,  appunto  perchè  attaccano  le  foglie,  possono  recare  grave 
danno  alla  vite,  se  son  numerosi:  ed  il  guaio  si  è  che  molti  di  essi 


Pig.  821  A. 


Fiff.   \m. 


Fìe.  324  B. 


vivono,  allo  stato  perfetto  cioè  di  piccolo  scarafaggio,  sino  a  set- 
tembre, ed  in  questo  frattempo  intaccano  i  picciuoli  dei  grappoli  dan- 
neggiando così  seriamente  il  prodotto.  Bisogna  dunque  far  loro  la 
guerra,  ed  il  modo  migliore  è  quello  di  raccogliere  a  primavera  e 
poi  distruggere  tutti  i  cartocci:  oltre  a  ciò  bisogna,  se  è  possibile, 
raccogliere  anche  i  rinchiti  perfetti,  per  evitare  che  guastino  i  grap- 


874 


CAPITOLO  XXIX 


poli,  ponendo    una  tela    sotto    le  piante  e    scuotendole  sul    far   del- 
l'alba (1). 

La  fig.  323  rappresenta  un  pampino  accartocciato  dal  Rinchite: 
il  pampino  essendo  secco,  le  larve  sono  uscite  dai  punti  a  a  a.  La 
fig.  324  A  rappresenta  la  larva  vista  di  lato:  la  fìg.  324  B  rappre- 
senta l'insetto  perfetto:  in  C  è  segnata  la  lunghezza  naturale  del 
Rinchite  perfetto. 

§  4.  L'Apate  della  vite  (2).    —  Fu    studiata   in  Italia    assai 
bene  dal  citato   Costa  (3).  È  un  insetto  lungo  sei  o  sette  millimetri, 


m    &1 


Kig.  326. 


Fig.  325.  Fig.  327. 

con  corpo  cilindraceo,   robusto,  troncato  nei  due  estremi,    con  capo 


(1)  Apelle  Dei  —  Insetti  dannosi  alle  viti. 

(2)  Synoxylon  muricatum,  Dufts.  —  Sinodendroa  muricatum,  Fab. 
bispinosa,  Oliv. 

(3)  Chi  desiderasse  più  dettagliate  nozioni  ricorra  all'opera  citata. 


Apate 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA 


875 


puntigato-  rugoso,  prototorace  quasi  quadrato,  convesso- gibboso  sul 
dorso;  elitre  ricoprenti  ed  abbraccianti  completamente  l'addome;  co- 
lore rosso- testaceo,  col  capo  nerastro.  Questi  scarafaggetti  sono  in- 
nocui, ma  le  larve,  bianco-sudicie  e  che  hanno  forti  mandibole,  abitano 
nello  strato  legnoso,  del  quale  si  cibano,  scavando  tra  la  corteccia 
ed  il  midollo  una  galleria  longitudinale.  Fortunatamente  Y  apate  de- 
pone le  ova  preferibilmente  nel  legno  morto;  però  spesso  attacca 
anche  le  viti  vegete,  e  se  son  molte  le  larve  a  rosicchiare,  le  piante 
periscono  di  certo.  È  difficile  far  la  guerra  all' apate;  l'unico  mezzo 
è  quello  di  esaminare  (giugno  e  luglio)  le  viti  intristite,  spezzarne  i 
tralci  «  ed  ove  vi  si  trovassero  dentro  le  larve  dell' apate,  recidere 
dalla  base  il  tralcio  intero  e  darlo  alle  fiamme  »  (Costà). 


^ 


Fig.  328. 


Fig.  329. 


La  fig.  325  mostra  un  pezzo  di  tralcio  spaccato  longitudinalmente 
con  due  larve  a  a,  una  ninfa  b  ed  un  insetto  perfetto  e  nelle  ri- 
spettive gallerie.  La  fig.  326  mostra  la  larva  di  sopra.  La  fig.  327 
la  stessa  vista  di  lato.  La  fig.  328  mostra  l'insetto  visto  da  sopra. 
La  fig.  329  lo  stesso  visto  di  lato.  Il  tratto  A  dà  la  misura  della 
grandezza  naturale. 

§  5.  L'Enmolpe  (1)  detto  anche  rodi-germogli  della  vite,  è 
un  insettuccio  (fig.  330),  lungo  circa  5  millimetri,  con  testa  nera,  in 
parte  nascosta  sotto  il  corsaletto,  che  è  nero  e  molto  convesso,  con 
elitre  rosso -castagna,  assai  più  larghe  del  corsaletto  (A.  Dei).  Da 
giovine  è  ovale,  e  a  primavera  rosicchia  i  germogli  ed  i  teneri  grap- 


(l)  Eumolpus  vitis,  Fab.  a  Crisomela ? 


876  CAPITOLO  XXIX 


poli,  ma  quando  è  adulto  non  rispetta  neppure  gli  acini.  È  attaccato 
assai  fortemente  alla  vite,  ed  è  perciò  difficile  dargli  la  caccia  colle 


Fig.  330. 

tele  e  scuotendo  le  piante:  però  si  consiglia  questo  metodo  e  nulla  più. 

§  6.  La  Melolonta  comune  (1)  o   carruga  è  uno   scarabeo 
lungo  circa  37  millimetri  e  più  ancora,  nero,  peloso  e  con  1'  ultimo 


Fig.  331 

segmento  del  ventre  bruno  rossastro,  del  qual  colore  son  pure  le 
elitre.  Quando  è  giovine  è  detto  anche  verme  bianco  (fig.  331),  e 
vive  sotto  terra  per  tre  anni  cibandosi  di  radici,  fra  cui  quelle  al- 
tresì delle  viti:  nell'autunno  del  terzo  anno  è  lungo  45  millimetri, 
biancastro  e  spinoso  sul  dorso.  Nell'aprile  successivo  esce  da  terra 
insetto  perfetto  e  danneggia  i  fiori,  le  foglie  ed  i  getti  teneri  delle 
viti,  nonché  d'  altre  piante.  Spesso  la  Melolonta  è  numerossima,  e 
reca  serii  danni:  le  si  fa  la  guerra  lavorando  profondamente  il  ter- 
reno, massime  in  inverno,  e  facendo  seguire  l'aratro  da  polli  o  tac- 
chini. 

§  7.  La  Melolonta  della  vite  (2)  o  Ronzone  delle  viti  (nel 


(1)  Melolontha  vulgarìs,  Fai).  —  Scaràbceus  Melolontha,  Liti. 

(2)  Anomala  vitis,  Fab. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA 


877 


Veneto  Garduzzo,  in  Toscana  Ronzone  verde).  —  È  lunga  solo  15 
millimetri,  mentre  la  Melolonta  comune  è  talvolta  il  doppio,  come  lo 
dicevamo  or'  ora.  Essa  è  talora  verde,  talora  bleu,  talora  color  di 
rame.  Allo  stato  di  verme  vive  sotterra,  e  diventa  lunga  circa  15 
millimetri  cibandosi  quasi  esclusivamente  delle  radici  della  vite:  esce 
quindi  di  terra  adulta  in  maggio  o  giugno,  e  devasta  le  viti  in  modo 
gravissimo,  come  accadde  nel  1869  nel  Veneto  (A.  Bei).  Per  darle 
la  caccia  bisogna  stendere  delle  tele  all'alba  sotto  le  viti  infestate  e 
scuotere  queste;  siccome  al  mattino  le  Melolonte  sono  come  asside- 
rate dal  freddo,  cadono  con  grande  facilità. 

§  8.  La  Tortrice  dell'uva  (1)  o  tignola  del  fior  di  vite,  o 
bruco  dei  grappoli,  è  un  vermiciattolo  dannosissimo  (fig.   332,  a) 


33; 


che  attacca  gli  acini  o  verdi  o  in  maturazione;  è  lungo  8  millimetri 
al  massimo,  di  color  bianco  verdiccio  (o  rossiccio  se  attacca  uve  nere). 
Allo  stato  di  insetto  perfetto  la  Tortrice  è  una  farfalletta  notturna 
che  il  Costa  dice  essere  quasi   impossibile  di   descrivere   con    esat- 


(1)  Tortrìx   Romaniana,  0.    Costa 
guelfa,  Hiib, 


Cochylis    Romaìiiana  —    Tinca   Ambi- 


878  CAPITOLO  XXIX 


tezza.  Tali  farfallette  depongono  le  ova,  in  primavera,  sui  grappoli 
i  cui  piccoli  acini  verdi  son  grossi  allora  come  una  testa  di  spillo. 
I  pìccoli  vermi  che  ne  nascono,  mediante  fili  serici  legano  assieme 
sette  od  otto  acini  (fig.  332,  b),  e  formano  quasi  un  gomitolo  nel 
cui  centro  si  piazzano.  Da  questi  vermi  ha  origine,  circa  in  due  mesi, 
una  seconda  generazione  le  cui  larve  (o  vermi  come  si  direbbe  po- 
polarmente) penetrano  negli  acini,  che  son  già  abbastanza  grossi,  e 
vi  rimangono  stazionarie.  Da  queste  larve  si  origina  una  terza  ge- 
nerazione, i  cui  vermi  si  internano  essi  pure  in  altri  acini,  quasi 
maturi  allora,  e  che  perciò  marciscono  (fìg.  332,  e).  La  prima  ge- 
nerazione però  è  la  più  nociva,  perchè  ogni  verme  guasta  non  un 
solo  acino,  ma  sei  o  sette,  od  anche  assai  di  più  Per  far  la  guerra 
alla  Tortrice  bisogna,  in  primavera,  raccogliere  tutte  quelle  specie 
di  gomitoletti  di  acini  e  bruciarli,  operazione  che  possono  fare  anche 
i  ragazzi,  e  che  perciò  non  è  molto  costosa,  massime  se  si  riflette 
ai  gravissimi  danni  cui  si  andrebbe  incontro  trasandandola. 

§  9.  La  Pirale  della  vite  (1)  detta  anche  tignola  delle  viti 
o  Bruco  della  cima  delle  viti  (A.  Dei).  Le  figure  333  e  334  ci 
mostrano  la  pirale  allo  stato  perfetto;  nella  figura  333  è  disegnato 
il  maschio,  che  talvolta  non  misura    nemmeno    10    millimetri,   la  fi- 


si   333. 


gura  334  ci  mostra  la  femmina  che  spesso  è  lunga  da  15  a  16  mm. 

e  che  depone  le  ova  sui  pampini.  Nel  primo   stadio    la   pirale   è  un 

vermiciattolo  lungo  circa  10  millimetri,  di  color  verde  con  16  zampe. 

«  È  in  questo  primo  stadio  della  sua  vita,  cioè  da  giovine,  che  questa 


(1)  Pyraìis   Vitana,   Fab.    —   Tortrix  pilleriana,  Hiib. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA  879 

Piralide  produce  i  suoi  guasti  alle  viti,  che  spesso  sono  considere- 
voli. Essa  nasce  infatti  sul  finire  d'agosto  dalle  uova  che  la  farfal- 
letta  femmina  aveva  deposte  sui  teneri  pampini  o  foglie  della  cima 
delle  viti.  Allora  i  suoi  danni  son  piccoli,  perchè  piccola  è  la  sua 
mole,  e  ben  vestite  sono  le  viti.  Al  sopraggiungere  dei  primi  freddi, 
si  nasconde  nelle  fenditure  dei  pali,  o  sotto  la  scorza  delle  stesse 
viti,  e  là  passa  l'inverno  in  uno  stato  di  assideramento.  Alla  pri- 
mavera si  rianima,  ed  allora  i  danni  che  produce  son  gravi  dav- 
vero: poiché  al  primo  svolgersi  delle  gemme,  od  occhi  delle  viti,  ogni 
brucolino  lega  insieme  con  della  seta  le  tenere  foglie  ed  i  grappo- 
letti  nascenti:  e  situandovisi  in  mezzo,  rode  ciò  che  gli  sta  intorno, 
ed  il  più  spesso  anche  i  teneri  piccioli,  tanto  delle  foglie,  che  del 
grappolo  stesso.  In  una  parola,  essa  distrugge  tutta  la  cima  del 
nuovo  getto,  e  per  conseguenza  anche  il  frutto  che  sarebbe  per  pro- 
durre. Da  ciò  chiunque,  ben  comprende  il  danno  grave  che  questa 
Piralide  può  produrre  in  una  vigna,  quando  in  numero  grande  la 
invade:  e  di  fatto  sono  sventuratamente  famosi  i  guasti  tremendi  che 
in  qualche  anno  ha  prodotti,  ora  in  questa,  ora  in  quella  parte  della 
nostra  Penisola.  » 

«  Quando  ha  terminato  di  crescere,  ed  è  perciò  per  passare  al  se- 
condo stadio,  ossia  nell'età  media,  si  rinchiude  anche  meglio  nel  pac- 
chetto di  foglie  nel  quale  viveva,  vi  si  trasforma  nuovamente,  ed  i- 
nerte  vi  rimane  fino  a  luglio  inoltrato;  alla  qual  epoca,  si  trasforma 
nuovamente,  ed  esce  fuori  nel  terzo  stadio,  cioè  adulta,  nella  forma 
della  farfalletta  già  descritta  di  sopra  (1). 

§  10.  La  zigena  della  vite  (2)  detta  anche  ampelofaga  è  un 
insetto  dannosissimo,  ben  noto  in  tutta  Italia,  il  quale  allo  stato  di 
verme  o  larva  rosicchia  le  tenere  cacciate  delle  viti  e  spesso  lascia 
i  tralci  completamente  denudati.  La  fig.  335  ci  mostra  una  di  queste 
cacciate  con  un  gruppo  di  ova  a  quasi  sferiche  e  bianchiccie  deposte 
sul  tralcio  e  le  larve  b  b  sulle  foglie.  La  fig.  336  ci  mostra  la  larva 
colla  misura  A  della  sua  lunghezza  naturale:  essa  conta  14  anelli, 
ha  color  bianco  sporco  con  tre  liste  longitudinali  nere  sul  dorso  ed 
un  altra  su  ciascun  fianco,  irsuta  nel  dorso,  colla  faccia  centrale  più 
chiara  e  quasi  nuda.  La  fig.  337  ci  mostra  un   pezzo  di  canna  con 


(1)  A.  Dej,  op.  cit.  pag.  36. 

(2)  Zygaena  ampelophaga,  Bayle-Bar  —  Sphìnx  ampelopaga,  Hub. 


880 


CAPITOLO  XXIX 


entro  i  bozzoli  e  le  spoglie  delle  crisalidi;  infine  la  fìg.  338  ci  mostra 
l'insetto  perfetto  eli  color  verde  bluastro  splendente  colle  ali  spiegate 
e  la  fig.  339  lo  stesso  colle  ali  in  riposo  (Costa  —  loc.  cit,  332). 


Figi  335. 


Si  è  tra  l'aprile  ed  il  maggio  che  le  femmine  depongono  le  ova 
sui  tralci,  spesso  numerosissime;  dieci  giorni  dopo  all' incirca  escono 
i  bruchi  che  tosto  si  alimentano  delle  foglioline  nascenti  della  vite, 
crescendo  con  esse  e  continuando  così  per  tutto  il  maggio:  essi  te- 
mono però  la  luce  solare  e  di  giorno  si  nascondono  o  entro  terra 
o  nella  pagina  inferiore  delle  foglie;  al  tramonto  risalgono  sui  pam- 
pini e  vi  stanno  sino  al  mattino.  Nel  loro  massimo  sviluppo  sono 
lunghi  12  mm.  e  larghi  3;  ciò  accade  sul  principio  di  giugno  nei 
paesi  caldi:  allora  si  ritirano  entro  le  canne  o  sotto  la  corteccia 
delle  viti  o  dei  sostegni,  ove  tessono  il  loro  bozzolo,  nel  quale  si 
trasformano  in  crisalidi  per  uscire  farfalle  nella  seconda  metà  del 
giugno  stesso.  Queste  farfalle  volano  poco  e  di   rado,   onde  si  pos- 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA 


881 


sono  vedere  sulle  foglie  o  sui  tralci.  Esse  danno  luogo  ad  una  se- 
conda generazione,  deponendo  ova  dalle  quali  escono  bruchi  che 
danneggiano  a  loro  volta  le  foglie;  poscia,  come  ha  osservato  il 
Costa,  continuano  oltre  nelle  loro  evoluzioni,  dando  luogo  a  farfalle 
che  schiudono  in  parte  tra  l'agosto  ed  il  settembre  e  poi  muoiono 
infeconde,  mentre  altre,  le  più  tardive  e  meno  vigorose,  passano  l'au- 
tunno e  l'inverno  allo  stato  di  crisalidi  e  danno  le  farfalle  soltanto 
in  primavera;  queste  farfalle  assicurano  la  propagazione  della  specie 
nell'anno.  Così  accade  infatti  di  quasi  tutti  i  lepidotteri  notturni  e 
crepuscolari. 


Fiff.  338. 


Fiff.  337. 


Fig.  339. 


Per  far  la  guerra  alle  zigene  senza  danneggiare  le  viti,  bisogna 
attendere  che  le  larve  siano  nel  loro  massimo  sviluppo,  e  così  la 
seconda  metà  di  maggio;  allora,  dopo  aver  collocato  sotto  i  tralci 
invasi  dei  pannilini,  si  scuotono  i  tralci  stessi  per  far  cadere  le  larve 
che  indi  abbruciansi;  questa  caccia,  eseguita  dai  ragazzi,  è  meno 
lunga  di  quanto  può  sembrare  a  primo  aspetto.  Sarà  pure  utile  rac- 
cogliere i  bozzoli  e  le  farfalle;  non  si  deve  trascurare  alcun  mezzo 
di  distruzione,  se  pure  si  vuole  liberare  il  proprio  vigneto  da  sì  vo- 
race e  dannoso  insetto. 


0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura. 


57 


CAPITOLO  XXIX 


§11.  L' Albinia  Wockiana  o  bruco  dell'uva.  —  Questo 
bruco,  noto  in  Italia  solo  da  pochi  anni  (1),  è  dannosissimo  all'uva, 
specie  nel  momento  della  sua    maturità.  La    fìg.  340  ce    ne  mostra 


Fig.  340. 

la  larva  molto  ingrandita;  è  questo  vermiciattolo  che  guasta  affatto 
l'uva  introducendosi  entro  gli  acini.  Il  suo  corpo,  che  consta  di  tre- 
dici anelli,  è  lungo  circa  10  millimetri,  ed  è  munito  di  otto  paia  di 
gambe.  La  larva  tesse  poi  il  suo  piccolo  bozzolo,  generalmente  far 
le  ramificazioni  del   raspo,  e  si  muta  in  crisalide  (fig.  342  molto  in- 


Fig.  341  e  342. 

grandita:)  indi  in  insetto  perfetto,  cioè  nella  farfalletta  disegnata  in 
grandezza  naturale  nella  fig.  341  col  corpo  ricoperto  di  piccolissime 
squame,  e  perciò  di  aspetto  metallico.  Non  è  rado  vedere  questa 
farfalla  (fìg.  343  a)  sugli  acini  a  succhiarne  1'  umore.  Nella  stessa 
figura  343  vedonsi  in  b  b'  i  buchi  fatti  dalla  larva  negli  acini,  ed  in 
e  la  larva  stessa  pendente  dal  suo  filo.  L'  agronomo  C.  Mancini, 
che  ha  pubblicato  nel  nostro  Giornale  Vinicolo  del  1883  un  accurato 
studio  sulle  Albinie,  asserisce  che  esse  attaccano  più  facilmente  le  viti 
basse  che  quelle  alte,  le  vigne  di    valle  o  di  pianura    che  quelle  di 


(1)  Si  (leve  al  chiarissimo  Dr.  Briosi  l'averlo  studiato  pel  primo  fra  noi  nel 
1878-79:  egli  vi  impose  il  nome  di  Albinia  Wockiana  in  onore  dei  valenti  scien- 
ziati  Giuseppe  Albini  e  Dr.    Wocke 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA 


883 


collina;  noi  abbiamo  osservato  che  il  bruco  perfora  molto  più  facil- 
mente gli  acini  di  viti  situate  in  terreni  pingui  o  letamati,  che  non 
quelli  di  viti  poste  su  suoli  ricchi  piuttosto  di  elementi  minerali  che 
di  elementi  azotati.  Il  bravo  viticultore  Sebastiano  Badala- Geraci 
di  Acireale  osservò  che  i  concimi  fosfo-potassici  preservano  indiret- 
tamente le  viti  dal  marciume;  egli  potè  fare  a  questo  riguardo  in- 
teressanti osservazioni  di  confronto. 


Pig.  343. 


Mezzi  di  distruzione  d'esito  sicuro  non  se  ne  conoscono:  crediamo 
però  che  la  miscela  di  calce  e  zolfo  gioverebbe  a  fugare  i  bruchi 
(v.  pag.  832).  Ci  associamo  frattanto  al  consiglio  del  Mancini  di 
anticipare  un  po'  la  vendemmia  per  non  lasciar  tempo  alle  larve  di 
autunno  di  trasformarsi  in  crisalidi,  e  di  raccogliere  quanto  più  si 
può  di  acini  guasti  e  di  bruchi,  affidandone  la  cura  ai  ragazzi;  senza 
di  ciò  in  pochi  anni  l'albinia  diventa  un  vero  flagello. 


884  CAPITOLO  XXIX 


§  12.  La  noctua  aquilina  (1)  detta  anche  verme  grigio,  bi- 
gatto, camporaiola,  cipolìare,  perchè  ghiotta  delle  foglie  di  cipolla, 
è  dannosissima  allo  stato  di  bruco  alle  viti,  di  cui  rode  i  teneri  ger- 
mogli attaccandoli  alla  loro  base.  Ha  colore  grigio  scuro,  e  quando 
assale  le  viti  ha  la  grossezza  di  un  baco  alla  4a  muta  con  16  zampe, 
di  cui  6  toraciche,  8  addominali  e  2  anali;  di  giorno  sta  nascosto  sotto 
terra,  la  sera  esce,  sale  sulla  vite  e  ne  fa  strage  durante  la  notte. 
La  noctua  è  pur  troppo  assai  nota  in  tutta  Italia,  massime  dal  1880 
in  qua,  avendo  recato  spesso  danni  assai  gravi.  Il  sig.  Ing,  G.  B.  Pel- 
legrino di  Boves  (Cuneo)  ha  studiato  con  molta  cura  i  mezzi  più 
adatti  per  liberare  i  vigneti  dalle  noctue,  ed  ecco  il  metodo  che  egli 
sin  qui  ritiene  preferibile. 

Ogni  giorno  egli  fa  percorrere  attentamente  da  ragazzi  tutti  i  fi- 
lari delle  'viti,  specie  nei  luoghi  più  infestati,  ed  appena  qualcuno  di 
essi  si  accorge  di  una  gemma  o  fogliolina  di  vite  intaccata  o  cor- 
rosa di  recente,  fa  tosto  ricerca  del  bruco  roditore,  il  quale  si 
trova  subito  scavando  con  un  bastoncino  la  terra  attorno  al  pedale 
delle  viti.  Il  sig.  Pellegrino  paga  i  bruchi  raccolti  in  ragione  di  uno 
o  due  centesimi  caduno;  così  i  ragazzi  ne  fanno  una  caccia  attivis- 
sima e  seria.  I  bruchi  raccolti  si  danno  ai  polli,  che  ne  sono  assai 
ghiotti.  Con  questo  sistema  egli  riuscì  a  salvare  le  proprie  vigne, 
che  prima  erano  gravemente  danneggiate  ogni  anno  dalle  noctue. 

§  13.  L'altica  man  già- viti  o  pulce  delle  viti  (2).  —  L'altica 
è  una  piccola  pulce  non  più  lunga  di  5  mm.,  di  figura  ovale,  di  co- 
lore totalmente  verde  o  bleu-verdastro,  assai  brillante  al  disopra  e 
verde  intensa  quasi  nera  al  disotto.  La  fig.  3-14  ce  la  rappresenta 
ingrandita  nonché  in  grossezza  naturale;  essa  si  mostra  in  principio 
di  primavera,  depone  le  uova,  e  le  larve  si  danno  tosto  a  cibarsi 
delle  foglie,  che  appariscono  poi  come  bucherellate  e  finiscono  per 
seccare;  l'altra  danneggia  anche  i  sarmenti  ed  i  picciuoli  dei  grap- 
poli. Cotali  larve  hanno  sei  zampe,  il  capo  molto  grosso  ed  il 
corpo,  che  è  composto  di  12  anelli,  va  sempre  decrescendo  di  dia- 
metro, cosicché  il  verme  pare  un  triangolo  a  punta  molto  acuta,  la 
cui  base  si  trova  dal  lato  della  testa.  Le  larve  subiscono  sulle  foglie 


(1)  Agrotis  fimbria,  L. 

(2)  Hallica  tmvpelophaga  Giiér.  —   //.  consobrina,  Foud. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED   ALL'  UVA  885 

stesse  le  [successive   trasformazioni    e    si    hanno  gli   insetti    perfetti 
(fig.  344)  in  agosto,  come  ha  osservato  il  Dì\  Dei. 


Fig,  344. 

Molti  viticultori  affermano  che  l'Altica  non  soggiorna  per  più  di 
tre  anni  in  un  vigneto"  e  lo  confermano  pure  valenti  studiosi  della 
entomologia;  spasso  basta  un  forte  colpo  dL  vento  per  farla  scompa- 
rire totalmente.  Gli  uccelli,  e  specialmente  le  pernici,  fanno  una  guerra 
micidiale  alle  altiche,  le  quali  per  di  più  hanno  i  loro  parassiti  in 
altri  insetti,  come  gli  icneumoni  e  la  cimice  blu  (pentatonici  cce- 
rulea)  che  sono  accanniti  distruttori  delle  Altiche  stesse.  La  loro 
raccolta  scuotendo  i  tralci  e  facendole  cadere  entro  recipienti,  è  molto 
facile,  perchè  questi  insetti,  appena  sentono  scosse,  sogliono  lasciarsi 
cadere;  con  tale  sistema  se  ne  distruggono  moltissime  e  quasi  se  ne 
libera  il  vigneto. 

§  14.  L7  Otiorinco  (1)  detto  ladrone  nell'Istria,  è  un  vorace 
nemico  delle  viti.  La  fìg.  345  ce  lo  mostra  molto  ingrandito,  ma 
a  destra  è  disegnato  l'insetto  in  grandezza  naturale.  È  lungo  da  10 
a  12  millimetri,  intieramente  nero  (2)  tanto  sopra  che  sotto,  colla 
testa  punteggiata  e  rivestita  di  piccoli  peli  fulvi;  anche  le  antenne 
hanno  una  pubescenza  di  ugual  colore.  Il  prototorace  è  coperto  di 
piccoli  tubercoli  rotondi,  i  quali  essendo  molto  fitti  gli  danno  come* 
un  apparenza  granulosa:  te  zampe  sono  nere  colle  coscie  rigonfie. 
L'Otiorinco  si  mostra  allo  stato  perfetto  quando  appunto  si  svi- 
luppano le  prime  cacciate  della  vite,  e  tosto  se  ne  pasce  avidamente, 


(1)  Othiorynchus  sulcatus.  Ve  ne  sono  molte  varietà  nel  vigneti  italiani  e  fran- 
cesi (0.  corruptor,   0.  armatus,  ecc.) 

(2)  Certe  varietà  hanno  invece  un  colore  grigiastro. 


886  CAPITOLO  XXIX 


cagionando  talvolta  gravissimi  danni,  poiché  rende  impossibile  ogni  pro- 
duzione d'uva.  Di  giorno  questo  insetto  sta  rannicchiato  o  nel  ter- 
terreno  o  nei  crepacci  della  corteccia;  la  sera  esce  e  si  dirige  verso 
le  gemme. 


Fig.  345. 

Per  dargli  la  caccia  taluno  ricorre  ai  tacchini,  che  ne  sono  ghiotti; 
altri  fanno  raccogliere  gli  insetti  dai  ragazzi,  dopo  aver  scalzata  legger- 
mente la  ceppaia  i  cui  getti  appariscono  danneggiati;  in  queste  piccole 
buche  si  è  certo  di  trovare  di  giorno  molti  otiorinchi  per  non  dire  tutti. 

§  15.  Il  Letro  (1).  È  uno  scarafaggio  (fig.  346)  assai  nocivo 
alle  viti,  noto  specialmente  in  Austria  ed  in  Ungheria  e  che  noi  ab- 
biamo riscontrato  anche  in  Monferrato;  è  lungo  20  mm.  circa,  largo 


lg.  346 


12,  di  color  nero:  è  notturno  e  crepuscolare  e  guasta  le  tenere  cac- 
ciate delle  viti.  Di  giorno  si  nasconde  nèr  suolo.  Pare  che  allo  stato 
di  larva  guasti  anche  le  radici. 

§  16.  La  Forbice  o  forfecchia  (2).  —  Insetto  notissimo  (fi- 

(1)  Lethrus  cephalotes,  Fab. 

(2)  Forficula  auricularia,   Lin. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'  UVA 


gura  347)  che  abbiamo  incontrato  spesso  nei  vigneti  del  Monferrato; 
ma  i  suoi  guasti  si  rilucono  a  poca  cosa,  e  forse  è  più  utile  che 
nocivo  perchè  si  ciba  di  acari  ed   altri    insetti   minuti   che   incontra 


Fig.  347. 


sulle  viti  e  sugli  alberi  da  frutta  in  genere.  Il  Prof.  Targioni-To- 
setti  dice  che  se  ne  possono  prendere  molte,  volendosi  distruggerle 
«  mettendo,  là  dove  capitano,  dei  cannelli  di  canna  o  dei  rami  di  sam- 
buco vuotati  dal  midollo  o  dei  tubi  di  carta  »  perchè  le  forfecchie 
di  giorno  corrono  volentieri  a  nascondervisi  dentro. 

§  17.  L'  Hoplophora  arctata.  —  È  questo  un  acaro  (pag.  858) 
che  si  trova  non  di  rado  sulle  radici  delle  viti,  e  che  ci  è  rappresentato 
dalla  fig.  348;  ha  color  bruno  ed  il  corpo  protetto  come  da  una  specie 
di  astuccio,  colla  testa  munita  d'uno  scudetto  che  può  entrare  nel- 
l'astuccio stesso;  se  si  presenta  un  pericolo,  l'acaro  nasconde  la  testa 


Fig.  348. 


e  le  altre  parti  del  corpo  nell'astuccio.  L'aver  trovato  la  Hoplophora 
su  radici  fillosserate  ha  fatto  credere  che  essa  fosse  un  parassita 
della  fillossera  stessa,  essendo  noto  che  gli  acari  in  generale  vivono 
quali  parassiti  su  altri  insetti,  nonché  sugli  animali  superiori  e  su 
molte  sostanze  alimentari  (1);  ciò  però  è  contradetto  oggi  da  molti 


(1)  Sono  noti  ad  esempio  gli  acari  della  pelle  dell'uomo  (sarcoptes  scabiei)  d'onde 
la  scabbia  o  rogna,  quelli  dei  polli,  quelli  degli  scarafaggi,  quelli  del  formaggio 
(acarus  siro)  ecc. 


883  CAPITOLOJXXIX 


naturalisti.  Il  Negri  (1)  trovò  le  Hoplophore  sulle  radici  fillosserate 
prese  a  Valmadrera,  ma  non  gli  risultò  che  fossero  là  quali  paras- 
siti delle  fillossere,  ed  il  Dr.  Moritz  (2)  afferma  di  aver  più  volte 
trovato  1'  Hoplophora  su  radici  di  viti  assolutamente  non  fillosserate. 
Certo  è  però  che  si  trova  sempre  su  radici  di  piante  ammalate. 

§  18.  L'aiiguillula  radicicola  (3).  —  È  questo  un  vermiciat- 
tolo microscopico  appartenente  ai  filiformi  o  Nematodi,  che  determina 
sulle  radici  delle  viti  dei  rigonfiamenti  i  quali,  per  gli  osservatori 
poco  esperti,  possono  confondersi  con  quelli  della  fillossera  descritti 
a  pag.  849.  —  Abbiamo  già  detto  che  in  Italia  la  scoperta  dell'ari - 
guillula  si  deve  ai  Dolt.  Belletti  e  Saccardo  (4)  i  quali  fecero  le 
loro  osservazioni  sovra  viti  europee  di  Alano  di  Piave  (Feltre);  il 
Prof.  Licopoli  la  trovò  egli  pure  sulle  radici  d'una  vite  americana, 
Isabella,  nei  dintorni  di  Napoli;  altri  osservatori  la  trovarono  pure 
in  Portogallo.  La  fig.  349  ci  mostra  le  anguillule  libere  ed  in  pieno 


Fio-.  349. 


sviluppo  secondo  i  disegni  dei  prefati  signori  Belletti  e  Saccardo; 
«  il  corpo  ne  è  cilindrico,  ottusamente  attenuato  in  ambe  le  estre- 
mità, bianco  -gialliccio,  segnato  di  fine  strie  trasversali:  ad  una  estre- 
mità mostra  una  specie  di  rima  od  orificio  boccale.  »  Gli  stessi 
naturalisti  osservarono  anche  un  individuo  munito  di  un  sottile  e 
breve  pungiglione  ad  una  estremità  (forse  il  maschio  sessuato):  la 
lunghezza  delle  maggiori  anguillule  misurò  250  micro -millimetri  (ossia 
millesimi  di  millimetro),  e  la  larghezza  da  15  a  18  microm.  —  La 
fig.  350  A  ci  mostra  una  radice  affetta  dall'anguillula  di  Greefàise- 


(1)  Giornale  Vinicolo  Italiano,  1879,  pag.  578. 

(2)  Die  Weinbereitung,  von  Dalhen,  pag.  210. 

(3)  Anguillula  radicicola,  Greef. 

(4)  Atti  del  R.  Istituto  Veneto  di  scienze,  lettere  ed  arti.  Tornata  del  27  feb- 
braio 1881. 


INSETTI  DANNOSI  ALLE  VITI  ED  ALL'UVA 


889 


gnata  in  grandezza  naturale  dai  suddetti  osservatori;  essa  presenta  alle 
estremità  delle  radichette,  o  più  di  rado  nella  loro  lunghezza,  «  dei  ri- 
gonfiamenti B  oblunghi,  fusiformi  o  variamente  bitorzoluti,  con  cor- 
teccia abbrunata  e  spesso  sfogliantesi  a  fette:  detti  rigonfiamenti  sono 
carnosi  e  sodetti;  solo  più  tardi,  in  seguito  alle  moltiplicate  caverne  an- 
guillifere  si  fanno  più  cedevoli  e  finalmente  si  putrefanno.  Non  manca 
qualche  rigonfiamento  leggermente  inarcato,  per  cui  in  complesso  non 


Fìg.  SSO 


piccola  è  la  somiglianza  di  queste  radici  con  quelle  fìllosserate,  special- 
mente allorché  queste  ultime  siano  nello  stadio  più  avanzato  e  quindi 
abbrunate.  »  Facendo  una  sezione  sovra  un  rigonfiamento  anguilli- 
fero  si  vedono  come  delle  caverne;  ogni  caverna  contiene  una  ve- 
scichetta o  cisti  che  ne  riempie  totalmente  le  cavità:  le  cisti  aga- 
miche (senza  sessi)  contengono  parecchie  decine  d'uova,  da  cui  hanno 
origine  le  anguillule,  che  più  tardi,  ingrandendo,  erompono  dal  guscio; 


890  CAPITOLO  XXIX 


le  cisti  sessuate  contengono  una  sola  anguillula  variamente  ripiegata 
sopra  sé  stessa,  dalle  cui  segmentazioni  si  originano  poi  delle  uova, 
secondo  Licopoli  e  Mailer.  Chi  desiderasse  maggiori  dettagli  legga 
la  interessante  memoria  sovracitata  dei  Doti.  Bellati  e  Saccardo: 
qui  dobbiamo  limitarci  a  notare  che  queste  anguillule  cagionano  un 
grave  deperimento  nelle  viti:  (maggiore  forse  nelle  viti  europee  che 
non  nelle  americane)  seguito  dalla  morte  delle  ceppaie  affette  nello 
spazio  di  non  molti  anni.  Sin'ora  nessuno  ha  proposto  rimedii;  qual- 
cuno ha  esperimentato  il  ripiantamento  con  propaggini,  ma  anche 
queste  nuove  piante  perirono,  mostrando  alcuni  rigonfiamenti  sulle 
radici.  A  nostro  avviso  prima  di  ripiantare  bisognerebbe  trattare 
la  terra  del  vigneto  col  debbio,  che  abbiamo  descritto  a  pag.  461, 
per  purgarla. 

§  19.  1/  Erineo  (1).  —  È  un  acaro  microscopico  che  produce 
sulle  foglie  delle  viti  quella  alterazione  che  è  chiamata  Brinosi  o 
Fitoptosi.  Ne  parleremo  al  Capitolo  seguente  (a  pag.  895). 


(1)  Erineum  vitis  o  Pltyluptus  vilis  di   Dujardin. 


CAPITOLO  XXX 


Crittogame    della   Vite. 


I.  Spiegazione  di  alcuni  termini  più  comuni  di  botanica  crittogamica  —  §  2.  La 
peronospora  viticola.  Sinonimi  e  origine.  Fenomeni  esterni  della  malattia  — 
§  3.  Idee  generali  sullo  sviluppo  della  peronospora  —  §  4  Trattamenti  cura- 
tivi o  preventivi  —  §  5.  Oidio  —  §  6.  Antracnosi  —  §  7.  Marciume  delle  ra- 
dici —  §  8.  Mal  nero  —  §  9.  Giallume  —  §  10.  Ultime  teorie  sulla  natura 
del  giallume,  del  mal  nero  e  dell'antracnosi  —  §11.  Altre  crittogame  della 
vite. 


§  1.  Spiegazione  di  alcuni  termini  più  comuni  di  bota- 
nica crittogamica.  —  Volendo  dare  un'idea,  anche  nel  modo  più 
breve,  delle  diverse  malattie  causate  alle  viti  da  parassiti  vegetali 
non  potremo  esimerci  dall'adoperare  alcuni  termini  proprii  della  bo- 
tanica crittogamica.  Ora,  siccome  tale  scienza  non  è  famigliare  che 
a  pochi,  crediamo  utile  far  precedere  alla  breve  descrizione  che  da- 
remo della  peronospora,  dell'antracnosi  ecc.  la  spiegazione  dei  ter- 
mini botanici  che  saremo  costretti  ad  usare.  Ci  limiteremo  ai  più  ge- 
nerali, quelli  che  il  viticultore  da  qualche  anno  si  è  abituato  a  leg- 
gere anche  nelle  pubblicazioni  popolari,  nei  fogli  agricoli  e  nelle 
relazioni  di  congressi  sulle  malattie  della  vite. 

I  botanici  chiamano  funghi  o  miceti  certe  piante  le  quali  non  conte- 
nendo clorofilla  (pag.  135)  sono  incapaci  di  elaborarsi  il  nutrimento,  di 
produrre  cioè  la  sostanza  organica,  e  vivono  quindi  a  spese  di  sostanze 
organiche  già  elaborate.  I  funghi  non  hanno  né  foglie,  né  tronco, 
né  radici;  in  essi  si  distinguono  solo  gli  organi  della    vegetazione 


892  CAPITOLO  XXX 


e  quelli  della  riproduzione.  Questi  organi  sono  sempre  distinti,  ec- 
cetto in  alcune  produzioni  di  natura  dubbiosa  (1). 

Micelio  chiamasi  il  complesso  degli  organi  della  vegetazione. 

Ifi  diconsi  i  filamenti  più  o  meno  ramificati  di  cui  si  compone  il 
micelio.  Essi  si  presentano  in  diversi  modi.  Nelle  peronosporee  ad  es. 
penetrano  nel  parenchima  della  pianta  a  spese  della  quale  il  fungo 
vive,  e  traforano  le  membrane  delle  cellule  dando  origine  a  dei  suc- 
chiatoi. 

Garpofori  sono  gli  organi  riproduttori  dei  funghi.  Essi  sorgono 
dal  micelio  e  portano  le  spore  o  le  loro  cellule  madri.  Nelle  pero- 
nosporee i  carpofori  sono  formati  dalle  ramificazioni  del  micelio  me- 
desimo. In  questo  caso  son  chiamati  ifi  fruttiferi. 

Spore  diconsi  i  semi  dei  funghi.  Le  cellule  madri  in  cui  si  gene- 
rano le  spore  diconsi  basidi  se  le  portano  all'  esterno,  ascili  se  le 
portano  all'interno. 

Peritecci  o  pireni  si  chiamano  quei  ricettacoli  o  pozzette  anfori- 
formi  o  sferoidali  che  contengono  le  cellule  sporigene,  come  nella 
sotto  classe  dei  pirenomiceti. 

Gonidii  chiamansi  le  spore  generate  dai  basidi  in  diverse  sotto 
classi,  tra  cui  quella  degli  ifomiceti  a  cui  appartengono  le  perono- 
sporee. I  conidii  trovansi  air  apice  del  prolungamento  tubolato  dei 
basidi. 

Sterimmi  sono  piccoli  prolungamenti  tubolati  che  si  svolgono  al- 
l'estremità dei  basidi,  i  quali  non  tardano  a  gonfiarsi  e  a  dar  ori- 
gine ad  una  spora. 

Oogonii  ed  anteridii.  I  primi  sono  gli  organi  femminei,  gli  altri  gli 
organi  maschili,  in  quei  funghi  che  presentano  la  riproduzione  ses- 
suale (Saprolegniee,  peronosporee  ed  alcuni  ascomiceti,  come  ad  es. 
nelle  Erysiphej. 

Oospore  sono  il  frutto  della  fecondazione  tra  oogonii  e  anteridii. 
Sono  cioè  semi  fecondi  che  riprodurranno  il  parassita. 

§  2.  La  peronospora  viticola.  Sinonimi  e  origine.  Feno- 
meni esterni  della  malattia.  —  Col  nome  di  peronospora  si  chiama 
da  tutti  la  malattia  ben  nota  che  tanti  danni  recò  alle  viti  in  queste 
ultime  annate  viticole;  il  nome  di  peronospora  è  divenuto  popolare  come 
quello  della  crittogama  e  della  fillossera.  Ma  la  parola  non  indica 


(1)  Come  per  es.  i  fungili  dei  fermenti.  V.  Ardissone.  /  funghi,  Milano  1875. 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  893 

se  non  il  nome  del  fungo  che  cagiona  la  malattia,  mentre  questa  chia- 
masi nebbia,  traduzione  del  vocabolo  inglese  mildew  (pron.  mildiù) 
datole  dagli  Americani.  La  malattia  ha  poi  diversi  nomi  volgari,  come 
quello  di  braserà  in  qualche  dialetto  dell'  Alta  Italia,  di  san  scald 
(colpo  di  sole)  nel  Missouri,  e  secondo  il  Reich,  il  quale  ammette 
che  la  peronospora  esista  da  lungo  tempo  in  Germania  e  in  Svizzera, 
la  malattia  porta  in  questi  paesi  il  nome  di  rugiada  di  farina 
(mehl-tbau).  Contrariamente  al  Reich  al  Pulliat  ed  al  Mendola  si 
ammette  per  altro  dai  più  (De  Banj,  Cornu,  Pirotta,  Farlow 
Thiìmen,  ecc.)  che  la  peronospora  sia  d'origine  americana  e  che  la 
sua  importazione  in  Europa  sia  recente. 

La  peronospora  viticola  è  un  fungo  appartenente  alla  famiglia  delle 
peronosporee;  esso  si  sviluppa  su  tutti  gli  organi  verdi  della  vite, 
ma  specialmente  sulle  foglie.  Tra  i  tessuti  di  queste  il  micelio  di 
essa  s'interna  sotto  forma  di  tubetto  sottilissimo  munito  di  succhiatoi, 
che  vi  assorbono  i  liquidi  da  esse  preparato,  e  ciò  è  causa  della  di- 
sorganizzazione e  distruzione  del  tessuto  delle  foglie  stesse.  Distrutta 
la  foglia,  che  oltre  ad  essere  l'organo  respiratorio  della  pianta  è  nella 
vite  il  magazzeno  dove  si  preparano  i  succhi  zuccherini  che  devono 
passare  nel  grappolo,  si  capisce  quanto  danno  ne  abbia  a  risentire 
la  pianta.  Maturata  assai  imperfettamente  1'  uva,  la  quale  esposta 
d'improvviso  al  sole  va  incontro  pure  alla  scottatura,  si  ottiene  un 
vino  mancante  d'alcool,  di  colore  e  poco  conservabile;  ma  v'  ha  di 
più:  l'alterazione  delle  foglie  impedisce  la  perfetta  maturazione  del 
legno  e  delle  gemme,  cosichè  il  male  non  si  limita  all'annata  dell'in- 
fezione, ma  fa  risentire  l'azione  sua  anche  nell'annata  seguente. 

La  presenza  della  peronospora  nelle  foglie  si  rileva  ai  seguenti 
segni  esterni:  nella  pagina  inferiore  delle  foglie  si  vedono  piccoli 
ciuffi  d'un  bianco  lattiginoso,  madreperlaceo,  isolati  o  confluenti  e  più 
o  meno  condensati,  che  rassomigliano  a  concrezioni  saline,  a  muc- 
chietti  di  zucchero  finamente  polverizzato  (v.  Tavola  IV  fìg.  colo- 
rata 1  B)  (1).  Avanzando  la  stagione  il  colore  brillante  di  quella 
specie  d'efflorescenza  sparisce  e  subentra  un  bianco  grigiastro.  Questi 


(1)  Queste  figure  colorate  sono  riprodotte  dagli  Atti  delle  Riunioni  viticole  della 
Società  d' Agricoli  dell' Hérault  (marzo  1884):  relazione  dei  sigg.  Foex  e  Viala. 
Dobbiamo  avvertire  che  non  ostante  le  molte  prove  fatte,  le  tinte  sono  riuscita 
alquanto  cariche,  come  del  resto  anche  nel  disegno  dei  sigg.  Foex  e  Viala;  ciò 
però  non  impedirà  che  il  lettore  si  faccia  una  esatta  idea  della  foglia  peronosporata, 


894  CAPITOLO  XXX 


fenomeni  si  presentano  sulla  pagina  inferiore  delle  foglie,  ri- 
spettando il  peziolo  e  le  nervature.  Non  è  che  in  casi  eccezionali 
che  essi  si  notarono  sulla  pagina  superiore,  occupando  il  peziolo  e  le 
nervature  per  intiero  (1).  Nei  casi  normali  sulla  pagina  superiore 
si  notano  macchie  non  prominenti,  dapprima  giallo  pallide,  ma  che 
prendono  poi  un  colore  rosso  bruno  carico,  sempre  più  oscuro  pro- 
gredendo 1'  efflorescenza  alla  pagina  inferiore.  Queste  macchie  sono 
precisamente  nei  punti  che  corrispondono  ai  ciuffi  nella  superficie 
opposta  (v.  Tavola  IV  fig.  I  A).  Continuando  lo  sviluppo  del  fungo 
le  macchie  della  pagina  superiore  si  fanno  confluenti  e  la  occupano 
completamente,  mentre  alla  sua  volta  la  faccia  inferiore  è  affatto  in- 
vasa dalle  efflorescenze  bianche;  in  tal  modo  la  foglia  vien  distrutta 
e  cade. 

Ma  non  sempre  la  peronospora  trova  nell'atmosfera  le  condizioni 
propizie  per  la  sua  fruttificazione;  sopravvenendo  ad  esempio  molti 
giorni  caldi  e  secchi  le  macchie  cessano  dall'estendersi;  allora  la  parte 
alterata  del  tessuto  cellulare  della  foglia  si  dissecca  talvolta,  e  si  di- 
stacca, lasciando  un  foro  contornato  di  un'aureola  bruna.  Dove  il 
tessuto  alterato  persiste  si  vedono  sulle  foglie  piccole  macchie  brune 
le  quali  imprimono  alle  foglie  un  aspetto  caratteristico  (v.  tavola  IV 
fig-  2). 

La  peronospora,  trovando  1'  umidità  e  il  calore  necessarii  al  suo 
completo  sviluppo,  può  passare  dalle  foglie  ai  viticci,  ai  rami  verdi 
e  ai  grappoli,  ove  produce  delle  piccole  chiazze  brune  da  non  con- 
fondersi colle  lesioni  dell'antracnosi  che  sono  più  profonde.  I  fenomeni 
che  possonsi  presentarsi  in  questo  caso  son  varii  e  terminano  col 
completo  disseccamento  del  grappolo.  Ma  è  raro  che  la  malattia 
giunga  sino  a  questa  fase  (2). 

La  peronospora  può,  per  un  osservatore  inesperto,  essere  confusa  con 
altre  malattie  della  vite.  Quando  le  macchie  della  pagina  superiore 
sono  isolate  ed  il  loro  colore  si  è  fatto  marcato,  esse  possono  erro- 
neamente venir  attribuite  alla  scottatura  ed  anche  al  giallume.  Ve- 
dremo fra  poco  i  caratteri  distintivi  del  giallume,  e  frattanto  notiamo 
che  vi  è  sempre  la  presenza  delle  efflorescenze  bianche  nella  pagina  in- 


(1)  Devesi  pure  considerare  come  caso  eccezionale  il  fatto  che  alle  macchie  della 
pagina  superiore  delle  foglie  peronosporate  non  corrispondano  nella  faccia  infe- 
riore le  descritte  efflorescenze  bianche. 

(2)  V.  Atti  del  I  Congresso  per  le  malattie  della  vite.  Milano,  pag.  133. 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  895 

leriore  bastevole  a  togliere  ogni  dubbio.  Un  esame  attento  delle  foglie, 
anche  coli' aiuto  d'una  lente,  giova  a  stabilire  la  presenza  o  meno 
della  peronospora  quando  le  intaccature  e  le  macchie  dei  tralci  si 
assomigliano  a  quelle  dell'antracnosi,  cosa  che,  come  vedemmo,  si  ve- 
rifica. Ma  la  confusione  che  si  fa  più  comunemente  è  quella  della  pe- 
ronospora GOÌYerinosi  o  fitoptosi,  alterazione  piuttosto  che  malattia, 
prodotta  dalla  puntura  d'un  acaro  e  della  quale  poco  dobbiamo  im- 
pensierirci. Segno  caratteristico  dell'erinosi  è  la  presenza  nella  pagina 
superiore  di  galle  piuttosto  larghe  che  non  si  riscontrano  nella  pe- 
ronospora. Nella  pagina  inferiore  delle  foglie,  e  precisamente  nelle 
concavità  formate  dalle  galle,  si  sviluppa  uno  strato  di  peli  fittissimi. 
Questi  sono  da  principio  d'un  bianco  brillante,  ed  è  questo  il  momento 
in  cui  è  possibile  confonderli  colle  efflorescenze  bianche  della  pero- 
nospora; ma  esse  non  hanno  mai  l'aspetto  lattiginoso  di  queste  ul- 
time, e  poi  sono  aderenti  alle  foglie  stesse,  per  cui  non  è  possibile, 
fregando  leggermente,  separameli.  All'  incontro  i  filamenti  della  pe- 
ronospora si  distaccano  facilmente,  e  dalle  foglie,  anche  legger- 
mente scosse,  piove  un  pulciscolo  bianco  (1).  Coli' andar  del  tempo 
nell'erinosi  i  peli  delle  galle  prendono  una  tinta  rossastra,  la  quale 
si  fa  sempre  più  spiccata,  ed  allora  l' equivoco  non  è  più  possi- 
bile. Infine  la  peronospora  non  offre  rigonfiamenti  alla  pagina  su- 
periore mentre  1'  erinosi  ha  le  galle  che  hanno  in  media  un  cen- 
timetro di  diametro.  Altre  crittogame  parassite  di  pochissima  impor- 
tanza presentano  nelle  foglie  effetti  simili  a  quelli  della  peronospora, 
ma,  come  vedremo  al  §  11,  esse  non  si  manifestano  in  generale  che 
a  stagione  avanzatissima. 

§  3.  Idee  generali  sullo  sviluppo  della  peronospora.  —  Il 

micelio,  ossia  i  tubetti  dei  fungo,  che  si  sono  sviluppati  nell'interno 
della  foglia,  durante  l'estate  passano  alla  fruttificazione.  Essi  emettono 
ifi  o  filamenti  i  quali  escono  all'esterno  della  foglia  dagli  stomi,  cioè 
da  quelle  piccolissime  aperture  che  si  trovano  nella  pagina  inferiore 
delle  foglie  stesse.  Questi  filamenti  usciti  all'  aperto  si  ramificano  e 
costituiscono  la  nota  efflorescenza  bianca  (Tav.  Ili,  fig.  1,  ove  ve- 
donsi  appunto  i  filamenti  conidiofori  che  escono  da  uno  stoma;  il 
filamento  fruttifero  del  centro  porta  dei  mazzi  di  spore  o  conidii  b  b 
fissati  sugli  sterirnmi  all'estremità  delle  ramificazioni  e  e:  in  a  è  in- 


(1)  P.  Viala.   Oìdium,  erineum,  mildiou.  Progrès  agricole  et  vinicole,   1884. 


896  CAPITOLO  XXX 


dicato  un  tramezzo  cellulosico  che  si  trova  generalmente  al  disotto 
delle  ramificazioni  del  filamento:  ingrandimento  500  volte).  Si  noti 
che  noi  non  ci  accorgiamo  generalmente  della  malattia  se  non  al- 
l'epoca della  fruttificazione  del  fungo,  quando  questo  ha  già  danneg- 
giato non  poco  la  pianta.  E  e  osi  anche  nel  caso  da  noi  già  ammesso 
che  la  fruttificazione  non  avvenga  e  l'efflorescenza  bianca  quindi  non 
si  presenti,  la  vite  ne  risente  danno  egualmente.  Questo  caso,  quan- 
tunque raro,  è  stato  osservato  da  parecchi  (1). 

I  filamenti  fruttiferi  hanno,  quando  la  loro  ramificazione  è  com- 
pletata, più  branche  primarie,  secondarie  e  terziarie.  La  loro  som- 
mità termina  come  già  dicemmo  in  uno  sterimma  (V.  Tav.  IH, 
fìg.  1  e  e),  il  quale,  siccome  si  sa,  porta  i  semi.  Il  protoplasma  si 
va  sempre  concentrando  verso  la  sommità  delle  estreme  diramazioni, 
ed  ivi  serve  alla  formazione  dei  corpi  riproduttori. 

Bisogna  distinguere,  nell'  accennare  alla  fruttificazione  della  pero- 
nospora,  le  sementi  d'estate  da  quelle  d'inverno.  Le  sementi  d'estate 
(dette  conidii  o  spore)  si  formano  all'  estremità  dei  filamenti  frutti- 
feri. Nella  Tav.  Ili,  la  fìg.  2  mostra  dei  conidii  distaccati:  a  forme 
più  comuni,  b  forme  trovate  sulle  foglie  cotiledonari  di  giovani  viti 
provenienti  da  seme:  la  fig.  3  mostra  in  a  un  conidio  proveniente 
da  foglia  tenuta  sotto  campana  durante  più  giorni  e  con  abbondan- 
dantissime  efflorescenze:  b  forma  molto  frequente,  più  spessa  al  punto 
d'attacco:  e  forma  più  rara  trovata  in  autunno  da  Foéoo  e  Viala: 
la  fig.  4  mostra  un  filamento  fruttìfero  con  una  ramificazione  por- 
tante spore  in  formazione,  sferiche,  ingrandite  500  volte.  Questi  co- 
nidii subiscono  diverse  trasformazioni  sino  ad  assumere  la  forma  di 
piccola  pera  (fìg.  2,  a).  La  fig.  5  mostra  un  gruppo  di  spore  uscenti 
direttamente  da  uno  stoma,  alcune  sovra  un  filamento  sottile,  altre  ses- 
sili, altre  emergenti  solo  in  parte:  quando  sono  bene  sviluppate  si  vede 
sempre  nettamente  il  tramezzo  che  le  separa  dal  filamento.  Questi  gruppi 
si  osservano  specialmente  in  autunno,  quando  scarseggia  Y  umidità. 
Le  fig.  6  e  7  mostrano  degli  acini  d'  uva  attaccati  dalla  perono- 
spora  senza  fruttificazioni  esterne.  La  fig.  8  infine  mostra  un  fila- 
mento di  micelio  della  polpa  dell'acino. 

Ritornando  ora  alle  spore  estive  completamente  sviluppate,  diremo 
che  presto  alla  loro  base  si  forma  un  tramezzo;  i  conidii  si  distac- 


(1)  Dal  Prof.   V.  Sini  in  Italia  {Giornale  Vinicolo  1885,  pag.  43)  e  dal  signor 
P.    Viala  in  Francia  (Lev  maladies  de  la  vigne,  Montpellier  1885). 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  897 

cano  ed  essendo  leggerissimi,  infinitamente  piccoli  e  in  numero  stra- 
grande, trasportati  dal  vento  diffondono  il  parassita  durante  l'estate 
portando  il  malanno  su  altre  piante,  ove  germinano  e  riproducono 
il  micelio  da  cui  ebbero  origine. 

La  germinazione  di  queste  spore  è  rapidissima;  se  cadono  in  una 
goccia  d' acqua  deposta  sulla  foglia  e  se  la  temperatura  raggiunge 
i  20°  o  i  24°  Réaumur,  si  svolgono  prontamente  e  si  allungano 
poco  a  poco  nel  noto  tubetto,  che  traversando  1'  epidermide  della 
foglia  vi  penetra  dentro.  Però  la  loro  vitalità  non  è  di  grande  du- 
rata; in  un  ambiente  secco  si  disseccano  e  muoiono;  muoiono  nel- 
r  autunno  e  quindi  non  si  possono  più  riprodurre  nell'  annata 
seguente. 

Ma  se  i  conidii  sono  incapaci  di  perpetuare  da  un  anno  all'  altro 
la  peronospora,  v'hanno  in  compenso  nuove  spore  che  formansi  alla 
fine  della  stagione,  e  talvolta  anche  in  estate,  le  quali  assai  bene 
adempiono  a  quest'ufficio.  Sui  tubetti  del  micelio  che  trovansi  entro 
la  foglia  si  formano  dei  rigonfiamenti  quasi  sferici,  relativamente 
grossi  e  pieni  di  protoplasma  granuloso;  essi  costituiscono  gli  organi 
femminei  od  oogonii  (generatori  dell'uovo).  Vicino  ad  essi  si  formano 
dei  corpi  piccoli,  irregolari  nella  forma,  anch'essi  pieni  di  protoplasma 
granuloso,  e  che  si  separano  con  un  tramezzo  dal  tubo  che  li  porta. 
Sono  gli  organi  maschili  o  anteridii,  i  quali  adossandosi  poco  a  poco 
agli  organi  femminei  finiscono  per  congiungersi  ad  essi,  unire  il  loro 
protoplasma  e  produrre  così  la  fecondazione,  frutto  della  quale  è  la 
così  detta  spora  d'inverno,  uovo,  od  anche  oospora.  L'oospora  è  due 
o  tre  volte  più  grossa  dei  conidii  ed  è  rivestita  d'una  doppia  membrana 
assai  resistente,  destinata  a  difendere  l'interno  dalle  cause  nemiche. 
Le  oospore  stanno  sempre  neW  mterno  della  foglia,  nei  tessuti 
della  pagina  superiore:  si  possono  trovare  fuori  della  foglia  soltanto 
per  eccezione.  Si  chiamano  spore  d' inverno  perchè  sono  destinate 
a  passare  questa  stagione  per  riprodurre  poi  il  parassita  nella  pri- 
mavera successiva. 

Non  ci  diffondiamo  a  descrivere  il  modo  di  germinare  delie  spore 
invernali,  come  abbiam  fatto  per  le  estive,  non  essendo  esso  ancora 
ben  conosciuto. 

Passiamo  ora  a  considerare  le  condizioni  di  sviluppo  della  peronospora. 

Le  due  principali  sono  l'umidità  e  il  calore  :  perchè  il  fungo  ger- 
mini la  temperatura  deve  aver  raggiunto  i  20°- 25°  C.  Ma  unita- 
mente al  calore  vi  dev'  essere  un'  abbondante  umidità.  Siccome  non 
0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  58 


898  CAPITOLO  XXX 


è  facile  che  queste  due  condizioni  si  trovino  riunite,  si  spiega  così 
la  causa  di  certe  apparizioni  irregolari  della  peronospora.  La  ger- 
minazione del  fungo  sarebbe  possibile  anche  a  temperatura  minore, 
ma  camminerebbe  lentamente  assai.  Un  rapido  abbassamento  di  tem- 
peratura non  uccide  il  fungo,  ma  ne  arresta  lo  sviluppo  sino  a  che 
non  torni  la  temperatura  propizia.  Durante  una  stagione  asciutta, 
sotto  l'azione  d'un  vento  secco,  le  spore  estive  si  disseccano  e  muo- 
iono: le  spore  invernali  però  resistono  all'  asciutto,  come  al  freddo 
più  intenso  delle  regioni  in  cui  si  coltiva  la  vite.  L'  umidità  oppor- 
tuna per  lo  sviluppo  della  peronospora  non  è  quella  che  forma  lo 
stato  igrometrico  dell'aria,  ma  l'umidità  in  acqua  precipitata  (1), 
come  quella  ad  esempio  che  risulta  dalla  rugiada.  Ciò  spiega  come 
i  ripari  forniti  da  muri  o  da  spalliere,  impedendo  la  formazione 
della  rugiada  sulle  foglie,  preservino  le  viti  dall'  invasione.  Queste 
osservazioni  furono  fatte  specialmente  dagli  Americani,  i  quali  già  ave- 
vano notato  che  nelle  viti  coltivate  in  città,  nei  giardini,  non  si  pre- 
sentava peronospora,  ed  il  sig.  Meissner  al  Congresso  internazionale 
di  Bordeaux  del  1881,  disse  che  non  si  sapeva  dar  ragione  di  ciò  (2). 
La  ragione  sta  assai  probabilmente  nei  ripari  che  più  numerosi  si 
presentano  alla  vite  coltivata  in  città.  Ma  questi  ripari  si  oppongono 
anche  molto  alla  disseminazione  nei  conidii,  e  noi  in  Italia  abbiamo 
osservazioni  di  Negri,  di  G crini  e  di  Cettolini  da  cui  risulta  che 
le  viti  maritate  ad  alberi  vivi,  o  sotto  un  riparo  qualunque,  resi- 
stono alla  peronospora  più  di  quelle  completamente  specializzate. 

Per  conchiudere,  diremo  che  anche  i  venti  marini  caldi  ed  umidi 
sono  favorevolissimi  allo  sviluppo  della  peronospora,  e  ricorde- 
remo che  le  esperienze  fatte  dal  Negri  nel  1880  provarono  come  il 
vento  che  a  noi  porta  la  peronospora  è  quello  di  SO. 

§  4.  Trattamenti  preventivi  e  curativi.  —  Premettiamo 
che  il  vero  infallibile  rimedio  contro  la  peronospora,  come  lo  zolfo 
per  l'oidio,  non  s'è  ancora  trovato.  La  difficoltà  a  trovare  una  so- 
stanza che  distrugga  il  fungo  senza  danneggiare  la  pianta  sta  in  ciò: 
1.)  che  il  micelio  pare  sia  più  resistente  della  foglia  stessa  agli  agenti 
distruttori;  2.)  che  questo  micelio  vive  nell'interno  dei  tessuti,  e  che 
quindi  non  basta  distruggere  gli  organi  esteriori  (efflorescenza  bianca) 


(1)  P.  Viala,  op.  cit.  p.  30. 

(2)  V.  Giornale   Vinicolo,   1882,  pag.  83. 


CRITTOGAME  DELLA  VITE 


i  quali  si  riprodurrebbero  dopo  pochi  giorni.  Ci  vorrebbe  adunque 
un  rimedio  che  agisse  lentamente  e  a  cui  la  foglia  fosse  refrattaria; 
3.)  Che  d'  altronde  è  cosa  molto  diffìcile  nella  pratica  toccare  cogli 
agenti  distruttori  la  pagina  inferiore  in  tutti  i  suoi  punti  e  penetrare 
neh'  interno  della  foglia;  4.)  Infine  che  quando  ci  avvediamo  della 
presenza  del  fungo  dall'efflorescenza  bianca,  la  malattia  è  già  svilup- 
pata ed  ha  già  prodotto  i  suoi  tristi  effetti. 

Passiamo  sopra  quindi  ai  numerosissimi  sistemi  curativi  proposti 
in  questi  ultimi  anni,  e  ricordiamone  solo  alcuni  tra  quelli  che  par- 
vero dare  migliori  risultati. 

A)  Metodo  Gazzotti.  Spruzzare  la  pagina  inferiore  delle  foglie 
con  una  soluzione  acquosa  di  carbonato  sodico  nella  proporzione  dal 
2  al  3  di  carbonato  per  100  d'acqua. 

BJ  Metodo  Cettolini.  Spruzzare  con  una  soluzione  acquosa  di 
soda  caustica  del  commercio.  (0,5  all'  1  0[q).  Per  questi  due  metodi 


serve  bene  la  pompetta  irroratrice  dell'Agenzia  Enologica  di  Milano 
oppure  il  polverizzatore  Pillon,  che  si  trova  presso  lo  Stabilimento 
Agrario  di  Enrico  Barbero  in  Torino.  La  pompetta  irroratrice  (fìg.  351) 


900 


CAPITOLO  XXX 


è  un  recipiente  di  latta  che  l'operaio  si  fissa  alla  cintura;  esso  è  munito 
d'una  pompa  ad  aria,  messa  facilmente  in  moto  mercè  un  bottone  che 
si  vede  nel  disegno:  la  manovra  è  semplicissima.  La  macchinetta  costa 
L.  13,50.  Il  polverizzatore  Pillon  (fig.  352)  consta  di  una  sfera  vuota 


di  ottone,  della  capacità  di  25  centilitri,  posta  al'estremità  di  un  sof- 
fietto; ad  ogni  movimento  del  soffietto  la  soluzione  caustica  o  altro 
liquido  vengono  lanciate  contro  le  viti  sotto  forma  di  finissima  pol- 
vere: la  capacità  della  boccia  è  sufficiente  per  300  innaffiamenti: 
questa  macchinetta  costa  L.  7,50  imballaggio  compreso. 

C)  Metodo  Foéx.  Di  tutti  i  rimedii  provati  alla  Scuola  di  Mont- 
pellier quello  che  diede  migliori  risultati  è  1'  uso  della  soluzione  di 
acido  fenico  in  acqua  di  sapone  (all'I  d'acido  fenico  per  100  d'acqua 
di  sapone).  Questa  soluzione  applicata  con  un  polverizzatore  sulla 
pagina  inferiore  delle  foglie  distrusse  tutti  i  filamenti  fruttiferi  i  quali 
più  non  si  riprodussero:  il  liquido  deve  restare  un  certo  tempo  a 
contatto  dei  filamenti  ed  il  prof.  Foéx  spera  di  ottenere  ciò  ag- 
giungendo alla  soluzione  un  po'  di  glicerina  che  ritarda  l'evapora- 
zione. Ma  la  difficoltà  risiede  sempre  nel  raggiungere  la  pagina  in- 
feriore della  foglia. 

Dj  Metodo  dello  zolfo.  Lo  zolfo  comune  non  tronca  la  malattia 
prodotta  dalla  peronospora,  ma  lo  zolfo  sublimato  (fiori  di  zolfo)  acido, 
la  cui  acidità  siasi  aumentata  anche  artificialmente,  è  secondo  il 
Marès  un  buon  rimedio  distruttivo  contro  la  peronospora:  le  polveri 
di  zolfi  acidi  hanno,  secondo  quest'autore,  un'azione  assai  rapida  ed 
energica  contro  i  parassiti  della  vigna  per  disorganizzarli  e  distrug- 
gerli, ed  imprimere  poi  alla  vite  stessa  una  vegetazione  più  rigogliosa. 
Il  Marès  vuole  che  queste  solforature  con  zolfi  sublimati  vengano 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  901 

cominciate  di  buon'  ora,  verso  la  fine  d' aprile,  e  ripetute  ogni  15 
giorni.  In  questo  solo  caso  l'espansione  e  la  vegetazione  della  critto- 
gama vengono  paralizzate,  mentre  si  eccita  quella  della  vite. 

Veniamo  ai  metodi  preventivi  riguardo  ai  quali  possiamo  dare 
qualche  consiglio  con  maggior  sicurezza.  Vi  sono  metodi  preventivi 
contro  le  spore  invernali  e  contro  le  spore  estive. 

Metodi  preventivi  contro  le  spore  invernali.  Il  potar  presto,  lo  scor- 
tecciare, il  bagnare  con  soluzione  di  vetriolo  verde,  costituiscono  opera- 
zioni inutili  perchè  le  spore  invernali  si  trovano  nell'interno  delle  foglie 
cadute.  Raccogliere  d'autunno  tutte  queste  foglie  ed  abbruciarle  sa- 
rebbe il  metodo  migliore,  se  non  fosse  di  difficilissima  attuazione. 
Non  è  provato  che  sotterrandole  con  un  lavoro  profondo  le  spore 
non  abbiano  a  sbucar  fuori  germinando.  Far  pascolare  le  pecore 
nelle  vigne  dopo  la  vendemmia  è  inutile,  perchè  il  concime  pecorino 
conserva  intatte  le  spore  invernali,  le  quali  tornerebbero  così  al  suolo. 
Bisognerebbe  dunque  trovare  qualche  sostanza  da  iniettare  nel  ter- 
reno dopo  avervi  sotterrate  le  foglie,  sostanza  capace  di  distruggere 
queste  spore  invernali. 

Melodi  preventivi  contro  le  spore  estive.  Non  potendo  distrug- 
gere le  spore  invernali  si  può  con  maggior  probabilità  di  successo 
o  impedire  lo  sviluppo  di  quelle  estive,  oppure  procurarsi  un  modus 
vivendi  e  senza  sperare  di  cacciar  del  tutto  la  peronospora,  renderla 
quasi  innocua,  distruggendo  la  quantità  più  grande  possibile  di  co- 
nidii.  Si  tratta  di  colpire  con  un  potente  agente  distruggitore  questa 
spora  estiva  mentre  sta  per  germinare.  Questo  mezzo  è  fornito  dalle 
miscele  caustiche;  miscele  in  diverse  proporzioni  di  zolfo  e  calce, 
zolfo  e  gesso,  vetriolo  verde  e  zolfo  ed  altre  miscele,  che  ebbero 
nella  passata  annata  viticola  risultati  decisivi. 

Il  Toscanelli  consiglia  l'uso  d'un  misto  di  calce  e  cenere  a  parti 
eguali;  comincia  a  spargerlo  in  marzo  e  rinnova  lo  spargimento  una 
volta  al  mese  e  più  ancora  se  piove.  Egli  dà  alle  sue  viti  la  polvere 
suddetta  dopo  la  pioggia.  Un  valente  viticultore  di  San  Martino  di 
Rosignano  (Casale),  Yavv.  V.  Luparia  in  mezzo  alle  vigne  pero- 
nosporate  dei  suoi  vicini  mantiene  salva  la  sua  con  un  miscuglio  di 
metà  zolfo  e  metà  polvere  anticrittogamica  Ottavi.  Egli  ne  fa  spar- 
gere un  po'  colle  dita  appena  spuntano  le  gemme,  poi  inzolfa  colla 
peperuola  quando  i  pampini  abbiano  al  più  8  o  10  cent,  di  lunghezza; 
ripete  la  solforazione  col  soffietto  altri  pochi  giorni  dopo,  e  la  rin- 
nova anche   ogni  8,  10   e  più   giorni;    nelle  annate   favorevoli   alle 


902 


CAPITOLO  XXX 


crittogame  opera  anche  una  volta  per  settimana,  e  ciò  sempre  legger- 
mente, cioè  senza  spreco  della  sostanza  caustica.  Con  questo  metodo 
egli  combatte  ad  un  tempo  peronospora  ed  oidio. 

Concludendo,  il  viticoltore  può  tener  lontana  la  peronospora  ma 
mediante  una  continua  lotta  dal  marzo  al  settembre;  deve  a  questo 
scopo  provvedersi  d'una  miscela  caustica  e  d'una  pompetta  per  po- 
terla spargere  sulle  foglie  in  soluzione,  o  d'  un  soffietto  volendola 
spargere  in  polvere  finissima.  Quest'ultimo  mezzo  è  da  preferirsi  dove 
havvi  difficoltà  a  procurarsi  in  breve  tempo  l'acqua  necessaria,  e 
così  pure  nelle  vigne  a  folto  fogliame.  Ivi  il  rimedio  liquido  non  pe- 
netra tanto  bene  a  toccar  tutte  le  foglie  come  quello  in  polvere,  il 
quale  peraltro  vuol  essere  sparso  da  una  buona  solforatrice  (fig.  353). 


Fiff.  353. 


Negli  altri  casi,  e  quando  nelle  miscele  entrano  in  rilevante  propor- 
zione dei  carbonati  alcalini  (cenere)  è  preferibile  il  rimedio  in  soluzione. 
Il  viticultore  deve  poi  regolare  le  sue  operazioni  dal  tempo,  e  pra- 
ticare le  solforazioni  la  sera,  prima  che  la  rugiada  si  formi,  o  quando 
questa  si  sta  formando,  od  appena  che  sia  cessata  la  pioggia, 
o  durante  una  fitta  nebbia,  dopo  quei  venti  che  dicemmo  portar 
facilmente  la  malattia,  o  nei  momenti  infine  in  cui  il  suo  buon  senso 
gli  dice  che  il  pericolo  sovrasta. 

Ecco  quanto  di  più  pratico  e  di  più  recente  possiamo  dire  sui 
mezzi  di  combattere  la  peronospora.  Il  metodo  preventivo  e  di  con- 
tinua vigilanza  che  abbiamo   testé  esposto    può  dirsi    sicuro,  confer- 


CRITTOGAME    DELLA  VITE  903 

raato  com'è  da  viticultori  di  diverse  provincie  d'Italia  (1).  Per  ora 
gli  studii  pratici  che  si  stanno  facendo,  invero  con  molta  alacrità, 
nel  nostro  paese  e  nel  sud  della  Francia  non  hanno  trovato  un  ri- 
medio distruttivo  pronto  e  sicuro:  atteniamoci  dunque  al  preventivo. 

Prima  di  terminare  sulla  peronospora  accenneremo  alla  questione 
se  vi  siano  vitigni  resistenti  per  natura  alla  malattia  che  ci  occupa, 
ed  accenneremo  infine  alla  pretesa  immunità  delle  vigne  i  cui  pali 
furon  conciati  col  vetriolo  bleu. 

E  neh'  America  ed  in  Francia  che  vennero  indirizzati  gli  studii 
sulla  peronospora  a  scoprire  se  qualche  vitigno  fosse  refrattario  al 
fungo.  In  Italia  a  questo  proposito  non  abbiamo  che  poche  osserva- 
zioni. —  E  un  fatto  innegabile  (e,  come  dice  il  Viala  nelle  sue  Ma- 
lattie della  vigna,  impossibile  per  ora  a  spiegarsi)  che  le  diverse 
varietà  di  viti  offrono  una  più  o  meno  grande  resistenza  agli  at- 
tacchi delle  crittogame  parassite.  Così  è  per  la  peronospora;  ma, 
continua  il  Viala,  non  è  ancora  stata  segnalata  alcuna  varietà  di 
V.  Vinifera  che  sia  assolutamente  refrattaria  all'invasione  di  questo 
fungo,  e  fra  le  americane  sola  forse  la  V.  Riparia  ne  va  immune  (2). 
Bush  e  Meissner  pongono  tra  le  quasi  immuni  anche  in  stagioni  e 
località  sfavorevoli  le  seguenti  altre  americane:  Cynthiana,  Norton  s 
Virginia,  Concord,  Riparia,  Elvira,  Noch,  Taylor  e  altre  poco 
conosciute  da  noi.  Il  Foécc  fece  a  Montpellier  osservazioni  sulla  re- 
sistenza dei  vitigni  coltivati  a  quella  Scuola  e  ne  compilò  una  lista 
nella  quale,  facendo  osservazione  solo  a  quelli  italiani  o  stranieri,  ma 
abbastanza  diffusi  in  Italia,  troviamo  che  i  nostri  Calabrese  e  Ne- 
rieddo  Cappuccio  sono  stati  quasi  del  tutto  spogliati  delle  loro  foglie 
dal  parassita;  che  il  Canaiolo,  il  Grenache  nero,  il  Gamai  de  l'Aude, 
il  Sangioveto,  la  Silvana,  il  Verdicchio  hanno  perduto  la  metà  delle 
loro  foglie,  il  Teinturier,  il  Gamai  nero,  il  Moscato  bianco  di 
Frontignan,  il  Pinot  bianco,  il  Sauvignon,  il  Buonamico  sono 
stati  solo  leggermente  attaccati  dalla  peronospora,  mentre  il  Cabernet, 
il    Gros  Guillaume,  il  Sirah  sono  stati  illesi. 

In  Italia  abbiamo  osservazioni  di  Ravizza  che  trovò  come  le  va- 
rietà francesi  coltivate  in  Italia,  tutti  i  Pinots,  i  Gamays,  i  Chas- 
selas  siano  più  maltrattati  delle  nostre  barbere  e  fresie,  e  che  certi 
vitigni  a  foglie  molto  ruvide  e  a   frutto    bianco    si   mostrano    quasi 


(1)  Coltivatore  1883,  voi.  II  pag\  250  e  1885  voi.  I  pag.  101. 

(2)  Op.  cit.  pag.  25. 


904  CAPITOLO  XXX 


insensibili  alla  malattia.  —  Reverdi  ed  altri  osservarono  ripetuta- 
mente che  la  Starino,  o  Celerina  di  Valenza  è  refrattaria  nel  modo 
più  assoluto  in  un  colla  malvasia  itera- 

Da  qualche  tempo  si  parla  molto  nei  giornali  francesi  dell'influenza 
che  avrebbero  i  pali  delle  viti  iniettati  con  solfato  di  rame  (vetriolo 
bleu)  sullo  sviluppo  della  peronospora.  La  vicinanza  di  quei  pali  ren- 
derebbe le  viti  refrattarie  agli  attacchi  del  parassita.  Alcuni  viticul- 
tori  italiani  che  hanno  la  paleria  iniettata  ci  dissero  però  che  essi 
non  avevano  constatato  simile  benefica  e  misteriosa  influenza. 

Vi  è  però  una  cosa  da  notare,  ed  è  che  in  Francia  e  particolar- 
mente nella  Còte- d'Or,  mentre  le  relazioni  e  le  osservazioni  dei  pra- 
tici relative  a  quest'azione  preservativa  del  vetriolo  si  moltiplicano 
sempre  più,  si  dà  una  spiegazione  del  fatto.  L'  azione  preservatile 
sarebbe  dovuta  a  una  soluzione  del  solfato  che  impregna  i  pali,  pro- 
curata dalle  acque  di  pioggia.  Nel  secondo  anno  dopo  l' iniezione  i 
pali  solfatati  non  produrrebbero  più  effetto,  perchè  nella  superficie 
dei  pali  stessi  non  vi  sarebbe  più  vetriolo  da  disciogliere.  Adunque 
il  palo  per  preservare  la  vite  dalla  peronospora  dovrebbe  essere 
iniettato  da  poco. 

Gli  sperimenti  che  si  faranno  quest'anno  in  Francia  consisteranno 
nel  solfatare  a  maggio  i  pali  dei  vigneti  peronosporati.  E  questa 
prova  sarà  —  speriamolo  —  finalmente  decisiva. 

§  5.  Oidio  (La  crittogama).  —  Per  antonomasia  i  viticultori 
chiamano  «  la  crittogama  »  un  fungo  parassita  che  porta  il  nome 
italiano  di  Oidio  e  quello  latino  di  Oidium  Tuckeri  (o  Erisiphe 
Tuckerii)  impostogli  da  Berkeley.  Questo  fungillo  detto  anche  bianco 
delle  vili  si  sviluppò  per  la  prima  volta  dal  1845  al  1847  nelle  viti 
delle  serre  di  Margate  in  Inghilterra,  ed  il  primo  che  se  ne  accorse 
fu  il  giardiniere  Tucker.  Nel  1848  l'oidio  era  avvertito  in  Francia, 
portatovi  dall'Inghilterra,  e  nel  1851  in  Italia  (1).  La  malattia  si 
osserva  sui  rami,  sulle  foglie  e  sull'uva  sotto  forma  di  macchie  ro- 
tonde di  color  bruno  -scuro;  sull'uva  però  esse  presentano  un  colore 
rossiccio  o  nero  e  sono  più  piccole.  Queste  macchie  son  composte 
di  delicati  fili  (micelio  o  organo  vegetativo  dell'oidio)  i  quali  per  mezzo 
di  certe  appendici,  succhiano  i   loro   alimenti  dai  tessuti   della   vite 


(1)  Dobbiamo  però  dire  che,  secondo  alcuni,  l'oidio  era  conosciuto  già  dagli  an- 
tichi greci  e  romani,  sotto  il  nome  di  roratio. 


Tav.  IH. 


0.  Ottavi .  Trai* 


Tav.  IV. 


Viticoltura 


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Lit.  Gioire  re  ■  Cs ss le 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  905 

su  cui  vegetano;  al  micelio  fa  seguito  l'apparizione  di  una  polvere 
bianchiccia  composta  delle  spore  ovali  che  son  come  i  frutti  del  mi- 
celio: intanto  le  macchie  si  dilatano  ed  aumentano  di  numero.  La 
crittogama  intacca  ed  altera  i  tessuti  dei  rami,  fa  raggrinzare  le  fo- 
glie, fa  screpolare  la  pellicola  degli  acini  e  finisce  col  far  disseccare 
gli  acini  stessi,  oppure  col  farli  putrefare;  allora  sentesi  nel  vigneto 
un  forte  odore  di  muffa.  Se  il  viticoltore  lasciasse  crescere  il  male 
a  suo  bell'agio,  si  troverebbe  ad  avere  morte  le  piante  stesse,  come 
accadde  non  di  rado  quando  ancor  non  si  conosceva  l'uso  dello  zolfo. 

La  fig.  9  della  Tavola  III  che  precede,  mostra  l'accennato  micelio 
dell'oidio,  costituito  da  filamenti  tubulari  bianchi  ora  semplici  ora  rami- 
ficati i  quali  aderiscono  all'epidermide  mediante  gli  aiistorii  o  succhia- 
tori, che  sono  appendici  le  quali  penetrano  nella  cavità  delle  cellule  e 
ne  sfruttano  il  contenuto;  il  micelio  scorre  sulla  superficie  delle  parti 
della  vite  invasa.  La  fig.  10  (Tav.  Ili)  ci  mostra  invece  la  parte  frut- 
tificante dell'Oidio  la  quale  si  innalza  sul  micelio:  è  costituita  da  brevi 
fili  cilindrici,  divisi  da  dissepimenti,  i  quali  portano  le  spore  ovali  o 
conidii  a  a  in  numero  di  tre  a  sei  disposte  in  pila  una  sull'altra.  I 
conidii  (fig.  ci)  contengono  un  protoplasma  granelloso  e  dei  vacuoli 
tondeggianti;  in  ambiente  umido  e  sufficientemente  caldo,  essi  ger- 
minano e  riproducono  il  micelio:  il  vento  li  trasporta  facilmente 
ed  è  per  questo  che  la  malattia  si  diffonde  con  tanta  facilità  e  rapidità. 

Il  vero  rimedio  specifico  contro  l'oidio  è  lo  zolfo  (1).  Ma  la  sol- 
forazione deve  anzi  tutto  essere  considerata  come  un  preventivo: 
sappiamo  bene  che  vi  sono  coloro  che  consigliano  con  Guyot  (2) 
la  solfatura  da  farsi  solo  quando  la  malattia  si  mostra,  cioè  quando 
l'oidio  rivela  la  sua  presenza  con  attacchi  parziali  e  premonitorii:  noi 
invece,  per  le  numerosissime  prove  fatte  in  Italia,  crediamo  ferma- 
mente che  bisogna  solforare  anche  le  viti  sanissime,  operando  quando 
i  giovani  cacchii  hanno  una  lunghezza  massima  di  0m,15  centimetri, 
a  dar  loro  molto  zolfo,  se  occorre  anche  operando  colle  dita  a  piz- 
zichi. Diremo  intanto  che  la  solforazione  preventiva  non  solo  impe- 
disce che  l'oidio  si  mostri,  ma  favorisce   altresì   l'attecchimento    dei 


(1)  Per  amore  di  brevità  non  diremo  nulla  del  liquido  Peyrone,  (pentasolfuro 
di  calce)  e  di  altri  rimedii  proposti  contro  l'oidio:  il  pentasolfuro  (zolfo  e  calce 
spenta  bolliti  in  acqua)  è  di  una  azione  energica  e  sicura,  ma  lo  zolfo  è  più  co- 
modo da  applicarsi. 

(2)  Études  dcs  Vignobles  de  France,  459,  t.   1. 


906  CAPITOLO  XXX 


fiori  e  l'allegamento  dei  frutti.  Oltre  a  ciò  bisogna  riflettere  che 
noi  ci  troviamo  in  paesi  caldi  e  non  troppo  secchi,  e  che  date 
queste  due  condizioni  (calore  e  umidità)  l' oidio  si  sviluppa  con 
una  facilità  rimarchevole:  è  quindi  necessario  impedire  che  si  mostri, 
perchè  se  gli  si  dà  il  tempo  di  manifestarsi  è  poi  assai  difficile  ar- 
restarlo. 

La  prima  solforazione  deve  essere  praticata  prima  assai  della 
fioritura,  cioè  allorquando  i  nuovi  getti  son  lunghi  al  più  da  10  a 
20  centim.  In  questa  prima  insolfatura  vuoisi  procurare  che  tanto  il 
ceppo  quanto  le  foglioline  e  le  nascenti  uve  abbiano  ad  avere  una  leggera 
sfumatura  di  zolfo.  La  seconda  solforazione  deve  praticarsi  dopo 
dieci  o  dodici  giorni  dacché  l'uva  incomincia  a  fiorire,  e  non  più  tardi: 
non  si  deve  temere  di  nuocere  alla  fecondazione  dei  fiori,  che  né  noi 
né  altri  ha  mai  avuto  a  dolersi  di  ciò:  al  contrario  questa  solfora- 
zione ha  tale  una  benefica  influenza  che  talvolta  può  dispensare  da 
una  terza  somministrazione  di  zolfo.  Infatti  appena  caduta  la  corolla- 
quinquepetala  che  sta  a  guisa  di  cappello  sull'ovario  (il  futuro  acino), 
questo  ovario  rimane  scoperto:  esso  ha  una  buccia  tenerissima  e  l'oidio 
lo  attacca  facilmente  e  fieramente;  in  tal  caso  il  prodotto  è  perduto 
in  parte:  se  invece  noi  veniamo  e  solforiamo  con  una  buona  mac- 
china e  con  zolfo  finissimamente  macinato,  noi  proteggiamo  quella 
delicata  buccia  e  salviamo  gli  acini  dalla  crittogama.  La  terza  sol- 
forazione non  è  sempre  necessaria;  però  colà  dove  si  solfora  poco 
e  le  spore  dell'oidio  possono,  mercè  il  vento,  venire  dai  vigneti  vi- 
cini, è  indispensabile  solforare  quando  l'uva  è  grossa  come  un  pisello 
all'incirca.  Infine  sarà  bene  di  sorvegliare  il  vigneto  per  vedere  quando 
fosse  il  caso  di  solforazioni  parziali,  evitando  però  sempre  le  scot- 
tature (pag.  805). 

Quale  può  essere  Fazione  dello  zolfo  sull'oidio?  Noi  non  cre- 
diamo che  lo  zolfo  eserciti  semplicemente  una  azione  meccanica,  perchè 
avendo  provato  la  polvere  di  strada  finissima  e  la  calce  pure  finis- 
simamente macinata,  ottenemmo  solo  risultati  mediocri:  però  un  qual- 
che danno  l'oidio  ebbe  a  risentirne,  segno  che  un  po'  d'azione  mec- 
canica lo  zolfo  deve  pure  esercitarla,  tanto  più  se  si  riflette  che  lo 
zolfo  quand'anche  un  po'  impuro,  dà  buoni  risultati  purché  sia  fi- 
nissimamente macinato.  Ma  a  nostro  avviso  l'azione  precipua  dello 
zolfo  deriva  dalla  formazione  (1)  di  acido  solforoso,  potente  antiset- 


(1)  Essa  fu  provata  ultimamente  con  metodo  diretto  dal  Dott.  Moritz    di    Gei- 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  907 

settico:  quest'acido  si  forma  agevolmente  perchè  le  particelle  dello 
zolfo  che  stanno  sulla  vite  si  trovano  in  una  atmosfera  assai  ricca 
di  ossigeno,  che  di  giorno  è  esalato  dalle  parti  verdi  della  vite.  Il 
Dott.  Koenig,  direttore  della  Regia  Stazione  Enologica  di  Asti,  pensa 
anzi  con  molta  ragione,  che  una  parte  di  tale  ossigeno  sia  elettriz- 
zato (ozono)  ed  allora  sarebbe  attivissimo  e  potrebbe  ossidare  lo  zolfo, 
mentre  si  sa  che  questo  metalloide  è  molto  resistente  all'azione  del- 
l'aria alla  temperatura  ordinaria.  Fatto  è  che  solforando  in  belle 
giornate,  calme  ed  a  sole  splendente,  si  ottengono  risultati  completi, 
perchè  la  formazione  dell'acido  solforoso  è  allora  assai  favorita. 

Qualora  avesse  a  piovere  dopo  la  solforazione,  sarà  indispensabile 
ripeterla  24  ore  dopo  all'incirca.  In  presenza  poi  della  rugiada,  se 
abbondante,  non  si  deve  solforare,  perchè  se  vi  ha  [qualche  fatto  il 
quale  dimostra  che  simile  solforazione  può  riuscire,  vi  sono  centinaia 
d'altri  fatti  che  dicono  il  contrario,  e  consigliano  perciò  di  solforare 
quando  la  copiosa  rugiada  è  scomparsa.  Così  si  evita  1'  agglomera- 
mento  dello  zolfo,  che  può  cadere  a  terra  colle  goccie  di  guazza  ab- 
bondante, e  d'altra  parte  non  si  inceppa  la  formazione  suddetta  del- 
l'acido solforoso.  Certamente  quando  la  rugiada  è  poca  cosa,  e  d'altro 
canto  si  ha  bisogno  di  solforare  in  fretta  per  acquistar  tempo,  si 
può  procedere  alla  operazione  anche  di  buon  mattino:  quel  po'  di 
umido  fìssa  meglio  le  particelle  dello  zolfo  sull'uva,  e  poi  è  pronta- 
mente evaporato  dal  sole. 

In  quale  stalo  deve  essere  lo  zolfo  per  agire  energicamente? 
Non  basta  che  lo  zolfo  sia  abbastanza  puro,  bisogna  che  anzitutto 
abbia  un  alto  grado  di  finezza;  eppoi  sia  esso  di  Sicilia  o  di  Ro- 
magna, gioverà  a  prevenire  od  a  distruggere  l'oidio.  La  purezza  si 
determina  prendendo  un  pezzo  di  porcellana  qualsiasi  e  mettendovi 
sopra  circa  10  grammi  di  zolfo,  indi  riscaldando  a  calore  moderato; 
le  sostanze  volatili  se  ne  vanno  e  rimane  un  deposito;  questo  si  pesa. 
Gli  zolfi  commerciali  di  Romagna,  se  buoni,  danno  un  residuo  che 
varia  dal  0,10  al  0,50  od  al  massimo  all'  uno  per  cento.  Quelli  di 
Sicilia  dal  0,40  al  3;  se  essi  sono  ben  macinati  servono  ugualmente. 
Ma  non  così  quando  allo  zolfo  si  trova  mescolato  il  40  per  cento 
di  gesso  o  di  vetro.  Allora  bisogna  rifiutare  la  merce. 

La  finezza  si  determina  col  tubo  di  Chancel;  esso  è  di  vetro,  ha 


senheim  sul  Reno.  —  Die   Landtoirthschaftlichen   Versuchsstationen   Voi.    XXV, 
fascicolo  1. 


908  CAPITOLO  XXX 


una  capacità  dì  25  centimetri  cubi,  è  diviso  in  100  parti  uguali  ed 
è  chiuso  ad  una  delle  sue  estremità;  per  adoperarlo  si  pesano  esat- 
tamente 5  grammi  di  zolfo,  si  mettono  con  precauzione  dentro  il 
tubo,  poscia  si  aggiunge  tanto  etere  solforico  sino  a  che  un  terzo 
della  parte  del  tubo  ancor  vuoto,  che  è  sopra  lo  zolfo,  ne  sia  ri- 
pieno; si  agita  allora  fortemente  il  tubo  tenendolo  ben  chiuso  col 
pollice.  Dopo  l'agitazione  si  aggiunge  altro  etere  sino  a  raggiungere 
la  divisione  100,  indi  si  riagita  nuovamente  e  con  forza  il  tubo.  Ciò 
fatto  si  mantiene  in  riposo  ogni  cosa,  lasciando  che  le^aolecole  del 
metalloide  si  dispongano  adagio  adagio  e  senza  scosse  le  une  accanto 
e  sopra  alle  altre.  Cessato  l'ammucchiamento,  e  così  dopo  10  minuti,, 
si  legge  la  divisione  a  cui  lo  zolfo  discendendo  si  è  arrestato;  questa 
divisione  indica  il  grado  di  macinazione.  Nelle  nostre  esperienze  ab- 
biamo trovato  degli  eccellenti  zolfi,  che  segnavano  70  gradi  o  65 
gradi  (per  lo  più  di  Romagna);  altri  invece  segnavano  soli  42  gradi, 
locchè  vuol  dire  che  erano  assai  male  macinati;  gli  è  quando  si  u- 
sano  simili  zolfi  che  si  mette  poi  in  dubbio  V  efficacia  del  prezioso 
metalloide  contro  l'oidio.  Sarà  pur  bene  badare  al  colore  dello  zolfo: 
la  bella  tinta  gialla  dimostra  spesso  una  macinazione  assai  grosso- 
lana mentre  la  tinta  si  fa  più  sbiadita  e  quasi  diremmo  cinerea, 
se  è  finamente  polverizzato. 

Quale  è  la  solforatrice  preferibile?  Noi  non  vogliamo  rispondere 
in  modo  tassativo  a  questa  domanda,  perchè  non  crediamo  di  po- 
terlo fare.  Ottima  è  quella  dell'ingegnere  O.  Fojadelli  (v.  disegno  a 
pag.  902)  a  getto  continuo  e  che  produce  una  nube  di  finissime  par- 
ticelle di  zolfo,  che  possono  poi  agevolmente  mutarsi  in  acido  sol- 
foroso e  distruggere  l'oidio;  in  12  ore  si  possono  solforare  con  essa 
quasi  tre  ettari  a  vigna  specializzata,  mentre  coi  soliti  soffietti  non 
se  ne  solforano  che  due;  ciò  lo  desumemmo  noi  stessi  con  prove 
comparative,  rilevando  anche  come  con  questi  occorra  una  spesa  più 
che  quadrupla  di  mano  d'opera,  nonché  una  maggior  quantità  di 
zolfo  (dal  15  al  20  per  cento  di  più). 

La  Solforatrice  Fojadelli  (fig.  353)  si  compone: 

1°  Di  una  manovella  fissata  sull'  asse  della  ruota  dentata  che 
ingrana  con  un  rocchetto  montato  sull'albero  del  ventilatore; 

2°  Di  un  ventilatore  racchiuso  nel  tamburo  e  dotato  di  un  mo- 
vimento rotatorio  più  o  meno  veloce  a  seconda  del  maggiore  o  minor 
numero  di  giri  che  si  fa  fare  alla  manovella. 

3°  Di  un  recipiente  nel  quale    si  mette  lo  zolfo,  che    viene  poi 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  909 

spinto  all'esterno  dal  rapido  girare  del  ventilatore.  Neil'  interno  di 
questo  recipiente  trovasi  la  valvola  che,  mossa  da  una  leva  comu- 
nicante direttamente  colle  braccia  della  ruota  dentata,  serve  a  di- 
stribuire la  quantità  di  zolfo  necessaria  ad  ottenere  una  buona  sol- 
forazione; 

4°  Del  canale  di  condotta  munito  all'estremo  di  un  anello  di 
legno  per  ricevere  i  tubi  che  si  aggiungono  quando  si  vuole  prolun- 
gare il  getto  della  macchina,  oppure  solforare    pergolati  o  viti  alte. 

Tutte  le  parti  della  macchinetta  sono  fra  loro  unite  a  vite,  per  cui 
può  essere  completamente  smontata  ne'  suoi  più  piccoli  elementi 
quando  occorresse  visitarla  nell'interno  o  farvi  delle  riparazioni. 

Il  maneggio  della  solforatrice  Fojadelli  (che  per  noi  è  di  gran 
lunga  la  preferibile  a  tutte  quelle  sino  ad  oggi  inventate)  è  assai 
facile;  lo  zolfo  deve  essere  ben  macinato,  finissimo  e  se  mai  passato 
prima  per  setaccio,  con  che  oltre  ad  avere  una  solforazione  più  ef- 
ficace, si  realizza  una  notevole  economia  di  zolfo.  La  macchinetta 
deve  sempre  tenersi  in  posizione  orizzontale,  come  sta  nel  disegno 
a  pag.  902,  e  lo  zolfo  devesi  versarlo  nel  recipiente  senza  meno- 
mamente comprimerlo:  dopo  di  che,  impugnato  colla  mano  sinistra  il 
manico  di  sostegno  della  macchinetta,  si  metterà  in  moto  colla  destra 
la  manovella;  subito  si  vedrà  uscire  lo  zolfo  sotto  forma  di  nube. 
Se  mai  la  valvola  accennerà  a  non  funzionare  regolarmente,  basterà 
battere  leggermente  col  palmo  della  mano  alcuni  colpi  sul  fianco 
destro  della  solforatrice  per  obbligare  la  materia  che  faceva  ostacolo 
alla  valvola  a  cadere  nel  sottostante  canale  di  condotta.  Del  resto 
l'Agenzia  Enologica  di  Milano,  la  quale  vende  le  solforatrici  Foja- 
delli, dà  anche  una  dettagliata  istruzione,  che  dopo  tutto  per  chi  ha 
qualche  intelligenza  non  è  indispensabile  essendo  la  macchinetta  molto 
semplice. 

Vi  sono  altre  buone  macchinette;  ma  ci  manca  lo  spazio  per  poter 
entrare  in  tanti  particolari. 

§  6.  Antracnosi  0  vaiuolo.  —  Questa  malattia,  detta  anche 
carbone  della  vigna,  morbiglione,  ferro,  bolla,  picchiola,  marino, 
petecchia,  nebbia,  male  della  pastoia,  ecc.  non  è  recente,  come  si 
crede  da  taluno,  ma   molti  anni   or  sono   ebbe   già  ad   infierire  (1), 


(1)  Nel  1839  Fintelmann  la  descrisse  abbastanza  bene  nella  Gazzetta    Univer- 
sale di  Viticoltura,  (Berlino)  e  la  battezzò  Schwindpockenhrankheit.  I  dottori  Ga- 


910  CAPITOLO  XXX 


come  infierisce  ora,  in  Monferrato  sotto  il  nome  di  malattia  della 
barbera;  ed  è  infatti  la  barbera  che  è  essenzialmente  danneggiata. 
Da  varii  anni  a  questa  parte  la  malattia,  favorita  al  certo  dalle  con- 
dizioni climatologiche,  cioè  dalla  umidità  primaverile,  prese  in  tutta 
l'Europa  viticola  uno  sviluppo  grande,  e  reca  in  molte  plaghe  gra- 
vissimi danni;  in  Monferrato  taluno,  che  non  fece  mai  nulla  contro 
il  vainolo,  è  ora  costretto  a  distruggere  interi  appezzamenti  vitati. 
Bisogna  dunque  lottare  coraggiosamente  per  estirpare  subito  il  male. 
L'antracnosi  si  manifesta  assai  per  tempo  in  primavera,  ed  assale  le  parti 
verdi  della  vite;  si  vedono  allora  sui  germogli,  sulle  foglioline  e  sui  vi- 
ticci delle  piccole  macchie  circolari  brune  che  crescono  prontamente  in 
numero  ed  in  grandezza  (1).  Dapprincipio  sono  un  po'  sporgenti  (ras- 
somigliano alle  pustole  del  vaiuolo),  ma  poi  cambiano  d'aspetto,  cioè 
diventano  meno  sporgenti  e  prendono  un  colore  cenerino  tendente 
leggermente  al  rosa;  i  margini  però  offrono  una  linea  del  primitivo 
colore.  Nella  pagina  inferiore  della  foglia  le  macchie  sono  rosso- 
brune,  e  corrispondono  a  quelle  della  pagina  superiore,  ma  sono  in- 
cavate anziché  sporgenti.  Le  macchie  sui  tralci  assumono  dimensioni 
maggiori  che  non  sulle  foglie,  e  se  questi  cacchii  sono  ancor  teneri 
muoiono  quasi  diremmo  carbonizzati.  Appena  cessata  la  vegetazione 
e  la  propagazione  del  fungo  parassita,  le  macchie  assumono  un  altro 
aspetto,  e  s'approfondano  nella  parte  da  loro  intaccata.  Sugli  acini 
il  fungo  appare  solo  in  luglio,  o  già  alla  fine  di  giugno;  dapprincipio 
è  bruno-porporino,  ed  in  seguito  assume  lo  stesso  colore  di  cui  di- 
cemmo testé.  La  piaga  o  macchia  intacca  non  solo  l'epidermide,  ma 
anche  la  polpa  dell'acino,  e  giunge  persino  al  vinacciuolo.  Il  merito 
d'aver  per  primo  studiato  questo  fungo  (1876)  spetta,  salvo  errore, 
ad  un  nostro  compatriotta,  l'illustre  G.  Passerini;  gli  tenne  dietro 
il  Saccardo,  il   quale  lo   chiamava    Gloesporium   ampelophagum; 


Umberti  e  Ravizza  nella  loro  pregevole  monografia  sull'antracnosi  hanno  tradotto 
questo  vocabolo  composto  con  «  vaiuolo  che  distrugge  rapidamente:  »  noi  pen- 
siamo invece  che  la  traduzione  esatta  sia  «  vaiuolo  atrofizzante  »  perchè  Schwind 
(o  Schwund)  significa  atrofia,  mentre  schwind  per  geschwind  «  rapido  »  non  si 
adopera  che  nel  linguaggio  famigliare,  del  quale  certo  non  volle  servirsi  il  Fin- 
telmann. 

(1)  Felice  de   Thumen,  1879.  Ci  gioviamo  specialmente  di  un  opuscolo  di  questo 
insigne  micologo  austriaco  per  una  breve  e  chiara  descrizione  del  vaiuolo,  aggiun 
gendovi  quanto  ci  fu  dato  osservare  in  Italia, 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  911 

però  a  questo  riguardo  dei  nomi  regna  un    po'  di  confusione   fra  i 
crittogamisti. 

I  benemeriti  professori  Via  la  e  Foèx  di  Mompellieri  hanno  fatto 
sull'antracnosi  nuovi  studii  che  saranno  senza  dubbio  di  grande  im- 
portanza nella  conoscenza  di  questa  malattia  della  vite.  Si  trattava 
di  accertare  il  fatto,  ritenuto  dai  più,  che  le  diverse  forme  sotto  le 
quali  si  sviluppa  la  malefica  crittogama  provengano  da  una  mede- 
sima origine.  Provando  ciò,  si  possono  nella  pratica  consigliare  per 
tutte  le  forme  del  male  i  medesimi  trattamenti. 

Ecco  quali  sarebbero  le  principali  forme  tipiche  dell1  antracnosi, 
secondo  Planchon:  1°)  V  antracnosi  maculata;  2°)  l' antracnosi 
punteggiata  (che  il  Prof.  Planchon  crede  non  sia  altro  che  il  mal 
nero,  il  quale  ora  è  oggetto  di  studio  pei  naturalisti  italiani);  3°) 
V antracnosi  deformante,  la  quale  si  manifesta  con  macchie  disse- 
minate nelle  nervature  delle  foglie,  e,  limitandone  lo  sviluppo,  per- 
mette però  l'allargarsi  del  tessuto  cellulare  della  foglia  stessa,  alte- 
randone così  la  forma.  Quest'  ultima  forma  della  malattia  si  trova 
qualche  volta  anche  sopra  il  peduncolo,  i  viticci  od  i  germogli. 

Ecco  ora  lo  sperimento  dei  signori  Foèx  e  Viala.  Essi  semina- 
rono nelle  stesse  condizioni  le  spore  (o  semi)  provenienti  da  tralci 
alterati  nei  tre  modi  accennati.  E  ciò  fecero  deponendo  i  campioni 
di  esperimento  di  queste  tre  diverse  forme  di  malattia  sopra  dei 
tralci  ancora  erbacei  di  Riparia  e  di  Jacquez,  avendo  cura  di  fer- 
mare in  un  tubo  di  vetro  ed  in  uno  stato  di  conveniente  umidità 
la  parte  su  cui  s'  era  operato.  Dopo  8  o  10  giorni  si  cominciò  a 
vedere  i  segni  dell'  antracnosi  punteggiata  comparire  qua  e  là,  e 
continuar  poi  sempre  a  progredire,  mentre  i  tralci  delle  stesse  viti, 
su  cui  non  s'  era  tentato  1'  esperimento,  rimanevano  perfettamente 
sani.  L'esame  microscopico  poi  delle  pustolette  prodottesi  segnalò  la 
forma  caratteristica  dell'antracnosi. 

Dunque  pare  accertato  il  fatto,  di  notevole  importanza  nella  pra- 
tica, che  fra  le  diverse  forme  d'antracnosi  vi  ha  identità  di  origine, 
perchè  tutte,  poste  nelle  condizioni  opportune,  danno  luogo  allo  stesso 
risultato. 

Riassumendo,  l'antracnosi  è  un  fungo  piccolissimo  che,  coi  suoi  fila- 
menti, fa  disseccare  e  perire  le  parti  della  vite  su  cui  cresce,  di- 
sorganizzandone i  tessuti;  i  suoi  semi  (le  sue  spore)  sono  numero- 
sissimi, e  ciò  spiega  il  suo  rapido  sviluppo,  sviluppo  che  si  può  dire 
non  cessa  se  non  nell'inverno.  Queste  spore  hanno  un  involucro  so- 


912  CAPITOLO  XXX 


lubile  nell'acqua;  è  per  questo  che  l'umido  (sciogliendo  questa  coperta 
gommosa)  favorisce  cotanto  la  propagazione  delle  spore  stesse  e  l'e- 
stendersi della  malattia;  le  spore  rimangono  allora  disseminate  nel 
liquido  e  con  esso  discendono  dalle  parti  più  alte  alle  più  basse  della 
vite  (1),  le  quali  sono  sempre  colpite  in  modo  più  grave.  La  causa 
dell'antracnosi  è  adunque  questo  piccolo  parassita  crittogamico;  noi 
pensiamo  poi  che  il  suo  straordinario  svilupppo  in  questi  ultimi  anni 
debba  attribuirsi  alle  primavere  umide,  cosicché  il  mese  di  giugno 
non  trascorre  mai  tanto  secco  da  inceppare  lo  sviluppo  del  male; 
quando  invece  sopraggiunge  l'estate  molto  secca  noi  vediamo  il  vai- 
uolo  che  si  arresta  nel  suo  corso,  e  questo  lo  constatammo  più  volte, 
senza  trovare  mai  eccezioni.  Però  la  malattia  ebbe  già  campo  a  svi- 
lupparsi bene  sino  a  tutto  giugno  all'incirca,  e  l'anno  dopo  ricomincia 
su  una  maggior  superfìcie  del  vigneto;  ecco  quindi  come  essa  si  è 
tanto  allargata  in  questi  scorsi  anni,  mentre  non  si  fece  nulla  per  ar- 
restarne la  propagazione.  In  generale  si  può  stabilire  che  le  viti  più 
precoci  e  rigogliose  (per  esempio  la  barbera)  e  quelle  di  vigneti  letami- 
nati  o  ingrassati  con  concimi  ricchi  di  azoto,  sono  le  più  maltrattate 
dal  vaiuolo,  certo  perchè  offrendogli,  coi  loro  rigogliosi  getti  fronzuti, 
maggior  copia  d'alimento  ne  favoriscono  sempre  più  lo  sviluppo. 

Abbiamo  esperimentato,  con  il  concorso  anche  di  varii  viticultori 
del  Monferrato,  i  rimedii  sin  qui  proposti  per  combattere  l'antracn-osi; 
ma,  uno  eccettuato,  gli  altri  ci  parvero  semplici  palliativi,  coi  quali 
non  riuscimmo  ad  impedire  la  diffusione  del  malanno.  Li  enumere- 
remo brevemente. 

a)  Le  concimazioni  abbondanti  per  rendere  più  robusto  il  vi- 
tigno: —  con  questo  mezzo  si  raggiunse  un  risultato  opposto,  per- 
chè i  vitigni  essendosi  fatti  più  rigogliosi,  le  spore  del  vaiuolo  si 
propagarono  con  maggior  facilità,  trovando  una  vegetazione  più 
precoce  e  più  abbondante  su  cui  crescere  e  moltiplicarsi. 

b)  L'uso  dell'acqua  di  calce  o  eli  liscivia:  —  usando  quest'altro 
mezzo  si  osservò  che  la  malattia  infieriva  maggiormente,  probabil- 
mente perchè  l'acqua  della  soluzione  favoriva  lo  sviluppo  delle  spore. 

e)  L'uso  della  polvere  finissima  di  calce  viva:  —  questo  rimedio 
parve  arrestare  la  malattia  per  qualche  giorno,  mercè  la  distruzione 
delle  spore  che  diremo  superficiali;  ma  poi  il  vaiuolo  ricominciava 
da  capo,  perchè  il  micelio  (che,  come  è  noto,  è  protetto  dall'epider" 


(1)  De  Bary,  Annalen  der    Oenologie,  1874. 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  913 

micie  del  tralcio,  viticcio,  acino,  ecc.)  sporifica  di  nuovo.  Si  dovette 
perciò,  come  si  fa  in  Francia,  ripetere  la  cospersione  ogni  15  giorni: 
ma  l'anno  dopo  la  malattia,  mercè  le  spore  invernanti,  riprese  da 
capo,  e  d'  anno  in  anno  si  andò  estendendo,  rendendo  dispendiosa 
assai  quella  cura  di  ogni  quindicina  nei  vigneti  alquanto  estesi. 

d)  La  solforazune  ripetuta:  —  con  essa  si  ottennero  general- 
mente risultati  nulli. 

è)  La  fognatura  per  rendere  il  suolo  meno  umido:  —  questo 
drenaggio  non  giovò  ad  arrestare  la  malattia,  benché  le  viti  mo- 
strassero un  qualche  miglioramento,  il  quale,  come  è  chiaro,  non 
poteva  impedire  alle  spore  di  svilupparsi. 

f)  Esportare  i  tralci  e  le  foglie  coperti  dalle  pustole  del  vaiuolo: 
—  l'esportare  e  l'abbruciare  queste  parti  infette  furono  trovaci  ot- 
timi per  inceppare  un  troppo  pronto  allargarsi  del  malanno;  ma  non 
si  riuscì  ad  arrestare  l' invasione,  perchè  sarebbe  stato  necessario 
tagliare  e  sacrificare  tutte  intere  le  piante  antracnosate,  su  cui  ri- 
manevano le  spore  a  svernare,  pronte  a  svilupparsi  la  primavera 
successiva. 

g)  Usare  una  miscela  di  solfuri,  solfiti  ed  iposolfiti  di  calce  e 
di  potassa  (polvere  Rotondi):  —  con  questa  miscela  si  ebbero  risul- 
tati identici  a  quelli  della  polvere  di  calce  (V.  e). 

h)  Cimare  i  tralci,  perchè  (dicesi)  maturino  più  presto,  onde  in 
tal  modo  impedire  che  il  fungo  si  introduca  nel  legno:  —  i  risultati 
ottenuti  furono  assolutamente  nulli,  e  1'  antracnosi  si  sviluppò  con 
uguale  intensità  tanto  sulle  viti  cimate  che  su  quelle  non  cimate. 

i)  Tenere  mondo  il  terreno  dalle  male  erbe:  —  tutte  le  nostre 
osservazioni  sull'  antracnosi  vennero  fatte  in  vigneti  tenuti  tanto 
mondi  quanto  lo  può  essere  un  giardino;  eppure  la  malattia  ogni 
anno  aumentava  d'intensità. 

Ma  veniamo  infine  alla  vera  cura  radicale. 

Per  impedire  che  l'antracnosi  si  sviluppi  maggiormente  in  un  vi 
gneto,  ove  si  è  constatato  che  ne  esistono  traccie  più  o  meno  estese 
bisogna  non  solamente  distruggerne  le  spore  ma  anche  le  pustole 
che  sono  come  altrettanti  centri  d' infezione  da  cui  vengono  altre 
spore.  Anzi,  siccome  in  queste  pustole  si  trovano  (entro  certi  ricet 
tacoli  detti  picnidii)  le  spore  invernanti,  così  è  chiaro  che  se  noi 
in  inverno  giungeremo  a  distruggere  queste  pustole  e  queste  spore 
a  primavera  non  sarà  più  possibde  che  l'antracnosi  si  manifesti.  Or 
bene,  le  prove  da  noi  fatte  su  vasta  scala,  e  con  vigneti  di  confronto 
0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  59 


914  CAPITOLO  XXX 


hanno  dimostrato  che  questa  distruzione  delle  pustole  e  delle  spore 
invernanti  è  possibile,  e  che  così  adoperando  con  un  solo  trattamento 
quasi  si  arresta  la  diffusione  del  vaiuolo. 

Ora,  il  metodo  di  cura  che  diede  in  Monferrato,  in  località  del  tutto 
differenti  1'  una  dall'  altra,  come  pure  nell'Astigiano,  risultati  affatto 
completi,  consiste  nell'uso  (già  proposto  da  altri)  della  soluzione  ac- 
quosa di  solfato  di  ferro. 

Le  prove  vennero  fatte,  come  già  dicevamo,  su  vasta  scala,  trat- 
tando in  inverno,  per  esempio,  metà  un  vigneto  assai  gravemente 
colpito  dall'antracnosi  e  lasciando  senza  trattamento  l'altra  metà;  i 
risultati  furono  tanto  soddisfacenti,  che  in  pochi  anni  quel  trat- 
tamento si  diffuse  in  tutto  il  territorio.  Era  infatti  molto  concludente 
il  vedere  che  le  piante  trattate  col  solfato,  erano  completamente 
prive  del  vaiuolo  e  coi  loro  tralci  senza  la  più  piccola  pustola,  men- 
tre le  viti  non  trattate  (benché  nello  stesso  vigneto,  alla  distanza 
di  pochi  metri)  apparivano  assalite  gravemente  da  centinaia  di  pu- 
stole: anche  nel  1881,  che  fu  secchissimo  (fatto  questo  degno 
di  nota  e  che  dimostra  come  allorquando  la  malattia  è  inradicata  in 
un  vigneto,  non  si  arresta  anche  se  la  primavera  trascorre  abba- 
stanza asciutta)  queste  esperienze  ebbero  luogo  in  molti  vigneti  nei 
comuni  di  Casale  (presso  chi  scrive),  di  Ozzano,  di  Sala,  di  Cella- 
monte,  ecc.  e  con  risultamenti  sempre  consonanti  ed  ottimi.  Si  notò 
bensì  che  la  vegetazione  delle  viti  trattate  si  fa  alquanto  ritarda- 
taria  (1);  ma  le  piante  cacciano  getti  rigogliosi  e  si  caricano  ugual- 
mente  d'uva,  e  questo  dimostra  infondato  il  timore  di  coloro  che 
temono  di  nuocere  alle  viti  usando  il  solfato  in  inverno. 

Anche  le  gemme,  in  tutte  queste  prove,  furono  asperse  di  liquido 
caustico,  ma  nessuno  ebbe  a  trovarne  una  sola  che  fosse  stata  dan- 
neggiata, locchè  è  molto  significante. 

Infine  Fuso  della  anzidetta  soluzione  è  facilissimo  ed  economico;  il 
costo  non  supera  le  lire  24  ad  ettare,  facendo  un  lavoro  accurato  (2). 


(1)  Questo  ritardo  nella  vegetazione,  spesso,  oltre  a  salvare  le  viti  dalle  brinate 
primaverili,  ritarda  la  diffusione  della  stessa  antracnosi. 

(2)  Nel  1879  trattammo  3  ettari  e  spendemmo: 

Per  270  chilog.  di  solfato     .         .         .         .         L.  38 

Per  giornate  d'uomini  .         .         .         .         .         »    16 

Id.  di  donne  .         .         ,         .  »    17 

Totale  L.  71 
cioè  circa  L.  23,60  per  ettare.  Il  solfato  ci  costò  L.   14  il  quintale  a  Genova. 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  915 

Questi  risultati  collimino  con  quelli  ottenuti  a  Rossbach-Meilen 
dal  sig.  Schnorf  nonché  dai  signori  Mader  e  Goethe:  quest'ultimo 
dice  che  adoperando  il  solfato  in  principio  di  primavera  (noi  lo  usiamo 
in  marzo)  esso  provoca  l'aprirsi  dei  picnidii  e  vi  distrugge  entro  le 
spore,  locchè  è  appunto  quanto  vogliamo  ottenere  (1). 

Riassumendo  adunque  diremo,  che  le  esperienze  ripetutamente  fatte  in 
Monferrato,  similmente  alle  precedenti  fatte  nella  Svizzera  e  nella  Stiria, 
hanno  d.mostrato  che  la  soluzione  di  solfato  di  ferro  applicata 
in  inverno  o  sul  principio  della  primavera  (marzo)  sul  legno 
delle  viti,  mentre  distrugge  le  spore  deU anlracnosi  ed  arresta 
lo  estendersi  della  malattia,  non  arreca  ventn  danno  né  ai 
tralci  né  alle  gemme,  le  quali  sbucciano  ari  po'  tardi,  ma  danno 
getti  copiosamente  uviferi  e  che  si  mantengono  sani  durante 
tutto  Vanno  vegetativo. 

Ecco  il  metodo  da  noi  seguito  e  consigliato  ai  viticultori  del  Mon- 
ferrato. 

Si  scioglie  del  solfato  di  ferro  in  due  volte  il  suo  peso  d'  acqua 
bollente,  e  quando  la  soluzione  è  alquanto  raffreddata,  si  pennellano, 
con  pennelli  da  muratore,  i  tralci  —  o  gli  speroni  —  e  le  ceppaie 
delle  viti  antracnosate,  operando  dopo  la  potatura:  si  può  anche  ado- 
perare, come  ebbimo  a  provare,  uno  straccio  inzuppato  nel  liquido; 
il  risultato  è  tutt'  uno.  Bisogna  soffregare  con  cura,  perchè  così  si 
è  quasi  sicuri,  con  un  solo  trattamento,  cioè  in  un  anno,  di  estir- 
pare il  male.  Per  prova  si  lascino  alcune  piante  ammalate  senza 
trattamento,  e  si  vedrà  quanto  efficace  sia  la  cura  suddetta. 

Qualora  però  alcune  piante  fossero  state  attaccate  in  modo  tanto 
grave  da  non  potersi  più  potare,  si  taglino  tutti  i  tralci  e  si  abbru- 
cino: assolutamente  non  si  devono  portare  nella  concimaia,  perchè 
si  osservò  che  possono  aiutare  la  diffusione  della  malattia,  essendo 
carichi  di  spore  ed  usandosi  spesso  di  spargere  quel  concime  al  piede 
delle  viti.  In  giugno,  luglio,  ecc.  il  viticultare  deve  poi  far  tagliare 
anche  le  parti  verdi  affette  dal  vaiuolo,  e  farle  abbruciare,  essendo 
imprudente  il  somministrarle  come  foraggio  al  bestiame.  Con  queste 
precauzioni  e  colla  cura  del  solfato  di  ferro,  in  due  anni  l'antrac- 
nosi  scompare  quasi  totalmente  dal  vigneto  affetto:  è  l'esperienza 
che  ce  lo  dice. 


(1)  Ber   Weinbau,   1879, 


916  CAPITOLO  XXX 


§  7.  Il  marciume  delle  radici.  —  Questa  malattia  è  abba- 
stanza diffusa  in  Italia;  infatti  i  Delegati  governativi  per  la  fillossera 
nelle  loro  ispezioni  ebbero  a  trovare  molte  viti  affette  da  putridume 
al  sistema  radicale,  e  noi  stessi  ne  trovammo  in  Monferrato.  Il  mar- 
ciume (che  attacca  molte  altre  piante  oltre  la  vite)  è  pure  conosciuto 
in  Francia  ove  è  detto  le  pourridié  (1)  od  anche  blanc,  blanquet, 
chaw pignori.  In  Italia  fu  studiato  [el  primo  dal  valente  crittoga- 
mista,  A.  F.  Negri  (2)  di  Casal  Monferrato;  il  Negri  trovò  che  sono 
causa  del  fracidume  certi  funghi  sotterranei  o  cordoncini  a  ramifi- 
cazioni biancastre  (rizomorfe  (3));  questi  funghi  producono  sulle  ra- 
dichete delle  viti  dei  rigonfiamenti  che  un  osservatore  poco  accorto 
potrebbe  confondere  con  quelli  della  fillossera;  invece,  come  consta- 
tammo ripetutamente  in  varii  vigneti  del  Monferrato,  i  rigonfiamenti 
prodotti  da  quei  funghi  non  sono  uncinati  né  ricurvi,  ma  allungati. 
Per  causa  del  marciume  scompaiono  prima  le  radichette,  rimanendo, 
per  cosi  dire,  a  nudo  il  fittone;  ma  poi  questo  stesso  va  in  putre- 
fazione, come  ci  fu  dato  osservare;  la  sua  scorza  si  fa  nera  unita- 
mente a  quella"  del  ceppo,  e  sotto  di  essa  si  vedono  i  cordoni  bian- 
chicci delle  rizomorfe;  allora  la  pianta  è  morta  o  quasi.  Il  male  si 
allarga  all'ingiro,  formando  delle  vere  macchie  come  le  forma  la  in- 
vasione fillosserica;  all'esterno  pure  si  nota,  nelle  piante  affette  dal 
marciume,  un  deperimento  che  ricorda  quello  delle  viti  fillosserate. 
Pure  le  malattie  sono  ben  distinte,  ed  in  molti  vigneti  italiani 
abbiamo  il  marciume  solo,  essendo  esclusa  in  modo  assoluto 
la  presenza  del  terribile  pidocchio.  Nei  paesi  fillosserati  accade 
però  di  trovare  che  certe  viti  quasi  distrutte  dalle  fillossere, 
sono  assalite  dal  fracidume,  il  quale  finisce  col  restare  padrone 
unico  del  campo,  inquantochè  le  fillossere  vanno  in  cerca  di 
ceppi  sani  e  più  vigorosi;  gli  è  allora  che  un  osservatore  può  con- 
cludere che  le  fillossere  non  uccidono  le  viti,  perchè  sulle  piante  mo- 
renti non  se  ne  rinvengono,  ma  che  invece  la  loro  morte  dipende 
da  cause  ignote,  e  che  in  conclusione  è  inutile  far  la  guerra  alle 
fillossere  stesse  (4).  È  facile  intendere    quali    gravi    conseguenze  ne 


(1)  Comptes  rendus  de  VAcadémie  des  sciences  (Il  agosto  1879).  Studii  «li  Mil 
lardet. 

(2)  Giornale   Vinicolo  Italiano,  1880,  pag.  11  e  seguenti. 

(3)  Rhizomorpha  fragilis,  secondo  Planchon,  Schnetzler,    Miltardet    ed    anche 
secondo  Negri. 

(4)  Ciò  è  stato  stampato  in  Italia! 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  U17 

verrebbero  per  la  nostra  viticoltura  ove  il  Governo  si  arrendesse  a 
simili  errate  deduzioni. 

Il  marciume,  e  questo  come  noi  lo  constatammo  in  Italia  fu  con- 
statato anche  in  Francia,  attacca  generalmente  i  vigneti  impiantati  sulla 
rottura  di  boschi  di  quercia;  ma  è  curioso  (e  di  ciò  v'hanno  esempii 
varii  in  Monferrato)  che  non  si  sviluppa  che  dopo  venti  e  più  anni. 
La  rizomorfa  suddetta  attacca  vivamente  le  quercie  e  rimane  sui 
frammenti  delle  loro  radici;  così  si  comunica  poi  alle  viti.  Essa  ri- 
zomorfa fruttifica  e  produce  (secondo  Roberto  Hartig  (1))  un  fungo, 
l' Agaricus  melleus  L.;  questo  fungo  o  altro  simile  venne  trovato 
anche  nelle  viti,  e  perciò  il  Briganti  lo  battezzò  Agaricus  Vitis. 
Bisognerebbe  perciò  osservare  attorno  ai  ceppi  affetti  dal  marciume 
se  esiste  questo  agarico;  in  caso  affermativo  strapparlo  e  bruciarlo  (2). 
Metodi  di  cura  del  marciume  sin  ora  ne  furono  indicati  pochi,  tanto 
in  Italia  che  in  Francia;  solo  il  Negri  consiglia  di  scavare  larghe  e 
profonde  fosse,  col  sacrificio  anche  di  qualche  ceppaia  sana,  rimoven- 
done tutta  quanta  la  terra  e  sostituendone  altra  presa  in  località  im- 
mune. Noi  consigliamo  nuovamente  (pag.  600)  il  debbio,  cioè  l'abbru- 
ciamento  delia  terra  infetta  in  ispecie  di  fornelli  costruiti  colla  terra 
medesima,  con  un  sistema  molto  noto  nell'Alta  Italia  (V.  pag.  461). 

Il  Dumas  in  Francia  propose  un  metodo  che  diede  buoni  risultati. 
Appena  si  constata  nel  vigneto  l'esistenza  d'una  delle  macchie  che 
abbiamo  detto,  bisogna  affrettarsi,  qualunque  sia  la  stagione,  a  far 
scalzare  tutti  i  ceppi  malati  sino  alia  loro  base,  tenendosi  in  una 
zona  di  protezione  assai  lata.  Quindi  si  dà  alle  parti  della  pianta  così 
scoperta,  sino  alle  radici,  una  buoua  solforazione  e  si  lascia  poi  così 
il  tutto  esposto  all'aria  libera  almeno  per  un  mese.  Questa  opera- 
zione basterebbe  a  distruggere  tutte  le  vegetazioni  parassitarie  che 
affliggono  la  pianta.  Gli  ultimi  studii  dell' Hartig  su  questa  malattia 
lo  condussero  a  dare  alcuni  buoni  consigli  preventivi.  Nel  pianta- 
mene aver  cura  di  non  offendere  menomamente  le  radici,  purgare 
la  terra  cavata  nel  far  le  buche  dai  pezzi  di  radice  o  di  legno, 
piantare  piante  perfettamente  sane,  senza  legno  vecchio.  Non  ripian- 
tare nel  punto  ove  una  pianta  è  morta  di  recente,  o  in  caso  di  bi- 
sogno gettare  nella  fossa  e  nella  terra  cavata  della  calce  viva,  o 
anche  bruciare  nella  fossa  spini  o  altra  legna  a  buon  mercato.  Im- 


(1)  Wichtige  Krankheiten  der    Waldbàume.  Berlin  Springer,   1874. 

(2)  Sarò  gratissimo  a  chi  me  ne  spedisse  esemplari  in   Casal  Monferrato. 


918  CAPITOLO  XXX 


pedire  infine  che  i  pali  tutori  diventino  fomite  d'infezione,  trattandoli 
con  sostanze  antisettiche  (vetriolo  bleu,  ecc.) 

§  8.  Il  mal  nero  della  vite.  —  Su  questa  malattia,  di  parti- 
colare interesse  per  l'Italia,  diremo  pochissime  parole,  perchè  essa  è 
ben  lungi  dall'  essere  definita,  e  nelle  sue  essenze  si  danno  spiega- 
zioni disparatissime.  Essa  avrebbe  i  seguenti  segni  caratteristici:  an- 
nerimento dei  tralci  o  limitato,  od  esteso  anche  ai  picciuoli  delle 
foglie,  ai  viticci,  al  ramo  principale  del  grappolo  in  fiore,  ai  grossi 
rami.  Le  foglie  avvizziscono,  seccano  e  cadono.  Togliendo  la  corteccia 
annerita  si  trova  il  legno  rossastro  per  una  sostanza  che  il  Comes 
vuole  sia  di  natura  gommosa,  prodotta  per  degenerazione  dell'amido, 
che  il  Cugini  e  il  P trotta  vogliono  costituita  di  tannino,  e  il  Cop- 
pola ritiene  essere  di  natura  ulmica.  Così  pure  disparatissime  sono 
le  opinioni  degli  studiosi  sulla  origine  della  malattia,  tanto  che  il 
Prof.  Alai,  pur  emettendo  un'ipotesi  sull'influenza  che  vi  può  avere 
la  natura  del  terreno  coltivabile  e  del  sottosuolo,  conclude  dicendo 
che  la  vera  causa  del  mal  nero  resta  allo  scuro.  Comes  pensa  d'ac- 
cordo con  Alai  che  questa  causa  sta  nella  poca  permeabilità  degli 
strati  profondi  del  suolo  coltivabile. 

Ma  infine  la  questione  è  ancora  allo  studio,  e  non  essendo  ac- 
certata ancora  la  causa  del  male  nessun  rimedio  può  venire  per  ora 
ragionevolmente  proposto. 

§  9.  Il  giallume.  —  Il  giallume,  che  alcuni  chiamano  ferza, 
fu  studiato  dal  Negri  per  la  prima  volta  nel  1876;  egli  ricono- 
sceva questa  malattia  da  un  «  giallo  solfino  che  prendono  i  vigneti; 
ed  al  giallo  si  sostituisce  spesso  il  bruno  in  larghe  tacche  ed  a  tutte 
e  due  sussegue  la  caduta  delle  foglie  rimanendo  la  pianta  spoglia 
come  d'inverno  »  (G  orn.  Vinicolo  1876,  pag.  327).  Esso  è  carat- 
terizzato da  «  macchie  arsicce  a  contorni  perfettamente  definiti  di 
forma  varia  e  d'ogni  grandezza,  sparse  irregolarmente  sulle  foglie 
e  talora  limitate  ai  margini.  ».  Queste  piccole  macchie  giallo  rossa- 
stre, analoghe  a  quelle  prodotte  da  scottature,  si  presentano  sulla 
pagina  superiore  delle  foglie  e  specialmente  lungo  i  margini.  Nella 
pagina  inferiore  le  macchie  sono  d'un  grigio  pallido. 

Il  parassita  del  g'allume  fu  dal  Dar.  Thumen  chiamato  phoma  ne- 
grianum  dal  nome  dello  scopritore.  Il  suo  micelio  si  nutre  come  quello 
della    peronospora  e  si  sviluppa  a  spese  delle  foglie;  ed  è  perciò  da 


CRITTOGAME  DELLA  VITE  919 

combattersi  quantunque  finora  in  Italia  non  abbia  recato  grandi  danni, 
e  sia  apparso  solo  in  qualche  provincia  (Alessandria,  Cremona,  Parma). 
Raccogliendo  le  foglie  colpite  nel  tardo  autunno  si  può  constatare 
nelle  macchie  la  presenza  di  bitorzoletti  neri  minutissimi,  i  quali  altro 
non  sono  che  i  peritecci  od  organi  di  fruttificazione  della  phoma 
(pag.  892).  Questo  è  l'indizio  certo  della  presenza  della  malattia.  Al- 
lora il  Negri  consiglia  di  raccogliere  ed  abbruciare  tutte  le  foglie 
infette,  onde  scemare  le  progenie  del  fungillo  causa  della  malattia. 
Il  medesimo  autore  non  esclude  il  drenaggio,  parendogli  che  il  male 
appaia  più  frequentemente  nelle  località  umidicce. 

§  10.  Ultime  teorie  sulla  natura  del  giallume,  del  mal 
nero  e  dell'antracnosi.  —  Il  Prof.  Orazio  Comes,  della  R.  Scuola 
Superiore  d'Agricoltura  di  Portici,  ha  emesso  in  questi  ultimi  anni 
una  teoria  secondo  la  quale  i  sintomi  morbosi  che  caratterizzano  il 
giallume,  1'  antracnosi  ed  il  mal  nero  sono  tutti  provenienti  da  una 
causa  sola;  la  quale  sarebbe  un  alterato  processo  nutritivo  indotto 
nella  pianta  dalla  malsania  o  dal  deperimento  maggiore  o  minore 
delle  radici.  Le  radici  delle  viti  che  presentano  i  detti  sintomi,  es- 
sendo alterate  e  marcite,  comunicherebbero  la  malattia  alla  parte 
aerea  della  pianta,  la  quale  presenterebbe  alterazioni  più  o  meno 
gravi  (ingiallimento,  disseccamento,  gommosi,  ecc.)  secondo  che  il 
disfacimento  delle  radici  è  più  o  meno  avanzato;  la  malsania  delle 
radici  indurrebbe  la  eccessiva  gommificazione  dei  tessuti,  e  sarebbe 
alla  sua  volta  cagionata  dalla  poca  permeabilità  degli  strati  profondi 
del  suolo  coltivabile,  sia  all'aria,  sia  all'acqua  (V.  §  8).  Secondo  il 
Comes  il  fungo  che  si  crede  causa  del  marciume  delle  radici  non 
ne  è  che  1'  effetto;  cosi  pure  il  Phoma  negriaaum  si  formerebbe 
nelle  foglie  quando  esistono  già  le  macchie  e  le  pustole  caratteri- 
stiche della  malattia;  cosi  infine  del  fungo  dell' antracnosi. 

Esciremmo  dal  nostro  campo  volendo  prender  parte  alla  viva  di- 
scussione che  le  teorie  del  Comes  hanno  suscitato  tra  i  crittoga- 
mici. A  noi  basterà  di  accennare  alle  deduzioni  pratiche  che  da 
esse  si  possono  trarre  a  vantaggio  della  viticoltura.  Se  infatti  il 
concetto  del  Comes  è  vero,  e  questo  lo  diranno  fra  breve  gli  studii 
e  le  esperienze  degli  scienziati,  noi  potremo,  prevenendo  il  marciume 
delle  radici,  tener  lontane  anche  le  altre  gravi  malattie  del  mal  nero, 
dell'  antracnosi  e  del  giallume.  Ora  il  citato  autore  afferma  che  la 
causa  precipua  del  marciume  risiede  nel  piantare  troppo  profondamente 


920  CAPITOLO   XXX 


i  sarmenti  o  magliuoli,  là  dove  il  sottosuolo  è  impermeabile  all'acqua, 
e  che  questo  marciume  è  aggravato  dalla  concimazione  con  letame 
non  bene  fermentato  e  dalla  consociazione  alla  vite  di  piante  avide 
di  sali  alcalini  (patate,  pomidoro).  Ed  ecco  i  rimedii  proposti  dal 
Comes;  ommettiamo  quelli  già  accennati  al  §  7,  che  sono  pur  buoni: 
«  Sospendere  nei  vigneti  la  coltura  di  quelle  piante  erbacee  che 
richiedono  letame  e  sostituirvi  le  erbe  da  sovescio.  Presentatasi  la 
malattia  sotto  qualsiasi  delle  forme  indicate  bisogna  sotterrare  il 
fusto  della  vite  ammalata,  senza  svellerlo,  alla  profondità  di  circa 
mezzo  metro  dalla  superficie  del  suolo,  dopo  di  aver  smosso  almeno 
di  un  altro  metro  il  terreno  sottostante,  ove  andranno  a  distendersi 
le  nuove  radici  che  spunteranno  sul  fusto  sotterrato.  È  raccoman- 
dabile di  fognare  con  pietrame  il  fondo  del  fosso  che  si  è  scavato. 
Essendo  poi  la  malattia  infettiva  è  necessario  smettere  l'uso  di  pian- 
tare più  tralci  nello  stesso  posto,  e  quando  si  scalzano  le  radici  bi- 
sogna asportare  e  bruciare  tutte  quelle  che  si  trovano  già  marcite, 
nonché  gli  altri  cascami  della  pianta  infetta  »  (1). 

§  11.  Altre  crittogame  della  vite.  —  In  condizioni  eccezio- 
nali di  grande  umidità  possono  svilupparsi  nella  vite  altri  parassiti 
vegetali  di  minore  importanza.  Essi  si  chiamano  Cladosporhtm  vi- 
ticolum  {Cesati)  —  Cladosporhtm  Roesling  {Cattaneo)  —  Septo- 
sporium  Fuckelii  {Thù>nerì).  — ■  Un  altro  parassita,  il  Septocylin- 
drum  dessiliens  {S'iceardo),  sarebbe  stato  constatato  invece  nelle 
annate  secche.  Tutti  cagionano  alterazioni  specialmente  alle  foglie, 
e  i  loro  segni  esterni  rassomigliano  a  quelli  della  peronospora,  tanto 
nella  pagina  superiore,  come  in  quella  infei  >re.  Nessuno  di  essi  ar- 
recò mai  gì  li  danni;  essi  appaiono  generalmente  in  autunno  dopo 
maturato  il  frutto.  Lo  studio  di  essi  ha  quindi  un'  importanza  piut- 
tosto teorica  che  pratica. 


(1)  0.  Comes.  Sul  marciume  delle  radici  e  sulla  gommosi  della  vite  nella  prò  . 
viaria  di  Napoli,   1884. 


CAPITOLO   XXXI 


Le  viti  americane  in  Europa. 


§  1.  Classificazione  pratica  delle  viti  americane  —  §  2.  Specie  a  granelli  grossi. 
V.  Labrusca,  York  Madeira,  ecc.  —  §  3.  Specie  a  granelli  piccoli.  V.  ^Esti- 
valis,  Jacquez,  ecc.  —  §  4.  V.  Riparia,  Solonis,  Clinton,  ecc.  —  §  5.  Altre  viti 
a  granelli  piccoli.  Rupestris,  ecc.  —  §  6.  Ibridi  —  §  7.  Ragione  della  resi- 
stenza delle  viti  americane  —  §  8.  La  seminagione  e  1-  innesto  —  §  9.  Adat- 
tamento ai  diversi  terreni  —  §  10.  Gli  insuccessi  e  l'avvenire  delle  viti  ame- 
ricane. 


§  1.  Classificazione  pratica  delle  viti  americane.  —  Ab- 
biamo accennato  nel  capitolo  Botanica  della  vite  alla  classificazione 
delle  specie  che  appartegono  al  genere  Vitis,  proposta  dal  profes- 
sore Elia  Durano1.  Sotto  il  punto  di  vista  pratico,  dell'interesse  cioè 
più  o  meno  grande  che  le  viti  americane  ed  asiatiche  possono  pre- 
sentare nella  viticoltura  europea,  accenneremo  alla  divisione  proposta 
dal  Planchon  ed  accettata  dai  professori  della  Scuola  di  Mompel- 
lieri  (1).  Di  ogni  specie  e  di  ogni  varietà  daremo  brevemente  quelle 
notizie  che  maggiormente  potranno  interessare  dal  punto  di  vista 
pratico,  estendendoci  maggiormente  su  quelle  che  già  possediamo  in 
Italia  e  che  ci  conviene  quindi  di  moltiplicare.  Il  Planchon  (2)  di- 
vide il    genere  vitis   in  due  sezioni:    Muscadinia  ed    Eumtes.  Alla 


(1)  Vedi  Foè'x  e  Viala.  Ampélographie  américaine.  Montpellier  1885.  L.  De- 
grully  e  P.  Viala.  Les  vignes  américaines  à  V Ecole  Nationale  a"  Agriculture  de 
Montpellier,  1884. 

(2)  V.  Las  vignes  américaines,  leur  culture,  eie. 


922  CAPITOLO  XXXI 


sezione  Muscadinia  appartiene  la  sola  specie  V.  Rotundifolia. 
Essa  ha  per  caratteri  quello  d'avere  la  corteccia  aderente  e  coperta 
da  piccole  e  numerose  lenticelle.  La  V.  Rotundifolia,  a  cui  appar- 
tiene la  varietà  Scuppernong,  non  ha  importanza  pratica  nella 
viticoltura  europea,  non  avendo  dato  buoni  risultati  né  come  pro- 
duttore diretto,  né  come  porta  innesti. 

Le  specie  che  appartengono  alla  sezione  Euvites  hanno  di  carat- 
teristico che  la  corteccia  di  buon'  ora  si  distacca  in  striscie  e  sono 
prive  di  lenticelle.  Se  ne  fanno  tre  divisioni:  1°  Specie  portanti  uva 
a  granelli  grossi,  e  sono  la  V.  Labrusca,  la  V.  Candicans,  la  V.  Mon- 
ticala e  la  V.  Lincecumii  tutte  americane.  2°  Specie  portanti  uva  a 
granelli  piccoli,  e  sono  la  V.  JEstivalis,  la  V.  Riparia,  la  V.  Rupe- 
stris,  la  V.  Cordi folia,  la  V.  Berlandieri,  la  V.  Arìzonica,  la  V.  Cali- 
f umica,  la  V.  Cinerea,  la  V.  Cariboea  americane,  e  la  V.  Thimberg, 
la  V.  Flexuosa,  la  V.  Coignetice,  la  V.  Amurensis,  la  Spinovi tis 
Davidi  e  la  V.  Romane  ti  dell'Asia  orientale.  3°  Granelli  di  grossezza 
diversa,  e  qui  abbiamo  la  V.  Vinifera.  Come  si  vede  questa  divi- 
sione* più  che  botanica  è  pratica.  Esamineremo  le  specie  delle  due 
prime  divisioni,  quelle  della  terza  essendo  già  state  trattate  nel 
capo  XXVI. 

§  2.  Specie  a  granelli  grossi.  V.  Labrusca.  —  È  1'  unica 
specie  di  quelle  conosciute  che  abbia  i  viticci  continui.  Altri  carat- 
teri tra  i  più  distintivi  sono  quelli  di  avere  la  punta  dei  germogli 
d'un  colore  rosato;  le  foglie  sono  munite  d'una  folta  lanuggine  alla 
pagina  inferiore,  la  quale  presenta  talvolta  1'  aspetto  un  pi)'  metal- 
lico. La  V.  Labrusca  è  poco  resistente  alla  fillossera  e  difficilmente 
si  acclima  da  noi.  Il  suo  frutto  ha  il  sapore  volpino  o  di  selvatico 
(sapore  di  fragola,  di  cirmce,  di  lampone,  detto  foxy  in  inglese,  foxè 
o  de  renard,  in  francese).  Le  varietà  più  conosciute  della  V.  Labrusca 
sono  il  Concord,  Y  Isabella,  la  Catawba  e  gli  ibridi  Triumph  (ibrido 
di  Concord  e  di  Chasselas)  e   York  Madeira. 

Il  Concord  riconosc.bile  alla  lanugine  folla  e  d'aspetto  bianco  do- 
rato, che  ha  alla  pagina  inferiore  delle  foglie,  ha  pochissima  impor- 
tanza per  noi.  Dà  un  vino  a  spiccato  sapore  volpino,  ed  è  cattivo 
porta  innesti. 

V Isabella  e  la  Catawba  sono  conosciute  in  Italia,  ma  non  pos- 
sono essere  adoperate  nel  piantamento  di  viti  americane  resistenti. 
Esse  sono  attaccate  dalla  fillossera  ed  i  frutti  hanno  il  sapore  di 
fragola. 


LE  VITI  AMERICANE  IN  EUROPA  923 

Il  Triumph  (ibrido)  ha  qualche  propugnatore  in  Francia  che  lo 
ritiene  eccellente  produttore  diretto.  All'  ultimo  Congresso  di  Mont- 
pellier si  disse  che  il  vino  di  Triumph  tagliato  con  Jacquez  dà  un 
prodotto  assai  fino  (1).  La  sua  resistenza  alla  fillossera  non  è  an- 
cora bene  accertata. 

Il  Jork  Madeira  può  interessare  assai  più  di  tutti  i  prece- 
denti, tanto  più  che  è  diffuso  in  Italia.  Ha  i  viticci  discontinui,  d'un 
rosa  sporco,  i  tralci  rugosi,  prima  d'un  verde  sporco  poi  d'un  rosso 
bruno;  colla  V.  Labmsca,  da  cui  dipende,  divide  il  carattere  d'  a- 
vere  una  lanugine  assai  compatta  sulla  faccia  inferiore  delle  foglie, 
le  quali  sono  di  larghezza  media,  intiere,  cordiforme,  un  po'  allungate 

Il  York  Madeira  è  rustico  e  assai  resistente  alla  fillossera;  i 
viticultori  francesi  lo  ritengono  ottimo  porta  innesti  specialmente  pei 
terreni  secchi  ed  aridi,  quantunque  nei  primi  due  anni  presenti  un'ap- 
parenza assai  meschina.  Non  gli  si  dà  importanza  in  Francia  come 
produttore  diretto,  e  gli  si  rimprovera  il  gusto  fuocé.  Da  noi  invece 
il  vino  di  York  ha  seguaci  ed  ammiratori.  Citiamo  fra  questi  il 
Toscanelli,  il  Boschiero,  il  belletti.  Pare  che  facendo  fermentare 
il  mosto  senza  le  bucce,  travasando  sovente  al  primo  anno,  e  sopra 
tutto  impiegando  il  vino  nei  tagli,  che  il  sapore  foocy  scompaia  (2). 
Del  resto  in  certe  provincie  d'Italia  molti  amano  il  vino  col  sapore 
foocy.  Citiamo  il  Friuli  in  cui  è  constatato  che  ormai  vi  ha  una 
predilezione  per  un  tal  vino.  Il  Rovasenda  disse  in  seno  alla  Com- 
missione consultiva  per  la  fillossera  (3):  È  strano  ma  constatato  il 
fatto  che  a  molti  piace  il  gusto  di  fragola  nel  vino;  gli  operai  del 
Biellese  sono  fra  questi. 

V.  Candicans.  È  conosciuta  in  America  sotto  il  nome  di  Mustang 
grape  (uva  di  cavallo  selvatico).  La  si  riconosce  facilmente  ai  ger- 
mogli bianco  rosati  e  alle  foglie  sempre  più  o  meno  convesse  alla 
pagina  superiore.  Dà  un  vino  scadentissimo.  Resiste  alla  fillossera 
ma  assai  difficilmente  rappiglia  per  talea. 

V.  Monticola  e  V.  Lincecumii.  Sono  poco  conosciute  e  quindi 
per   ora  non  presentano  interesse. 

§  3.  Specie  a  granelli  piccoli.  V.  JEslìvalis.  —  La  V.  JEslì- 
valis  ha  caratteri  abbastanza    spiccati.    I    germogli   sono    d'un    vivo 

(1)  Comptes  rendus  des  Rèunions  viticoles,    1885,  pag.   10. 

(2)  V.  Giornale   Vinicolo,   1883,  pag.   121. 

(3)  V.  Atti  ecc.  Sessione  di  luglio   1883. 


924  CAPITOLO  XXXI 


colore  rosso  carmino;  le  foglie  presentano  appena  nate  la  forma  ap- 
piattita e  sono  coperte  nelle  due  faccie  d'una  folta  lanugine  la  quale 
poi  scompare  dalla  pagina  superiore  delle  foglie  adulte.  La  V.  JEsti- 
valis  può  dare  direttamente  vino,  ma  rende  poco.  È  resistente  e 
fornisce  uno  dei  migliori  porta  innesti:  —  Foèx  e  Viala  fanno  una 
classificazione  pratica  assai  importante  delle  varietà  delle  V.  AUsti- 
valis.  È  quella  che  noi  qui  seguiremo  : 

A)  Varietà  a  foglie  lobate  a  grappolo  alato  ed  allungalo, 
Jacquez:  —  è  una  delle  viti  americane  più  interessanti,  assai  lodata 
tanto  come  porta  innesto  quanto  come  produttore  di  vino.  Conserva 
i  germogli  rosso  carminio  del  tipo  JGstivalis,  ma  questo  colore  scom- 
pare più  presto,  le  foglie  sono  d'un  rosso  carico  con  ciuffetti  di  peli 
sulle  nervature.  Del  vino  di  Jacquez  si  è  fatto  qualche  tentativo  in 
Italia  (Rovasenda  ed  altri),  e  numerosi  nei  Mezzogiorno  della  Francia 
È  un  vino  carico  di  colore  quantunque  privo  di  aroma  e  che  serve 
benissimo  per  i  tagli.  La  sua  alcoolicità  sta  tra  i  12°  e  i  14°.  Ha 
il  difetto  essenziale  di  prendere  facilmente  una  tinta  bleu:  ad  impe- 
dir ciò  si  consiglia  di  non  far  la  raccolta  troppo  tardi  e  di  aggiun- 
gere alla  vendemmia  dell'acido  tartarico. 

Il  vitigno  resiste  bene  alla  fillossera  ed  è  di  facile  contentatura 
riguardo  al  terreno;  non  teme  che  i  terreni  umidi  ove  va  singolar- 
mente soggetto  alle  malattie  crittogamiche.  E  abbastanza  produttivo, 
ma  rappiglia  difficilmente  per  talea  —  appunto  fattogli  anche  dal 
nostro  Rooasenda;  —  è  un  vigoroso  porta-innesti. 

L'  Htrbemont  ha  le  foglie  d'un  verde  meno  intenso  del  Jacquez, 
e  lobi  meno  profondi.  Se  ne  conosce  una  varietà  a  frutto  nero  e 
una  a  frutto  bianco  sperimentata  e  lodata  dal  Malègre  in  Francia 
e  dal  Grazzi  Sondili  in  Italia.  Ma  rende  poco,  per  cui  lo  si  con- 
siglia piuttosto  come  porta  innesti  nelle  terre  rosse  a  ciottoli  silicei, 
nelle  terre  cioè  che  si  riscaldano  facilmente. 

BJ  Varietà  a  foglie  quasi  intiere,  a  grappolo  corto  e  non 
alato.  Cunningham.  Dà  frutto  fino,  ma  è  assai  poco  produttivo. 
Non  pare  abbia  gran  valore  come  porta  innesti. 

Black-July.  Dà  frutto  fino  ma  scarso.  Si  accontenta  facilmente 
del  terreno  e  non  teme  le  malattie  crittogamiche  in  grazia  delle  sue 
foglie  spesse,  coriacee  e  tomentose. 

C)  Varietà  in  cui  la  pagina  inferiore  delle  foglie  presenta 
una  lanugine  color  ruggine.  Cynthiana.  Buon  vino  ma  prodotto 
in  proporzione  troppo  scarsa.  Fo'èx,  Pulliat,   Champin  ed  altri  am- 


LE   VITI  AMERICANE  IN  EUROPA 


925 


mettono  che   questo  vitigno  sìa  affatto   identico   al   Norton'  s    Vir- 
ginia (1).  Riesce  solo  nelle  terre  rosse  a  ciottoli  silicei. 

§  4.  Y.  Eiparia.  —  La  Riparia  e  le  sue  varietà,  specialmente 
selvatiche,  forniscono  i  migliori  porta-innesti.  Tra  i  caratteri  princi- 
pali ampelografici  accenneremo  a  quello  essenziale  delle  foglie;  le 
quali,  giovani  restano  lungo  tempo  ripiegate  su  di  loro  stesse  come 
a  gronda,  adulte  in  forma  di  cuore  sono  liscie  nelle  due  faccie,  lu- 
cide nella  pagina  inferiore,  aventi  talvolta  in  esse  qualche  pelo  sulle 
nervature.  A  dare  con  poche  parole  un'idea  sufficiente  delle  varietà 
della  V.  Riparia  uniremo  qui  uno  specchietto  che  abbiamo  compilato 
servendoci  del  citato  opuscolo  di  Degrully  e  Viala.  Non  è  che  una 
divisione  pratica; 


La  specie  Riparia 
si  può  dividere 
in  2  gruppi 


Riparie 

selvatiche 


coltivate 


Tomentose,  [specialmente  nei  giovani  rami  — 
(riescono  meglio  delle  altre  nei  terreni 
umidi    errici  climi  settentrionali). 

/  a  foglie  piccole  —  (le  meno  nume- 
i       rose,  poco    vigorose    e    quindi    da 
Glabre  i       abbandonarsi) 

I  a  foglie  grandi  —  (sono  le  migliori. 
'       La  R,  Fabre  ne  è  il  tipo) 

e  la  Solonis  i  cui  caratteri  son  dati  più  sotto. 
j  Taylor 
\  Clinton,  ecc. 


Le  Riparie  glabre  a  foglie  grandi  più  o  meno  verniciate,  lucenti, 
e  spesse  offrono  tipi  di  molto  valore,  che  è  però  assai  difficile  di 
specificare;  il  mezzo  migliore  di  riconoscere  una  buona  Riparia  è  di 
piantarla  e  coltivarla  (2), 

La  V.  Solonis  deve  essere  studiata  con  amore  e  con  speciale  in- 
teresse  dai  nostri  viticoltori,  perchè  è  una  di  quelle  che  abbiamo  in 
Italia  e  fornisce  un  vigorosissimo  porta  innesto.  Si  riconosce  con 
grande  facilità:  è  tomentosa  nei  tralci,  e  le  foglie  d'un  verde  glauco 
hanno  denti  acuti,  di  cui  due,  assai  più  spiccati,  convergono  verso 
l'asse  o  linea  mediana  della  foglia,  coll'estremità  curvata  al  disotto. 
Ciò  dà  alla  foglia  una  forma  caratteristica.  Resistentissima  alla  fil- 
lossera, facile  a  rappigliare,  è  ottima  la  V.  Solonis  specialmente  pei 


(1)  Bulletin  de  la  Società  d 'agriculture  de  V  Uérault  1884,  pag.   199, 

(2)  Degrully  e    Viala.  Op.  cit.  p.   18, 


926  CAPITOLO  XXXI 


terreni  un  po'  umidi,  o  in  quelli  a  sottosuolo  cretoso  o  tufaceo  dove 
le  altre  Riparie  selvatiche  non  riescono  {Foèx). 

Venendo  alle  varietà  coltivate  di  Riparia,  abbiamo  il  Taylor  e 
il  Clinton  che  furono  tra  le  prime  a  essere  coltivate  in  Francia  e 
che  ora  cedono  man  mano  il  posto  ad  altre  varietà.  Il  Clinton  è 
poco  vigoroso  e  di  diffide  contentatura  in  quanto  al  terreno;  il 
Taylor  è  vigoroso,  rappiglia  facilmente  e  tien  bene  Y  innesto,  ma 
ha  pochi  terreni  che  gli  convengono.  Secondo  Foex  e  Viala  vuole 
terre  profonde  di  consistenza  media  un  po'  leggera.  Ad  eccezione  di 
queste  terre  e  dei  detriti  tufacei  dove  gli  altri  tipi  americani  non 
attecchiscono,  il  Taylor  è  abbandonato.  Clinton  e  Taylor  sono  cono- 
sciuti anche  in  Italia. 

Infine  le  migliori  varietà  di  Riparia  sono  le  selvatiche.  Nel  Mez- 
zogiorno della  Francia  i  tre  quarti  di  vitigni  ricostituiti  sono  inne- 
stati su  Riparia  selvatica.  Ha  un  gran  vigore,  è  un  ottimo  porta 
innesto,  si  contenta  di  quasi  tutti  i  terreni  (eccetto  quelli  sterili,  u- 
midi,  argillosi,  o  troppo  secchi).  Rappiglia  facilissimamente  di  talea 
e  va  pochissimo  soggetto  alle  malattie  crittogamiche. 

In  Italia  abbiamo  già  molte  viti  Riparie  ottenute  dai  semi  dispen- 
sati dal  Ministero. 

§  5.  Altre  viti  a  granelli  piccoli.  —  Le  accenneremo  sola- 
mente di  volo.  La  V.  Rupestris  è  un  ottimo  e  vigorosissimo  porta 
innesti.  La  si  riconosce  facilmente  dalle  foglie  più  larghe  che  lunghe 
e  restanti  sempre  piegate  a  gronda.  Fu  diffusa  in  Italia  dal 
Ministero  d'Agricoltura.  La  V.  Cordi  folta  resiste,  ma  difficilmente 
si  moltiplica  per  talea.  La  V.  Berlandieri  da  poco  studiata  ha  pre- 
sentato un  vigore  eccezionale,  resiste  alla  fillossera  e  porta  bene 
l'innesto,  ma  rappiglia  difficilmente  per  talea.  La  V.  Arizonica  e  la 
V.  Californica  sono  coltivate  ed  estese  con  successo  in  California. 
Secondo  il  Prof  Pohndorff  di  S.  Helena  vanno  messe  tra  le  più 
resistenti  (1).  Pare  però  che  siano  di  difficile  moltiplicazione.  La  V.  Ci- 
nerea resistente  e  la  V.  Cariboea  sono  ancora  poco  conosciute.  Le 
specie  asiatiche  che  abbiamo  nominato  non  presentano  interesse  per 
noi,  o  perchè  non  sono  resistenti  (Thunberg,  Amurensis),  o  perchè 
pochissimo  conosciute  finora. 


(1)  V.   Giornale   Vinicolo   1884,  p.  426. 


LE  VITI  AMERICANE  IN  EUROPA  927 

§  6.  Ibridi.  —  Il  Vialla  è  il  porta-innesto  per  eccellenza  del 
Bordolese  e  del  Lionese.  Secondo  PuHiat  riesce  a  maraviglia  nelle 
terre  granitiche  del  Beaujolais  (1).  Foéx  lo  consiglia  specialmente 
nei  climi  un  po'  umidi  e  nelle  terre  di  media  consistenza  ed  umi- 
dità. In  Italia  abbiamo  il  Vialla,  che  il  Rovasenda  crede  venuto  di 
contrabbando  in  Lombardia.  È  resistente- 

U  O/hello  è  coltivato  da  qualche  anno  come  produttore  diretto,  e 
dà  vino  discreto,  a  sapore  pochissimo  foxé;  ma  non  è  ancora  ac- 
certata la  sua  resistenza  alla  fillossera.  L'  Eloira  può  servire  da 
porta -innesto  nelle  terre  ricche,  profonde,  fresche  e  permeabili.  Del 
Yo?  k  -Madeira  e  del  Triumph  già  parlammo  al  §  2.  Tutti  questi 
sono  ibridi  ottenuti  naturalmente  in  America:  l'ibridazione  artificiale 
tra  viti  americane  resistenti  e  vigorose  e  viti  francesi  è  già  stata 
tentata  in  Francia,  ma  per  ora  senza  grandi  risultati  pratici.  Per 
altro  non  è  impossibile  che  si  riesca  ad  ottenere  dei  soggetti  vigo- 
rosi, fruttiferi  e  resistenti  (v.  pag.  553). 

§  7.  Ragione  della  resistenza  delle  viti  americane.  —  La 

resistenza  di  certe  viti  americane  fu  ed  è  oggetto  di  molte  ricerche 
non  solo  in  Francia,  ma  oggi  anche  in  Italia;  si  disse  che  la  potenza 
della  vegetazione  è  una  causa  di  resistenza,  ma  allora  come  spie- 
gare che  le  viti  Labrusca,  viti  americane  a  grande  sviluppo  (2), 
non  resistono  affatto,  mentre  il  Yorh-madeira  ed  il  Gaston-Ba- 
zille,  di  vegetazione  limitatissima,  son  resistenti?  Miglior  spiegazione 
ci  pare  quella  dell'americano  Bush,  che  assegna  come  causa  di  tale 
resistenza  la  durezza  delle  radici  di  certe  viti;  il  chimico  Boutin 
trovò  invece  la  ragione  della  resistenza  nella  esistenza  nelle  radici 
suddette  d'una  maggior  quantità  di  acido  malico  e  di  materia  resi- 
noide che  cicatrizzerebbero  le  feriti  della  fillossera.  Ma  gli  studii  più 
serii  sono  quelli  di  Fóex  e  Coste,  dai  quali  desumesi  che,  nelle  viti 
resistenti,  la  puntura  dei  pidocchi  non  interessa,  non  altera,  non  di- 
sorganizza che  il  solo  inviluppo  esteriore  delle  radici  (il  parenchima 
corticale),  mentre  nelle  non  resistenti  disorganizza  il  cilindro  tutto 
intero  delle  radici  stesse.  Le  viti  resistenti  hanno  adunque,  come  lo 
previde  Bush,  una  legnificazione    più    perfetta   e   una  struttura  più 


(1)  Congrès  viticole  de   Villefr anche- sur -Saone  1884.  Compie  rendu,  pag.  25. 

(2)  Non  si  confonda  questa  vite   colla    nostra    vite    Lambrusca  o  vite  selvatica 
detta  anche  Zampina. 


928  CAPITOLO  XXXI 


densa  dei  tessuti,  al  che  va  congiunto,  in  varie  specie,  uno  sviluppo 
proporzionatamente  rigogliosissimo  del  sistema  radicale.  È  bene  però 
notare  che  la  natura  fisico-chimica  del  terreno  può  far  scemare 
d'assai  la  detta  resistenza,  appunto  col  non  favorire  lo  sviluppo  del 
sistema  radicale;  da  ciò  molti  insuccessi  in  Francia.  Concludendo, 
diremo  col  Mìllardet,  pur  ricordando  quanto  dicemmo  sulla  morte  dei 
rigonfiamenti,  che  «  se  le  radicelle  di  una  vite  americana  fillosserata 
non  presentano  che  esiguo  numero  di  nodosità,  o  se  queste,  quan- 
tunque numerosissime,  non  si  disorganizzano  che  lentamente  o  in 
rari  casi,  la  resistenza  è  assicurata  e  tali  viti  resistenti  perdureranno 
a  resistere  indefinitamente  quando  abbiasi  cura  di  consultarne  le 
singole  diverse  attitudini  individuali.  » 

§  8.  La  seminagione  e  l' innesto.  —  Volendosi  seminare 
vili  americane  si  dovranno  scartare  i  semi  "  o  vinacciuoli  di  uve 
provenienti  dall'  incrociamento  di  viti  americane  fra  loro,  o  peggio 
di  viti  americane  colle  europee  (1);  —  così  l'incrociamento  dell' Ae- 
stivalis  colla  Labrusca  originò  il  York-madeira;  ma  i  semi  di  York- 
madeira  danno  piante  le  quali  non  sono  identiche  alla  madre,  ma  si 
avvicinano  in  parte  all' Aestivalis  (resistente)  ed  in  parte  alla  La- 
brusca  (non  resistente);  si  ritiene  quindi  cosa  imprudente  di  seminare 
tali  viti  ibride.  Millardet  perciò  dice  che  non  vi  sono  che  cinque 
sorta  di  viti  americane  che  possono  essere  raccomandate  a  priori 
per  seminare:  Herbemoyit,  Cimningham,  Jacquez,  Clinton  e  Ri- 
paria Solonis  (2). 

Noi  abbiamo  ottenuto  in  quest'ultimo  quadriennio  risultati  ottimi 
dalla  seminagione  della  Riparia  selvatica,  che  raccomandiamo  cal- 
damente a  tutti  coloro  che  desiderano  prepararsi  il  loro  vivaio  di 
viti  americane  porta-innesti  di  grande  resistenza.  Le  Riparia  sel- 
vatiche godono  delle  seguenti  preziose  proprietà: 

1°)  Seminate,  danno  viti  dello  stesso  tipo,  e  tutti  i  tipi  di  Ri- 
paria sono  resistentissimi,  cosa  questa  della  più  alta  importanza. 

2°)  I  semi  nascono  benissimo. 


(1)  G.  Foex,  Mesmggcr  agricole  du  Midi.  N.  2,  1880.  Egli  dice:  «  si  scelgano 
per  seme  delle  razze  le  cui  proprietà  di  resistenza  non  siano  state  alterate  dalla 
ibridazione  colle  nostre  viti  indigene.  » 

(2)  11  Riparia  Solonis,  per  esempio,  fiorisce  presto  e  non  vi  ha  quindi  pericolo 
di  ibridazione. 


LE  VITI  AMERICANE  IN  EUROPA  929 

3°)  Le  viti  riprendono  di  talea  con  molta  facilità. 
4°)  Gli   innesti  su  di  esse  riescono  benissimo. 
5°)  Si  adattano  ad  ogni  clima  e  ad  ogni  suolo. 
6°)  La    fillossera    quasi    non    determina    alterazione    sulle    loro 
radici. 

7°)  Infine  è  possibile  avere  semi  di  Riparia  da  regioni  ove  non 
sussiste  nessun'  altra  specie,  cioè  semi  purissimi  ed  esenti  da  incro- 
cramenti.  (Nel  bacino  del  Mississipì  presso  le  cascate  di  S.  Antonio 
e  sul  Lago  Superiore,  non  vi  ha  altra  vite  che  la  Riparia  selva- 
tica, a  detta  dell'illustre  Engelmann). 

Sin  dal  1882  noi  consigliavamo  il  Governo  a  voler  tralasciare  dal- 
l'importare  talee  dalla  Francia  meridionale,  essendovi  gravi  pericoli, 
nonostante  le  disinfezioni,  di  introdurre  la  fillossera  nei  nostri  vivai 
nazionali,  come  già  era  accaduto  a  Montecristo.  Questa  nostra  pro- 
posta, la  quale  si  ebbe  vivi  encomii  dai  signori  Planchon,  Millardet 
e  Champin,  fu  accettata;  ed  oggi  abbiamo  in  Italia  parecchi  semenzai 
che  presto  daranno  in  quantità  ottime  barbatelle  resistenti  e  sicura- 
mente immuni.  Oltre  alla  Riparia  converrà  seminare  per  avere  ottimi 
porta-innesti  anche  la  V.  Rupestris  e  la  Cordifolia;  invece  non  pos- 
siamo ugualmente  raccomandare  la  seminagione  delle  specie  e  va- 
rietà a  produzione  diretta,  perchè  esse  non  si  riproducono  mai  e- 
sattamente  di  seme.  Facendo  la  seminagione  colle  norme  che  abbiamo 
dato  a  pag.  383,  si  avranno  già  al  3°  anno  barbatelle  rigogliose, 
atte  al  trapiantamelo  a  dimora  ed  a  ricevere  l'innesto  delle  nostre 
varietà. 

Quanto  ai  metodi  da  preferirsi  per  l'innesto  saremo  brevi  (dopo 
il  molto  che  ne  abbiamo  detto  al  cap.  XVIII.)  e  citeremo  solo  il 
parere  emesso  alle  pubbliche  riunioni  di  Montpellier  del  1884  dai 
signori  Champin,  Delmas,  Fermaud,  Prades  e  #alla  Duchessa  di 
Fitz  James,  una  ricca  signora  francese  che  ha  qualche  centinaio 
d'ettari  a  vigneto  innestato. 

«  L'innesto  a  spacco  —  si  disse  —  dovrà  essere  preferito  nella 
maggior  parte  dei  casi.  Avendo  a  propria  disposizione  operai  molto 
abili,  si  potrà  dare  la  preferenza  air  innesto  inglese.  Tutti  gli  altri 
sistemi  vogliono  essere  rigorosamente  proscritti  »  (1). 

Nel  medesimo  congresso  fu  ridotta  alla  massima  semplicità  la  que- 
stione dei  mastici  e  delle  legature.  Il  mastice  è  l'argilla  plastica,  che 


(1)  V.  Bulletin,  loc.  cit.  pag.  236. 

0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  60 


930 


CAPITOLO  XXXI 


presso  il  sig.  Maures  di  Saint-Georges  supplisce  anche  alla  legatura: 

—  la  legatura  migliore  e  più  semplice  fu  detta  essere  lo  spago  o  la 
rapài  a. 

§  9.  Adattamento  dei  vitigni  americani  ai  diversi  terreni. 

—  A  dare  un'idea  sulle  diverse  esigenze  delle  viti  americane  ri- 
guardo al  terreno,  nulla  di  meglio  possiamo  fare  che  ricavare  uno 
specchio  dall'eccellente  trattato  di  Foéoc  e  Viola,  Ampélographie  a- 
méricaine. 

Adattamento  dei  vitigni  americani  ai  diversi  terreni. 


V.  Riparia  tomen- 

Terre argillose 

Terre    profonde   | 
fertili  e  fres-   { 
che.                     j 

tosa  e  glabra 
Jacquez 
Solonis 
Yialla 
Taylor 

i    Jacquez 

profonde  umi- 
dissime. 

Terre  sabbiose 
profonde    ab- 
bastanza   fer- 
tili. 

V.  Cinerea 

i   Solonis 

Jacquez 

Cunningham, 
'    Black-July 

Terre    profonde 

V.  Riparia 

,    V.  Rupestris 

un    po'    forti , 

Solonis 

non  umide. 

Yialla 
\    Taylor 

Terre  leggiere 

V.  Rupestris 

ciottolose  sec- 

Yorck 

che  e  aride. 

V.  Riparia  selvatica 

'   V.  Riparia 

Terre    profonde 

Jacquez 

di  media  con- 

Solonis 

Terre    profonde 

<    Solonis 

sistenza  ,    fre- 

Yialla 

a  fondo  tufa- 

sche in  estate. 

Taylor 

ceo  e  terre  sa- 

\  Black-July 

late. 

Terre  leggere 

Terre  formate 

, 

ciottolose  pro- 

,   Jacquez 

da  frantumi  di 

/     Taylor 

fonde  ,   di  fa- 

Yialla 

tufo  assai  pro- 

cile scolo,  che 

V.  Riparia  selvatica 

fonde. 

\ 

non  si  dissec- 

|   Taylor 

cano  troppo 
d'estate. 

V.  Rupestris 

Terre  rosse  per 

1    Tutte   le  varietà 

v 

peross.  di  fer- 

già nominate  e: 

ro,   a   ciottoli 

1    Herbemont 

Terre   calcari  a 

1    Solonis 

silicei,  profon- 

1   Clinton 

sottosuolo  cre- 

de e  un  po'  for- 

\   Cynthiana 

toso,  poco  pro- 

\  V.  Rupestris 

ti,  di  facile  sco- 

\   Hermann 

fonde  e  grani- 

lo ma  fresche 

'    Marion 

tiche. 

\ 

in  estate. 

\    Concord 

Terre  argillose 

'    Cunningham  e  in 

bianche  o  gri- 

qualche caso: 

giastre. 

[    Jacquez 

LE  VITI  AMERICANE  IN  EUROPA  931 


§  10.  Gli  insuccessi  e  l'avvenire  delle  viti  americane.  — 

Che  nelle  viti  americane  stia  un  potentissimo  mezzo  di  difesa  contro 
la  fillossera,  nessuno  più  ne  dubita.  Emnienti  scrittori  e  scienziati  fran- 
cesi, quali  il  Planchon,  il  Pulliat,  il  Champin,  il  Foéx,  il  Marès, 
il  Millardet  sono  in  ciò  d'accordo  coi  pratici.  Non  daremo  che  po- 
che cifre  in  appoggio  alla  nostra  asserzione. 

L' Hérault  aveva  nel  1879,  500  ettari  di  vigna  ricostituita 

nel  1880  ne  aveva     2.500 

»  1881         »  5.000 

»  1882         »         10.000 

»  1883         »         18.000 

Se  vi  sono  discrepanze  queste  riguardano  piuttosto  i  modi  di  uti- 
lizzare le  viti  americane.  V'ha  chi  ha  la  massima  fiducia  nell'innesto,  e 
chi  crede  invece  {Laurent)  che  l' innesto  tosto  o  tardi  finisce  per 
indebolire  il  soggetto;  v'ha  chi  mette  ogni  speranza  nei  produttori 
diretti,  e  chi  non  dà  a  questi  che  un'importanza  secondaria.  Gli  av- 
versarii  dell'innesto  portarono  dinnanzi  ai  congressi  ultimamente  te- 
nuti in  Francia  varii  esempi  di  deperimenti  di  viti  innestate;  ma  lo 
studio  di  essi  esempi,  fatto  da  apposite  commissioni,  condusse  sempre 
a  trovare  la  ragione  degli  insuccessi.  Questa  ragione  stava  o  nella 
natura  del  terreno,  o  nell'aver  trascurato  di  sopprimere  le  radici  e- 
messe  dall'innesto,  od  in  una  alterazione  esistente  prima  dell'  ope- 
razione dell'  innesto  e  via  via.  In  sostanza  1'  edificio  innalzato  con 
tanta  fatica  e  perseveranza  dai  viticultori  francesi  del  Mezzogiorno 
per  ora  non  è  scosso,  anzi  si  assoda  sempre  più  d'  anno  in  anno 
coll'aiuto  di  legioni  di  lavoratori  sempre  crescenti  di  numero,  e  dotati 
di  una  energia  e  di  una  perseveranza  tali,  che  tutta  l'Europa  viti- 
cola ne  è  ammirata. 

Noi  Italiani  non  dobbiamo  limitarci  ad  osservare  quello  che  si  fa 
nel  Mezzogiorno  della  Francia:  dobbiamo  tenerci  perfettamente  al 
corrente  di  quegli  studi  e  di  quelle  sperienze;  e  moltiplicare  frattanto 
i  nostri  piantamenti  di  viti  americane,  poiché  secondo  tutte  le  pro- 
babilità è  là  che  troveremo  uno  dei  più  validi  mezzi*  di  resistenza 
contro  l'invasione  fillosserica,  nella  stessa  guisa  che  il  sulfuro  di  car- 
bonio ci  porge  il  più  energico  mezzo  di  distruzione  dell'insetto. 


CAPITOLO  XXXII 


La  flllosseronosi  e  l'avvenire  della  viticoltura. 


§  1.  Una  profezia  di  Mosè  —  §  2.  Viticoltura  ed  albericoltura  per  l'Italia!  — 
§  3.  L'aumento  del  prodotto  brutto  dei  nostri  vigneti  —  §  4.  Diminuzione  nelle 
spese  di  mano  d'opera  —  §  5.  La  legge  contro  la  diffusione  della  fìllopsera: 
metodo  curativo  e  metodo  distruttivo. 


§  1.  Una  profezia  di  Mosè.  —  Nel  Deuteronomio  sta  scritto: 
«  tu  pianterai  una  vigna,  tu  la  educherai,  ma  tu  non  ne  ricaverai 
il  vino  perchè  essa  sarà  distrutta  dagli  insetti.  »  Anche  ai  tempi  di 
Mosè  la  vite  aveva  adunque  terribili  nemici,  se  il  grande  legislatore 
ha  potuto  fare  una  così  desolante  profezia!  Pure,  nonostante  le  nu- 
merosissime crittogame  ed  i  numerosissimi  insetti  che  in  tutti  i  tempi 
ci  hanno  disputato  il  succo  della  preziosa  ampelidea,  noi  siamo  riu- 
sciti ad  estenderne  molto  in  Europa  la  coltivazione,  ed  abbiamo  reso 
generale  presso  alcuni  paesi  l'uso  del  vino,  in  guisa  che  la  vite,  per 
la  Francia,  l'Italia  e  la  Spagna  principalmente,  rappresenta  oggigiorno 
una  ricchezza  di  primo  ordine  e  senza  dubbio  la  più  proftcua  fra  le 
piante  coltivate.  La  Francia  deve  per  certo  alla  vite  una  grande 
parte  della  sua  potenza  finanziaria,  per  cui,  nonostante  la  fillossera, 
ha  potuto  pagare  enormi  debiti  di  guerra  e  può  permettersi  altre 
gravi  spese  eli  colonizzazione!  L'Italia  a  quest'ora  produce  annual- 
mente tanto  vino  pel  valore  di  quasi  un  miliardo,  le  viti  si  estendono 
ogni  giorno,  e  se  ne  migliora  la  coltivazione  per  produrre  molto 
vino  a  buon  mercato. 

Ed  oggi,  perchè  la  fillossera  ha  invaso  e  distrutto  alcuni    vigneti 


LA  FILLOSSERONOSI  E  L'AVVENIRE  DELLA  VITICOLTURA       933 

italiani,  qualche  viticultare  si  allarma  oltre  misura,  si  dà  in  preda 
al  più  profondo  scoraggiamento  e  pensa  di  sostituire  alla  ubertosa 
vite  qualche  altra  coltivazione  !  Noi  invece  diciamo  che  ora  più  che 
mai  conviene  rivolgere  amorose  cure  ai  nostri  vigneti,  e  continuare 
ad  estendere  questa  coltura  assai  benefica  ed  eminentemente  colo- 
nizzatrice, dovunque  il  suolo  ed  il  clima  noi  vietano. 

Il  regno  della  vite  non  è  peranco  finito,  né  finirà  giammai;  con- 
fidiamo che  questa  profezia  avrà  maggior  fortuna  di  quella  del  Deu- 
teronomio ! 

§  2.  Viticoltura  ed  albericoltura  per  l'Italia!  —  Allor- 
quando le  produzioni  agricole  di  un  paese  sono  in  armonia  coi  tre 
fattori  clima,  suolo  e  situazione  del  mercato,  e  se  V  agricoltore 
conosce  il  suo  mestiere,  il  capitale  investito  nel  suolo  è  sempre  im- 
piegato ad  un  interesse  molto  rimuneratore.  Al  contrario,  se  la  pro- 
duzione deve  lottare  contro  quei  fattori,  l'agricoltura  diventa  un'in- 
dustria perdente  o  quasi.  Un  clima  umido  ed  un  suolo  permeabile 
permettendo  una  efficace  utilizzazione  delle  acque  di  irrigazione  per- 
metteranno pure  il  predominio  del  prato  e  del  bestiame;  in  un  clima 
arido,  in  situazioni  non  pianeggianti,  la  praticoltura  non  potrà  mai 
uguagliare  l'albericoltura;  ma  in  ogni  caso  la  situazione  del  mercato 
potrà  avere  una  influenza  molto  sensibile  e  rendere  più  o  meno  lu- 
crative la  praticoltura,  la  frutticoltura,  la  cerealicultura  e  via  di- 
cendo; infatti  da  essa  dipendono  la  maggiore  o  minoro  ricerca,  non- 
ché, quindi,  il  prezzo  di  vendita  dei  prodotti  del  suolo,  perchè  essa 
riflette  la  situazione  economica  generale,  le  crisi  monetarie,  le  con- 
seguenze della  concorrenza,  gli  effetti  delle  facilitate  vie  di  comuni- 
cazione o  delle  tariffe  doganali  elevate  o  della  maggiore  o  minore 
offerta  di  determinati  prodotti.  La  situazione  del  mercato  deve  dun- 
que essere  oggetto  di  continuo  studio  da  parte  dell'agricoltore;  però 
gli  converrà  oggi  di  considerare  non  solo  il  mercato  del  proprio 
paese,  ma  quello  mondiale  a  dirittura. 

Or  bene,  ponderando  su  tutto  ciò,  ci  pare  che  non  si  possa  a 
meno  di  conchiudere  che  V albericoltura  e  la  viticoltura  in  ispecie 
debbono  costituire  per  l'Italia  la  base  principale  della  sua  agricoltura. 
Delle  attitudini  del  nostro  clima  e  del  nostro  suolo  è  superfluo  par- 
lare: noi  possiamo  coltivare  l'olivo,  la  vite,  l'arancio,  il  cedro,  e  via 
via,  venendo  da  Mezzodì  sino  a  Nord,  al  pomo,  al  pero,  al  castagno  # 
Quanti  paesi  in   Europa    possono  dire   altrettanto?  E    d'altra  parte, 


934  CAPITOLO  XXXII 


quante  piante  coltivate  danno  un  bene  Scio  netto  uguale  a  quello 
degli  alberi  da  frutta?  Lasciamo  stare  il  prato  ed  il  riso  colà  dove 
si  possono  coltivare  convenevolmente,  e  prendiamo  il  frumento,  poi- 
ché occupa  oltre  a  4  milioni  e  mezzo  di  ettari,  cioè  la  quarta  parte 
circa  del  territorio  italiano  coltivato:  ebbene,  in  condizioni  normali  oggi 
esso  si  bilancia  con  perdita;  ed  in  condizioni  eccellenti,  e  con  un  pro- 
dotto di  oltre  a  25  ettolitri  ad  ettare,  è  molto  se  si  arriva  alle  200  lire 
di  beneficio  netto:  ma  un  ettare  a  frutteto  od  a  vigneto  può  rendere 
agevolmente  il  quadruplo,  ed  in  buone  condizioni  il  quintuplo,  cioè 
1000  lire  nette  ad  ettare.  E  diciamo  questo  per  l'esperienza  di  molti 
frutticultori  e  viticultari  e  per  quanto  vediamo  noi  stessi  presso  il 
podere  viticolo  del   Cardello. 

E  del  resto  lo  stesso  prato,  che  alcuni  vogliono  sia  in  ogni  caso 
la  dote  del  podere,  non  può  certo  rivaleggiare  cogli  alberi  da  frutta; 
d'altronde  non  può  generalizzarsi  e  costituire  la  base  dell'agricol- 
tura in  un  paese  il  quale,  come  giustamente  dice  il  Senatore  Ja- 
cini  nel  Proemio  dell' 'Inchiesta  Agraria,  è  essenzialmente  paese  di 
montagna,  eccettuata  la  pianura  del  Po  e  poche  altre  pianure  mi- 
nori; molti  prati  dei  colli,  lo  possiamo  pure  attestare  per  V  esame 
accurato  di  quanto  si  verifica  al  suddetto  podere  del  Cardello,  danno 
un  reddito  molto  esiguo,  anche  se  concimati;  e  codesto  causa  il  di- 
fetto di  umidità,  il  quale  spesso  non  permette  neppure  la  costitu- 
zione d'un  buon  prato  artificiale  di  erba  medica,  che  sarebbe  tanto 
produttivo  in  migliori  condizioni  telluriche  e  climatologiche.  Alle  pia- 
nure irrigabili  adunque  essenzialmente  le  piante  da  foraggio,  nel  ri- 
manente alberi  da  frutta,  perchè  essi,  favoriti  dal  nostro  clima,  ci 
permettono  di  meglio  usufruttare  la  massima  parte  del  nostro  suolo. 
E  poco  male  davvero  se  dovessimo  anche  produrre  meno  frumento, 
poiché  ci  troveremmo  allora  in  condizione  di  comperarlo  fuori  ed  a 
buon  mercato. 

Se  prendiamo  ora  a  considerare  la  situazione  del  mercato  ci  per- 
suadiamo vieppiù  che,  nella  nostra  economia  rurale,  C albericoltura 
deve  avere  il  sopravvento.  Infatti  mentre  il  riso  e  le  sete  sono  in 
lotta  coi  risi  e  le  sete  asiatiche  che  ne  fanno  ribassare  il  prezzo, 
mentre  il  frumento  ed  il  bestiame  stesso  sono  in  lotta  per  la  concor- 
renza americana,  il  nostro  vino  e  le  nostre  frutta  quasi  non  hanno 
rivali,  perchè,  se  così  possiamo  esprimerci,  non  li  ha  il  nostro  sole. 
È  vero  che  riguardo  alla  frutticoltura  propriamente  detta,  esclusa 
cioè  la  viticoltura,  noi  siamo  appena  ai  primi   passi;    ma  è   innega- 


LA  FILLOSSERONOSI  E  L'AVVENIRE  DELLA  VITICOLTURA       935 

bile  che  questo  ramo  della  nostra  agricoltura  potrebbe  alimentare 
un  grande  commercio  di  esportazione,  come  ci  va  dimostrando  da 
varii  anni  un  coraggioso  ed  intelligente  industriale,  il  signor  Cirio. 
Riguardo  invece  al  vino,  il  progresso  nostro  è  continuo,  benché  la 
esportazione  sia  piuttosto  costituita  da  vini  da  taglio  anziché  da  vini 
da  pasto  comuni  o  scelti  di  diretto  consumo:  ma  confidiamo  nell'av- 
venire. 

Frattanto  consoliamoci  pensando  che  l'America  per  questo  riguardo 
non  potrà  farci  che  in  un  tempo  forse  molto  lontano  una  seria  concor- 
renza: anzitutto  essa  non  ha  i  nostri  vitigni,  e  d'altra  parte  non  ne 
può  introdurre  come  vorrebbe,  perchè  tanto  il  Nord-America  quanto 
la  California  sono  fìllosserate:  attualmente  poi  la  California  —  di  cui 
si  è  parlato  tanto  —  non  produce  che  mezzo  milione  di  ettolitri  di 
vino,  cioè  circa  la  quinta  parte  di  quanto  produce  il  solo  Piemonte 
in  un'annata  media:  non  bisogna  poi  scordare  che  gli  Stati  Uniti 
hanno  essi  stessi  bisogno  di  vino,  di  cui  non  v'ha  certo  sovrabbon- 
danza colà;  prova  ne  sia  l'annuale  importazione  in  America  di  vino 
e  birre. 

Ma  v'  ha  qualche  altra  cosa  ancora  che  concorre  a  rendere  più 
lieto  l'avvenire  della  nostra  enologia,  ed  è  l'invasione  filiosserica  eu- 
ropea considerata  non  solo  nella  quantità  di  ettari  vitati  distrutti, 
ma  nella  qualità  di  essi,  se  ci  è  lecita  l'espressione:  infatti  in  Fran- 
cia sono  ora  o  distrutti  o  quasi  perduti  molti  vigneti  del  Bordolese, 
della  Borgogna,  ecc.  i  cui  vini  godono  fama  mondiale,  e  non  si  pos- 
sono rimpiazzare  tanto  facilmente  e  con  grande  prestezza  col  pro- 
dotto delle  viti  americane  che  colà  si  vanno  diffondendo;  peggio 
poi  con  quello  dei  nuovi  vigneti  impiantati  nei  dipartimenti  del 
Centro  e  dell'  Est.  Si  riescirà  meglio  senza  dubbio  colle  viti  bi- 
membri, cioè  cogli  innesti  delle  varietà  francesi  su  ceppaie  re- 
sistenti americane,  ma  questo  lavoro  di  ripristinamento  è  lungo  assai, 
e  però  noi  possiamo  e  dobbiamo  approfittare  del  momento,  perchè 
noi  possiamo  produrre  vini  scelti  da  pasto  sul  tipo  dei  Bordeaux  e 
dei  Borgogna,  in  Piemonte,  in  Valtellina,  nel  Veneto,  in  Toscana, 
ed  in  parecchi  locali  dell'Italia  centrale,  meridionale  ed  insulare,  ben- 
ché quivi  si  producano  migliori  i  vini  da  concia  ed  i  vini  alcoolici. 
Anche  il  Portogallo  ha  quasi  perduto  una  provincia  rinomata  pei 
suoi  vini,  cioè  l'Alto- Duero,  ove  si  produce  il  famoso  Porto  venduto 
quasi  tutto  agli  Inglesi:  ed  ecco  un  nuovo  campo  aperto  ai  nostri 
produttori  dell'Italia  australe. 


936  CAPITOLO  XXXII 


Adunque,  tanto  le  condizioni  climatologiche  quanto  le  telluriche; 
nonché  le  esigenze  del  mercato  mondiale,  ci  consigliano  di  rivolgere 
le  nostre  principali  cure  alla  viticoltura  ed  alla  frutticoltura  in 
genere,  lasciando  invece  il  predominio  ai  foraggi,  alle  cereali  ed  alle 
coltivazioni  industriali  in  quei  territorii  ove  esse  ricompensano  più 
lautamente  il  capitale  investito  nel  suolo. 

§  3  L'aumento  del  prodotto  brutto  dei  nostri  vigneti.  — 

Siamo  tutti  d'accordo  che  si  deve  lottare  contro  la  fillossera  e  lot- 
tare ad  oltranza,  anziché  cedere  e  sostituire  alla  ubertosa  vite  qualche 
altra  coltivazione,  come  taluno  ha  proposto  in  un  momento  di  grande 
scoraggiamento.  Or  bene,  questa  lotta  fortunatamente  è  possibile, 
massime  per  il  viticultore  intelligente,  studioso  e  quasi  diremmo  op- 
portunista, usando  una  barbara  parola  oggi  in  voga  nel  mondo  po- 
litico: certo  però  il  viticultore  tenacemente  attaccato  al  passato  e  che 
non  vorrà  mettersi  coraggiosamente  per  la  nuova  via,  dovrà  soc- 
combere, e  sarà  tanto  di  guadagnato  per  l'uomo  previdente  e  pro- 
gressista. Ma  qualunque  sia  il  sistema  di  lotta  prescelto  dal  viticul- 
tore, esso  si  tradurrà  sempre  in  un  aumento  di  spesa  di  cultura. 
Per  sopportare  questo  aumento,  non  v'  ha  che  un  mezzo:  accre- 
scere il  prodotto  brutto.  Le  statistiche  ci  dicono  che  il  prodotto 
medio  per  ettare  dei  nostri  vigneti  è  di  soli  15  ettolitri  di  vino  ad 
ettare;  ma  questa  è  una  media  ottenuta  dividendo  la  produzione  to- 
tale italiana  pel  numero  degli  ettari  vitati  della  penisola  e  delle  isole: 
nelle  provincie  ove  la  vite  è  coltivata  intensivamente  la  media  è  tal- 
volta di  25  ettolitri,  per  quanto  abbiamo  potuto  calcolare  su  parecchi 
dati  raccolti  nelle  principali  fra  le  dette  provincie.  Or  bene  anche  questa 
media  di  25  ettolitri,  se  è  discreta  ora  e  se  permette  un  certo  gua- 
dagno al  viticultore,  non  sarà  più  sufficiente  in  avvenire,  ed  in  un  av- 
venire che  noi  non  ci  peritiamo  di  chiamare  vicino.  L'ettolitro  di  vino, 
per  le  medie  che  abbiamo  fatte  dal  1875  sino  a  tutto  il  1883,  vien  pa- 
gato L.  30  un  anno  sull'altro  (parliamo  dei  vini  da  pasto  di  grande  con- 
sumazione, che  sono  quelli  che  più  ci  interessano,  e  lasciamo  in  disparte 
i  casi  speciali  di  cui  non  dobbiamo  occuparci  in  uno  studio  generale 
qual'è  questo):  or  bene,  col  prodotto  di  25  ettolitri  ad  ettare,  il  red- 
dito brutto  salirebbe  a  750  lire.  Da  queste  bisogna  dedurre  almeno 
lire  250  per  spese  di  coltura,  e  tale  spesa  è  un  minimo  che  dedu- 
ciamo dalla  contabilità  del  citato  podere  vitato  del  Cardello,  prendendo 
ad  esame  i  prezzi  di  un  decennio;  inoltre  lire  200  per  fitto,  ed  anche 


LA  F1LL0SSER0N0SI  E  L'AVVENIRE  DELLA  VITICOLTURA       937 

questo  è  uà  minimo.  Rimangono  adunque  300  lir  edi  beneficio  netto. 
Ora  è  evidente  che  da  esso  non  si  potrebbe,  senza  renderlo  troppo  esi- 
guo, diffalcare  altra  somma  per  lottare  contro  la  fillossera.  E  che  dire 
poi  di  quelle  provincie  vitifere  italiane  che  non  producono  in  media 
neppure  20  ettolitri  di  vino  ad  ettare? 

E  adunque  assolutamente  necessario  aumentare  il  prodotto  brutto 
dei  nostri  vigneti:  si  obbietterà  che  per  riuscirvi  occorrerebbe  au- 
mentare dal  canto  suo  la  spesa,  e  che  il  viticultore  si  perderebbe 
così  in  un  circolo  vizioso.  Ma  conviene  riflettere  a  questo  fatto,  che 
la  vite  è  una  pianta  molto  prodiga  verso  chi  la  coltiva,  per  cui  ri- 
sarcisce a  grande  usura  anche  le  tenui  maggiori  spese  fatte  per  essa: 
parliamo  per  l'esperienza  dei  nostri  più  bravi  viticultori,  ed  anche, 
se  ci  è  lecito,  un  po'  per  la  nostra:  un  lavoro  profondo  fatto  a  tempo 
e  luogo,  una  somministrazione  di  buon  concime,  e  talvolta  la  soia 
migliore  disposizione  dei  tralci  a  frutto,  possono  portare  il  reddito 
lordo  d'un  ettare  a  vite  da  25  a  40  ettolitri  almeno;  ma  allora  il 
reddito  netto  sale  su  di  una  scala  molto  maggiore.  Infatti  con  un  pro- 
dotto di  25  ettolitri  abbiamo,  come  dicevamo  or'  ora,  un  beneficio 
netto  di  lire  300  —  ma  con  un  prodotto  di  40  ettolitri,  il  beneficio 
è,  nella  meno  felice  ipotesi,  di  lire  600:  —  e  notate  che  noi  alla 
spesa  suddetta  di  lire  450,  aggiungiamo  altre  150  lire  per  migliora- 
menti di  coltura;  laonde  mentre  abbiamo  aumentato  solo  di  un 
terzo  la  spesa  abbiamo  duplicato  il  prodotto  netto.  Preghiamo  i 
viticultori,  che  non  lo  avessero  ancora  fatto,  ad  esperimentare  questa 
prodigalità  della  vigna,  la  quale  realmente  compensa  ad  usura  il  suo 
coltivatore.  Ammesso  adunque  un  beneficio  netto  di  600  lire  ad  et- 
tare, noi  ci  troveremo  nella  condizione  di  poter  lottare  contro  la  fil- 
lossera spendendovi  anche  le  200  lire  ad  ettare,  e  pur  vendendo  il 
vino  a  sole  30  lire  l'ettolitro,  laddove  in  questi  scorsi  anni  i  vini  di 
colore  e  corpo  furono  pagati,  dagli  stessi  incettatori  francesi,  40 
lire:  ma  atteniamoci  ai  dati  medii    per  essere  più  vicini  alla  verità. 

Or  ora  abbiamo  parlato  di  un  prodotto  di  40  ettolitri  ad  ettare; 
—  come  prodotto  medio  delle  nostre  provincie  vitifere  sarebbe  una 
grande  media  e  potremmo  andarne  orgogliosi:  ma  non  si  deve  tuttavia 
considerarlo  come  un  limite  che  la  vite  si  rifiuti  di  oltrepassare;  —  i 
nostri  migliori  viticultori  ci  dicono  che  facendo  una  coltivazione  in- 
tensiva si  può  andare  agli  80  ettolitri  senza  scapiti  nella  qualità 
del  prodotto,  trattandosi  di  vini  da  pasto  di  grande  consumo.  (Pei 
vini  scelti  non  bisogna  oltrepassare  di  molto  i  40  ettolitri).  Oltre  gli 


938  CAPITOLO  XXXII 


80  ettolitri  ad  un  dipresso  e  quando  si  raggiungono  od  oltrepassano 
i  100,  il  vino  riesce  meno  alcoolico  e  meno  colorato;  abbiamo  po- 
tato fare  al  riguardo  esperienze  molto  concludenti  nei  nostri  vigneti, 
raffrontandoli  con  altri  vicini,  ove  si  coltivano  le  stesse  varietà  d'uva; 
ma  non  è  di  questo  che  intendiamo  parlare  ora.  Noi  volevamo  prin- 
cipalmente richiamare  l'attenzione  dei  lettori  sulla  possibilità  di  ac- 
crescere notevolmente  il  prodotto  delle  nostre  vigne  senza  un 
grande  aumento  di  spesa,  e  questo  risultato  si  può  raggiungere: 
1°)  aumentando  la  potenza  del  suolo  (concimi,  sovescii  e  lavori); 
2°)  aumentando  la  fertilità  dei  tralci  o  capi  a  frutto  (ricurvature, 
potatura  razionale). 

In  alcuni  casi  speciali  il  viticultore  potrebbe  anche  pensare  a  ri- 
cavare qualche  prodotto  secondario  dal  terreno  occupato  dal  suo 
vigneto.  Ma  questo  potrà  farlo  senza  danneggiare  le  viti  soltanto  a 
due  condizioni;  la  prima  che  Yinterfilare  sia  sufficientemente  ampio, 
la  seconda  che  egli  sia  prodigo  di  concimi,  o  per  meglio  dire  che 
egli  provveda  a  concimare  razionalmente  sia  la  vite  sia  la  pianta 
coltivata  nell'interfilarc.  Gli  è  solo  a  queste  condizioni  che  noi  cre- 
diamo si  possa  violare  il  principio  della  specializzazione,  che  abbiamo 
sostenuto  a  lungo  nel  Cap.  XXIII. 

È  noto  che  alla  vite  si  possono  consociare  gli  alberi,  le  cereali, 
i  foraggi,  gli  ortaggi  e  via  dicendo.  Riguardo  agli  alberi  nulla  ab- 
biamo da  aggiungere  a  quanto  dicemmo  al  Cap,  XXIII:  conviene 
però  fare  una  eccezione  per  Votivo,  che  si  suol  piantare  (impian- 
tandosi un  oliveto)  contemporaneamente  ed  associato  alla  vite,  la 
quale  venendo  a  produrre  assai  prima,  compensa  l'agricoltore  delle 
spese  e  degli  interessi  delle  spese  occorrenti  durante  un  quindicennio 
od  un  ventennio  per  portare  un  oliveto  in  piena  fruttificazione.  Ab- 
biamo visitato  nell'autunno  del  1880  un  vigneto -oliveto  in  piena  pro- 
duzione nel  territorio  di  Scansano  presso  il  Dott.  Vannuccini  e  siamo 
rimasti  edificati  dal  reddito  di  esso,  il  quale  ascende  in  media  a 
1500  lire  di  beneficio  netto  annuo  e  per  ettare;  quella  vigna- oliveto 
è  coltivata  con  ogni  cura,  ed  il  Dott.  Vannuccini  vi  spende  circa 
lire  1300  1'  ettare,  ricavandone  lire  2800  fra  vino  (80  ettolitri)  e 
olio  (8  ettolitri);  però  è  mestieri  notare  che  gli  olivi  sono  soltanto 
150  in  un  ettare,  ed  i  filari  loro  distano  7  metri  un  dall'altro,  mentre 
intercedono  9  metri  fra  un  albero  e  l'altro  (V.  pag.  681). 

Alla  vite  si  possono  anche  consociare  i  foraggi,  ma  a  tre  condi- 
zioni: la  prima  che  gli  interfilari  siano  molto  ampii;  la  seconda  che 


LA  FILLOSSERONOSI  E  L'AVVENIRE  DELLA  VITICOLTURA       939 

si  tratti  di  quelle  piante  foraggiere  le  quali  non  occupano  il  suolo 
che  durante  i  primi  mesi  della  primavera,  lasciandolo  libero  in  estate; 
la  terza,  ed  è  condizione  strie  qua  non.  che  si  concimi  1'interfilare 
ogni  biennio.  Le  foraggiere  perenni  dovrebbero  dunque  scartarsi  e 
converrebbe  scegliere  quelle  fra  le  annuali  che  si  possono  segare 
prima  della  fioritura  delle  viti,  per  evitare  un  soverchio  abortimento 
dei  fiori,  provocato  altresì  dalle  piante  erbacee  che  crescono  nell'in- 
terfilare.  La  veccia,  il  trifoglio  incarnato  ed  altre  foraggiere  possono 
consigliarsi,  massimamente  al  colle  dove  il  mangime  pel  bestiame 
abitualmente  scarseggia;  esse  si  fanno  consumare  allo  stato  verde, 
ma  si  potrebbero  serbare  nei  silo  per  i  momenti  in  cui  il  foraggio 
manca,  o  quasi:  supponendo  gli  interfilari  larghi  4  metri,  e  lasciando 
1  metro  a  disposizione  del  filare,  il  prodotto  in  foraggio  può  oltre- 
passare le  L.  150  ad  ettare,  ed  è  sotto  questo  riguardo  economico 
che  dobbiamo  considerare  la  detta  consociazione.  Ma  bisogna  ricor- 
darsi che  senza  la  concimazione  dell'interfilarc,  si  avrebbe  una  tale 
diminuzione  nel  prodotto  dell'uva  che  renderebbe  passiva  questa  con- 
sociazione di  cultura.  In  un  simpatico  libro  del  sig.  Cav.  A.  Filippi  di 
Baldissero,  intitolato  Vent'otto  anni  di  lavoro  agricolo  di  un  ex 
ufficiale  di  cavalleria,  leggesi  che  il  vigneto  di  questo  appassionato 
agricoltore,  se  può  sopportare  la  consociazione  con  avena,  patate, 
fagiuoli,  barbabietole  e  rape,  e  produrre  non  di  meno  45  ettolitri  di 
vino  ad  ettare,  bisogna  attribuirlo  all'uso  della  cenere  e  dei  terric- 
ciati, che  sono  ottimi  concimi  per  le  viti:  ma  dobbiamo  tosto  soggiun- 
gere che  oltre  a  ciò  l'interfilare  vi  è  assai  largo,  così  da  costituire 
due  porche  dell'ampiezza  di  lm,80  caduna,  senza  contare  un  metro 
presso  i  filari  stessi. 

In  alcune  provincie  dell'alta  Italia,  per  esempio  nel  Vicentino,  l'in- 
terfilare delle  vigne  è  talvolta  tenuto  a  dirittura  a  prato;  ma  anche 
quivi,  oltre  gli  interfilari  larghi  3  e  più  metri,  si  ha  la  concimazione 
frequente  del  prato;  la  quale  torna  anche  in  parte  a  profitto  della 
vite;  qualche  viticultore  di  colà  ottiene  in  media  50  ettolitri  di  vino 
ad  ettare,  locchè  è  un  bel  risultato. 

In  altre  provincie  italiane,  fra  cui  il  Monferrato,  si  coltiva  fra  le 
viti  il  frumento  avvicendandolo  con  foraggiere;  abbiamo  visitati  vi- 
gneti che  da  oltre  25  anni  hanno  coltivati  gli  interfilari  per  tal  modo, 
e  che  producono  nondimeno  tuttodì  oltre  a  50  ettolitri  in  media  per 
ettare;  ma  i  filari  sono  distanti  talvolta  anche  più  di  sei  metri  e  si 
concimano  ogni  biennio    con  molto  letame,  il    che    non   ci   parrebbe 


940  CAPITOLO  XXXII 


troppo  consigliabile  riguardo  alla  qualità  del  prodotto  dell'uva.  Fatto 
è  che  quei  vigneti  sono  però  molto  produttivi  e  le  terre  colà  si  af- 
fittano ad  alto  tasso.  Riguardo  però  al  frumento,  oltre  alla  conci- 
mazione, che  converrebbe  meglio  dare  Tanno  prima  ad  esempio  alla 
veccia,  sarebbe  molto  opportuno  adottare  in  tal  caso  la  semina  a 
linee,  per  avere  non  solo  un  maggior  prodotto  ed  un  risparmio  nella 
quantità  del  seme,  ma  un  frumento  più  sodo,  il  quale  non  si  alletti 
contro  i  filari,  cosa  questa  di  non  piccolo  momento  oggi  che  si  de- 
vono fare  tanti  lavori  attorno  ai  filari  stessi. 

Infine  anche  le  piante  ortive,  come  i  carciofi,  gli  asparagi,  ecc.  si 
coltivano  da  qualcuno  con  profitto  negli  interfilarc  si  tenga  adunque 
calcolo  anche  della  consociazione  delle  culture  alle  viti,  quando  si 
trattasse  di  trarre  maggior  profitto  dalle  proprie  terre  vitate,  ma 
non  si  dimentichi  in  questo  caso  la  concimazione,  senza  di  cui  si 
commetterebbe  un  grave  errore  di  economia  rurale. 

Sempre  pensando  alla  quistione  economica  che  si  presenta  oggi  al 
viticultore,  non  dobbiamo  passare  sotto  silenzio  quanto  ha  tratto  alla 
migliore  utilizzazione  degli  avanzi  della  vinificazione:  il  viticul- 
tore, che  presso  di  noi  è  quasi  sempre  anche  Fenologo,  ha  attual- 
mente, parlando  in  generale,  un  minor  guadagno  di  oltre  le  cento 
lire  per  ettare  a  cagione  del  poco  conto  in  cui  tiene  (o  è  costretto 
a  tenere)  la  sua  vinaccia;  lasciamo  stare  gli  altri  avanzi  dell'indu- 
stria enologica,  ma  riflettiamo  solo  sui  prodotti  che  questa  ci  può 
dare  in  acquavite  e  tartaro  greggio,  e  poscia  sul  suo  uso  come  fo- 
raggio e  come  concime,  e  teniamo  pure  calcolo  dell'acquavite  e  del 
tartaro  che  si  possono  ricavare  dalle  feccie:  questi  prodotti  sono 
tutti  ricercati  e  ben  pagati  in  commercio,  d'altra  parte  la  loro  e- 
strazione  è  oggi  abbastanza  facilitata,  così  da  permettere  l'impianto 
di  piccole  distillerie  agricole,  mercè  l'uso  degli  apparecchi  Villard- 
Rottner  già  favorevolmente  conosciuti  anche  in  Italia,  e  di  cui  ci 
serviamo  noi  stessi  con  ottimo  esito.  Da  un  ettare  di  terreno  vitato 
il  quale  producesse  50  ettolitri  di  vino,  si  avrebbe  tanta  vinaccia  da 
ricavare,  secondo  quanto  abbiamo  potuto  calcolare  basandoci  su  e- 
satti  dati  pratici,  oltre  le  100  lire  fra  acquavite  e  tartaro  greggio,  e 
senza  tener  calcolo  del  valore  come  concime  sia  della  vinaccia  re- 
siduale sia  delle  acque  che  hanno  depositato  il  tartaro,  le  quali  sono 
discretamente  ricche  di  azoto  e  di  acido  fosforico.  Usufruttiamo 
quindi  meglio  gli  avanzi   della   vinificazione,    che  così   verremo   an- 


LA  FILLOSSERONOSI  E  L'AVVENIRE  DELLA  VITICOLTURA       941 

cora  ad  accrescere,  anche  per  questo  verso,  il  reddito  totale  dell'et- 
tare  vitato. 

§  4.  Diminuzione  nella  spesa  di  mano  d'  opera.  —  Ma  il 

viticultore  non  deve  pensare  soltanto  ad  ottenere  un  accrescimento  nel 
prodotto;  egli  deve  anche  avvisare  ai  mezzi  di  diminuire  le  spese  di 
mano  d'opera.  Queste  spese  s'accrescono  per  così  dire  ogni  giorno 
ed  è  urgente  provvedervi;  perchè  nel  caso  disgraziato  d'una  estesa 
invasione  fillosserica,  esse  potrebbero  accrescersi  vieppiù  a  cagione 
dei  molti  lavori  che  richiede  la  lotta  contro  la  fillossera  stessa  (in- 
nesti, applicazione  di  insetticidi,  ecc.).  Dai  registri  della  nostra  con- 
tabilità agricola  del  podere  vitato  Cardello  deduciamo  i  seguenti 
dati,  che  si  riferiscono  al  periodo  1872-1881:  —  supposto  l'anno  di- 
viso in  4  trimestri,  1'  aumento  medio  della  mano  d'  opera  risultò  il 
seguente  per  giornata: 


1°  trimestre  (gennaio-marzo)    . 
2°         »          (aprile-giugno)     . 
3°          »          (luglio-settembre) 
4°          »          (ottobre-dicembre) 
Media  annuale       


Uomini 

Donne 

L. 

0,42     L. 

0,20 

» 

1,07      » 

0,50 

» 

0,77      » 

0,31 

» 

0,65     » 

0,27 

» 

0,73     » 

0,32 

Questi  accrescimenti  sono  ragguardevoli,  massimamente  perchè  si 
riferiscono  ad  un  paese  ove  quasi  non  vi  ha  emigrazione;  sono  dun- 
que dovuti  all'  aumento  dei  prezzi  del  vitto  e  del  vestiario,  nonché 
all'estendersi  dei  vigneti,  i  quali  coitivansi  quasi  sempre  a  mano. 

Ma  siccome  queste  cause  per  ora  non  accennano  menomamente  a 
scemare,  così  è  ovvio  il  concludere  che  il  viticultore  deve  cercare 
di  rimediare  a  questo  aumento  di  spesa,  massime  oggidì  che  l' in- 
vasione fillosserica  contribuirà  essa  pure  ad  un  accrescimento  nelle 
spese  di  coltura.  Ognuno  deve  essere  lieto  che  il  lavoratore  del  suolo 
oggi  guadagni  più  di  ieri;  i  nostri  contadini  sono  quasi  dovunque 
molto  poveri,  e  questa  è  una  delle  principali  cagioni  non  solo  della 
emigrazione,  ma  altresì  della  loro  debole  moralità,  massime  per  ciò 
che  riguarda  il  rispetto  alla  proprietà  altrui:  in  Monferrato  un  bravo 
operaio  rurale  non  guadagna  più  di  400  lire  all'anno,  ma  nespenle 
almeno  350,  come  desumo  dalla  suddetta  contabilità  agricola;  ora, 
se  è  ammogliato,  come  accade  quasi  sempre,  ciò  non  basta  per  vi- 


942  CAPITOLO  XXXII 


vere  onestamente,  diciamolo  pure,  poiché  la  moglie  se  ha  figli  non 
può  guadagnare  più  di   100  lire  annue. 

Ebbene  questi  sono  i  contadini  meglio  retribuiti  d'Italia;  nel  mi- 
lanese per  esempio,  i  braccianti  hanno  un  salario  annuo  di  sole  300 
lire,  e  ne  hanno  meno  ancora  in  altre  provincie  ove  predomina  pure 
la  grande  coltura.  Bea  vengano  quindi  la  diminuzione  sul  prezzo  del 
sale,  colle  minestre  economiche,  i  forni  Anelli  e  tutto  ciò  che  può 
migliorare  la  condizione  del  contadino,  e  risolvere,  almeno  per  le 
popolazioni  rurali,  la  questione  sociale;  la  quale,  come  ben  disse  un 
socialista  tedesco,  ist  eine  Magenfrage,  «  è  una  questione  di  sto- 
maco. »  Ma  il  viticultore  deve  pure  pensare  ai  casi  suoi,  cercando 
di  coltivare  la  vite  più  economicamente,  per  produrre  l'ettolitro  di 
vino  a  minor  prezzo.  Or  bene,  questo  risultato  lo  potrà  ottenere  da 
un  lato  adottando  un  sistema  di  educazione  della  vite  poco  co- 
stoso, e  dall'altro  adottando  V  aratro  nella  coltura  del  vigneto: 
queste,  ben'  inteso,  sono  le  riforme  maggiori;  delle  minori  non  dob- 
biamo occuparci  qui  per  amor  di   brevità. 

Vi  sono  varii  sistemi  di  viticoltura  nel  nostro  paese,  i  quali  costano 
oltre  le  150  lire  Tettare  per  le  sole  canne  di  sostegno;  ebbene  adot- 
tando i  fili  di  ferro  si  può  realizzare  una  economia  di  circa  il  50  0[q, 
tenendo  conto  della  loro  durata.  Si  potrebbe  anche,  con  vitigni  robusti 
come  il  Barbera,  seguire  il  sistema  senza  sostegni  che  abbiamo  adot- 
tato noi  stessi;  mercè  di  esso  il  avori  nei  vigneti  sono  tanto  facilitati  da 
permettere  un  risparmio  del  45  0[q  nelle  spese  totali  di  mano  d'opera.  È 
dunque  possibile  economizzare  mediante  una  opportuna  scelta  del  me- 
todo di  eeducare  la  vite.  Riguardo  poi  alla  lavorazione  dei  vigneti 
cogli  animali,  è  noto  che  ora  vi  sono  speciali  aratri  che  si  possono 
far  tirare  anche  da  un  solo  animale  negli  interfilari  stretti:  del 
rimanente  non  convenendo  guari  l'avere  troppe  piante  in  un  ettare, 
sarà  bene  tracciare  le  file  lontane  circa  3  metri,  ed  allora  si  potrà 
lavorare  anche  con  una  coppia  di  bovi.  Non  bisogna  scordare  che 
quando  in  un  ettare  vi  sono  8000  o  10,000  piante,  è  necessario  con- 
cimare il  suolo  di  frequente,  senza  di  che  non  solo  scemerebbero  i 
prodotti,  ma  le  ceppaie  si  estenuerebbero  ed  invecchierebbero  troppo 
precocemente;  nel  Médoc,  che  si  suol  citare  tante  volte  a  modello, 
vi  sono  bensì  9000  piante  ad  ettare,  ma  il  vigneto  si  concima  con 
letame  di  stalla  ogni  anno,  come  ci  dice  Giulio  Gnyot  a  pag.  454 
del  già  citato  volume  I.  Ebbene  nel  Médoc,  non  ostante  gli  interfi- 
lari assai  ristretti,  si  lavora   coi  bovi,    con  un   sistema   curioso;  in- 


LA  FILLOSSERONOSI  E  L'AVVENIRE  DELLA  VITICOLTURA       943 

fatti  i  buoi,  che  sono,  dice  Guyot,  «  grossi  come  elefanti,  »  cam- 
minano appaiati  allo  stesso  lungo  giogo,  ma  in  interfilarc  diversi,  co- 
sicché l'inter filare  ove  s'affonda  l'aratro  è  posto  fra  i  due  nei  quali 
camminano  i  bovi:  il  giogo  passa  così  sopra  due  filari.  Guyot  cri- 
tica questo  sistema  e  chiama  «  horrible  charme  »  quel  mastodon- 
tico aratro;  egli  propone  gli  aratrini  per  vigneti,  oramai  diffusi  an- 
che in  alcune  provincie  d' Italia.  Ma  se  le  viti  del  Médoc,  che  son 
tenute  bassissime  ed  hanno  del  resto  una  vegetazione  poco  lussu- 
reggiante, possono  permettere,  benché  vicine  assai,  l'uso  dell'aratro, 
non  succede  lo  stesso  dovunque  nel  nostro  paese,  ove  non  di  rado 
quando  l'interfilare  misura  solo  1  metro  o  1,20,  in  estate  non  è  più 
possibile  cacciarsi  fra  quella  fitta  rete  di  pampini  e  farvi  lavorare 
un  bue:  è  per  questo  che  molti  piantamenti  col  sistema  Guyot  puro, 
cioè  colle  ceppaie  ad  1  metro  in  tutti  i  sensi,  furono  in  questi  ul- 
timi anni  diradati  così  da  avere  non  più  10,000  piante  ad  ettare, 
ma  sole  5000  o  6000,  locchè  non  portò  veruna  diminuzione  nel  pro- 
dotto, anzi  quasi  sempre  provocò  un  reale  accrescimento:  e  qui  non 
vogliamo  scordare  la  maggiore  longevità  delle  ceppaie,  mentre  è  in- 
dubitato che  nei  piantamenti  molto  fitti  le  piante  invecchiano  pre- 
cocemente, massime  se  non  si  restituisce  al  suolo,  con  opportuna  e 
regolare  concimazione,  quanto  gli  van  togliendo  annualmente  quelle 
numerose  ceppaie.  Non  si  tema  adunque  di  sprecare  terreno  tenendo 
gli  interfilari  larghi  tre  metri,  colle  nostre  viti  quasi  sempre  molto 
vigorose  e  lussureggianti:  noi  abbiamo  fatto  piantamenti  più  ravvi- 
cinati e  sono  i  soli  di  cui  non  siamo  soddisfatti. 

Passiamo   ora  a   qualche    considerazione  sul    sistema  di   lotta  più 
conveniente  contro  la  fillosseronosi  incipiente. 

§  5.  La  legge  contro  la  diffusione  della  fillossera:  metodo 
curativo  e  metodo  distruttivo.  —  È  noto  che  vi  è  lotta  in  Italia 
fra  i  partigiani  del  metodo  curativo  e  quelli  del  metodo  estintivo 
per  resistere  alla  fillosseronosi:  —  qual'è  il  preferibile  fra  i  due?  I  par- 
tigiani del  metodo  curativo  dicono  che  il  distruttivo  è  non  solo  inef- 
ficace ma  assai  pericoloso  siccome  quello  che  faciliterebbe  —  a  loro 
avviso  —  la  diffusione  delle  fillossere  cioè  l'allargamento  del  male; 
così  la  pensa  ad  esempio  il  chiaro  agronomo  prof.  Inzenga  di  Pa- 
lermo, il  quale  dice  che  «  se  noi  snidiamo  forzatamente  la  fillossera 
dallo  stato  come  di  nascondiglio  in  cui  trovasi  rincantucciata,  e  col- 
l'opera  della  distruzione   la    mettiamo    allo   scoperto   sulla  superficie 


944  CAPITOLO  XXXII 

del  suolo,  ne  rendiamo  più  facile  la  propagazione  per  mezzo  dei 
venti,  del  piede  dell'uomo  e  dell'unghia  forcuta  dei  ruminanti  che 
traversano  di  continuo  la  campagna.  » 

Ora,  si  chiede:  la  Commissione  superiore  consultiva  per  la  fillos- 
sera, che  ha  sin  ora  consigliato  il  Governo  a  perseverare  nel  sistema 
adottato,  si  inganna  forse  deplorevolmente?  E  che  cosa  ci  dice  l'e- 
sperienza degli  altri  paesi  che  sono  alle  prese  col  temuto  afide? 

Abbiamo  seguito  con  ogni  maggior  zelo  le  discussioni  che  in  questi 
scorsi  anni  si  sono  impegnate  in  Italia  e  fuori  sul  dilicatissimo  tema, 
ed  abbiamo  raccolto  numerosi  fatti  per  servire  alla  soluzione  del 
problema;  ma  tuttavia  dobbiamo  confessare  che  una  soluzione  netta 
e  quasi  diremmo  perentoria  non  ci  fu  dato  di  trovarla  né  nel  sistema 
distruttivo  né  in  quello  curativo.  Se  il  metodo  distruttivo  potesse 
essere  realmente  tale  in  tutto  il  rigore  della  parola,  allora  senza 
dubbio  per  noi,  che  ci  troviamo  ancora  ai  primordii  della  invasione, 
sarebbe  senz'altro  il  preferibile;  ma  invece  non  cade  dubbio  che  co- 
tale sistema  non  porta  seco  come  conseguenza  la  totale  distruzione 
delle  fillossere  del  vigneto  annientato,  e  sotto  questo  aspetto  si  av- 
vicina al  metodo  curativo;  di  ciò  ci  dà  un  esempio  convincentissimo 
la  Svizzera,  dove  il  sistema  distruttivo  è  applicato  in  tutto  il  suo 
rigore,  ma  dove  si  trovano  ogni  anno  nuovi  centri  o  scintille  (étin- 
celles  pylloxériquesj  in  vicinanza  dei  vigneti  distrutti,  i  quali  centri 
provengono  da  fillossere  che  hanno  sopravvissuto  al  metodo  estin- 
tivo (1).  Entrambi  i  sistemi  servono  quindi  soltanto  a  ritardare  l'in- 
vasione; su  ciò  non  può  oramai  esservi  alcun  dubbio.  Ma  fra  i  due, 
pur  tenendo  calcolo  di  quanto  scrive  il  prof.  Inzenga,  è  fuori  di  di- 
scussione che  è  più  efficace  a  trattenere  l'invasione  il  metodo  di- 
struttivo che  non  quello  curativo,  il  quale,  secondo  alcuni,  si  deve 
ritenere  che  non  ritarda  affatto  il  progredire  del  male  (2)  anzi  lo  ac- 
celera colà  dove  vi  sono  numerose  viti  sulle  quali  vanno  sollecita- 
mente a  rifugiarsi  le  fillossere  sfuggite  all'azione  tossica  degli  inset- 
ticidii!  Senonchè  il  primo  non  può  adottarsi  che  entro  limiti  ristretti, 
e  ciò  lo  ammise  anche  la  Commissione  filloserica  quando,  rispondendo 
alle  domande  del  Ministn),  disse  che  colla  distruzione  si  deve  andare 


(1)  Così  il  sig.  J.   C.  Roulet,  ispettore  dei  lavori  di  distruzione  a  Neuchàtel  nel 
suo  Rapport  technique  etc.   1881,  pag.  34. 

(->)  Compie  rendu  general  du  Congrcs  international  pylloxérique  de  Bordeaux. 


LA  FILLOSSÉRONOSI  E  I/AVVENIRE  DELLA  VITICOLTURA       945 

soltanto  fino  al  limite  dei  mezzi  disponibili  e  sino  a  che  le  rie- 
chezze  da  salvare  prevarranno  di  gran  lunga  ai  sacrifica. 

La  quistione  fìllosserica  che  oggi  preoccupa  cotanto  il  paese  è 
adunque  assai  complessa,  e  taluni  che  credettero  di  poterla  risol- 
vere con  un  taglio  netto,  dimostrarono  palesemente  di  conoscere 
il  grave  problema  solo  in  modo  affatto  superficiale;  per  esempio, 
qualcuno  ha  affermato  che  il  metodo  curativo  dà  in  altri  paesi  ot- 
timi risultati;  orbene  ciò  è  semplicemente  inesatto  e  lo  possiamo  di- 
mostrare con  poche  parole  facendo  un  rapido  esame  di  quanto  sì 
opera  all'estero  per  arrestare  l'invasione  fìllosserica. 

In  Francia,  se  si  dovesse  incominciare  ora  la  lotta  su  piccole  e- 
stensioni  di  vigneti  fillosserati,  si  adotterebbe  il  metodo  distruttivo; 
infatti,  nel  progetto  di  legge  che  riguarda  la  possibilità  della  sco- 
perta di  centri  infetti  in  Algeria,  è  prescritto  che  non  appena  un 
vigneto  venga  dichiarato  infetto  debba  essere  distrutto:  ecco  le  te- 
stuali parole:  «  déslruction  des  vignes  reconnues  malades  et  sou- 
spectes;  déstruction  par  le  feu  des  ceps,  tuteurs,  échalas,  feuil- 
les,  sarments  etc.  désinfection  du  sol  etc.  »  Questo  decreto  è 
molto  significativo,  perchè  emanato  in  un  paese  che  conosce  assai 
bene  e  meglio  d'ogni  altro  la  quistione  della  fillossera  e  dove  si  sa 
quanto  valga  il  metodo  curativo. 

Il  Portogallo  ha  adottato  sin  dal  1879  il  metodo  curativo,  ma  la 
malattia  ha  nondimeno  progredito  in  modo  allarmante,  cosicché  si 
protesta  oggi  contro  quel  Governo  che  non  ha  adottato  invece  il 
metodo  estintivo. 

Anche  la  Spagna  volle  seguire  il  metodo  curativo,  ma  l'invasione 
in  pochi  anni  si  estese  siffattamente  che  oggidì  il  Governo  ha  ri- 
nunciato alla  lotta,  e  tocca  ai  viticoltori  di  pensare  ai  gravissimi 
loro  casi. 

L'Austria,  che  aveva  adottato  oltre  il  metodo  distruttivo  anche 
quello  curativo,  non  crede  più  all'  efficacia  di  quest'  ultimo  con  cui 
non  ha  ritardato  affatto  l'invasione  e  fors'anche  l'ha  accelerata. 

Invece  il  metodo  distruttivo  adottato  dalla  Svizzera,  dalla  Ger- 
mania, dalla  Russia  e  dall'Australia  ha  giovato  a  rallentare  alquanto 
lo  estendersi  del  malore,  benché  non  abbia  potuto  impedire  affatto 
che  si  allargasse. 

Ma  chi  non  vede  a  priori  che  il  metodo  distruttivo,  quando  ve- 
nisse adottato  in  un  paese  a  viticoltura  intensiva,  non  riescirebbe  a 
rallentare  l' invasione  in  modo  tale  da  compensare  le  spese  ingenti 
0.  Ottavi,   Trattato  di  Viticoltura.  61 


946  CAPITOLO  XXXII 


che  richiederebbe  dopo  pochi  anni  di  lotta?  L'  Austria  si  è  trovata 
in  questo  caso;  per  qualche  anno  ha  distrutto  le  macchie  fillosseriche, 
ma  poi  ha  dovuto  arrestarsi,  vedendo  che  non  riusciva  ad  impedire 
lo  estendersi  della  malattia. 

D'  altronde  la  stessa  infezione  fìllosserica  in  Sicilia,  massime  nel 
circondario  intensamente  viticolo  di  Riesi  con  4500  ceppaie  per  ogni 
ettare,  ce  ne  porge  una  prova;  non  è  possibile  impedire  che  la  grande 
macchia  si  dilati,  e  questo  pur  troppo  avviene  con  una  certa  rapi- 
dità; infatti  mentre  nel  1880  si  avevano  nella  provincia  di  Caltani- 
setta 23  ettari  infetti,  se  ne  ebbero  43  nel  1881,  94  nel  1882  e 
via  via.  Non  è  quindi  lontano  il  giorno  in  cui  il  Governo  non  potrà 
più  gravare  il  bilancio  pubblico  della  enorme  spesa  che  occorrerebbe 
per  perseverare  nel  metodo  distruttivo:  frattanto  nel  bilancio  pas- 
sivo del  Ministero  d'Agricoltura  per  l' esercizio  1883  furono  in- 
scritte L.  2,200,000  (e  siamo  solo  al  principio)  laddove  in  Francia 
nel  1883  furono  stanziate  sole  L.  1,250,000  nonostante  la  enorme 
gravità  del  male  colà  e  quantunque  si  tratti  di  un  bilancio  assai  più 
pingue  del  nostro. 

Ma  dove  invece  la  viticoltura  è  poco  intensiva  e  fra  le  vigne  e 
fra  gli  stessi  filari  trovano  posto  altre  colture,  il  metodo  distruttivo 
rallenta  in  modo  sensibile  l'invasione:  ne  è  una  prova  quanto  accade 
in  Lombardia  (a  Valmadrera  e  Givate):  ivi  mentre  nel  1879  vi  erano 
21  ettari  infetti,  nel  1880  si  trovarono  fillosserati  in  vicinanza  ed 
in  dipendenza  di  questi  centri,  sole  5  are,  nel  1881  sole  10  are  e 
nel  1882  sole  are  3,  Lo  stesso  ad  Agrate  ed  a  Porto  Maurizio,  per 
cui  quivi  il  metodo  distruttivo  fin'ora  mantiene  l'infezione  quasi  nei 
limiti  primitivi,  il  che  è  molto  lusinghiero. 

La  coltivazione  più  o  meno  intensiva  e  specializzata  delle  viti  ha 
adunque  una  marcatissima  influenza  sulla  maggiore  o  minore  effi- 
cacia del  sistema  distruttivo  considerato  come  espediente  per  ritar- 
dare l'estendersi  dell'invasione  fìllosserica. 

E  pertanto  noi  pensiamo  che  la  Commissione  consultiva  per  la 
fillossera,  la  quale  è  quella  che,  secondo  dice  la  legge,  deve  sugge- 
rire al  Governo  V  uno  o  1'  altro  dei  metodi  in  discussione,  è  neces- 
sario proceda  molto  cautamente  prima  di  consigliare  il  sistema  di- 
struttivo colà  dove  la  viticoltura  è  molto  intensiva;  noi  riteniamo 
fermissimamente  che  quivi  sia  opera  sprecata  il  distruggere  i  vi- 
gneti, perchè  (come  accade  in  Sicilia)  l'infezione  non  si  scoprirà  mai 
ne'  suoi    primordii,  nessun    viticultore    volendo  denunciare    tosto  la 


LA  FILLOSSERONOSI  E  L'AVVENIRE  DELLA  VITICOLTURA       917 

malattia,  e  così  la  fìllosseronosi  si  estenderà  in  pochi  anni  su  tale 
una  superficie  da  non  compensare  le  spese  fatte,  e  ad  ogni  modo 
giammai  si  riuscirà  a  soffocarla;  la  Svizzera  informi.  Il  Governo 
potrà  allora  (come  prescrive  1'  art.  1°  della  legge  sulla  fillossera) 
dare  sovvenzioni  ai  viticoltori,  se  vorranno  adottare  il  metodo  cu- 
rativo, e  favorire  altresì  la  costituzione  di  Comitati  di  difesa,  a  si- 
miglianza  dei  syndacats  francesi.  In  altri  termini  toccherà,  in  simili 
casi,  quasi  del  tutto  alla  iniziativa  privata  organizzare  la  lotto  contro 
il  terribile  pidocchio,  inquantochè  il  bilancio  pubblico  non  potrebbe 
sopportare  le  enormi  spese  che  il  sistema  distruttivo  richiederebbe 
in  progresso  di  tempo. 

Ed  ora  una  conclusione  pei  viticultari  nostri. 

Essi  vedono  quanto  arduo  sia  il  problema  della  distruzione 
della  fillossera;  noi  pensiamo,  in  base  ai  fatti  sin  qui  osservati, 
che  allo  stato  attuale  dei  nostri  mezzi  di  lotta,  sia  quello  un 
problema  insolvibile,  e  desideriamo  vivamente  che  tutti  i  viticol- 
tori italiani  se  ne  persuadano  a  loro  volta,  e  perciò  —  poiché  for- 
tunatamente la  immensa  maggioranza  dei  nostri  vigneti  è  oggidì 
immune  —  evitino  con  scrupolosa  pedanteria  di  importare  la  fillos- 
sera non  solo  con  viti  di  regioni  infette,  ma  con  altre  piante  vive 
o  loro  parti,  con  letami,  con  terricciati  e  con  le  stesse  vinaccie, 
come  venne  saggiamente  consigliata  dai  congressisti  di  Losanna. 


Fine   — 


INDICE  ANALITICO 


Prefazione 


INTRODUZIONE 


Importanza  della  viticoltura  nella  economia  civile 
I.  La  vite      ......... 

II.  Il  reddito  brutto  della  viticoltura  italiana 

III.  La  viticoltura  italiana  e  la  popolazione  rurale 

IV.  La  viticoltura  italiana  la  popolazione  e  l'emigrazione 
V.  La  viticoltura,  la  mercede  degli  operai  e  la  divisione  della  proprietà 

VI.  La  mezzadria  e  la  viticoltura 
VII.  La  viticoltura  italiana  ed  i  tributi 
Vili.  La  vite  e  le  altre  piante  coltivate 

IX.  Altri  prodotti  delle  viti    . 
X.  La  vite  e  la  salute  pubblica     . 

XI.  La  viticoltura  e  la  produzione  del  suolo.  —  Conclusione 

CAPITOLO  I. 

Origine  e  storia'della  vite     .... 

§   l.  Patria  della  vite  asiatica  o  europea 

2.  Disseminazione  della  vite  .... 

3.  Patria  della  vite  americana 

4.  Antichità  della  vite  . 

5.  Storia  della  viticoltura      .... 

CAPITOLO  II. 

Geografia  della  vite 

§  1.  La  regione  della  vite 

2.  Limiti  della  coltura  della  vite  . 

a)  Limite  polare  nord     . 

b)  Limite  polare  sud 

3.  Coltura  della  vite  oltre  i  limiti  meteorologici 


Pad. 
vii 


1 

1 

2 

3 

4 

7 

8 

9 

10 

11 

12 

13 


lo 
15 

17 
18 
19 
19 


27 
27 
28 
31 
32 
33 


950 


INDICE  ANALITICO 


4.  La  regione  della  vite  e  le  isotermiche 34 

5.  L'altitudine  e  la  viticoltura       ........  39 

6.  L'esposizione,  la  vicinanza  delle  acque,  le  pioggie  ed  altre  cause  che 

influiscono  sulla  stagione  della  vite        .         .         .         .         .         .  41 


CAPITOLO  III. 

Statistica  della  vite 

§  1.  La  viticoltura  in  Italia      .... 

2.  La  viticoltura  in  Francia 

3.  La  viticoltura  in  Ispagna  ed  in  Portogallo 

a)  Spagna        ...... 

b)  Portogallo  ...  ... 

4.  La  viticoltura  nell' Austria-Ungheria 

a)  Austria        ...... 

b)  Ungheria    ...... 

5.  La  viticoltura  in  Germania 

6.  La  viticoltura  in  Isvizzera 

7.  La  viticoltura  in  Grecia,  Cipro,  Russia  ed  Oriente 

a)  Grecia         ...... 

b)  Isola  di  Cipro 

e)  Russia  Europea  . 

d)  Turchia  Europea.  —  Rumania . 

e)  Serbia  ...... 

f)  Bosnia,  Erzegovina,  Bulgaria     . 

8.  La  viticoltura  nell'America  del  Nord 

9.  La  viticoltura  nell'America  del  Sud 

10.  La  viticoltura  in  Africa    .... 

a)  Algeria        ...... 

b)  Egitto 

e)  Canarie,  Azorre,  Madera    . 

d)  Colonia  del  Capo  di  Buona  Speranza 

1 1 .  La  viticoltura  in  Australia 

12.  La  viticoltura  in  Asia  —  Riassunto  e  conclusione 
Viticoltura  e  produzione  vinicola  nel  mondo    . 

CAPITOLO  IV. 

Botanica  della  vite 

§  1.  Classificazione:  viti  d'Europa  e  viti  americane 
§  2.  Cissus  d'Africa  e  d'Asia    ..... 

1°  Cissus  del  Soudan  centrale  e  della  Nigrizia 

2°  Cissus  della  Cocincina        .... 

3°  Viti  (?)  della  China  e  del  Giappone  . 

4°  Viti  arabe 

§  3.  Descrizione  della  Vite  o  Organografìa 

1.  Le  radici   ....... 

2.  Il  ceppo  o  fnsto  ...... 


46 

46 

49 

52 

52 

52 

53 

53 

53 

53 

54 

55 

55 

56 

56 

57 

57 

57 

58 

66 

67 

68 

68 

69 

71 

71 

73 

73 


76 
76 
79 
79 
83 
85 
85 
87 
87 
90 


INDICE   ANALITICO 


951 


3.  I  rami  ed  i  succhioni    .         .         .         .         .         .         .         .         .         91 

4.  I  germogli,  pampini  o  cacchi i 

92 

5.  Le  femminelle       ..... 

94 

6.  I  viticci,  o  cirri,  o  capreoli  . 

94 

7.  Le  foglie        ...... 

101 

I  peli     ....... 

.       104 

Le  stipole      ...... 

.       104 

Fillotassi       ...... 

.       105 

8.  Le  gemme     ...... 

.       106 

9.  I  fiori 

.       107 

10.  L'uva 

.       112 

I  vinacciuoli  ...... 

.       113 

§  4.  Anatomia  della  Vite ..... 

no 

1 .  La  radice       ...... 

116 

2.  Il  fusto           ...... 

119 

Stomi     ....... 

.       120 

3.  Il  legno  giovine]   ..... 

.       125 

4.  I  germogli     ...... 

128 

Peli 

129 

5.  I  viticci          .         ... 

.       131 

6.  Le  foglie        ...... 

131 

Clorofilla        ...... 

135 

Ossalato  di  calcio  (rafidi  e  druse) 

136 

7.  Le  gemme  (occhi  e  bottoni) 

.       139 

8.  I  fiori 

141 

Polline            ...... 

144 

Fiori  anormali       ...... 

145 

Apirenità  (mancanza  di  vinacciuoli) 

146 

9.  Gli  acini         ...... 

147 

Vinacciuoli 

150 

§  5.  Fisiologia  della  vite            .... 

152 

1.  Germogliamento  dei  vinacciuoli    . 

153 

2,  Respirazione  della  vite 

157 

Traspirazione         ..... 

159 

Evaporazione 

159 

3,  Nutrizione  ed  accrescimento  della  Vite 

160 

Amido  o  tannino  nelle  foglie 

162 

Albumina  nelle  radici 

165 

4.  Vegetazione  della  Vite           , 

170 

Fenomeni  di  osmosi       .... 

170 

Pianto;  sua  pressione     .... 

171 

Sua  composizione           .... 

174 

Portamento  del  sistema  radicale  . 

176 

Tendenza  naturale  dei  tralci;  lo  sfogo 

179 

Tendenza  naturale  dei  viticci 

*    181 

Variazioni  nella  lunghezza  degli  internodi  . 

182 

5.  Fioritura  delle  viti        .... 

188 

952 


INDICE  ANALITICO 


Impollinazioni  varie 

Viti  maschie 

Impollinazione  dicogamica  (incrociata) 

6.  Fruttificazione  della  Vite   . 
Il  tralcio  frutticoso 
Le  gemme  fruttifere     . 
Gemme,  foglie  e  femminelle 
Gemme  infeconde 
Gemme  primaverili  ed  estive 
Movimento  della  linfa  . 
Lavori  e  concimi 
Potatura      .... 
Vigore  e  fecondità 

7.  Maturazione  dell'uva    . 
Ossidazione 

Formazione  dello  zucchero  . 
Emigrazione  dello  zucchero 
Maturità  botanica  ed  agricola 
Influenza  della  luce 

»  del  calore    . 

»  dell'umido  . 

Grossezza  degli  acini  e  loro  ricchezza  in  mosto 

8.  Longevità  della  vite 


189 
190 
192 
193 
193 
194 
196 
198 
199 
200 
201 
201 
202 
202 
203 
203 
203 
205 
205 
206 
207 
208 
209 


CAPITOLO  V. 

Chimica  della  vite    . 

§  1.  Composizione  del  legno  della  vite 
Legno         .... 
Tralci  dell'annata 
Pianto  della  vite 

2.  Composizione  delle  foglie  . 
Materia  colorante 

3.  Composizione  dell'uva  e  dei  semi 
Uva  sana   .... 
Uve  ammalate    . 
Semi  .... 

4.  Composizione  del  mosto  e  delle  ^ 
§  5.  Componenti  principali  della  vite 

Potassa    .... 

Acido  fosforico 

Calce  , 

Silice       .... 

Ferro 

Materie  organiche.  Amido 

Zucchero 

Materia  colorante    . 

Tannino 


212 

212 
212 
213 
214 
215 
217 
218 
218 
220 
220 
221 
226 
226 
227 
228 
229 
•  229 
230 
231 
231 
233 


INDICE  ANALITICO 


953 


Acidi  diversi    ......... 

6.  Relazioni  fra  la  composizione  del  terreno  e  quella  della  vite 

7.  Relazioni  fra  i  concimi  e  la  composizione  dell'uva 

CAPITOLO  VI. 

Meteorologia  viticola 

§  1.  La  luce  e  la  vite 

2.  Il  calore  e  la  vite 

3.  L'umido  e  la  vite 

4.  L'elettricità  e  la  vite 

5.  La  grandine  e  la  vite 

6.  La  brina  e  la  vite     . 

Brine  primaverili    . 
Brine  autunnali 

7.  Il  gelo,  la  neve,  la  nebbia,  la  rugiada  e  le  viti 

8.  I  venti  e  la  vite 

9.  Latitudine,  altitudine  ed 


zione 
10.  Linee  isotermiche  e  punti  climenologici 

CAPITOLO  VII 

Pronostico  della  fruttificazione  della  vite. 

§  1.  Generalità  sulla  carpoprognosia 


Carpoprognosia  e  meteorognosia 
Applicazioni  generiche 
Applicazione  speciale  alle  viti   . 
Influenza  della  primavera  sulla  formazione 
Influenza  delle  altre  stagioni     . 
Osservazioni  e  pronostici  nel  periodo   1855 


(Carpoprognosia) 


delle  gemme  frutticose 
-1884      . 


CAPITOLO  Vili 

Il  terreno  per  la  vite      .... 

§  1.  Il  terreno  per  la  vite 

2.  Natura  chimica  del  terreno 

3.  Influenza  della  natura  chimica  del  terreno  sui  fenomeni  d'assorbimento 

4.  Composizione  delle  ceneri  della  vite 

5.  I  quattro   elementi   immediati  (argilla,   silice,   calce  ed    humus)  e 

loro  influenza  sulla  quantità  e  qualità  del  prodotto  della  vite 
Riassunto  sull'influenza  della  natura  chimica  del  terreno 
Natura  fisica  del  terreno  .         .         .         . 

Riassunto  sulle  proprietà  chimiche  e  fisiche  del  terreno 

Esposizione 

Giacitura 


G. 
7. 
8. 
9. 

10. 


CAPITOLO  IX. 


233 
233 

235 


237 

237 
260 
266 
270 
278 
282 
282 
288 
291 
293 
294 
297 


304 
304 
305 
307 
309 
315 
317 
321 
323 


329 
329 
330 
331 
332 

335 
338 
339 
344 
344 
347 


Lavori  preparatomi  per  l'impianto  del  vigneto  . 

§  1.  Due  modi  di  preparazione  del  terreno.  Scasso  reale 


349 
349 


954 


INDICE  ANALITICO 


ghie    —   Aggiunta   d 


2.  Preparazione  del  terreno  colle  fosse 

3.  Livellazione  del  terreno     ..... 

4.  Disposizione  del  terreno  a  terrazze  o  banchine 

5.  Ammendamenti  —  Marnatura   —    Terra   vergine 

sali  di  ferro  ai  terreni  bianchi 

6.  Arrotto,  fognatura  o  drenaggio 

CAPITOLO  X. 

Formazione  del  vigneto 

§  1.  Seminagione  della  vite  europea         ...... 

2.  Seminagione  della  vite  americana     ...... 

3.  Moltiplicazione  per  mezzo  di  gemme         ..... 

4.  Scelta,  conservazione,  disinfezione  e  piantamento  delle  talee  nel  vi 

vaio  e  nel  vigneto  ......... 

5.  Piantamento  dei  maglioli  . 

6.  Piantamento  delle  barbatelle     .  

7.  Età  delle  barbatelle  «, 

8.  Scelta  dei  vitigni  a  seconda  del  clima,  del  terreno,  della  situazione 

e  delle  esigenze  del  mercato  ....... 


360 
362 
363 

368 
370 


379 
379 
383 
386 

391 
408 
414 
417 

418 


CAPITOLO  XI. 

Distanze  delle  viti 424 

§  1.  Cinque  fattori  che  debbono  regolare  le  distanze  delle  viti        .         .  424 

2.  Distanze  nei  paesi  meridionali,  centrali  e  settentrionali  d'Italia       .  427 

3.  Le  grandi  distanze  fra  le  viti  e  la  consociazione  con  altre  piante  430 

4.  Dati  numerici 431 

5.  Appendice.  Le  piccole  distanze  tra  le  viti  e  la  invasione  fìllosserica  433 


CAPITOLO  XII. 


Concimazione  dei  vigneti        .... 

§  1.  Si  debbono  concimare  i  vigneti? 

2.  Produzione  del  legno  e  produzione  del  frutto 

3.  Il  letame  di  stalla  e  le  viti 

4.  Gli  escrementi  umani  e  l'orina 

5.  Il  guano 

6.  La  pollina  ...... 

7.  Il  sangue  e  le  carni  .... 

8.  Lana,  pellami,  corna,  crisalidi,  panelli,  ecc. 

9.  I  soverscii  e  loro  vantaggi 

10.  Utilizzazione  degli  avanzi  delle   viti 

11.  Giunchi,  alghe,  piante  resinose,  ecc. 

12.  Calce,  marna,  gesso,  ecc 

13.  Terra  vergine,  terra  bruciata  e  limo 

14.  I  composti  e  loro  grande  utilità 

lo,  I  sali,  i  perfosfati  ed  i  concimi  chimici    . 
16.  Le  ceneri  .         .         .         .         . 


Qualità  o 


quantità? 


435 
435 
437 
440 
444 
445 
446 
446 
447 
450 
452 
455 
456 
457 
463 
464 
466 


INDICE  ANALITICO 


955 


17.  1  concimi  antisettici  e  loro  valore     . 

18.  Varii  modi  di  adoperare  i  concimi  . 


CAPITOLO  XIII. 


Potatura  secca 


1.  Definizioni  ............ 

2.  Scopo  della  potatura  secca         ........ 

3.  Potatura  povera,  ricca  e  ricchissima:    potatura  d'allevamento  e   di 

produzione 

4.  Quando  si  debba  potare  e  quando  convenga  anticipare  la  potatura 

5.  La  potatura  in  due  tempi  ........ 

6.  La  potatura  secca  e  la  varietà  del  vitigno        ..... 

7.  Strumenti  per  potare  ......... 

8.  Modo  di  eseguire  la  potatura:  esempii  pratici  . 

9.  La  succisione  delle  viti      ......... 


CAPITOLO  XIV. 


Potatura  verde 


§   1.  Definizioni  ........ 

2.  Scacchiatura       ........ 

3.  La  cimatura  dei  germogli  uviferi     .... 

4.  Cimatura  delle  femminelle:  sfemminellatura     . 

5.  Cimatura  e  soppressione  dei  viticci 

6.  Sfogliatura  o  spampinatura       ..... 

7.  Cimatura  e  diradamento  dei  grappoli.  I  secondi  grappoli 
Appendice.  La  curvatura  estiva  dei  tralci  .... 


CAPITOLO  XV. 


Lavoi 

8  1. 


colturali  del  vigneto 

Se  si  debba  dare  la  preferenza  ai  lavori  od  al  concime 
Le  arature;  loro  vantaggi  e  come  praticarle     . 
Vangature  ....... 

Zappature  ed  estirpature  ..... 

Scalzatura  e  rincalzatura  .... 

6.  Lo  scasso  periodico,  l'arrotto  ed  il  circonfussuro 

7.  La  distruzione  delle  male  erbe 


CAPITOLO  XVI. 

I  sostegni  per  le  viti 

§  1.  Importanza  dell'argomento         ...... 

2.  I  pali  come  sostegno.  Metodi  di  conservazione  dei  pali    . 

3.  La  canna  come  sostegno    ....... 

4.  Coltura  della  canna.  Propagazione  sotterranea  della  canna 

5.  Terreno  e  concime.  Piantamento       ..... 

6.  Cure  annuali.  Raccolto       ....... 

7.  Reddito  di  uà  canneto  specializzato 

8.  Il  filo  di  ferro  come  sostegno  delle  viti    .... 


467 

468 


473 
473 
476 

477 
480 
482 
483 
484 
486 
489 


493 
493 
494 
495 
499 
501 
503 
504 
507 


510 
510 
512 
521 
523 
526 
527 
529 


532 

532 
534 
537 
538 
540 
542 
544 
545 


956 


INDICE  ANALITICO 


9.  Applicazioni  del  sistema  a  fìl  di  ferro 
10.  Altri  sostegni  per  le  viti  .... 

CAPITOLO  XVII. 

Creazione  di  nuove  varietà     .... 

§  1.  Ibridazione  diretta  ed  indiretta:  loro  scopo 

2.  Come  si  debba  operare      .... 

3.  Ibridazione  fra  viti  europee 

4.  Ibridazione  fra  viti  europee  ed  americane 

5.  Quali  viti  americane  si  debbano  scegliere  per  la  ibridazione 

6.  Dimorfismo:  grappoli  con  acini  a  vario  colore 


CAPITOLO  XVIII. 


Innesto  della  vite 

§  1.  Scopo  e  vantaggi  dell'innestare  viti 

2.  La  fillosseronosi  e  l'innesto 

3.  Innesti  di  varietà  europee 

4.  Innesti  sopra  viti  americane 

5.  Macchinette  per  innestare 

CAPITOLO  XIX 

Moltiplicazione  e  rinnovo  della  vite 

§  1.  Propaggine         .... 

2.  Copogatto  o  infrasconamento     . 

3.  Provanatura       .... 

4.  Rinnovo  del  vigneto  esausto 

5.  Nuovo  vigneto  su  vigneto  estirpato  o  su  bosco 

CAPITOLO  XX. 

Scortecciamento 

§  1.  Opinione  di  varii  autori  sullo  scortecciamento  delle  viti 

2.  Vantaggi 

3.  Modo  di  operare        ........ 


548 
551 


553 
553 

554 

556 
557 
559 
562 


565 
565 

566 
569 
575 

584 


592 
592 
594 
595 
597 
600 


602 
602 
603 
604 


L' uva 

§  1. 
2. 
3. 
4. 
5. 


CAPITOLO  XXI. 

Come  aiutare  la  maturazione  dell'  uva      ..... 

La  crepatura  degli  acini   ........ 

La  maturazione  dell'uva  ed  il  sistema  di  coltura  della  vite     . 
La  vendemmia:  quando  convenga  anticiparla  e  quando  ritardarla 
Il  bando  della  vendemmia  ....... 

CAPITOLO  XXII. 


Sistemi  speciali  di  educare  la  vite  bassa    . 

§  1.  Qual'  è  il  miglior  sistema  di  educare  la  vite? 

2.  Classificazione  dei  sistemi  in  uso 

3.  Sistema  latino  secondo  Columella 


606 
606 
611 
613 
616 
620 


622 
622 
625 
625 


INDICE  ANALITICO 


957 


4.  Sistema  ad  alberello:  modificazione  Ottavi 

5.  Sistema  ad  ombrello  ..... 

6.  Sistema  o  connocchia         ..... 

7.  Sistema  a  capo  annoccato  .... 

8.  Sistema  a  piramide   ...... 

9.  Sistema  Casalese  e  Siciliano      .... 

10.  Sistema  Guyot:  modificazioni  Boschiero  e  Panizzardi 

1 1 .  Sistema  Vannuccini  .  

12.  Sistema  Cazenave-Marcon 

13.  Sistemi  Avellinesi 

14.  Sistema  del  Suburbio  di  Roma.  Modificazioni 
lo.  Sistema  Hooinbrenk  a  tralci  inclinati       .... 

16.  Sistema  Aubry  ad  S.  Sistema  a  cavatappi 

17.  Sistemi  di  Stradella  e  Broni     ...... 

18.  Sistema  di  Asti 

19.  Educazione  a  tralcio  lungo  per  le  pianure,  sistema  Bisinotto 

20.  Coltura  della  vite  nelle  dune  e  nelle  sabbie    . 

21.  Coltura  delle  viti  a  cordoni  striscianti,  ossia  a  spalliera  orizzontale 
(Chaintres) •      . 


631 
641 

642 
643 
645 
651 

656 
661 

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CAPITOLO  XXIII. 


Vigneti  specializzati  e  vigneti  misti 

§  1.  La  nostra  professione  di  fede    ...... 

2.  Danni  che  recano  alla  vite  le  colture  dell'interfilare 

3.  Danni  che  la  vite  reca  alle  colture  dell'interfilarc  . 

4.  La  vite  consociata  alle  patate  ...... 

5.  La  vite  consociata  alle  piante  foraggiere  a  lungo  fittone 

6.  Consociazione  della  canapa  coi  filari  di  vite  nel  Bolognese 

7.  La  vite  consociata  ai  carciofi  nei  dintorni  di  Roma 

8.  In  quali  condizioni  si  può  ammettere  la  coltura  promiscua 

9.  Obbiezioni  alla  vite  specializzata       ..... 

10.  La  specializzazione  ed  i  patti  colonici      .... 

11.  Conclusione        ......... 


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CAPITOLO  XXIV. 


Le  viti  maritate  ad  alberi  ed  i  pergolati    . 

§  1.  Scelta  dell'albero 

2.  Le  viti  accoppiate  ai  gelsi  ed  il  sistema  Castaldis  . 

3.  Piantamento      ........ 

4.  Cure  nei  primi  anni  ...... 

5.  Potatura  e  legatura.   Disposizione  della  vite  sull'albero 

6.  Sfrondatura  degli  alberi 

7.  Economia  nei  sostegni       ...... 

8.  L'albereto  Falisco      ....... 

9.  Coltura  dei  pergolati         ,  ,         . 


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INDICE  ANALITICO 


CAPITOLO  XXV. 

Coltura  delle  viti  nei  giardini.  (Uve  da  tavola) 

§  1.  Importanza  della  produzione  di  buone  uve  da  tavola 

2.  Metodo  dei  cordoni  orizzontali  a  tralci  diritti  ed  a  tralci   inclinati 

3.  Metodo  dei  cordoni  verticali      ....... 


4.  Palmetta  a  tralci  inclinati         ....... 

5.  Le  contro-spalliere    ......... 

6.  Coltura  in  vasi  e  in  casse         ....... 

7.  Come  favorire  l'ingrossamento  dei  grappoli  ed  anticiparne   la  ma- 
turazione    ........... 

8.  Conservazione  e  commercio  dell'uva  da  tavola 


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CAPITOLO  XXVI 

Ampelografia     » 

§   1.  Scopo  ed  importanza  dell'  Ampelografia  . 

2.  Sistemi  ampelografici         .... 

3.  Di  alcuni  vitigni  italiani  .... 

4.  Cenni  su  alcuni  vitigni  forestieri  più  rinomati 

5.  Di  alcune  uve  da  tavola    .... 

6.  Le  viti  americane 

CAPITOLO  XXVII. 
Malattie  della  Vite   .... 

§  1.  Spiegazioni         .... 

2.  L'aborto  dei  fiori  o  colatura     . 

3.  La  sterilità         .... 

4.  La  càscola  o  caduta  dei  frutti . 

5.  La  scottatura  degli  acini  . 

6.  Il  marciume  dell'uva 

7.  La  melata  o  manna  . 

8.  La  clorosi ..... 

9.  La  rogna  o  malattia  dei  tubercoli 

10.  La  cancrena  o  seccume 

11.  11  bastardume    .... 

12.  Inoculazione  o  iojettamento  di  liquidi  entro  i  tessuti   della  vite 

CAPITOLO  XXVIII. 

Avversità  atmosferiche    . 

§   1.  La  grandine 

2.  Le  brine     . 

3.  Il  gelo 

4.  La  manna  o  bruciola 

5.  Le  pioggie,  il  soverchio  calore,  le  nebbie  ed  i  venti 

CAPITOLO  XXIX. 

Insetti  dannosi  alle  viti  ed  all'uva       .... 

§  1.  La  lotta  contro  gli  insetti  in  genere 


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INDICE  ANALITICO 


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2.  La  fillossera  devastatrice  . 

3.  Il  rinchite  del1  a  vite 

4.  L'apate  della  vite 

5.  L'eumolpe. 

6.  La  melolonta  eomune 

7.  La  melolonta  della  vite     . 

8.  La  tortrice  dell'uva  . 

9.  La  pirale  della  vite  . 

10.  La  zigena  della  vite.         .         , 

11.  L'albinia  vochiana  o  bruco  dell'uva 

12.  La  noctua  aquilina    . 

13.  L'altica  mangia- viti  o  pulce  delle  viti 

14.  L'Otiorinco 

15.  Il  letro       .... 

16.  La  forbice  o  forfecchia 

17.  L'  hoplophora  arctata 

18.  L'anguillula  radicicola 

19.  L'erineo      .... 


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del  Fan  tra 


CAPITOLO  XXX. 
Crittogame  della  vite 

§  1.  Spiegazione  di  alcuni  termini  più  comuni  di  botanica  crittogamica 

.    2.  La  peronospora  viticola.  Sinonimi  e  origine.  Fenomeni  esterni  della 

malattia      ........ 

3.  Idee  generali  sullo  sviluppo  della  peronospora 

4.  Trattamenti  preventivi  e  curativi 

5.  Oidio 

6.  Antracnosi  o  vaiuolo 

7.  Marciume  delle  radici 

8.  Mal  nero   . 

9.  Giallume    . 

10.  Ultime  teorie  sulla  natura  del  giallume,  del  mal  nero 
cnosi  . 

1 1 .  Altre  crittogame  della  vite        ..... 


CAPITOLO  XXXI. 

Le  viti  americane  in  Europa 

§  1.  Classificazione  pratica  delle  viti  americane     . 

2.  Specie  a  granelli  grossi.  V.  Labrusca,  York  Madeira,  ecc. 

3.  Specie  a  granelli  piccoli.  V.  ^Estivalis,  Jacquez,  ecc. 

4.  V.  Riparia,  Solonis,  Clinton,  ecc.    ..... 

5.  Altre  viti  a  granelli  piccoli.  Rupestris,  ecc.    . 

6.  Ibridi 

7.  Ragione  della  resistenza  delle  viti  americane 

8.  La  seminagione  e  l'innesto      ...... 

9.  Adattamento  dei  vitigni  americani  ai  diversi  terreni 
10.  Gli  insuccessi  e  l'avvenire  delle  viti  americane       .         , 


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INDICE  ANALITICO 


CAPITOLO    XXXII. 
La  fillosseronosi  e  l'avvenire  della  viticoltura 


§|1.  Una  profezia  di  Mosè        ..... 

2.  Viticoltura  ed  albericoltura  per  l' Italia   . 

3.  L'aumento  del  prodotto  brutto  dei  nostri  vigneti 

4.  Diminuzione  nelle  spese  di  mano  d'opera 

5.  La  legge  contro   la   diffusione   della  fillossera:    metodo   curativo  e 
metodo  distruttivo      ,,,...         .  943 


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Errata- Corrige, 


Pag.     99  linea  19a  invece  eli  chiamato  pongasi  vien  chiamato. 
»     106      »      17a  invece  di  bottoni  fioriferi  all'ascella  delle  foglie 

pongasi  opposti  alle  foglie. 
»     108      »      36a  invece  di  flore  pongasi  calice. 
»     133      »        2a  invece  di  amido  pongasi  umido. 
»     625      »     13a  invece   di  viti  alte  e   poi  viti  basse   pongasi   viti 

basse  indi  viti  alte. 


Mffj;o»)3A  fP  oimmtj,  —  iadjjo  '0 


Carta  delle  Isoterme 

e  dei  limiti  polari   della  vite . 


Istilliti  ^//,V/v///,v      /t.llùlll.,,    /f'v/'l.f 


VINTNERS  CLUB 

655  Sutter  Street 
San   Francisco,  CA     94102 


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